Poster di Love and Monsters

Crescere all’ombra dei mostri

Ci vuole coraggio a uscire con un film post-apocalittico in questo periodo. Love and Monsters ne ha da vendere, con il pregio non trascurabile di dire anche qualcosa di nuovo, originale e divertente su mondi devastati, sopravvissuti e mostri.

Nel film diretto da Michael Matthews c’è una premessa abbastanza classica. Un asteroide sta per distruggere la Terra. Le grandi potenze si coalizzano, si organizzano e costruiscono un missile per disintegrare la minaccia. Sembra di tornare indietro di venticinque anni ai tempi di Deep Impact, o Armageddon, ma in Love and Monsters la minaccia dallo spazio serve solo da prologo – illustrato – per la vera apocalisse. La pioggia di componenti radioattive del razzo sparato in orbita altera gli equilibri del pianeta. Gli insetti crescono a dismisura, diventano aggressivi e sterminano la popolazione mondiale. Dopo qualche anno, il 95% degli umani è sparito, i pochi rimasti si rinchiudono in bunker sotterranei organizzati in colonie. Nella colonia del giovane Joel Dawson tutti gli abitanti hanno una relazione sentimentale. Tutti tranne lui, che è ancora disperatamente attaccato al ricordo di Aimee, la sua fidanzata di sette anni prima che non ha più visto da quando la loro città Fairfield è stata attaccata e rasa al suolo. Quando Joel individua Aimee via radio decide di partire per un viaggio in superficie per raggiungerla.

L’idea di combinare gli elementi della commedia sentimentale e quelli del filone catastrofico è azzardata, ma in Love and Monsters funziona alla grande. Come in Benvenuti a Zombieland di Ruben Fleischer del 2009, l’equilibrio tra risate e azione è dosato con furbizia, con dei rapidi momenti riservati ai sentimenti e al dolore.

Il film di Michael Matthews sovverte molti dei canoni e dei cliché dei film apocalittici, a partire dalla rinuncia ai toni cupi e notturni a favore del sole e della luce.

Il viaggio di Joel è la metafora di tante cose diverse. Della crescita, prima di tutto, del coraggio di andare contro i propri limiti, poi, della voglia di imparare e, in questo caso, ricordare le cose più semplici, come il piacere dell’aria fresca sulla pelle. C’è poi un messaggio latente che invita a rispettare di più la natura e a non vederla come una minaccia. E la battaglia contro i mostri arriva ad assumere tratti simili a quelli del sottovalutatissimo 7 minuti dopo la mezzanotte di Juan Antonio Bayona.

In un film che potrebbe sembrare a un primo sguardo una semplice commedia per adolescenti con la star di turno (Dylan O’Brien, già visto nei film della saga Maze Runner e nella serie Teen Wolf), c’è quindi molto di più. Non mancano i momenti poetici, come l’incontro con il robot Mav1s, carico di una nostalgia degna di Wall–E, e tanti piccoli dettagli che si fanno ricordare con il sorriso.

Love and Monsters nasce ovviamente per accontentare il grande pubblico, quindi segue dei binari prevedibili, ma riesce comunque a rendere il viaggio di Josh coinvolgente ed emozionante con un fascino da film di serie B confezionato con le migliori intenzioni.

Il finale e la buona accoglienza di critica e pubblico – anche se digitale o al massimo on demand – lasciano intendere le possibilità di un seguito.

(Love and Monsters, di Michael Matthews, 2020, azione/commedia, 109’)

Copertina di The Passenger Roma

Roma non esiste

La pubblicazione di un volume dedicato a Roma nella collana The Passenger di Iperborea (che raccoglie libri che raccontano paesi e città attraverso il resoconto di scrittori, giornalisti ed esperti) testimonia una tendenza precisa: negli ultimi tempi – ma forse è sempre stato così – la narrazione di Roma è divenuta un genere a sé stante, con caratteristiche proprie, consuetudini e temi privilegiati. Roma d’altronde non è una semplice città; è piuttosto un’entità parlante e parlata, un segreto lampante ma misterioso, in fin dei conti impossibile da smascherare. Roma, insomma, è letteraria per definizione. Ultimamente, poi, il dibattito sulla città si è aggiornato con costanza, proponendo continue variazioni sul tema e accrescendo così la sua indeterminatezza – proprio come è la stessa città fisica ad allargarsi senza sosta, in maniera disorganica, in un processo irreversibile che sembra dover inghiottire tutto, e poi disperdersi nel caos.

Di The Passenger Roma va segnalata, prima di tutto – e come sempre per questa collana –, la grande qualità grafica e redazionale (le fotografie di Andrea Boccalini che corredano il libro, bellissime, mostrano il mosaico di una città sospesa tra maestosità e quotidiano); il valore dell’operazione editoriale risiede poi soprattutto nell’eterogeneità dei saggi che la compongono, nella scelta – inevitabile – di raccontare Roma attraverso un insieme di prospettive diversissime. Gli scritti di Marco D’Eramo, Leonardo Bianchi, Christian Raimo e Floriana Bulfon presentano il panorama sociale e politico della città, e i suoi fatali intrecci con il mondo criminale; quello di Nicola Lagioia rivela invece le oscurità e le debolezze di Roma attraverso il filtro cupo della cronaca nera; c’è anche, però, la Roma poetica, «acustica», di Letizia Muratori, quella mitica e fluviale di Matteo Nucci e quella ironica di Francesco Piccolo, che descrive la città alla maniera dei suoi libri di successo sui momenti di trascurabile felicità o infelicità; Roma è anche quella della musica, in questo caso quella della Lovegang raccontata da Francesco Pacifico, e del calciotto, tipicità orgogliosamente capitolina, come spiega Daniele Manusia.

È chiaro insomma che il racconto di Roma – o meglio, quello che Roma fa di sé stessa – rimane fedele proprio nella sua perenne mutazione. L’unica costante, qui, è infatti l’ambiguità, la doppiezza di tutte le cose. In The Passenger Roma ritorna spesso un motivo, quello della città eterna che non è eterna; come spiega Nucci nel suo saggio, dedicato al Tevere, Roma «ti illude di magnificenza e subito ti scaraventa giù, spingendoti a capire che nascere significa morire […]». La maestosità è l’altra faccia dell’effimero, così come la bellezza del degrado, il centro della periferia – e si potrebbe continuare su questa scia all’infinito.

Non è tutto così lineare, però. A Roma infatti non è facile distinguere i buoni dai cattivi; le cose sono confuse, mescolate in modo incoerente. Non c’è alcuna divisione equa, e il manicheismo è impossibile. Si potrebbe affermare allora che Roma è la città tragicomica per eccellenza, ma in fondo anche prestarsi a definizioni è solo un inutile tentativo di dare pace al caos. Il leitmotiv alla base dell’inchiesta criminale Mafia Capitale, il cosiddetto Mondo di mezzo, si può associare insomma all’intera città. Lo spiega bene Nicola Lagioia: «Il Mondo di mezzo esisteva da sempre, era ingeneroso ridurlo alla sola vita criminale. Tutti a Roma trovavano il modo di incontrarsi con tutti da tempo immemorabile. Il Mondo di mezzo era uno stato mentale, una porta da aprire, un passaggio segreto che chiedeva, per chi lo desiderava, solo di venire attraversato». Lo scrittore, che in La città dei vivi racconta l’omicidio di Luca Varani come uno specchio deformato ma realistico della città, riprende l’argomento nel suo saggio contenuto in The Passenger Roma: la città è ritratta qui non nel ruolo di semplice sfondo della tragedia, ma di attrice principale anche se in apparenza disinteressata. Una vicenda tanto umana come quella di un omicidio in realtà non è altro che la storia di una città – o meglio, una versione della sua storia, quella più oscura e viscerale.

Roma è quindi una città fatta di infinite città diverse, ma anche un luogo universale – appunto eterno –, che ha già vissuto ogni storia, che ha sperimentato tutte le possibilità concesseci. Specchiarsi nelle sue fontane, nelle acque del Tevere così come nei palazzoni della periferia è del tutto naturale, per chiunque. Roma possiede infatti tutte le caratteristiche del simbolo; spiega, conforta, racchiude strati sempre più profondi. Si potrebbe dire che in fondo Roma non esiste, che è una proiezione, un’astrazione mentale, un modo di intendere il mondo; eppure è una città viva, fisica, concreta all’inverosimile – e a modo proprio, ovviamente: la sua è d’altronde la disillusa concretezza delle rovine, del disfacimento solenne. A Joyce, racconta Francesco Piccolo, Roma faceva pensare a «un uomo che si mantiene facendo vedere ai turisti il cadavere di sua nonna».

Ciò che comunque emerge da The Passenger Roma è soprattutto un fatto, incontestabile: se sei romano – ma anche se in Roma ti ci sei giusto imbattuto, se ne hai sentito parlare da uno che ci è stato, se sogni un giorno di poterci vivere o di poterci scappare – non puoi fare a meno di parlare di Roma. In città – alle fermate dell’autobus, nelle cene borghesi, nelle pause sigaretta tra una lezione e l’altra all’università – l’argomento preferito dai romani è sempre Roma. Da un lato il romano non riesce a reprimere la propria repulsione per i mali della città, dall’altro però non contiene nemmeno il suo orgoglio: Roma è una città del tutto priva di pudore. Questi discorsi – di lode o di biasimo – sono sempre pronunciati infatti con esagerazione, con una spinta romantica, tragica o – come si diceva – tragicomica. La verità, forse, è che Roma si parla da sola, che è in perenne dialogo con sé stessa, che è letteratura sia in potenza che in atto. I nostri tentativi di scriverla, dal libro al film fino al chiacchiericcio da bar, non sono altro che modesti tentativi di interpretarla – compito necessario ma del tutto impossibile.

È in queste molteplici ottiche che la pubblicazione di The Passenger Roma assume importanza: il volume è infatti una guida per capire la città di oggi, un modo per conoscerne la storia recente, ma anche un punto fermo – in un contesto in movimento –, o magari un luogo di partenza, un concentrato di storie da cui far scaturire altre storie. Roma, in fin dei conti, è una macchina di, e per le storie.

 

(Aa. Vv., The Passenger Roma, Iperborea, 2021, 192 pp., euro 19,50, articolo di Claudio Bello)

 

La matematica dei rami

Gazzè sale sul palco dell’ultimo Festival di Sanremo vestito da Leonardo da Vinci. Poi si trasforma in Dalì. La cosa non sorprende più di tanto.

Perché non sorprende più di tanto? Non solo perché parallelamente Lauro si esibisce in una serie di performance estreme (quantomeno, nonostante tutto, sulla RAI). Rientra nella percezione che si ha di lui, di come si sia standardizzato su un livello (comunque  alto) da cui non si schioda. In qualche modo ci aspettavamo qualcosa del genere, rientra nelle cose che può fare.

Questa strana staticità che troviamo attorno al personaggio Gazzè, quasi come un paradossale vecchiume che lo avvolge, è per forza di cose figlia di una sua certa ripetitività nella sua produzione musicale, in quel tipo di manipolazione del linguaggio, quella libertà dietro ogni sua costruzione melodica.

Una libertà controllata. Siamo abituati a Gazzè che fa Gazzè, e l’enorme carica di fantasia che getta nelle sue canzoni. Abbiamo fatto il callo, dando forse per scontata la qualità della sua scrittura e la sua ecletticità di personaggio. Imputandogli anche solo inconsciamente il fatto di essersi chiuso in una sua confort zone.

Forse ci infastidisce il fatto di sapere in qualche modo che oramai scriva questo genere di pezzi anche a occhi chiusi.  Quindi aggiungiamo: “Ok, perché non proviamo altro?”.

In questi giorni esce I rami della matematica, il suo nuovo album. Ascoltiamo un’ennesima carrellata di canzoni pop di livello, sicuramente più immediate rispetto al passato per far fronte a certe richieste di mercato, ma che inconsciamente conoscevamo già. Il punto non è capire se Gazzè è ancora Gazzè. Il punto è trovare Gazzè oltre Gazzè.

La canzone portata al Festival, per esempio, “Il Farmacista“, può fare il paio con quello portata sempre a Sanremo nel 2018, “La leggenda di Cristalda e Pizzomunno“. Lavorano sulle stesse zone del cervello. Sono brani estremamente brillanti, ma che suonano come una sorta di teaser del brand Gazzè. È facile tutto questo? No, ma proprio perché l’artista romano è un talento, non ci accontentiamo.

“La matematica dei rami” arriva in maniera diretta senza grossi sforzi mentali. “Considernando“, brano alla Fabi con dei rimandi più che evidenti  con l’ultimo Brunori; il pop conservativo di “Il vero amore“, le parafrasi di Battiato di “Le casalinghe di Shangai“; l’immersione nell’immaginario conosciuto, anche se un po’ meno surreale, di Gazzè. “Figlia“, sicuramente il momento più interessante, quello che si distacca dal resto, scritto insieme a Silvestri  e al fratello Francesco, elettronica  in uno spirito  quasi prog e quasi psichedelico, in cui si riflette sull’occhio del padre che vede crescere la figlia. In più, la cover di “Del Mondo” dei CSI, in cui non sfigura di fronte a un mostro sacro come Lindo Ferretti. È un album che in generale non dà molto a Gazzè, se non l’ennesima riprova che sappia, quasi da tecnico, scrivere canzoni.

Rimane comunque uno dei più grossi cantautori italiani di oggi, e proprio per questo vogliamo altro da lui . Anche il rischio dell’errore. “La matematica degli alberi” rimane un lavoro che rientra al 100% nelle sue corde. L’augurio è quello di vederlo confrontarsi in futuro con altri linguaggi. Con la paura. Sorprendendoci.

Copertina di Saponi di Elena Ghiretti

L’incognita

C’è una generazione schiacciata tra quella dei Baby boomers e quella dei Millennials, è la generazione a cui appartiene Elena Ghiretti, autrice di Saponi (Fandango Libri, 2021). È stata ribattezzata Generazione X, e mai nome fu più azzeccato, poiché a distanza di ormai mezzo secolo resta ancora una grande incognita. Incapaci di diventare per davvero adulti, prendere il potere e spazzare i Baby boomers, si sono visti un giorno scavalcare dai Millennials, con cui forse hanno creduto di poter condividere la sensazione di sentirsi eterni trentenni. Il problema è che i Millennials sono trentenni. E non a caso l’incipit del romanzo di Ghiretti recita: «Di colpo il mondo fu popolato da trentenni. Erano dappertutto». È così che si spalanca al lettore l’universo di Lucia, la protagonista del romanzo.

Lucia lavora in un’agenzia di comunicazione, una delle più famose di Milano, e da poco è diventata senior nel suo ruolo di strategic account manager. Tuttavia a questa promozione non ha fatto seguito un adeguamento di stipendio, ma solo di stress e responsabilità – una tipica situazione nella quale la Generazione X si ritrova spesso.

Le prime trenta pagine ci mostrano Lucia in una riunione col cliente, in cui deve svelare il nome che ha pensato per la loro nuova linea di prodotto. Sono pagine dense, finemente umoristiche, con un massimalismo descrittivo che ricorda di primo acchito alcune pagine di Giocatori o Cosmopolis di DeLillo, o affreschi borghesi di McInerney: ironia e levigata surrealtà comprese. La presentazione, però, non sortisce l’effetto sperato, il cliente (composto da Millennials, ça va sans dire) è insoddisfatto e per Lucia si spalanca per la prima volta la porta dell’insuccesso. «Perché il suo tempo ha smesso di produrre cultura pop contemporanea e invece continua a rovistare tra le scatole in soffitta?», si chiede la protagonista al culmine di quella disfatta. Già, quando? È la presa d’atto di un invecchiamento sfuggito ai radar della Generazione X.

Non basta, tornata a casa Lucia scopre di essere stata lasciata dal suo compagno/fidanzato luca (che per tutto il libro chiamerà con la minuscola), col quale stava proprio per trasferirsi in un nuovo appartamento chic, un po’ borghese, un po’ radical, di certo costoso. E fra quegli scatoloni pronti per il trasloco che inizia la caduta irrimediabile, una discesa agli inferi che si attua attraverso un tentativo di capire i trentenni, l’uso dei social, anzi di Instagram – che è il social per antonomasia dei Millennials. Così scopre e si imbatte in un universo che fatica a comprendere e a interpretare: «Stare lì dentro è come assistere a un fotoromanzo esploso». Finché spinge all’estremo questo tentativo di sintonizzarsi sul loro universo e finisce col subaffittare il nuovo appartamento a tre ragazzi, Donatello, Ada e Gordon – e già solo i nomi «suonano antichi e futuristici, tra Fogazzaro e Star Trek».

Qui si apre qualche crepa nella scrittura di Elena Ghiretti, e il romanzo un po’ ne risente. Ci sono passaggi in cui eccede nella battuta, la cerca e la forza, esaspera anche le sfortune della protagonista rischiando così di far precipitare il romanzo nel genere chick-lit. E talvolta cade, sebbene la maestria di Ghiretti fa sì che riesca a tirarlo via da quel pantano nel quale, è presumibile, non avesse intenzione di entrare. Tuttavia il narratore esterno rimane troppo concentrato su Lucia, la segue così nell’intimo da inficiare gli altri personaggi, che qualche volta si muovono al limite del macchiettistico e altre volte restano bidimensionali, si fatica a vederli a tutto tondo. È un peccato, perché le premesse per scandagliare a fondo questi temuti (dalla protagonista) Millennials c’erano tutte, ma al di là delle descrizioni e abitudini Ghiretti non si spinge.

O forse sì. Bisogna attendere verso il finale del romanzo quando Lucia, dopo aver scoperto che il suo ex si è fidanzato con una trentenne, che te lo dico a fare, e è rimasta ormai senza lavoro, accetta di partire per Edinburgo per andare a assistere, con il coinquilino Gordon, al Fringe – il grande festival teatrale che ogni estate si tiene fra le strade, i club e i teatri della capitale scozzese. Alla fine di uno dei tanti spettacoli che vedono, Lucia (e il narratore) si riscatta. Il dialogo tra lei e Gordon è di certo uno dei migliori dell’intero romanzo. Di colpo Gordon, e con lui la schiera dei trentenni, perdono l’aura che si portavano dietro, e ne leggiamo le fragilità, l’inesperienza e anche l’ignoranza, in senso etimologico, di quanto accaduto prima di loro. Si intravede in lui/loro una carenza di curiosità del passato, un’immanenza che li rende ingenui, che li porta a confondere emotività e messaggio, fino a diventare didascalici.

Non bisogna pensare che alla fine del romanzo ci sia un riscatto trionfale della Generazione X, però Ghiretti ricollega con un artificio post-moderno l’incipit del romanzo con le pagine finali, così da creare un cortocircuito che non rende del tutto inutile quanto vissuto dalla protagonista, e quanto letto da noi.

 

(Elena Ghiretti, Saponi, Fandango Libri, 2021, pp. 192, euro 17, articolo di Fernando Coratelli)
Copertina di Tutti i giorni di Térezia Mora

Il silenzio di un poliglotta

Uscito nel 2004, Tutti i giorni è la seconda opera di Terézia Mora come scrittrice di narrativa, e per questo romanzo l’autrice ha ricevuto il Premio della Fiera del Libro di Lipsia. Il titolo è un omaggio a Ingeborg Bachmann, ed è forse solo una felice coincidenza che Terézia Mora sia stata insignita del Premio Bachmann per il suo libro d’esordio.

Tradotto finora in più di dieci lingue, in italiano viene pubblicato per la prima volta nel 2009, nella traduzione di Margherita Carbonaro, per i tipi di Mondadori, e nel 2020 lo riscopre la casa editrice Keller, sempre nella traduzione di Margherita Carbonaro. Un’operazione valida, giustificata dal successo di critica e anche di pubblico del libro, e anche dell’autrice, ormai di consolidata fama come una delle voci tedesche più originali dell’inizio del Ventunesimo secolo.

La trama di Tutti i giorni è complessa, non facile da seguire, e la ricostruzione rischia di perdersi in mille rivoli. Il punto di partenza è una maldestra confessione d’amore: Abel Nema, ungherese per metà, dopo la festa dell’esame di maturità si dichiara a Ilia Bor, l’amico del cuore in cerca di Dio. La delusione gli fa commettere l’unico atto chiaro e comprensibile della sua vita: di notte dà in escandescenze e rompe le vetrine dei negozi. Da quel momento in poi la sua vita è un esilio volontario, una sorta di vita monacale senza rapporti sentimentali e legami di qualunque profondità. Dopo un incidente, come per miracolo, diventa capace di imparare le lingue straniere perfettamente, persino senza accento, ma il protagonista trascorre la sua esistenza praticamente senza parlare, come rivela, ma solo a chi conosce l’ungherese, il suo nome. Nema con l’accento sulla e, che in tedesco non esiste, significa muto. Abel, che è quasi Bábel, ovvero Babele, è Béla, un nome comune, e insieme fanno Némabéla, una rima baciata.

Abel è un ragazzo di bell’aspetto, uno che non passa mai inosservato. Vive nella Babele moderna in un campo sempre circoscritto, pur cambiando spesso domicilio. Come se quel trauma giovanile, quella delusione d’amore, lo avesse privato della capacità di provare sentimenti. Terézia Mora non offre ambientazioni chiare, le città non hanno nomi, ma dalle descrizioni si delinea prima Sopron, in Ungheria, la città natale dell’autrice, lasciata nel 1990 a diciannove anni, e poi Berlino, la città in cui approda e dove tuttora risiede. Luogo e tempo sono volutamente indefiniti, anonimi, perché il lettore deve rivolgere tutta l’attenzione ai processi interni, intimi.

Inoltre Abel Nema non possiede il senso dell’orientamento, sbaglia strada ovunque, si perde, quindi i luoghi non hanno, non possono avere alcuna importanza nella vita di un protagonista che fatica a ritrovare persino la strada di casa. Sono importanti invece gli interni, così come le comunicazioni non verbali che Mora descrive con molta precisione in quello che i critici tedeschi hanno definito un canto epico a molte voci, un quadro contemporaneo con la guerra balcanica sullo sfondo, la coraggiosa rappresentazione della vergogna di “stare al mondo in tempi cattivi”.

Abel Nema parla dieci lingue, ma tranne quando fa l’interprete non lo vediamo comunicare. Per il lettore rimane un estraneo, eppure è sempre al centro della narrazione. La sua persona riunisce il destino dei rifugiati della guerra balcanica, l’estraneità, il multilinguismo e la vita in e di una metropoli. La narrazione che scorre seguendo più fili, i frammenti e i cambi di prospettiva rendono il romanzo una polifonia simile a quella che Terézia Mora ha incontrato nei libri da lei tradotti dall’ungherese al tedesco, in particolare in Harmonia Caelestis di Péter Esterházy, che le è valso, nel 2002, un premio per la traduzione.

Abel è un perfetto programma per tradurre, un robot che non sente fame, non si ubriaca e ha bisogno di pochissimo riposo notturno. Quando si stanca Abel si esprime infatti come una macchina parlante. Da bambino abitava in un armadio, in seguito trova alloggio in magazzini e sottotetti. La sua vita è un vagabondaggio incessante senza legami con persone e territori. Sembra non provenire da nessuna parte e ha i documenti di uno stato che non esiste più. Nel corso del romanzo perde più volte i documenti d’identità, trascorre periodi come membro inesistente della comunità, ma il migrante Abel trova sempre qualcuno che gli tende una mano. Attraversa ambienti molto vari, incontra persone curiose, ciascuna delle quali offre al lettore una storia ai limiti, alle periferie della normalità. Un microcosmo affascinante, a tratti repellente, che lotta per rimanere in superficie; incontriamo delinquenti e rassegnati, miti e violenti, persone di profonda cultura e altre che ne sono completamente prive. In un vortice di avventure Abel Nema sfiora quest’umanità variopinta, e in qualche caso ne rimane vittima suo malgrado, perché la sua indifferenza e la sua estraneità a tutto e tutti non è uno scudo. Così fino alle ultime pagine, quando Mora mette in atto una svolta che fa riflettere il lettore a lungo su salvezza, felicità e felice ignoranza.

Tutti i giorni è un romanzo sull’estraneità, in cui Abel è sempre davanti alla porta ma non entra mai. Accetta solo una mano, quella di un bambino, il geniale Omar: da lui si fa condurre, con lui varca anche una soglia. Abel Nema conduce il lettore lungo il romanzo: con lui non è possibile parlare, ma intorno a lui comunica un mondo vasto e vario. A volte usando toni drammatici, tragici, o solo asciutti, ma non manca una certa dose di umorismo che alleggerisce temi pesanti e procura sollievo.

Tutti i giorni è un romanzo di 500 pagine di alto valore letterario. Tradurlo non può che essere stato un compito molto delicato e molto difficile. Rispondendo generosamente ad alcune domande, Margherita Carbonaro, la sua traduttrice, ce ne dà un’idea e svela anche qualche curiosità.

 

Prima che lo pubblicasse l’editore Keller, Tutti i giorni di Terézia Mora era già nel catalogo di Mondadori nella tua traduzione del 2009. Hai ritoccato la traduzione, oppure è andata semplicemente in ristampa?

Ho tradotto Tutti i giorni molti anni fa, fra il 2008 e il 2009, e naturalmente sono molto contenta che Keller abbia ripreso adesso la mia traduzione, uscita allora da Mondadori. Ho avuto la possibilità di vedere e correggere le bozze di questa nuova edizione, come avevo chiesto all’editore. Confesso che ero convinta che avrei cambiato parecchio, a distanza di anni, ma poi – anche a causa del fatto che, come spesso succede, in quel periodo avevo anche altre scadenze – mi sono limitata a rileggere e a fare qualche intervento qua e là, ma non ho modificato sostanzialmente la traduzione. Ho capito anche che era meglio non farlo. O meglio, che non sarai stata in grado di farlo. Se mi ci fossi messa davvero, avrei avuto la tentazione di cambiare troppo e forse avrei fatto peggio. Mi rendo conto che ci sono lavori che più di altri si legano a cose che stai vivendo in un certo periodo. Come un libro può parlare a un lettore in maniera diversa quando lo legge per la prima volta e quando poi lo rilegge tempo dopo, lo stesso succede naturalmente anche – e forse tanto più – al traduttore.

 

Questo romanzo è un microcosmo di migranti, a cominciare dal protagonista, quindi anche un mondo linguistico polimorfo, con riferimenti culturali ed espressivi a molte realtà. Reso presumibilmente in un tedesco piuttosto insolito, dovuto forse anche all’origine ungherese della scrittrice. Come te la sei cavata, è stata una sfida impari?

A distanza di tanti anni non riesco a ricostruire le riflessioni che il testo mi aveva suscitato allora, le difficoltà e i problemi concreti di traduzione. Ho nel computer un file che li raccoglie, e da qualche parte un quaderno pieno di scarabocchi e appunti più o meno illeggibili, ma probabilmente non ho più le chiavi per leggerli. Mi scuso perciò se invece di entrare in questo tipo di dettagli divago e racconto brevemente qualcosa di più personale. Mentre ci lavoravo, il libro mi aveva parlato in una maniera molto forte. La città – Berlino – in cui si muove Abel Nema è quella in cui avevo vissuto anch’io, forse un paio d’anni prima che ci arrivasse lui. Anche se il filtro attraverso cui Mora ne parla è decisamente particolare, avevo comunque nella mente una mappa, anche temporale, in cui sistemare le cose raccontate. Quella mappa però in quel periodo, mentre traducevo il libro, si trovava con me a Pechino dove abitavo allora. Dentro casa, e dentro la mia testa, c’erano il tedesco e l’italiano, fuori casa c’erano la Cina e il cinese (e anche l’inglese), e lì io ero – non sempre ma spesso – nema, la muta, l’estranea, la straniera. Faceva parte della mia vita quotidiana l’essere straniera: era una qualità del corpo, della voce, degli occhi, che mi accompagnava ovunque andassi. Almeno a quell’epoca, era impossibile sfuggirvi. Qualcosa di quella situazione deve essersi insinuato quantomeno nel modo in cui leggevo e percepivo il libro mentre lo traducevo.

 

Puoi condividere con noi qualcuna delle tue riflessioni riguardo alla traduzione di questo libro?

Tutti i giorni è un libro forte, pieno di energia – così l’ho sentito io. La sua lingua, la sua sintassi sono cariche di energia. La voce di Mora è tesa, nervosa, mordace e ironica, tagliente ma anche delicata. E nello stesso tempo la sua lingua e la sua sintassi sono leggere. A volte, traducendo, avevo la sensazione di quando ci si sta per tuffare, e poi l’istante del tuffo, o di quando si sta in cima a una pista di sci e si è pronti a buttarsi e ad assecondare la velocità. La lingua di Mora è piena di cunette che ti permettono di spiccare brevi salti, da una frase all’altra. Era stata proprio quella per me la sfida, e la difficoltà principale: seguire il suo ritmo, renderlo così come lo sentivo nelle orecchie. Certamente il tedesco di Mora è molto particolare, e lo è perché è scritto da qualcuno che ha intonato originariamente la propria voce su un’altra lingua. Avere dentro di sé lingue diverse è un modo magnifico di nutrire la lingua in cui si scrive. A me il tedesco di Mora piace molto proprio per le qualità a cui ho appena accennato: forza, leggerezza, nervi.

In un’intervista pubblicata sull’«Indice», a cura di Daria Biagi, Térezia Mora ha detto di trattare gli oggetti della sua scrittura come se questi fossero fisicamente liberi nello spazio, il che comporta continui cambiamenti del punto di vista che si riflettono a volte in alternanze dei tempi verbali anche all’interno di una stessa frase. «Può darsi che qui entri in gioco la mia lingua materna, l’ungherese, che non ha generi grammaticali e che per esprimere il tempo ha solo due forme che possono alternarsi nella frase, e che non prevede neanche un ordine fisso per le parole». Purtroppo non conosco l’ungherese. Sono affascinata da quello che lei dice, ma è qualcosa che riesco a cogliere solo in forma di eco. Probabilmente è meglio così, perché comunque era quell’eco, quel tedesco in cui evidentemente risuona un eco che io dovevo tradurre, era il tedesco di Mora – e non l’origine dell’eco.

Devo comunque dire che traducendo non pensavo affatto all’“anomalia” di quel tedesco. Forse c’entra in questo anche il fatto che la mia vita stessa in quel periodo era multilingue. E così è stato anche per i giochi sonori che compaiono nel testo e per le parole in altre lingue – note o ignote – che il lettore non dovrebbe, spero, sentire come inserti in qualche modo estranei, come “parole straniere” ma come elementi naturali di quell’impasto e di quella storia.

 

(Terézia Mora, Tutti i giorni, trad. di Margherita Carbonaro, Keller, 2020, 496 pp., euro 19,50, articolo di Andrea Rényi)

 

Copertina Sontag Davanti al dolore degli altri

La lezione di Susan Sontag

C’è una donna seduta, ha i capelli raccolti, lo sguardo duro e luminoso. I lineamenti sono inaspriti dalla fatica, la pelle è solcata dal sole e dal tempo, anche se la presenza rabbiosa del primo possiamo solo intuirla, perché ciò che vediamo, in realtà, è un’immagine in bianco e nero. In braccio ha un neonato che dorme, un fardello di incoscienza con gli occhi chiusi, che distinguiamo appena, mentre due bambine nascondono il viso dietro le sue spalle, non tanto per infantile pudore, quanto per difendersi dall’ennesima offesa della vita. È il 1936 e Dorothea Lange scatta Migrant Mother, la foto che ritrae Florence Thompson, madre di sette figli, in un campo della California e che diventerà il simbolo della Grande depressione negli Stati Uniti, al punto da ispirare il capolavoro di Steinbeck Furore.

Immagini come questa hanno il potere di radicarsi nella coscienza collettiva, di crearla, persino di sostituirsi alla memoria e rimodellare l’esperienza del passato: «Sempre più spesso, ricordare non significa richiamare alla mente una storia, bensí essere in grado di evocare un’immagine», scrive Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, libro già apparso nel 2003 per Mondadori (titolo originale Regarding the Pain of Others) e ora ristampato da nottetempo, con la traduzione di Paolo Dilonardo. Cosa accade, si chiede la scrittrice in questo saggio denso e breve, quando ci troviamo di fronte alla rappresentazione visiva del dolore? Cosa accade quando vediamo sulle pagine del New York Times un soldato talebano catturato, trascinato e ucciso nella sequenza scattata da Tyler Hicks? E cosa succede alle nostre coscienze quando osserviamo i volti deturpati dalla guerra di Ernst Friedrich? Abbiamo il dovere morale di indignarci, impietosirci, offenderci o il diritto di cambiare sito, chiudere gli occhi, spegnere la tv?

Davanti al dolore degli altri è una riflessione lucida e diffratta sulla guerra (sulla fragilità umana e sulla fotografia) che nasce come «una sorta di appendice a On photography», del 1977. Lo dichiara l’autrice stessa nell’intervista a Tom Robotham del 24 settembre 2002, pubblicata in Italia nella raccolta Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag (Medusa edizioni), curata e tradotta da Luana Salvarani.

Due anni dopo l’11 settembre gli Stati Uniti sono un Paese ferito che per la prima volta è costretto a confrontarsi con il dolore e la sua riproducibilità: non è più il dolore silenzioso e tenace di una singola madre affamata immortalato da Dorothea Lange, e neppure quello lontano che colpisce gli altri, i Paesi esotici e diversi.

Questa volta la sofferenza è vicina, riprodotta ossessivamente, e Susan Sontag non può fare a meno di riflettere su cosa significhi: lo fa ragionando, mettendo in dubbio ciò che proprio lei ha scritto anni prima: «Nella stessa misura in cui creano la compassione, scrivevo [in On Photograpy], le fotografie contribuiscono a inaridirla. Ma è proprio così? Quando l’ho scritto ne ero convinta. Ma ora non ne sono più tanto sicura». L’importanza del lavoro di Susan Sontag è perciò qui, nella capacità di creare canoni con cui tutti, prima o poi, devono misurarsi, compresa lei.

L’evoluzione del suo pensiero la porta a ripercorrere come le immagini della guerra e del dolore siano state accolte, considerate e utilizzate nel corso del tempo, fino ai giorni nostri, in cui la riflessione sembra fermarsi davanti a due certezze speculari: la capacità della fotografia di rendere reale il conflitto, scuotere le coscienze collettive, ferire, indignare, e l’inevitabile perdita del trauma in un ambiente saturo di orrore.

Quanto più il mezzo si avvicina alla sofferenza, tanto più sembra aumentare il nostro distacco. In realtà, sostiene Sontag, distogliere lo sguardo dall’immagine non è necessariamente sintomo di indifferenza, o di estraneità rispetto alla sofferenza osservata. Si può cambiare canale, chiudere il giornale e continuare a condurre una vita normale anche se ciò che abbiamo appena visto è talmente reale e vicino da coinvolgere in un breve futuro noi stessi: la paura, la rimozione e la percezione di non poter far nulla per modificare le cose, sono, infatti, meccanismi altrettanto potenti.

Non è del tutto esatto neppure considerare le fotografie dei validi sostituti alla comprensione della realtà: «Le foto strazianti non perdono necessariamente la capacità di scioccare. Ma non sono di grande aiuto, se il nostro compito è quello di capire. Una narrazione può farci capire. Le fotografie fanno qualcos’altro: ci ossessionano».

Quando Geoffrey Movius chiese a una giovane Susan Sontag perché scrivesse di fotografia, lei rispose che lo faceva perché aveva vissuto l’esperienza di esserne ossessionata. (Oltre la letteratura. Conversazioni con Susan Sontag).

Le immagini ci perseguitano, come spiega in queste acute interviste, perché il mezzo fotografico ha cambiato il nostro rapporto con il passato, storico e personale: la fotocamera ha permesso di vederci quando eravamo bambini, di testimoniare un’infanzia che altrimenti non sarebbe mai esistita, di osservare l’invecchiamento, la malattia e la morte, di sostituire l’immagine alla parola. «C’è una generale decadenza delle abilità narrative, e ben pochi sanno ancora raccontare bene una storia», sostiene nel 1972.

Ma se la nostra ambizione è comprendere le cose, non possiamo affidarci solo a ciò che vediamo: perché, scrive in Davanti al dolore degli altri, «lasciamoci ossessionare dalle immagini atroci», con la consapevolezza che «non possiamo immaginare quanto sia terribile e terrificante la guerra; e quanto normale diventi. Non capiamo, non immaginiamo».

L’ambizione di Susan Sontag, infatti, non è osservare, ma comprendere: e in queste conversazioni (Oltre la letteratura), sature di pensieri, la parola recupera la sua densità. E se nei diari dimostrava di non essere indulgente con sé stessa, in questa raccolta di interviste si avverte quanto il suo rigore intellettuale non risparmi nessuno. A partire da Roland Barthes che non nomina mai la guerra nei suoi lavori, un fatto insolito per chi, come lei, ha intessuto legami profondi con questa parola, fin dall’infanzia, come racconta a Edward Hirsch: «Uno scrittore è uno che fa attenzione al mondo», risponde con fermezza; e lo ripete, qualche pagina dopo, «La cosa più facile per me in assoluto è fare attenzione». E nel caso di Susan Sontag, «fare attenzione» significa soffermarsi sulle parole, sceglierle, affinché siano esatte, giuste; ma anche andare oltre, ammettere gli errori, l’evoluzione del pensiero, i cambi di rotta, interrogarsi, chiedere, esigere da sé stessi e dagli altri e affidare alla letteratura un ruolo ben preciso. C’è una dimensione etica che sottende queste conversazioni e, in generale, tutto il pensiero di Susan Sontag, ma che non è mai vano moralismo: la letteratura che «ci educa alla vita», il romanzo «creatore di introspezione», capace di spalancare il nostro sguardo sul mondo, di rendere gli uomini coscienti; di accettare il conflitto come spazio vitale, creativo, necessario allo spirito critico.

Poster Shitsel

“Shtisel”: una serie da 10 e lode

Solo un anno fa iniziava il lockdown, e su Netflix impazzava Unorthodox, prima miniserie interamente in yiddish, uscita proprio nel marzo 2020. Ora che le zone rosse vanno per la maggiore, Netflix ci riprova con la terza stagione di Shtisel, azzeccandoci ancora una volta.

Prodotta, girata e montata solo l’estate scorsa (dopo il successo di pubblico che l’ha travolta sulla scia di Unorthodox), la serie – andata in onda per la tv israeliana nel 2013 e approdata su Netflix nel 2018 – conquista il pubblico per le modalità narrative con cui viene raccontata la vita degli Shtisel, una famiglia di charedim residente nel quartiere di Geula a Gerusalemme.

Come scrive Martin Goodman nella sua Storia dell’ebraismo (Einaudi, 2019), «gli uomini, anche nel pieno dell’estate mediterranea, vestono redingote nere e caffetani, e una grande varietà di cappelli di pelliccia a tesa larga; le donne e le ragazze sono vestite modestamente, con maniche lunghe e calze nere. Gli uomini e i ragazzi portano i payot, i boccoli laterali, a volte nascosti dietro le orecchie, e hanno barbe fitte. Le donne sposate, invece, devono avere i capelli sempre coperti, tranne quando si trovano sole con i loro mariti, e indossare una sciarpa o una parrucca».

Così ritroviamo i protagonisti di Shtisel, con il loro abbigliamento monotono, i segni tipici dell’ebraismo cosiddetto ortodosso, l’arredamento antiquato: l’esistenza procede mantenendo anche nel 2000 le usanze del XIX secolo. Se per Unorthodoxla segregazione fisica permette alla comunità di ebrei ortodossi residente a New York «di erigere» – come scrive Goodman – «vere e proprie barriere contro l’influenza di televisione, giornali, pubblicità e tutto il resto della cultura popolare», per gli ideatori di Shtisel il punto nodale sta proprio in questo: la modernità è davvero così lesiva dell’essere “timorati di Dio” e “ansiosi” di osservarne i comandamenti, come viene spiegato letteralmente il significato della parola charedim?

Sebbene tutta la vita dei personaggi sia «strutturata intorno al rituale religioso, sia in casa per le donne sia nelle sinagoghe e nelle sale di studio per gli uomini», in modo che la tradizione venga preservata dalla totale osservanza della Torah, la modernità non è poi così demoniaca come viene dipinta in Unorthodox, dove il senso di soffocamento vissuto dalla protagonista trasforma la miniserie in una storia di riscatto femminile dalle catene di un ebraismo tutt’altro che progressista. Con Shtisel invece la comunità ortodossa viene riabilitata, suscitando in chi guarda un certo senso di familiarità: i cappelli a tesa larga, i boccoli laterali e le parrucche non tratteggiano più una comunità chiusa e soffocante, ma una famiglia “quasi” comune che, al di là della propria fede religiosa, affronta i problemi quotidiani di ciascuno: amori che nascono e finiscono, genitori che si scontrano con i figli, giovani che tentano di ribellarsi agli adulti, anziani che si affaticano per le solitudini della vecchiaia.

Sullo sfondo non mancano i dilemmi legati a una contemporaneità che cerca di scardinare la tradizione, ma la novità sta nel fatto che questi non vengono rinnegati o rifiutati con riluttanza; anzi, è indiscutibile una evidente apertura, delicata e a tratti comica, rispetto a tutto ciò che può essere moderno. La nonna Malka che guarda per la prima volta la televisione appena arrivata in casa di riposo e si appassiona agli intrighi amorosi di Beautiful; il giovane Akiva che persegue con tenacia la sua passione artistica per il disegno, affermandosi poi come pittore da esposizione museale; la coppia Ruchami-Hanina che decide di affidarsi alla maternità surrogata; il tormentato Lippe che si entusiasma per gli smartphone o si lancia nel reclutamento di comparse cinematografiche.

Lo “spiraglio” che la famiglia Shtisel fa entrare nella propria esistenza si spalanca nella terza stagione della serie televisiva: il protagonista Akiva, con i suoi tormenti d’amore e la passione per i ritratti, lascia spazio alle donne, che si impongono sulla scena di Shtisel proponendo una vera “rivoluzione”.

Giti si afferma come ristoratrice dopo aver rilevato il locale frequentato dal fratello Akiva, la cognata Tovi prende la patente e acquista una macchina per tutta la famiglia, la figlia Ruchami sfida la natura del proprio corpo per non rinunciare alla maternità, il figlio Yosa’le si innamora di una giovanissima ricercatrice universitaria, il padre Shulem e lo zio Nukhem si contendono la stessa conduttrice radiofonica, il fratello Akiva si innamora di una imprenditrice in lotta con la propria depressione. Tutte donne ortodosse che non si lasciano trascinare dalla goffaggine degli uomini che le circondano: non dimenticando mai il proprio credo religioso, con coraggio si impongono come protagoniste autentiche e mai banali.

La forza della terza stagione di Shtisel sta proprio nel tono fresco e veritiero col quale viene raccontata l’umanità e i sentimenti di una famiglia ebrea ortodossa della Gerusalemme di oggi: persone come noi, che, una volta incontrate sullo schermo, ci piacerebbe frequentare anche nella vita vera, nonostante i cappelli a tesa larga, i boccoli laterali e le parrucche.

I partiti digitali di Paolo Gerbaudo

Le promesse (non mantenute) della democrazia sul web

È noto che i delusi della politica sono sempre di più: l’astensione è costante in crescita, la crisi della democrazia ha radici profonde. E, dopo una lunga gestazione, ha dato anche un frutto: i partiti digitali, nuove strutture nelle quali chiunque può accedere e portare il suo contributo. La loro promessa è assai poco credibile: grazie alla partecipazione online, tutti saranno padroni dei destini collettivi. Non occorreranno più rappresentanti, corrotti e lontani, perché la democrazia diretta renderà inutile ogni forma di organizzazione e gerarchia. Ma, come ormai è evidente, le cose non stanno proprio così.

È uscito anche in italiano I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme (il Mulino, 2020), l’ultima fatica di Paolo Gerbaudo, sociologo ed esperto di comunicazione politica, direttore del Centro di ricerca sulla Cultura digitale al King’s College di Londra. Si tratta di un’indagine sugli esperimenti politici degli ultimi anni, ma anche sulla crisi della politica; un libro alla portata di chiunque, preziosissimo per chi vuole capire come e perché siamo passati dalle tribune politiche di Palmiro Togliatti alle dirette Facebook di Beppe Grillo.

Gerbaudo traccia in poche pennellate la storia dei partiti e stringe l’obiettivo sul cosiddetto popolo del web, che ha creato e votato i partiti digitali. Fatto l’identikit dell’elettorato, prosegue il ragionamento: come si organizza la militanza digitale? Quale idea di fondo spinge a scegliere certe forme organizzative? Dopodiché, a cascata, l’autore svela le implicazioni più politiche di un partito-piattaforma, in particolare la sua lotta contro la burocrazia e le conseguenze sulle dinamiche interne.

Commentando i limiti e le contraddizioni della nuova forma-partito, Gerbaudo assume il ruolo dello studioso, più che del divulgatore. Il rigore dell’analisi è scandito da tanti richiami ai migliori sociologi (e politologi), da grafici e commenti accademici; ma il linguaggio resta sempre chiaro, «perché le questioni politiche e organizzative qui trattate non sono solo temi per gli addetti ai lavori», precisa nell’introduzione.

Non è semplice descrivere l’ascesa dei partiti digitali (e non a caso l’autore evita di abbandonarsi a continui richiami bibliografici), poiché sono tanti i fenomeni storici da cui traggono origine. In primo luogo il declino dei partiti di massa, messi in crisi dalla fine della società industriale. Poi le nuove tecnologie: già l’avvento della televisione trasforma i partiti in brand che si contendono consumatori (gli elettori). Non è solo il partito televisivo, però, a chiudere le sezioni e i circoli. C’è un secondo motivo: la liquefazione della società. Il grande sociologo Zygmunt Bauman aveva descritto molto efficacemente questo fenomeno. Il mondo perde riferimenti e luoghi di aggregazione, ogni uomo diventa un atomo, lontano dalle vecchie istituzioni. In ambito politico, lontano dai partiti.

Alla sfiducia per il vecchio si somma il bisogno di qualcosa di nuovo. Gerbaudo osserva come la crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2008 abbia scaricato i suoi effetti su un settore specifico della popolazione: i giovani, iperconnessi, iperformati, ipersfruttati. Quando questo insieme di cittadini-elettori ha manifestato i suoi bisogni, non ha trovato ascolto nella politica tradizionale. Serviva costruirne una diversa, inclusiva. E ancora una volta è stata la tecnologia a offrire la risposta: la rivoluzione digitale ha messo a disposizione nuove piattaforme, sulle quali costruire modelli (illusori) di democrazia diretta.

Dopo quest’ottima ricostruzione storica e teorica dell’ascesa dei partiti digitali, il volume fa un ulteriore passo avanti, riuscendo a illuminarne i due principi cardine. Anzitutto, il modo con cui provano a imitare i social media (grazie ai quali si sono affermati). Ai suoi aderenti un partito digitale sembra un’organizzazione limpida, trasparente, neutrale. Non lo è: ogni piattaforma è progettata secondo modi diversi di intendere la democrazia. L’intermediazione non scompare, cambia solo veste (c’è chi parla infatti di neointermediazione), il che interferisce con l’altro punto cardine della loro linea politica: il partecipazionismo. Spesso ciò che conta per i partiti digitali è solo e soltanto costruire un sistema in cui partecipano tutti, in cui nessuno è ingabbiato dalle cricche dei partiti. Costruito il processo, non serve altro: i suoi frutti saranno buoni per definizione.

L’analisi di Gerbaudo sfocia in una considerazione luminosa: il partito digitale usa la sua piattaforma sia come mezzo sia come fine. Dare forma alla partecipazione non è solo uno strumento, ma lo scopo stesso della comunità. L’identificazione tra metodi e ideali spinge questo nuovo tipo di partito a dichiarare guerra ai luoghi di aggregazione (spariscono le sezioni sul territorio) e soprattutto ai quadri di partito, che invece Gramsci riteneva indispensabili per mediare tra vertice e base.

Ora che con Gerbaudo, finalmente, capiamo meglio quali idee hanno guidato i partiti digitali, è più semplice cogliere perché si sono sgonfiati subito. Sono stati traditi da un’illusione ottica: anziché produrre uguaglianza e partecipazione, le loro piattaforme alimentano divari tra gli iscritti e generano una base più reattiva che attiva. Non solo la base ha canali effimeri per trasmettere le sue opinioni al vertice, ma i livelli effettivi di partecipazione si rivelano scarsi. Dipendono infatti da plebisciti imposti dall’alto, al solo scopo di sondare (e confermare) il consenso della membership.

Il libro di Gerbaudo offre una riflessione tanto semplice quanto profonda dei nuovi partiti. Questa doppia anima è il punto di forza di un saggio dalle molte qualità. Il lettore più affamato di casi empirici non troverà un confronto sistematico dei vari partiti digitali affermatisi in Europa e nel mondo (Movimento Cinque Stelle, Podemos, France Insoumise e i vari partiti pirata), perché il libro mantiene un approccio molto teorico. Ma se dobbiamo individuare un aspetto deludente in I partiti digitali, è la chiusura: Gerbaudo si limita a citare i punti deboli, da correggere, della loro organizzazione, ma non avanza molte proposte concrete. Né risponde alla domanda che si trascina per tutto il volume: Questa nuova forma-partito è migliore di quella tradizionale, che indubbiamente aveva i suoi difetti? Più si procede nella lettura, più l’interrogativo suona privo di una risposta convincente. Si può tuttavia passare sopra a questa sensazione, perché quello di Gerbaudo è comunque un libro che, per chiarezza, originalità e puntualità, merita di essere letto.

 

(Paolo Gerbaudo, I partiti digitali. L’organizzazione politica nell’era delle piattaforme, il Mulino, 2020, 280 pp., 20 euro, articolo di Marco Di Geronimo)

 

Cover di Un oceano, due mari, tre continenti

L’avventura del Negrita: alle origini della tratta africana

Per un caso fortuito, e per metà tristissimo, mentre in Italia si promuove la traduzione di un libro congolese (Wilfried N’Sondé, Un oceano, due mari, tre continenti, 66thand2nd, 2020), il 22 febbraio scorso due italiani vengono uccisi in Congo (l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, insieme con l’autista locale Mustapha Milamb), a sessant’anni di distanza dall’eccidio di Kindu, dove trovarono la morte 13 aviatori italiani tra l’11 e il 12 novembre 1961. I due fatti di cronaca non c’entrano nulla con il romanzo di N’Sondé, ma ci ricordano quanto poco sappiamo, e ci viene raccontato, dell’Africa: un continente percepito come “terzo mondo”, le cui sciagure dipendono in gran parte dai predatori stranieri che l’hanno maltrattato fino a prosciugarlo. Eppure è proprio dall’Africa che i primi ominidi sono partiti a “colonizzare” il mondo, ricevendo in cambio solo disprezzo e vile sfruttamento.

La storia e la geografia possono essere i due strumenti utili con i quali leggere tra le pagine del romanzo, o tentare di approfondire la nostra conoscenza sul Congo odierno, una terra abitata da circa 8.000 anni, «che nella loro lingua significava “il luogo dove non bisogna arrendersi” per non dimenticare mai che avevano dovuto dar prova di coraggio, d’audacia, e che avevano preferito affrontare l’ignoto piuttosto che accettare passivamente il fato».

Concepito come romanzo storico, Un oceano, due mari, tre continenti è molte cose insieme: una storia vera riportata alla luce da Wilfried N’Sondé, nato in Congo nel 1976, ma naturalizzato francese; il reportage di un antico esploratore, Nsaku Ne Vunda, che nel 1604 attraversa tre continenti prima di giungere alla sua meta; la confessione dolorosa di un cristiano di fronte alle bassezze compiute dai cattolici («la passione religiosa era divenuta per loro un pretesto per dare libero sfogo alla loro sete di ferocia»); la preghiera dolente di un uomo contrario a qualsiasi forma di malvagità («non riuscivo ad accettare che Dio si aspettasse dai suoi servitori un esercizio tirannico della Sua potenza, e che in nome Suo si potessero commettere atti che rappresentavano un insulto alle Sue esortazioni all’amore»).

Un oceano, due mari, tre continenti ha il suo cuore pulsante nella lucidissima denuncia lanciata dal protagonista, che è poi il motivo del suo lungo viaggio: «Le macchinazioni del re, le ambiguità dei miei fratelli ecclesiastici, i calcoli dei mercanti, la cecità degli esecutori, tutta quella melma umana nella quale mi dibattevo da varie settimane aveva reso più forte la mia determinazione. Il mio proposito rivelava il mio dovere cristiano e il mio profondo attaccamento ai valori dei miei antenati. Non avendoli potuti liberare dalle loro catene, ero deciso a consacrare la mia vita a impedire che il ricordo del calvario degli schiavi fosse dimenticato».

Quattro secoli fa Nsaku Ne Vunda, battezzato don Antonio Manuel, lascia il Congo per denunciare al Papa la piaga dello schiavismo, inconsapevole che nessuno lo avrebbe sostenuto nel tentativo di risollevare il suo paese da una deriva inaccettabile: «Agli schiavi che stavano per essere deportati in Brasile si aggiungevano i figli di Israele, altre vittime dell’Inquisizione, musulmani spaventati e le ombre dei miei compagni di prigionia, spettri anonimi e muti che giravano in tondo nella bruma».

Ancora oggi la schiavitù non è stata sradicata, ma perpetrata con modalità differenti rispetto al passato; non mancano mai notizie di migrazioni di massa, non più coatte come un tempo, e apparentemente volontarie, su navi ingolfate di esseri umani in balia delle perturbazioni: sebbene non solchino più l’oceano ma il Mediterraneo, queste imbarcazioni ricordano moltissimo quella vissuta da Wilfried N’Sondé. «Cavalcavano ad andatura sostenuta, trascinandosi dietro, senza alcun riguardo, una fila di prigionieri uniti gli uni agli altri per il collo, con le mani legate. Donne, anche uomini, vecchi e bambini barcollanti che avevano difficoltà a seguire il ritmo. Avevo attraversato due volte l’Atlantico, viaggiato fra tre continenti per ritrovare la stessa immagine degli schiavi bakongo immersi nella nebbia. La stessa tristezza. Gli stessi lamenti. Lo schiocco delle fruste. I singhiozzi, i volti sconvolti della sofferenza».

I metalli d’un tempo sono diventati nel Congo di oggi il coltan e il cobalto, utilizzati soprattutto dai produttori di telefonia mobile, a incrementare lo sfruttamento e le guerriglie interne per accaparrarsi un sottosuolo ricchissimo anche di petrolio, oro, argento, uranio. Ciò a conferma che l’antropocene industrializzato non ha dimenticato l’Africa, un continente che non ha mai smesso di rappresentare il pozzo del mondo: quello dove si attinge per sempre nuove materie prime, e quello dove si getta la spazzatura inutile. «Sulle nostre terre, sbarcavano solo individui senza scrupoli ossessionati dal denaro, pronti a saccheggiare fino in fondo i metalli che il nostro suolo celava, gli animali e gli esseri umani». Prosciugato di ogni bene, i ricchi sanno fin troppo bene come approfittarne, anche in un’epoca in cui il mondo sembra molto più vicino, e umano, di tanti secoli fa.

Il protagonista impiegò, infatti, quattro anni per arrivare in Vaticano dal Congo. Eppure non si lamenta del viaggio; anzi, «circondato solo dai miei, a Boko, avrei vissuto in una povertà dell’animo e avrei imparato poco nel corso di una vita insipida e banale. Alla mercé dei paesi che avevo attraversato, avevo scoperto in me una sollecitudine verso le persone virtuose, animate da tenerezza e compassione».

Nsaku Ne Vunda è un uomo giusto, che non scende a compromessi con nessuno: i suoi connazionali, i colonizzatori o la Chiesa cattolica. Tutti coinvolti nella tratta degli esseri umani, e nel gioco di potere per arricchirsi sempre di più, non vengono giudicati, ma soltanto compianti per i compromessi a cui sono scesi. Lui è dalla parte dei più deboli, sempre. Sospinto da una fede salda, può essere preso a modello del vero cristiano, che non viene abbagliato dalla ricchezza.

Il suo corpo riposa ancora nella Basilica di Santa Maria Maggiore, fatto seppellire lì proprio da Papa Paolo V, che in sua memoria fece scolpire una statua, tuttora soprannominata “Negrita”, come venne appellato Nsaku Ne Vunda al suo arrivo a Roma. All’epoca considerato con superficialità l’ambasciatore del Congo, la sua missione viene oggi ricordata con forza dal romanzo di Wilfried N’Sondé. «Lentamente, si intrecciarono legami di fedeltà e di dipendenza tra gli uni e gli altri, differenze relative alla nascita di ognuno, e anche se le donne e gli uomini così offerti in dono restavano comunque esseri umani in tutto e per tutto, il loro status nella società era inferiore. Fu così che nel paese Congo ebbe inizio la schiavitù».

 

(Wilfried N’Sondé, Un oceano, due mari, tre continenti, trad. di Stefania Buonamassa, 66thand2nd, 2020, pp. 224, euro 16, articolo di Elisa Scaringi)

 

Caporali tanti, uomini pochissimi di Gentile

Totò, uomini e…

Il punto di partenza di questo libro è degno di un siparietto alla Totò. Racconta Emilio Gentile, uno dei più grandi storici italiani, che la madre, guardando distratta la copertina del suo La via italiana al totalitarismo (Carocci, 1994) fresco di stampa, avesse letto La via italiana al totòlarismo e fosse molto contenta che il figlio, invece di scrivere l’ennesimo libro sul fascismo, avesse deciso di dedicarne uno a Totò.

Come fosse un omaggio postumo o un ex voto finalmente compiuto, l’ultimo libro di Gentile è stato scritto durante «la reclusione senza reato imposta per la tutela della salute», ed è uscito per Laterza alla fine del 2020, con il titolo Caporali tanti, uomini pochissimi. La Storia secondo Totò.

L’universo-Totò (e tutto quanto detto, in vita e in morte, da lui e su di lui) viene indagato da una prospettiva meno battuta, che però è sicuramente la più congeniale a Emilio Gentile, vale a dire quella storica. Molto intelligentemente, il professore emerito alla Sapienza di Roma e accademico dei Lincei sceglie di non improvvisarsi nei panni, per lui di certo poco confortevoli, dello storico del cinema, e neanche di andare a ripescare le memorie appassionate del ragazzino che fra il 1950 e il 1957 andava a vedere tutti i film di Totò proiettati nelle due sale cinematografiche della sua Bojano, in Molise.

Trova invece, con un lavoro minuzioso nella ricostruzione delle fonti ma di agile lettura e grande serietà ed equilibrio formale, il perfetto punto di vista da cui indagare ciò che rende Totò diverso da tutti gli altri comici: la capacità del suo alto fattore, Antonio de Curtis, di rielaborare una sua visione della vita e della Storia e di servirsi del personaggio per restituirla sulla scena in forma burlesca.

Nonostante il principe (che teneva a essere chiamato così, “Principe”, anche dai suoi collaboratori più stretti) abbia avallato per tutta la vita, sornione, la teoria di un sostanziale sdoppiamento fra lui e il suo personaggio – resa iconica dalla celebre intervista doppia del 1963 per Tv7 in cui Lello Bersani si trovò a colloquio prima con Antonio, il principe, elegantissimo nel suo salotto, e poi con Totò, odiato e avversato, e perciò relegato a mangiare in cucina –, nel libro Emilio Gentile vuole a dimostrare l’esatto contrario. Cioè che a informare la vita del personaggio Totò e a far maturare in lui quella divisione del mondo, senza dubbio un po’ qualunquista, in uomini o caporali, al di là di fedi e convinzioni politiche, sia stata esattamente la vita di Antonio, con la sua gavetta, la sua ascesa nel mondo del teatro e della rivista (parallela a quella del futuro Duce, che parodierà esplicitamente, nell’Italia liberata, facendone un Pinocchio), i suoi alterni successi cinematografici, amatissimo dal pubblico e per molti anni disprezzato dalla critica, e comunque, a prescindere, sempre più o meno ferocemente censurato.

Antonio nasce Clemente, come sua madre, e solo in età adulta sarà riconosciuto legittimo, e dunque de Curtis, dal padre, nobile spiantato. E nasce nel 1898, anno in cui, mentre i fratelli Lumière immortalano con la macchina da presa le prime scene di vita della città di Napoli, Benedetto Croce pubblica il suo saggio su Pulcinella. Saremmo tentati, sulla scia del suo «Pulcinella non si può definire», di lasciare nell’indefinibile anche Totò. Ma è proprio mettendo in luce la differenza con i molti attori che hanno saputo impersonare Pulcinella, che Gentile dimostra la sua tesi. Pur essendo stato senza dubbio l’ultima maschera della Commedia dell’Arte, l’uomo Totò si identificava a tal punto con l’uomo Antonio, che nessun altro attore, dopo la morte avvenuta il 15 aprile del 1967, è mai più stato Totò: la maschera è diventata mito, ma non è sopravvissuta, autonoma, al suo inventore.

Né l’uomo né la maschera ebbero vita facile. Totò, come dicevamo, fu bersagliato dalla censura (come racconta molto bene Alberto Anile nel suo Totò proibito, Lindau, 2005), frequente preda di produttori «che lo sfruttavano come un sottoprodotto di largo consumo su cui investendo poco si guadagna di sicuro» ricorda Franca Faldini, la compagna che gli restò accanto per quindici anni, fino alla fine della sua vita (in Totò, l’uomo e la maschera, minimum fax, 2017). Adorato dal pubblico, tanto a teatro quanto al cinema – mezzo che contribuì a diffondere la “Totòmania” in tutta la Penisola, specialmente al Sud, e la estese a un pubblico piccolo-borghese, proletario e contadino, in gran parte di giovani –, fu avversato dalla critica e sostanzialmente snobbato dal cinema d’autore, tranne in qualche rarissima e felice eccezione (l’ultima, e la più amata, Pier Paolo Pasolini).

«Vedrai, quando sarò morto e non più scomodo per nessuno, daranno la stura ai paroloni e, rispolverando la mia vis comica, affermeranno che se non me ne fossi andato mi avrebbero visto giusto per questo o quel personaggio, chi meglio di me avrebbe potuto farlo. Non vanno sempre così le faccende a casa nostra? Questo è un bellissimo paese in cui però uno ha da morire per essere compreso», confidava amareggiato alla fedele Franca negli ultimi anni di vita quando, quasi completamente cieco, vedeva ormai avvicinarsi la fine della carriera.

Aveva ragione, ovviamente, questo arcitaliano che ha saputo incarnare il nesso fra miseria e nobiltà come nessun altro. Su una cosa però si sbagliava: pensava di valere meno di un falegname, perché del falegname resta nel tempo almeno il tavolino che ha fabbricato.

E invece, come conclude Gentile, «con Totò il principe ci ha lasciato la sua visione della vita e della Storia, che è qualcosa di più di una filastrocca qualunquista, anche se non è neppure qualcosa di più di una esperienza vissuta da un uomo semplice, ma dotato di uno straordinario potere di osservazione e di una straordinaria energia comica, che gli ha permesso di incarnarsi in centinaia di altri esseri umani di fantasia, tutti diversi eppure tutti reali, perché rappresentano la vita umana che fluisce nel tempo, formando la Storia». Proprio qui risiedono la forza e il significato del passaggio di Totò/Antonio de Curtis sulla Terra. «A la faccia del bicarbonato di sodio», avrebbe detto lui.

 

(Emilio Gentile, Caporali tanti, uomini pochissimi. La Storia secondo Totò, Laterza, 2020, 192 pp., euro 14, articolo di Giulia Marziali)

 

My Mamma de La Rappresentante di lista

Finito Sanremo è uscito il quarto album de La rappresentante di lista, My Mamma. Guardarsi indietro di qualche settimana e rendersi nuovamente conto che all’Ariston abbia suonato – effettivamente – quella che è la queer band più famosa d’Italia, sì, provoca ancora un leggero straniamento. Immotivato, perlopiù.

Non per la questione queer (magari anche), ma perché ingenuamente si tende 1) a catalogarli a prescindere nel calderone degli alternativi 2) a pensare a Sanremo come luogo conservatore che non si rende conto più di quello che gli accade attorno. Sanremo è cambiato come è cambiato il mercato, per cui La rappresentante di lista su quel palco dovrebbe risultare come qualcosa di automatico. Ma ci portiamo appresso ancora qualche strascico, per cui vedere loro o I Coma Cosa accanto ad Amadeus ci suona sempre un po’ strano.

La rappresentante ha tutti i crismi (di arrangiamento, testuali, di attitudine, di immagine) – almeno fino a My Mamma – per rientrare in quell’insieme alternativo, che banalmente possiamo ridurre a gruppo da MiAmi. In un periodo storico in cui certi limiti non sono evidenti e di fatto non esiste una vera e propria sottocultura, risulta paradossale questo etichettare – a meno che non vogliamo farne forzatamente una questione di tifo tipo “quelli dal basso” che affrontano lo showbiz (magari oggi incarnato dal cattivissimo Ermal Meta).

Nel momento opportuno, comunque, con l’occasione Sanremo, dovendosi far ascoltare da più orecchie possibili, sono stati capaci di cambiare, stravolgendosi, reinventandosi, ma senza abbandonare del tutto lo spirito con cui si sono sempre mostrati agli ascoltatori. Non c’è nessun pezzo, in questo nuovo capitolo, che abbia la profondità interpretativa o di scrittura, per esempio, di “Un’isola“. E non ci sarebbe potuto essere: la strada è quella di una radiofonicità elegante, intelligente, quasi accomodante. Innocua e per questo piacevole.

Da “Religiosamente” a  “Mai Mamma” ci confrontiamo con un gruppo che ha invertito qualcosa, mettendo la produzione in primo piano, senza però soccomberle. Non era difficile scadere in una grammatica stanca e stantia, banale e omologata. Invece  LRDL  riesce a mantenere intatto un aspetto fondamentale: la credibilità. Bisogna solo pensare che il progetto è stato declinato per un altro tipo di pubblico, cercando di non scordarsi di quello vecchio. Complicato, ma la sensazione è che siano riusciti nell’intento.

Perché alcuni pezzi funzionano a prescindere, come “Religiosamente”  o “Oh Ma Oh Pa” (forse troppo palese il riferimento a “Hey, Ma” di Bon Iver?), passando per “Alieno” e la oramai famosa “Amare“.  Veronica Lucchesi oscilla tra rimandi a Amy Lee degli Evanescence, Beth Gibbons dei Portishead, fino a sfumature di una imprescindibile Bjork, a cui sommare quella rotondità vocale che spazia tra Carmen Consoli e Malika Ayane. Parentesi meno riuscita quella in cui a cantare è Dario Mangiaracina, “Fragile“, dove pare apparire uno stanco Calcutta che tenta di bissare  “Oroscopo“.

La curiosità è vedere come si svilupperà il progetto de LRDL, capire come e quali elementi verranno bilanciati e quale direzione verrà presa. Per ora possiamo dire che My Mamma è un buon lavoro, non il loro migliore, ma che può aprirli a una consapevolezza maggiore del loro declinare il mondo,  sapendo che comunque possiamo aspettarci molto di più da loro.

See more glass: Per Esmé, con amore e squallore

È un percorso di avvicinamento ai racconti e alle novelle di Salinger, quello di Davide Coltri, che si sofferma su alcuni dei temi più cari all’autore.

Leggi qui gli altri articoli. E un’avvertenza: è probabile che ci siano spoiler, se questa parola ha un significato quando si parla di Salinger.

 

Quarta puntata

Per Esmé, con amore e squallore

 

Per Esmé – con amore e squallore venne pubblicato l’8 aprile 1950 sul New Yorker ed è considerato da molti critici il miglior racconto di Salinger. La storia ha a che fare con molti dei soggetti ricorrenti nella produzione dell’autore newyorkese: i postumi dell’esperienza di guerra, la semplice profondità dei bambini, il distacco dal banale quotidiano, la comunicazione epistolare. A rendere unico il racconto sono la dolcezza e l’intensità con cui lo scrittore presenta l’incontro tra esistenze sulla soglia.

Il Sergente X ha 26 anni nel momento in cui incontra Esmé, lei ne ha 13; la scena si svolge in Devon: in poche ore il Sergente si sposterà a Londra per prepararsi al D-Day, la ragazzina canta in un coro di voci bianche, il suo parlare è sospeso tra l’infanzia e la maturità.

Il racconto è diviso in tre parti, e in ciascuna emergono l’isolamento e l’alienazione del protagonista: dalla moglie e la suocera nella prima (ambientata nel 1950), dai commilitoni e dal mondo nella seconda (aprile del 1944), dal Corporale Z nella terza (maggio 1945, a guerra finita). Il Sergente X si imbatte in Esmé in una chiesa dove la ragazzina prova con un coro e la sua voce si stacca dall’omogeneità delle altre causando il rimprovero della direttrice, al che il Sergente si allontana.

I due si rincontrano in una sala da tè, dove lui si è rifugiato per evitare di passare le ultime ore prima della partenza con gli altri soldati. La ragazzina lo riconosce, gli si avvicina, si siede al suo tavolo e i due intraprendono una conversazione che sarà spesso interrotta dal fratellino Charles, che fa boccacce e indovinelli. Durante lo scambio, si stabilisce tra i due una comunione insolita e intensa: il Sergente non dice e non vuole dire quasi nulla di sé, Esmé invece parla apertamente del padre, ucciso (lei scandisce u-c-c-i-s-o[1] perché Charles non capisca) in Africa Settentrionale, delle sue qualità, della relazione tra i genitori, con una sfrontatezza e un lessico forbito che ne segnalano sia l’estrazione aristocratica che l’inevitabile precoce maturità. La ragazzina si comporta da madre col fratellino, e ingaggia col Sergente una conversazione più che alla pari: ad essere intimidito è l’uomo, che non sa come replicare alla domanda se i suoi racconti siano pubblicati. La ragazzina quasi aggredisce il sergente con la sua vitalità e con la sua vulnerabilità esposta e articolata nei dettagli, come a volerlo scuotere, a trattenerlo al di qua della soglia per un ultimo istante di umana comunione.

Ma per il Sergente è troppo tardi: poche ore dopo sarà a Londra e da lì scagliato in un massacro simile a quello che ha reso orfana Esmé. Ma c’è tempo per uno scambio importantissimo: Esmé chiede al sergente di scrivere una storia per lei, una storia incentrata sullo squallore, e si lascia andare a un equivoco che ce la fa finalmente scoprire bambina e meno mondana di quanto si sforzi di apparire («Dissi che non ero uno scrittore terribilmente prolifico. “Ma non c’è bisogno che sia prolifica! Basta che non sia infantile e sciocca”»). Prima di lasciarsi, lei chiede il permesso di scrivergli, e lui lascia nome, grado, matricola e numero postale su un foglietto. Charles vuole tornare a dare un bacio al sergente, ed è una scusa per riconciliarsi dopo una gaffe dell’adulto a proposito dell’indovinello preferito del bambino.

Nella terza scena, il sergente è in una casa appena liberata, ha affrontato il D-Day, la battaglia nella foresta di Hürtgen, due settimane di ricovero per esaurimento nervoso. È ancora vivo, ma sradicato, solo, freddo. Ed è in quel frangente che ritrova una lettera che Esmé gli ha spedito 38 giorni dopo il loro incontro, ma che viene aperta solo ora, 13 mesi dopo. Assieme alla lettera c’è l’orologio che la ragazzina portava al polso il giorno cui si erano conosciuti, e che apparteneva al padre. Il vetro è rotto, e il sergente non ha il coraggio di verificare se le lancette girino ancora.

 

L’orologio è il sergente: scosso, forse inutilizzabile, non c’è riparazione che lo possa ripristinare. Ma non per questo il ritorno di Esmé è meno importante: pur ritardato, indiretto, inaspettato, arriva con una vitalità che esce dalla pagina e ci fa pensare a tutte le Esmé che abbiamo trovato nel prima che tutti abbiamo vissuto quando il mondo sembrava ancora tutto intero. Nella desolazione dello stress post traumatico, nella testa che sbatte come «una valigia mal sistemata sulla reticella di un treno», oltre la devastazione della foresta, i commilitoni morti macellati dai mortai, la stupidità vigliacca di chi spara a un gatto per divertimento, il Sergente trova l’ultima (l’unica?) persona che lo aveva trattenuto al di qua – nella vita. La lettera di Esmé gli consente di scivolare in un sonno che cura (come già era successo a Franny alla fine di Zooey). Dopo la bufera, l’incontro epistolare con la ragazzina è il primo fondamentale atto di salvataggio del Sergente, che un giorno (come avviene nella prima parte del racconto, cronologicamente l’ultima), sarà talmente riadattato alla mondanità da riuscire a scherzare sul fatto che la moglie non gli permetta di andare al matrimonio di Esmé. Un uomo con tutte le facoltà certamente non più “i-n-t-a-t-t-e”, ma buone abbastanza per restare a galla, e per capire che il ruolo di Esmé nella sua vita doveva esaurirsi in quell’unico incontro irripetibile.

Cosa ne è di Esmé? Oltre alla notizia del suo matrimonio, non ne sappiamo niente. Ma vogliamo con tutti noi stessi che sia ancora la stessa: prematura e forbita, ferita ma guerriera, con la capacità di riconoscere un vero poeta (come accade a Buddy in Alzate l’architrave, carpentieri) e la sfrontatezza di chiedergli una storia. Una di quelle storie che la Signora Grassa di Seymour si mette a leggere sulla sua «orribile sedia di vimini» e che Salinger continuerà a tentare di scrivere per tutta la vita.

 

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[1] La traduzione italiana riporta “ucciso” senza trattini, ma l’originale è “s-l-a-i-n”.