Il pubblico e il cinema sperimentale

La tradizione cinematografica degli ultimi cinquant’anni ha arricchito l’immaginario culturale di un nuovo standard di qualità, proponendo opere concepite da artisti che alle speculazioni intellettuali preferivano le sensazioni. Non si è trattato di una controriforma rispetto alle Nouvelle Vague, ma qualcosa di straordinario accadde poco dopo, quando l’ispirazione artistica manifestatasi in seno alla contestazione giovanile maturava la consapevolezza della propria sterilità.

Il cinema aveva imboccato nuove strade, chiaramente tracciate, straripante di attrazioni, frequentate da personalità molto diverse da Godard e Buñuel. Le probabilità di avvistare un brachiosauro erano molte, così come era alto il rischio di imbattersi in un Terminator prototipo T-800.

A Mark Cousine siamo debitori per aver lavorato al documentario The Story of Film: An Odyssey, in cui il regista non manca di integrare la ricostruzione storica con la forte componente emotiva che dall’opera si trasmette al ricercatore. Cousine ci spiega come la sperimentazione cinematografica fosse passata nelle mani di un nuovo gruppo di sognatori che sembravano ignorare la contemplazione per inseguire la meraviglia e lo sbalordimento.

I sogni di Spielberg, Cameron e Lucas non avevano una destinazione elitaria, erano sogni di altra fattura rispetto a quelli che tormentavano Dalí e che lo intrattenevano in lunghe conversazioni con Buñuel. Come ci racconta Cousine, erano sogni in cui «gli sconfitti incontrano il sublime».

Erano mutati anche i parametri adottati dal pubblico per misurare la qualità artistica del nuovo cinema delle sensazioni.

Pubblico e cinema sperimentale

Complessità, significato e originalità divenivano gradualmente i tre banchi di prova della critica. Il cinema sperimentale pareva dunque andare incontro alle stesse sorti dell’arte astratta, ovvero contestato in più occasioni sul piano della difficoltà di realizzazione dell’opera, della comprensibilità della trama e dell’originalità sia dei mezzi realizzativi che della trama stessi.

Cinema astratto e arte astratta, però,  non condividono né origine né sorte. Il primo nasce come una delle manifestazioni tecnologiche dell’arte, e la sua versione astratta o intellettuale avrebbe avuto minore fortuna rispetto all’arte contemporanea, ovvero l’arte che nel corso del Novecento ha scelto di essere astratta, minimale, pop.

Se i cinefili fossero raggruppati in partiti, i membri del partito di Lucas conterebbe più membri del partito di Malick. Di Star Wars si lodano senza riserve la complessità, la trama e l’originalità del tutto, di The Tree of Life si discute dell’accessibilità al messaggio filosofico nascosto.

L’ultimo film di Charlie Kaufman ha riproposto la questione, prevedendo l’intervento dei critici su riflessioni preliminari che preparano lo spettatore alla visione (v. “Il mondo è più grande della nostra testa”. Su Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman). Tuttavia, fra le due tradizioni non vi è un parallelismo assoluto, l’esperienza degli astrattisti può dirci molto sul ricorso spesso improprio alle misure della complessità, del significato e dell’originalità che condizionano il giudizio di una parte del pubblico.

Procedendo a esplorare le correnti sperimentali degli albori del cinema, si incontrano proiezioni di realtà nuove che provocano la razionalità dello spettatore proprio perché non sembrano neppure competere alle facoltà immaginifiche umane, come quelle della serie Opus realizzata da Walter Ruttmann a partire dal 1921.

Forme voluttuose occupano lo schermo, alternandosi secondo una sequenza che il cervello umano potrebbe forse sovrapporre all’immagine del nuoto spensierato delle meduse. Ruttmann aveva filmato un vetro sul quale aveva steso della pittura, aveva atteso che si asciugasse, e infine vi aveva aggiunto dell’altra pittura filmandola mentre si espandeva. Un giorno disse: «un’opera d’arte esisterà soltanto se nascerà dalle possibilità e dalle esigenze dei materiali di cui è fatta».

La vocazione astratta di Ruttmann non era altro che una dedizione verso la materia, il suo astrattismo non condivideva la stessa vocazione che aveva ispirato l’astrattismo di Kandinskij. Era però evidente come il cinema astratto contenesse nel proprio corredo genetico il proposito anarchico e beffardo dei dadaisti.

Nel 1914, il pittore Francis Picabia commissionava al regista René Clair la realizzazione del film Entr’acte, proiettato durante l’intervallo di un balletto. La pellicola conteneva soggetti comuni come una ballerina e un cannone. Fuori dal comune era invece la prospettiva pensata da René Clair, il quale posizionò la camera sotto la ballerina e dentro il cannone. Questo è ciò che disse Picabia: «il ne respecte rien si ce n’est le désir d’éclater de rire», ovvero «non rispetta nulla tranne la voglia di scoppiare a ridere». Curioso come in un’intervista degli anni Cinquanta, Tristan Tzara descrivesse Dada come una forma di «disgusto applicato a tutte le forme della civiltà moderna, al linguaggio [..] L’assurdo superava i valori estetici. Non bisogna dimenticare che in letteratura un invadente sentimentalismo mascherava il cattivo gusto che con pretese di elevatezza si accampava in tutti i settori dell’arte».

Queste parole avrebbe potuto dirle uno come Spielberg, se non fosse che Tzara riteneva come Dada non avesse riguardi «per la storia, la logica, la morale comune, l’Onore, la Patria, la Famiglia, l’Arte, la Religione, la Libertà, la Fratellanza e tante altre nozioni corrispondenti a delle necessità umane, di cui però non sussistevano che delle scheletriche convenzioni, perché erano state svuotate del loro contenuto iniziale». Osserva Cousine, il dadaismo non era altro che anarchia e sberleffo, e prima ancora, secondo Fernaldo Di Giammatteo l’esperienza dadaista «negava qualsiasi valore all’arte, si opponeva all’estetica e ai gusti della borghesia».

Alle idee di Libertà, Fratellanza, Famiglia, uno come Spielberg assocerebbe forti sensazioni raccontate attraverso storie concepite con notevole riguardo per le necessità dell’essere umano. Tra Ruttmann e Spielberg vi è un abisso vocativo, il primo adottava come motto la frase di Cartesio «non voglio neppure sapere se prima di vi sono stati altri uomini», il secondo deve tutto alle parole del fantasma del soldato Joe in Joe il pilota del 1943, che guardando la sua amata correre verso l’uomo che incarna la vita che continua, può finalmente dirle «Goodbye darling…».

L’incompatibilità di questi due modi di concepire il cinema, spiega come il tentativo di ricorrere alle misure della complessità, del significato e dell’originalità dell’opera sia spesso improprio e fallimentare.

Non si può che rimandare a Kandinskij, e a quell’aneddoto che contiene la più autorevole ed efficace chiave di lettura dell’astrattismo: «stavo tornando a casa [..] quando d’improvviso vidi un quadro di una bellezza indescrivibile imbevuto di ardore interno [..] su cui non vedevo altro che forme e colori e il cui contenuto era incomprensibile. Trovai subito la chiave del mistero: era un mio quadro che era appoggiato alla parete di lato. Il giorno successivo, alla luce del sole, cercai di ricreare in me l’impressione che il quadro mi aveva fatto il giorno prima. La cosa mi riuscì però solo a metà; anche ponendo il quadro su un lato riconoscevo sempre gli oggetti [..] seppi così che in modo preciso che l’oggetto nuoce ai miei quadri».

Kandinskij era artisticamente impegnato in una conversione che assunse connotazioni religiose. Restava la forte vocazione pittorica, combatteva contro la frustrazione spirituale dovuta all’adempimento inappagante ai dogmi del realismo, trovava sollievo estatico nel liberarsi dalla mimesis.

Più tardi, Picasso avrebbe preso le distanze dalla tensione kandinskijana a «dipingere l’invisibile», che dal suo punto di vista equivaleva a «dipingere l’indipingibile». Picasso si faceva portavoce delle convinzioni di Courbet e Cézanne, Kandinskij avrebbe lasciato in eredità l’idea che l’emancipazione dalla rappresentazione dell’oggetto è possibile.

«Jeder Dada kann», ovvero «Dada lo può fare chiunque», era il motto dei detrattori del dadaismo e per estensione dell’astrattismo. Ma come nella tradizione pittorica coesistono l’astrattismo di Kandinskij e la coscienza del mondo oggettivo di Picasso, così è possibile scoraggiare il tentativo dello spettatore di valutare la dignità artistica di un film sul piano della complessità tanto quanto non è sostenibile desumere che Pollock lo possa fare chiunque.

L’astrattismo respinge ogni tentativo di dedurre un significato che spesso non va oltre la semplice voglia di ridere, risponde a un’emozione di stomaco, traduce in arte tutti quegli stati d’animo che non trovano un compimento nel linguaggio. La datazione proposta del primo acquerello astratto di Kandinskij coincide con l’anno 1910.

Il positivismo soccombeva alla disillusione, la sensibilità di alcuni artisti e pensatori riceveva lo stesso impulso che avevano ricevuto i dadaisti: quello della ribellione agli schemi scheletrici della logica e del linguaggio. A distanza di un anno, l’umanità riceveva in eredità due opere universali che erano riuscite nel tentativo fino ad allora inconcepibile di aprire un buco nero nel linguaggio stesso: il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1921) e l’Ulisse di Joyce (1922).

Tutto veniva messo in discussione. Si erano create le condizioni per la sperimentazione, che avrà luogo proprio in quel buco nero che Wittgenstein e Joyce avevano aperto nella realtà oggettiva. Da quel momento, la sperimentazione si sarebbe compiuta in misura maggiore nell’arte rispetto al cinema, ma avrebbe imparato a convivere con la celebrazione artistica dell’oggettività che proprio nel cinema si sarebbe compiuta in misura maggiore rispetto all’arte.

Negli anni Cinquanta il cinema aveva già sperimentato il Neorealismo, mentre Yves Klein si era emancipato dalla materia. Negli anni Sessanta le Nouvelle Vague impegnavano intellettualmente il pubblico, mentre l’arte si sperimentava scegliendo sempre più spesso la sua variante non figurativa. Negli anni Settanta, un uso straordinario del controcampo sublimava la scena in cui lo squalo attacca il ragazzino sotto lo sguardo impietrito del capo della polizia, mentre Nam June Park posizionava un Buddha di bronzo davanti una videocamera accesa. Seguono gli anni di protesta, la globalizzazione. Si impone un quarto parametro di misurazione della qualità artistica: la morale. A partire dagli Oscar del 2024, saranno premiati solo i film che rispettano gli standard di inclusione delle minoranze.

Come aveva osservato Jean Rouche, che si tratti di brachiosauri o di un modo per essere John Malkovich, «il cinema, l’arte del doppio, rappresenta già il passaggio dalla realtà al mondo dell’immaginazione».

Cover di Ripartire dal desiderio di Elisa Cuter

Un femminismo senza vittime

Il saggio Ripartire dal Desiderio (minimum fax, 2020) può sembrare la sbobinatura di una serata tipo che avresti potuto passare con una tua amica. Io me la immagino così: mentre torna a casa con la metro, la tua amica scende alla fermata e un luminescente pannello digitale illumina il suo volto; è la pubblicità della “Lines è” che alle 18.20 le ricorda che «è ora di fare un passo avanti». Siccome stasera di fingere che avere delle tube sia un valore connaturato e superlativo che le permette di sfilare accanto a Emma Marrone fiera e sanguinante non ne ha proprio voglia, suona il tuo campanello, mentre tu hai già stappato il vino e sei pronta con due calici.

Un fiume di polemiche incazzate si alterna a un pacchetto di tabacco che gira tra le mani delle due amiche. La discussione sull’orgoglio di Emma Marrone e la sua schiera di amazzoni si fa sempre più accesa, si arricchisce di aneddoti personali e di pensieri associativi: «Ma ti sei mai chiesta se mettere una foto di te mezza nuda su Instagram ti renda più libera o più oggettificata?» E l’altra, con una bottiglia già a metà: «Ha proprio ragione Simone de Beauvoir, “una donna è una donna prima di essere una persona, la parola ‘femmina’ la imprigiona nel sesso, ovvero nella sua anatomia”».

Il discorso è un filo che si dipana da Emma Marrone alla lotta di classe, interrotto da qualche pausa in cerca dell’accendino o per andare in bagno; poi si riavvolge e si ricollega a considerazioni di ogni tipo, perché le narrazioni distorte sulle donne hanno ormai permeato tutto: l’ultima serie tv che hai guardato, la retorica sui disturbi alimentari, Lilli Gruber e il Papa. E siccome la bottiglia di vino è finita davvero e, prima di passare alla seconda, devi ingurgitare qualcosa perché sono già le 21 passate, la tua amica mette l’acqua in pentola e mentre accende il gas se ne esce così: «Il posto di una donna non è in cucina, non è in fabbrica, non è in azienda, non è in un film di Hollywood… è nella rivoluzione».

La tua amica è proprio la femminista incazzata che ti ricordavi, pronta a dispensare riflessioni mai banali, comunista per davvero, perché guardando un pannello pubblicitario rivolto a donne come lei si ferma a chiedersi dove stia l’inganno. E lo capisce presto: deve aprire il portafogli. La tua amica si chiama Elisa Cuter. È dottoranda e assistente di ricerca a Babelsberg e Ripartire dal desiderio è il suo primo libro. Quando era bambina, non c’erano le pubblicità con fiere paladine del ciclo, ma un programma che sicuramente ha aperto la strada alla piramidale sequenza di donne che marciano a suon di girl power dietro Emma Marrone: si chiamava Non è la Rai e la sua figlia più celebre, negli stacchetti pomeridiani, era Ambra Angioini.

Partendo da qui, da un programma che ha condizionato l’immaginario collettivo di una generazione intera con la figura di una donna un po’ Lolita e un po’ imprenditrice, per oltre duecento pagine Elisa Cuter ci parla dei rischi delle attuali narrazioni sulla donna. Soprattutto quando sono considerate (fintamente) progressiste. O almeno non lo sono per una marxista che non vede alcun progresso nell’asservimento delle donne alla logica dello sfruttamento del capitale, perché l’inclusione a cui miravano le lotte non era un posto di successo nel mercato, né tantomeno un ruolo di potere da sempre ricoperto da maschi. Insomma, il problema non è invertire le logiche del potere permettendo così a noi donne di salire sul trono, ma decostruire il potere e realizzarne uno senza podio.

Ma andiamo per gradi. Dopo diverse pagine dedicate ad Ambra e alle poliedriche immagini femminili in lei condensate, il libro formula più apertamente la proposta di ripartire dal desiderio. Il desiderio non è che una pulsione di libertà intrinsecamente individuale (nella misura in cui ognuno desidera qualcosa e in genere qualcosa di diverso dagli altri), ma allo stesso tempo sociale, perché desiderare ci mette in relazione con l’altro, rivelandosi così un’esperienza dinamica. Il desiderio quindi è per sua natura conflittuale; azzardando, è una parola che potremmo definire enantiosemica, che cioè racchiude due significati opposti: da una parte l’agente del desiderio sei tu che desideri qualcuno, dall’altra desiderare è oggettificante perché fa parte del desiderio proprio la richiesta di essere desiderati.

Il desiderio inoltre è declinabile in più ambiti, da quello sessuale a quello comportamentale, e tutto questo, ovviamente, ha un carattere politico. Se ci fosse permesso di desiderare liberamente, senza essere rinchiusi in un incessante gioco di ruolo né pressati a fare la cosa giusta, probabilmente l’atto del desiderare porterebbe risvolti politici inattesi. Infatti, è perfettamente lecito che l’energia desiderosa sia bicefala, e se come tale fosse accettata restituirebbe la dimensione più preziosa e tenera dell’incontro tra due persone. Soggetti che prima di tutto provano sentimenti, e con le loro emozioni (come l’insicurezza, che la Cuter non esclude mai) sono desiderosi di desiderare e di essere desiderati.

Invece il genere (che non è biologico, ma una costruzione artificiosa talmente persuasiva da essersi inverata, altrimenti non parleremmo di biopolitica) imprigiona l’uomo e la donna entro precise pareti inibenti, che arrivano a contrassegnare la loro identità più profonda, e li descrivono come esseri totalmente definiti da quelle caratteristiche.

Una delle correnti declinazioni del genere è la proliferazione dell’immaginario vittimistico della donna. A Elisa Cuter va riconosciuto il grande merito di svolgere le sue riflessioni incrociando il nostro immaginario collettivo; memore della lezione di Pasolini, tutto il libro pullula di esempi pop che si sono imposti nel senso comune o hanno scatenato schiere di tifoserie social: il movimento #MeToo, il tema del revenge porn, gli “incel”. Assodato che la violenza di genere esiste ed è fenomeno lampante, per chiunque abbia gli occhi per vederlo, certo esiste anche una capillare tendenza a impersonare la donna nelle vesti della vittima. Questo ruolo si è sostituito alla vergogna (forse non del tutto superata), ma rimane un volto femminile fortemente limitante: la vittima ha sempre ragione e per questo viene glorificata, ha bisogno di un risarcimento e di qualcuno che la salvi, ma soprattutto è completamente priva di un campo d’azione. L’identificazione nella vittima personalizza il soggetto e ricerca la risposta nella sola responsabilità individuale. Ed ecco che si ripete il gioco delle parti.

L’altro fenomeno irritante che la Cuter sembra accusare è proprio la continua elusione dell’aspetto sociale del discorso femminile: se il #MeToo ha dato un po’ di coraggio, allo stesso tempo ha creato un gineceo di compianti di donne scandalizzate dall’essersi improvvisamente ritrovate insieme su una barca che affonda. Ma allo sdegno iniziale non è subentrato alcun desiderio, solo una campagna morale in cui ognuna va in cerca del proprio orco. L’appello morale è proprio la soluzione che si intraprende quando ci si sente in posizione di impotenza rispetto alle forze sistemiche, e perciò ci si appella alle coscienze individuali di ogni singola persona coinvolta in una situazione di potere. A parte l’indiscutibile elitarismo, la schiera femminile che ha digitato l’hashtag #MeToo non ha creato una comunità ma una somma di singole esperienze vittimiste. Nella migliore delle ipotesi, tramite l’unico sostegno ricevuto dal movimento, ovvero l’appello al coraggio, queste donne hanno risolto il loro dolore in maniera privata e individuale, oppure (più probabilmente) si sono limitate a sentirsi vittime e quindi ad assoggettarsi al potere.

Trattare di violenza di genere può quindi far male alle donne stesse? Sì, moltissimo. Moltissimo se, come oggi, il parlarne, con tutto quello che ne segue, è vissuto come un risarcimento, una magra consolazione, una pacca sulla spalla da parte delle stesse donne o di uomini mossi da sentimenti di pietà. Tutti questi sono sentimenti passivi, mentre, come ci ricorda Elisa Cuter, il desiderio comprende una parte attiva, porta conflitto e non può essere privatizzato.

L’altra narrazione che sta spopolando si chiamava ieri Ambra e si chiama oggi Emma: il “self-empowerment”, il “credi in te stessa” che poi diventa il “fai della tua vita un brand”, tutto ciò che ti spinge a fare di te, donna (vittima e svantaggiata), una vincente, una scalatrice sociale orgogliosa di produrre capitale ed estrogeni. Tutto questo è femminilizzare, non è il femminismo.

Insomma, le uniche riposte alle questioni “femminili” sembrano chiudersi nel binomio capitalismo-moralismo. Che la dialettica si consumi in questi due spazi non aiuta a ragionare collettivamente sul desiderio – che, va ribadito, non è solo di desiderio sessuale ma anche desiderio politico. Il quarto capitolo del libro si intitola proprio «Il nostro desiderio è senza nome»: un evidente omaggio a Mark Fisher, che ha fatto proprio della difficoltà a semantizzare le nostre necessità e a ricercare un’alternativa al mondo attuale il faro della sua indagine politica. Anche quando siamo consapevoli di cosa desideriamo, dobbiamo chiederci se siamo davvero noi a volerlo, e ci è permesso di capirlo solo assecondando il desiderio: stiamo davvero meglio quando facciamo del nostro corpo un capitale sessuale sul nostro profilo Instagram? Quale che sia la risposta a questa domanda, è certo che il desiderio è una forza relazionale e pertanto non può essere reciso dal discorso collettivo. Ripartire dal desiderio è la risposta di una donna stanca di essere bombardata dalle retoriche individualiste e ansiosa invece di essere in disaccordo con altre donne, pronta a discutere per recuperare una parte attiva, sì, ma insieme. A chi non si accontenta delle gambe pelose su Freeda, e anzi prova un certo fastidio vedendoci solo un grande nichilismo dell’io, questo libro può dire qualcosa di realmente nuovo, emergendo dal magma comunemente chiamato femminismo. Lavorando per sottrazione, togliendosi di dosso cartellini affibbiati dalla società e concentrandosi sui sentimenti, Elisa Cuter apre uno spazio in cui ripartire davvero dal desiderio, il quale attende di essere socializzato.

 

(Elisa Cuter, Ripartire dal desiderio, minimum fax, 2020, pp. 214, euro 16, articolo di Anita Fallani)

 

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Lontano da casa di Enrico Pandiani

Il vaso di Pandora

Si può scrivere un thriller con l’intenzione di andare al di là del genere e provare a raccontare l’animo umano e il presente storico, rendendo così questo noir un romanzo civile? La risposta è sì, anche se non è affatto facile; Enrico Pandiani ci riesce nel suo nuovo romanzo Lontano da casa (Salani, 2021).

La storia comincia in una sera d’autunno nella periferia di Torino, nel quartiere Barriera, uno slum metropolitano in cui convergono parecchie storie di disagio e, si sa, «il disagio si accompagna spesso all’emarginazione sociale». Jasmina Nazeri, una donna kurda-iraniana arrivata in Italia da bambina, si trova dei poliziotti sotto casa. Cercano proprio lei. No, non è accusata di alcun crimine, ma le chiedono di seguirli per fare un riconoscimento; infatti lì vicino hanno ritrovato il cadavere di un ragazzo nero, completamente nudo, e chiunque nel quartiere sa che Jasmina insegna italiano proprio agli immigrati, che si dedica ai senzatetto, ai più sfortunati in generale – per cui chi meglio di lei potrebbe magari sapere chi è? La sorpresa per Jasmina è di quelle da shock, difatti a terra c’è Taiwo, un ragazzo nigeriano, che lei non vede da un po’, in realtà da quando avevano troncato la loro breve relazione. Jasmina è sconvolta, resta convinta che Taiwo sia un bravo ragazzo, lo dice a più riprese agli investigatori, non si capacita di quel che gli è accaduto.

Qui entra in scena un altro personaggio, anch’esso femminile, ed è il commissario di zona Pandora Magrelli. A dire il vero non è lei l’incaricata delle indagini, è già stata punita e sbattuta lì in periferia perché i superiori la detestano per via delle sue idee. Pandora infatti è l’esatto contrario di Jasmina: se la ragazza iraniana è accogliente, inclusiva e spinta a comprendere le ragioni altrui, la commissaria Magrelli è profondamente arcigna, intollerante e sprezzante nei confronti di immigrati e neri, che si ostina a chiamare negri. Come dicevo, non è lei l’incaricata delle indagini, eppure percepisce che c’è qualcosa che lega quell’omicidio a una vecchia indagine di Pandora. Così decide di seguire il caso, e trascina con sé Jasmina.

Seppure la ragazza iraniana si mostri riluttante, e non solo per il carattere malmostoso della commissaria, finisce col lasciarsi coinvolgere, e nasce un rapporto fra le due. Pandiani ne approfitta per mettere in scena alcuni dialoghi spiazzanti e veristi, tra due persone che più diverse e lontane tra loro non potrebbero essere. L’odio razziale di Pandora assume toni sarcastici e provocatori, mentre Jasmina non perde occasione per punzecchiare la commissaria su quelle idee che l’hanno relegata proprio in quella periferia che odia. Intorno a loro, nel frattempo, si muove un’umanità variegata e disagiata, quell’umanità che spesso non vogliamo guardare o che giudichiamo attraverso semplificazioni che ci mettono in pace, che si sia aggressivi come Pandora o inclusivi come Jasmine. Qui esce la bravura di Pandiani: rimane un narratore esterno equidistante, che non forza mai la mano né da un lato né dall’altro, e che anzi ci tiene a mostrare la complessità per nulla schematica di quel disagio da slum.

Rom, nigeriani, prostitute e transessuali, clochard, ma anche anziane donne della media borghesia abbandonate in case di riposo da figli troppo presi da se stessi, sono lo sfondo su cui Pandora e Jasmina si muovono per risolvere il mistero della morte di Taiwo, cui fa seguito un’altra in circostanze assai simili. Come di consueto ciò che appare visibile agli occhi resta l’emarginazione, l’emarginazione come unica causa dell’insicurezza sociale, mentre sotterranei si muovono interessi e commerci illeciti, quelli che per davvero sparano e uccidono convinti di restare impuniti, proprio perché l’attenzione pubblica è focalizzata e indirizzata su problemi diversi.

Pandora per prima ne sarebbe la dimostrazione, anche se il suo forte senso di giustizia e di Stato la spingono, nonostante tutto, a scoperchiare (nomen omen) una realtà molto più complessa e intricata. Jasmina invece tira avanti per la sua strada, non vuole perdere fiducia in un mondo migliore, migliore perlomeno di quello da cui arriva. Del resto «gli immigrati pensano molto, tutti quelli che hanno alle spalle un destino brutto, o segnato, o difficile pensano molto. Sognano a occhi aperti di cambiare vita, di non finire nei guai, di non farsi rimandare indietro, di non morire». E in queste parole Enrico Pandiani getta le basi dell’intera architettura narrativa del romanzo perché, immigrati o no, ritengo sia la realtà di chiunque viva un disagio economico e socioculturale.

Lontano da casa ha un incedere in crescendo, una prima parte molto più posata e riflessiva, la seconda più sincopata e ansiogena, con ritmo da thriller qual è mentre ci si avvicina alla soluzione del caso. Pandiani è un veterano del genere noir e del thriller e non casca mai in errori procedurali, né tantomeno in quei dialoghi improbabili per spiegare a noi lettori le indagini interne degli investigatori. È sempre misurato nella lingua, non esagera mai con l’eleganza che talvolta potrebbe alzare troppo il registro stilistico e far perdere presa, ma neanche si appiattisce sulla lingua procedurale e talvolta ripetitiva di tanti romanzi di genere. Sa usare i cliché e smontarli, sa spiazzarti senza mai sorprenderti alle spalle, perché pone il lettore frontale alla storia, eppure come un prestigiatore riesce a nascondere la carta vincente pur lasciandotela sotto gli occhi.

 

(Enrico Pandiani, Lontano da casa, Salani, 2021, 400 pp., euro 16,80, articolo di Fernando Coratelli)

 

Copertina di Le ripetizioni di Giulio Mozzi

L’insensatezza del reale

Se il tutto è più della somma dei singoli elementi, allora sovrapporre gli episodi dell’intera vita di un uomo non è sufficiente a restituirne il valore. Il tentativo della memoria di attribuire il carattere di linearità a quel sistema complesso di eventi è solo un modo qualunque – per di più fallimentare – di voler dare ordine laddove regna il disordine.

Quando Mario, ex sindacalista, adesso scrittore quarantenne di discreta fama, protagonista del romanzo Le ripetizioni di Giulio Mozzi (Marsilio, 2021), comincia a raccontare ai suoi uditori il primo di una serie di fatti capitatigli in passato, pare guidato dalla volontà di tracciare una narrazione coerente di sé stesso, solleticata da quella particolare congiunzione di sensibilità interne e condizioni esterne che può rivelarsi decisiva o passeggera, a seconda del caso.

Mario si divide tra Padova, dove ha una relazione con Viola, che sta per sposare, e Roma, dove si reca spesso per lavoro e dove vive Bianca, una donna alla quale è profondamente legato. La sua è una quotidianità poco invidiabile, fosse solo perché è sovrapponibile, all’apparenza, a quella di moltissimi altri uomini adulti e non sposati, e non sembrerebbe neppure necessario raccontarla, fatta com’è di momenti trascurabili passati in treno, a leggere manoscritti o libri come Dance dance dance, di visite al pittore e amico Gas e di numerose elucubrazioni sul “nulla”.

Eppure, in questa perenne frammentarietà e inconcludenza, anche un singolo momento, pescato al buio tra gli altri, può ergersi – parte per il tutto – a elemento chiarificatore e assoluto. È quanto capita a Mario, in apertura del romanzo, durante una passeggiata nel giardino di Boboli a Firenze, quando si imbatte nel profumo del bosso che, come una madeleine proustiana, rimette in circolo nel sangue il ricordo del passato: fatti realmente accaduti, o rivoluzionati dagli anni e dalla dimenticanza, o, ancora, inventati di sana pianta; persone senza volto, che tornano come fantasmi nel presente per deturparlo; luoghi, cose, sentimenti assopiti o semplicemente relegati negli angoli più bui della memoria. Tutto pare ritornare a galla a partire da quella spinta iniziale.

Dall’evento epifanico si scatena un unico grande interrogativo:

«Che cosa importa, se un ricordo è vero o falso? Che cosa importa, se la nostra vita, la vita di chiunque, è vera o inventata? Il passato è passato, e non ha nessuna consistenza reale; le conseguenze sono eventi nuovi, e che veramente conseguano dal passato, e se questo eventuale conseguire dia veramente una consistenza reale al passato, è un’immaginazione come un’altra. E le invenzioni della fantasia, le storie raccontate, i sogni, i ricordi, non sono né più né meno reali di queste mani che sollevo davanti alla faccia, e guarda, di te che mi ascolti, della storia che ti ho appena raccontata. La nostra vita reale, se è reale davvero, questa fu l’ultima parola di Mario, avviene ora; e niente è più fuggevole e impalpabile dell’ora».

È ininfluente – per il Mario che racconta, per il narratore (i narratori, forse) che riporta, per il lettore che legge – che non ci siano mai stati fiori di bosso nell’infanzia di Mario bambino. Poco importa che l’espediente narrativo possa basarsi o meno su una menzogna o su una rielaborazione fallace della memoria: la posta in gioco, ovvero il significato della propria esistenza declinata al tempo presente, non è messa in discussione in nessun caso. Si apre così lo spazio per un insieme infinito di ricordi e situazioni, capaci di sussistere nelle pagine del libro anche in maniera indipendente.

In questo bestiario umano che prende vita, ciò che emerge, però, è sempre un inossidabile lavorio dell’inconscio, che si affanna, nell’insensatezza dilagante, per fare chiarezza tra doppie (o triple) vite, tra scene di violenza fulminante e oggetti inutili consacrati a corpo e sangue di Cristo. L’inadeguatezza dell’uomo è la condicio sine qua non per l’esplorazione letteraria più oscura o – dipende dal punto di vista – più illuminante. Mozzi gioca con quel personaggio-io del romanzo prima ancora che con il lettore succube e ormai catturato, stratificando la materia narrativa ed esasperandone le derive psicologiche senza fornire né strumenti di interpretazione né scappatoie. Lo spaesamento, caricato al massimo per 355 pagine, non si esaurisce in chiusura, dove anzi aumenta per essere troncato repentinamente alla fine, con un taglio netto.

 

(Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio, 2021, pp. 368, euro 17, articolo di Giovanna Nappi)
Il Green new deal di Ann Pettifor

Transizione ecologica, rivoluzione economica

Fin dalle prime pagine del suo Il Green New Deal (Fazi, 2020) l’economista britannica Ann Pettifor rivolge una critica impietosa al paradigma neoliberista, responsabile di aver portato al collasso i sistemi di supporto vitale della Terra, e con essi la civiltà umana. La crisi climatica e ambientale che minaccia noi stessi, prima ancora che il pianeta, non può infatti essere affrontata senza una lotta contro il sistema economico imperante, a cui in definitiva va imputata la catastrofe ecologica e sociale in atto.

Questo libro audace, snello, chiarissimo e istruttivo – quando non illuminante – contesta, e anzi ribalta completamente, due idee tanto radicate quanto fuorvianti, quando si parla di economia ed ecologia. Il capitalismo contemporaneo e – spesso – il senso comune sembrano muovere dal presupposto che la terra ci offra risorse naturali infinite, e che invece le risorse finanziarie e monetarie siano scarse (quante volte abbiamo sentito frasi come “non ci sono i soldi” o “non ci sono le coperture”?). In realtà è l’esatto contrario, spiega Pettifor, che è stata fra i primissimi a parlare di Green New Deal e ha ispirato le recenti proposte di Alexandria Ocasio-Cortez in materia di riconversione ecologica. Con un sistema finanziario diverso da quello attuale, globalizzato e privo di regole, gli Stati non avrebbero problemi a finanziare un piano di riconversione verde dell’economia, tenendo conto dei reali vincoli da fronteggiare, che sono invece la non rinnovabilità di molte risorse naturali e i limiti tecnologici e umani del lavoro.

Sappiamo ormai perfettamente che il riscaldamento globale imperversa, e che dobbiamo fare presto, se vogliamo sperare in un futuro più sostenibile per l’ambiente e per la maggioranza degli abitanti della terra. Ma l’abbattimento delle emissioni di CO2 e la riconversione verde della produzione, dei consumi e delle scelte di vita e non sono neanche concepibili, se prima non sarà neutralizzato lo strapotere della finanza, che consente la concentrazione dei capitali in pochissime mani, provoca enormi disparità di reddito, disoccupazione e sottoccupazione e sottrae al potere pubblico e democratico spazi di controllo e azione.

È davvero sorprendente la capacità di Pettifor di spiegare anche al lettore digiuno di economia il funzionamento di base dei moderni sistemi finanziari e monetari, e in particolare il ruolo della moneta. In questo modo l’autrice riesce a inquadrare il problema climatico e le politiche per contrastarlo negli schemi fondamentali della macroeconomia keynesiana: la transizione ecologica non potrà che essere pianificata dallo Stato, unico attore in grado di conciliare salvaguardia dell’ambiente, giustizia sociale e buona e piena occupazione. La pianificazione, grazie alle politiche fiscali dei governi e di concerto con le politiche monetarie della banca centrale è semplicemente il fulcro del Green new Deal: solo la spesa pubblica in servizi universali e in ricerca può finanziare gli investimenti necessari per generare occupazione e permettere la conversione green della produzione.

Come chiarisce Pettifor, questo non significa che il settore pubblico debba fare da solo: dovrà invece affiancare quello privato in un sistema di economia mista «di stato stazionario», in cui cioè la crescita non si fonderà più sull’aumento delle quantità prodotte e sulla dilatazione illimitata dei desideri materiali, ma sulla ricerca della soddisfazione dei bisogni di base di ogni essere umano (non ultimi quelli immateriali). In tutte le fasi della produzione e della distribuzione di beni e servizi, questo tipo di economia dovrà tenere conto delle risorse fisiche disponibili e delle emissioni di carbonio sprigionate.

Se il Green new Deal compete agli Stati, le condizioni per un suo finanziamento sostenibile e duraturo nel tempo passano inesorabilmente da iniziative di portata globale, che richiedono una stretta cooperazione tra paesi sovrani. Il che – notiamo per inciso – rompe con gli schemi mentali che nel conformismo del dibattito pubblico italiano oppongono stancamente “globalismo” e “sovranismo”.

È necessario che i governi riacquistino la sovranità nelle scelte di politica fiscale, perché possano fronteggiare il potere dei grandi gruppi industriali privati e sciogliere il vincolo posto dal settore finanziario. Questo vincolo deriva fondamentalmente dalla libera circolazione internazionale dei capitali, che offre ai loro detentori uno straordinario potere di ricatto nei confronti dei poteri pubblici. Per schematizzare quello che Noam Chomsky ha definito «il Senato virtuale» che di fatto governa il mondo: se tu, Stato, introduci politiche sociali e ambientali restrittive, io, capitale, mi sposterò in un altro Stato). Per far comprendere al lettore l’urgenza del problema, Pettifor afferma niente meno che la limitazione dei movimenti di capitale è «fondamentale per la sopravvivenza del pianeta».

L’autrice propone quindi una vera e propria camicia di forza per la finanza globale, che dovrà essere repressa e riportata su un piano strettamente nazionale, e per la mobilità dei capitali. Ma, per un paradosso solo apparente, l’obiettivo di riconfinare i capitali all’interno delle nazioni implica una riforma internazionale di portata epocale. Non a caso Pettifor fa esplicito riferimento al progetto che impegnò John Maynard Keynes negli ultimi cinque anni della sua vita: costruire un sistema monetario internazionale che non fosse retto da una valuta nazionale (come la sterlina ieri e il dollaro oggi), ma che potesse invece equilibrare gli scambi commerciali grazie a una moneta internazionale e a una clearing union, o «camera di compensazione». Solo così era ed è possibile ripianare gli scompensi fra paesi creditori e paesi debitori e scoraggiare comportamenti mercantilisti, che sono all’origine dell’espansione ipertrofica dei mercati finanziari e dell’intrinseca instabilità – e irresponsabilità sociale e ambientale – del capitalismo.

Quello di Keynes era un progetto ardito e innovatore, che sfidava un sistema monetario internazionale liberista, il Gold Standard, i cui i tratti strutturali sono riconoscibili lucidamente anche nell’attuale. Come il progetto di Keynes uscì in gran parte sconfitto nel 1944 a Bretton Woods (dove si tenne la conferenza che diede vita all’ordine economico del dopoguerra, e in cui il celebre economista inglese rappresentava il proprio governo come delegato), così la riforma della finanza necessaria per sperare in un futuro sostenibile dovrà sfidare l’egemonia del dollaro, valuta di riserva internazionale. Una sfida che potrà sembrare utopica, è chiaro. Ma il Novecento ci insegna che una volta esplose le contraddizioni del sistema possono emergere progetti alternativi, pronti a trasformare gli assetti della finanza internazionale. C’è però una condizione necessaria, per sottrarre potere al capitale nei campi in cui le forze di mercato arrecano più danno ai cittadini e all’ambiente: l’organizzazione e la mobilitazione dei popoli e delle classi sociali che più di tutti ne subiscono i danni.

Pettifor si chiede allora, non senza una certa angoscia per il futuro, in che modo potrà scattare la scintilla che spingerà le persone, e di conseguenza le classi politiche, ad abbracciare queste imponenti ma fondamentali trasformazioni. Emergono allora diverse ipotesi, alcune anche drammatiche: ad accelerare il corso della storia e porre le basi per una nuova coscienza collettiva potrebbe essere un forte shock ambientale, una guerra o un’altra grande recessione. Oppure un trauma di diversa natura: l’autrice scrive nel 2019, ma leggendo con il senno di poi non si può non pensare che questo shock possa essere dato da una pandemia. Ed è probabile che ne arrivino altri, e che la catastrofe climatica si compia: affinché nuove possibili tragedie per l’umanità siano scongiurate, serve una strategia politica immediata di tutte le forze progressiste, per rompere con il paradigma dominante che si è fossilizzato nel senso comune grazie all’egemonia culturale del pensiero neoliberista e inaugurare un nuovo rapporto tra gli esseri umani e il pianeta.

 

(Ann Pettifor, Il Green New Deal. Cos’è e come possiamo finanziarlo, traduzione di Thomas Fazi, Fazi, 2020, 208 pp., euro 20, articolo di Valerio Trabucchi e Paolo Ortelli)

 

Tante care cose di Fulminacci

Fulminacci partecipa a Sanremo 2021. Porta un brano, “Santa Marinella“, che ricorda un giovane De Gregori  e fa una cover di “Penso positivo” di Jovanotti con Roy Paci e Valerio Lundini. Arriva sedicesimo. Non importa: poco dopo esce il suo secondo album, Tante care cose.

Il suo esordio, La vita veramente, è di due anni fa. Allora una delle questioni attorno a Fulminacci era se fosse it pop. O ciò che ne rimaneva. Se magari fosse un’evoluzione. Qualcosa di quel mondo fatto emergere da Calcutta lo si percepiva, ma si capiva anche che c’era molto altro. La lingua, le tematiche simili trattate con stile diverso: l’ispirazione andava ricercata in Silvestri, autore colpevolmente dimenticato tra gli artisti degli anni ’10. Senza scordarsi comunque di Battisti, che continua e continuava a essere comun divisore, generazione dopo generazione.

Quindi passano due anni, il MI AMI e soprattutto Sanremo. Arriviamo a oggi. Tante care cose è ciò che si intravedeva nel suo precedente. Si intuiva che avrebbe potuto fare qualcosa del genere, bisognava solo dare un taglio diverso al tutto. A sorprendere è la qualità generale e il salto in avanti. Non perché La vita veramente non avesse spunti, o fosse particolarmente acerbo, ma perché quest’album ha lo stigma reale dei grandi autori.

Fulminacci pare rispecchiarsi maggiormente in un architettura massimalista, rispetto a una minimalista. Tante care cose è un luogo in cui esce la dimensione di Fulminacci. Come può essere con “Miss Mondo Africa” o “Tattica“. Brani che hanno un suono che ricorda quello a cavallo del 2000, tra funk e accenni di hip hop mainstream.  A cui sommare una cifra di cantautorato, con cui lo avevamo conosciuto in precedenza, da non sottovalutare.

La coerenza strutturale di quest’ultimo lavoro è ciò che rimane ascolto dopo ascolto. Più delle melodie e dei ritornelli da canticchiare. La sensazione è che nulla sia casuale, che ogni nota sia controllata.  I due anni passati dal 2019 al 2021 sono dieci anni di Fulminacci. Una maturazione notevole.

La scelta di “Penso positivo” con cui ha partecipato a Sanremo è mirata. C’è molto di Jovanotti, di Lorenzo 1994.  A lui è si aggiunge il già citato funk alla Articolo 31 di Così com’è; sprazzi di metrica e ironia alla Silvestri (confrontare con “Le cose in comune“); venature vocali alla Ex-Otago (che in “Canguro” precipita in un vortice  alla “Bad Guy” di Billie Eilish, con quel basso tipo “Around the World” dei Daft Punk,  forse il segmento migliore dell’album). La presenza di De Gregori è forte e influisce sulla scelta di interpretazioni di diversi brani – basta solo prendere come esempio come canta la parola stella in “Santa Marinella“. C’è anche una deviazioni alla Thegiornalisti , “La grande bugia“, con quei synth retromaniaci oramai diventati cifra del presente. Il momento meno interessante, rivedibile.

A prescindere da quest’ultimo brano, si capisce che tutti questi input, se non calibrati, avrebbero dato come risultato un delirio da prendere e buttare via. Invece Fulminacci è bravo, è molto bravo, e riesce a dargli senso e coerenza a:  dietro a “Tante care cose” c’è un’idea forte e la cosa emerge in maniera palese. Non possiamo che essere felici.

Cover di Che cosa c'è da ridere di Federico Baccomo

Proviamo a immaginare

Si può provare a immaginare qualcosa di diverso, che serva a tenere memoria dell’Olocausto, il peggiore evento del secolo scorso? Sì, si può tentare. Ne è convinto Federico Baccomo col suo nuovo romanzo Che cosa c’è da ridere (Mondadori, 2021).

Baccomo a ogni romanzo si impegna per sorprendere il lettore – muta voce, tematica, suggestioni e ossessioni; tuttavia un fil rouge resta nella sua intera produzione: l’umorismo. Da lì non si scosta, sai con certezza, quando stai per aprire un’opera di Baccomo, che ci troverai una strada che si nutre di umorismo – tragico, nero o felice che possa essere.

Neanche stavolta si discosta da quel tema. Però alza il tiro, rischia tutto e si mette in gioco pericolosamente, proprio come uno stand-up comedian che, invitato sul palco più prestigioso, decide di cambiare repertorio e non usare le battute che lo hanno portato lì. E se poi il pubblico non ride? Già, ma deve rischiare, altrimenti può restarsene nel suo teatrino di provincia, fra gli amici soliti che ridono e lo applaudono. Ecco, Baccomo in questo romanzo fa un’operazione simile. Getta via la sua comfort zone e prova un doppio carpiato. Diciamo subito che gli riesce, forse il grande tuffo ha qualche sbavatura, ma resta un tuffo da qualifica olimpionica.

La storia racconta le vicende di Erich Adelman, un giovane ebreo mingherlino («che si sentiva di andare per il mondo come uno che ha sempre le scarpe slacciate»), orfano di madre, che nella Berlino di Weimer ha la balzana idea di voler diventare un comico, invece di proseguire l’attività paterna di cappellaio. Qui c’è la prima grande sfida di Baccomo; non è semplice scegliere come protagonista un comico, perché vuol dire sviscerare la sua professione, vuol dire tentare di creare un repertorio di battute.

Di primo acchito mi vengono in mente altri due romanzi che si sono lanciati in un’impresa simile: Applausi a scena vuota di David Grossman e Allah Superstar di Y.B., con alterne fortune. Ma Baccomo sa destreggiarsi, con astuzia va a pescare dalla tradizione yiddish (del resto Erich non è un ebreo?) cui fa seguire qua e là alcune sue battute originali. Riesce quindi a creare un personaggio non solo credibile, ma addirittura di alto profilo comico, così da giustificare anche a noi lettori il successo che ottiene in breve tempo.

La prima parte del romanzo è imperniata appunto sugli inizi di Erich, osteggiato da suo padre, inviso ai suoi coetanei, pian piano si ritaglia uno spazio nei cabaret berlinesi. Tutto fila per il meglio, riesce addirittura a far innamorare di sé Anita, una bellissima cantante che fin da ragazzino era stato il suo sogno erotico, tanto da cominciare a collaborare con lei, scrivendole canzoni di successo che lo portano a essere scritturato dal più importante teatro, il KadeKo. E la storia potrebbe finire qui, come dice il narratore a pagina 102. Già, potrebbe con il lieto fine del «vissero felici e contenti», ma così non sarà e non sarebbe potuto essere. Per chi conosce la Storia, sa bene che Weimer significa anticamera del momento più buio della Germania e dell’Europa del secolo scorso. Allora, «questa storia, purtroppo, è qui che comincia davvero».

Baccomo con delicatezza narrativa e brillante semplicità riesce a farci sprofondare lentamente nell’orrore, prima le leggi di segregazione, poi la Notte dei lunghi cristalli, che segna il primo punto di non ritorno: «La Germania degli anni Trenta [era diventata] un mondo che seguiva delle regole assurde come quelle delle barzellette». Allora, Erich e suo padre Rudolf a malincuore decidono di fuggire a Amsterdam. Qui muta anche il rapporto fra i due. Se finora Rudolf era sempre stato aggressivo e infido col figlio, tanto da accusarlo ripetutamente di essere l’assassino di sua madre (morta di parto), adesso comincia a aprirsi con Erich, a raccontargli di sé, del suo passato, «come se cercasse nella memoria […] la forza per affrontare questo viaggio».

Grazie a suo cugino Misha, i due trovano sistemazione a casa della signora Van Ingen, una donna stramba e grassa, dal carattere insopportabile che però a un certo punto prova un debole per Rudolf. Le cose sembrano andare meglio, anche in Olanda Erich trova il modo di proseguire la sua strada di comico; ma come si sa a un certo punto i tedeschi invadono l’Olanda, cosicché per gli ebrei – e per Erich, suo padre e il cugino Misha – le cose precipitano un’altra volta. I tre restano in casa della signora Van Ingen e si nascondono in una sorta di sottofondo, una cantina di difficile individuazione. Qui Baccomo pare prendere un po’ ispirazione dalla vicenda della famiglia di Anna Frank, e descrive quel vivere sottoterra da topi con la speranza di sopravvivere come unico e solo motore per resistere.

Una sera Anita, che è andata a Amsterdam per vedersi con Erich, cade in un tranello ordito dal figlio della signora Van Ingen che si è venduto i tre ebrei a delle SS. È così che i tre vengono arrestati e portati subito nel campo di smistamento di Westerbork, in attesa di essere mandati in uno di concentramento a Est.

Siamo nel pieno della guerra, e la «guerra è anche questa cosa qui: un mucchio di pagine che rimangono bianche», sottolinea con aspra lucidità il narratore. Eppure a Westerbork accade qualcosa di inimmaginabile. Erich nel campo di prigionia incontra tale Max Erlich, un ebreo che era stato responsabile di una sezione di cabaret dell’Associazione Culturale Ebraica, nei primi tempi in cui Hitler aveva preso il potere. Max spiega al protagonista che lì, nel campo hanno allestito un teatrino in cui cantanti, musicisti e comici prigionieri si esibiscono per il sollazzo del responsabile, Gemmeker, e degli altri soldati e SS che gestiscono Westerbork.

Erich non crede alla fortuna capitatagli, sebbene all’inizio si faccia parecchi scrupoli di natura morale: è legittimo far ridere i propri carnefici?, si domanda. Sì, in fin dei conti «siamo umani, e loro questa cosa non ce la possono togliere, solo noi possiamo rinunciarci, e io non voglio rinunciarci», e accetta. Anzi, riesce a far scritturare anche suo cugino Misha, che è pianista, e in questo modo vede salva la sua vita e quella di suo padre, che viene risparmiato altresì per non inficiare le performance di Erich.

Il romanzo di Baccomo, da questo punto, non si limita più a immaginare la vicenda di un ragazzo ebreo che sognava di fare il comico incastonato nella grande Storia. Bensì entra anche nei meccanismi della realtà storica del campo di Westerbork, che vide per davvero Gemmeker organizzare ogni martedì sera uno spettacolo teatrale per tirare su di morale gli ebrei che avevano visto la morte in faccia – infatti il martedì mattina era il giorno destinato al terribile appello col quale orde di persone venivano fatte salire sui carri bestiame in direzione Auschwitz. Così l’autore di fianco alla Storia, pone la storia di Westbork usando Erich Adelman.

L’ultima parte del romanzo si incunea drammaticamente con la famigerata «soluzione finale», così da far assumere sempre più al romanzo i connotati della commedia amara, oggi spesso citata ma di rado utilizzata dagli autori.

Baccomo struttura il romanzo attraverso brevi paragrafi titolati, che rimandano subito al Don Chisciotte di Cervantes, o all’Isola di Arturo di Elsa Morante. È una scelta felice, che ricalca una narrazione orale, breve, fatta per canti. Per lo stesso motivo sceglie una narrazione in terza persona, seppure venga spesso indicato un «tu» che ascolta, che parrebbe il lettore, ma che Baccomo svela nel finale. Sono meccanismi che funzionano, che tengono salva la memoria e al contempo osano allegorie drammatiche coi nostri tempi. Pochi gli appunti da fare, forse in qualche passaggio dialogico non sempre si comprende la scelta di alcune sgrammaticature – («te poi sei basso ma c’hai gli occhi di uno…») in fin dei conti Erich e gli altri parlano tedesco, non italiano. Altrettanto il tentativo di storpiare l’italiano per far parlare un personaggio polacco, che chiaramente parla male il tedesco, è un po’ forzato, più macchiettistico che altro. E in questo romanzo lo si poteva tranquillamente evitare.

Per il resto, usa uno stile asciutto e ben calibrato, che si adegua anche alla narrazione che compie nelle tre diverse sezione di cui si compone il libro. Un romanzo che poteva risultare azzardato e che invece Baccomo riesce a domare e a tenere, alternando risate e lacrime con gran dignità.

 

(Federico Baccomo, Che cosa c’è da ridere, Mondadori, 2021, pp. 312, euro 18, articolo di Fernando Coratelli)
L'uomo con la vestaglia rossa di Barnes

Fenomenologia del dandismo

L’uomo con la vestaglia rossa (Einaudi, 2020), ultima fatica di Julian Barnes, è un romanzo atipico, strutturato in maniera eterogenea e composita, che si situa in un crocevia fluido e liminare tra personal essay, discorso ecfrastico, biografia, saggio di costume, memoriale socio-politico, riflessione sui libri e sulla letteratura. Spingendosi sin dalle prime pagine oltre confinamenti rigidi di generi e codici letterari, l’opera di Barnes esibisce senza pudore il proprio artificio narrativo, che si esplica attraverso un doppio livello diegetico: la vicenda vera e propria e le considerazioni autoriali che muovono e contestualizzano il narrato, fornendo pretesti, moventi, direzioni e glosse esplicative. All’interno di questa cornice binaria e altalenante, che si rinnova lungo l’intero arco del testo, ampio spazio è dato anche alle immagini, riproduzioni di foto d’epoca e quadri che rappresentano allo stesso tempo un compendio e un plus ultra antropologico, un contraltare prezioso che restituisce visivamente i protagonisti al centro del racconto, concedendo al nostro sguardo di attardarci sull’espressione di un volto, sulla valenza di una posa, sulla fisionomia di un frammento di passato incontrovertibile su cui far veleggiare gli umori disparati e sognanti della nostra fantasia, suscitati dalle atmosfere di fin de siècle tratteggiate con maestria e dovizia di particolari. D’altronde di sapere scrivere con arguzia, estro e autorevolezza d’arte ed artisti Barnes lo aveva già dimostrato nel recente Con un occhio aperto (Einaudi, 2019), raccolta di saggi dedicata ad alcuni tra i più importanti pittori degli ultimi due secoli, come Manet, Degas, Cézanne, Braque, Picasso e Magritte.

La narrazione di Barnes prende le mosse dal quadro Dr. Pozzi at home, dipinto da John Singer Sargent nel 1881, che l’autore ha potuto ammirare alla National Portrait Gallery di Londra nel 2015, dove era arrivato in prestito dall’Hammer Museum di Los Angeles. Colto in posizione frontale, la spalla destra leggermente calante, lo sguardo assorto rivolto alla destra del pittore, il dottor Pozzi è avvolto da una vestaglia rossa scarlatta, che si staglia cromaticamente sul tendaggio bordeaux posto sullo sfondo. Figura snella ed elegante, seppur in veste da riposo, il dott. Pozzi mette in mostra sapientemente le sue mani da chirurgo talentuoso, dita sottili e affusolate. Rimasto affascinato dalla rappresentazione un po’ teatralizzante di quest’uomo all’epoca celebre e oggi invece molto meno conosciuto, Barnes lo utilizza come chiave di volta, espediente narrativo fondante, facendo del racconto della sua esistenza esemplare il motore centrale del romanzo.

Chirurgo dal talento indiscutibile, attento agli sviluppi più recenti della disciplina nel panorama internazionale, cultore e conoscitore della materia, all’avanguardia nelle tecniche e nelle procedure nuove e sperimentali, Pozzi è stato a lungo il primario di chirurgia all’ospedale “Broca” di Parigi, nonché il primo ad aggiudicarsi la neonata cattedra di Ginecologia, istituita nel 1901, nonché medico di alcune tra le più nobili famiglie dell’alta società e di alcune tra le più eminenti e affermate personalità francesi del secondo Ottocento – aristocratici, attrici, scrittori, artisti, drammaturghi, politici. Esteta, uomo di mondo e dalle idee progressiste, affabile conversatore, fine collezionista d’arte (nella sua collezione Tiepolo, Turner, Delacroix e molti altri), il dott. Pozzi è parte integrante di una variegata quanto peculiare cerchia di dandy, decadenti, bohémiens, entro la quale spiccano per personalità e stranezza personaggi come il principe Edmond de Polignac e il conte Robert de Montesquiou, novello Petronio irascibile e vendicativo, arbiter elegantiae eccentrico e appariscente, protagonista occulto del libro. Rispetto ai suoi sodali, Pozzi è un “tipo” alla Byron, che conserva saldamente i pregi dell’essere colto, bello, adulato senza però soccombere agli eccessi, rimanendo sempre in equilibrio tra lavoro, famiglia e bel mondo. Intorno a loro gravitano altre figure di notevole spessore e chiara fama, come Oscar Wilde, Henry James, Sarah Bernhardt, James Abbott Whistler, Joris-Karl Huysmans, in un valzer affettato di intrighi, pettegolezzi, maldicenze e sofisticatezze che ben rappresenta le sfaccettature preminenti di una fenomenologia del dandismo franco-inglese.

D’altronde chi meglio di Barnes, di certo il romanziere britannico contemporaneo di maggior ascendenza francofila, poteva fornirci una panoramica suadente e veritiera sui vizi e le virtù che avvinghiavano ed esaltavano la Parigi del XIX secolo? La biografia del dottor Samuel-Jean Pozzi diventa ben presto solo un pretesto narrativo per gettare luce sulle vite, le esperienze, le vocazioni delle numerose persone che a lui sono collegate per vincoli di amicizia, affinità o conoscenza, secondo un moto alveolare crescente che ingrossa vorticosamente la portata e la profondità del panorama umano che abita le pagine del romanzo. Ecco che allora l’opera di Barnes, procedendo per accostamenti reticolari in una progressiva e fitta trama di echi, allusioni e rimandi interni, si trasforma in un gran palinsesto, stratificato e intertestuale, capace di dialogare in maniera sostanziale e atemporale con altri libri (miracoli della letteratura!), come À rebours di Husymans, Monsieur de Phocas di Jean Lorrein e il Journal dei fratelli Goncourt. L’uomo con la vestaglia rossa è dunque anche un libro-conversazione, dal tono posato, dal piglio arguto ed erudito, alimentato da una prosa asciutta e rigorosa e da una lingua raffinata, esuberante, ma sempre ponderata, formalmente assimilabile al contenuto, all’epoca e alle atmosfere prese a modello.

Nell’economia del romanzo grande spazio occupano le digressioni, le regressioni, le parentesi e gli incisi – tutto quello che caratterizza il movimento ondoso e multilaterale della letteratura – che però vengono costantemente recuperate sul piano principale del sostrato narrativo, una galleria di cartoline da un passato reale e al contempo irreale, sublimato dalle capacità trasfiguranti e trasgressive del dire letterario. Sullo scheletro basilare dell’opera – un’incursione prolungata nei meandri sfarzosi e umbratili della Belle ÉpoqueBarnes innesta altresì una estemporanea ricognizione storico-culturale sui rapporti ondivaghi tra Francia e Inghilterra, occasione privilegiata per sporadiche e mai pedanti considerazioni prospettiche sulle ingenti differenze che da sempre dividono i due popoli sul modo di considerare e vivere la sessualità, il matrimonio, la res publica, la moralità, la vita privata, l’esperienza del reale.

Ne vien fuori una lettura appagante e godibilissima perché anche nei passaggi maggiormente riflessivi, in cui la narratività dell’intreccio è ridotta a un lumicino intermittente, il periodare dell’autore rimane piacevole e ingegnoso, cesellato e cadenzato, ma ben lontano da un’autoreferenzialità pretenziosa e fine a sé stessa. La tensione comunicativa non viene vanificata dalle tendenze formalizzanti e dagli arabeschi del fraseggio. Inoltre, la resa narrativa degli ambienti è vivida, colorita, e la caratterizzazione dei personaggi, seppur fedele a connotati storicamente accertati, si sviluppa sempre oltre la mera sintesi fattuale e biografica, oltre la puntuale testimonianza documentaristica, per confluire poi in quel disavanzo costituito dalla pura letterarietà, dal gusto rappresentativo, dal gioco citazionistico e dalla verve della prosa, insomma da quegli elementi propri e caratteristici dell’atto romanzesco e del talento autoriale di Barnes.

Prescindendo dalle contingenze del narrato e dalle specifiche connotazioni storico-sociali, L’uomo con la vestaglia rossa diviene al contempo luogo di una riflessione universale sulla formazione dell’identità individuale e collettiva, sul farsi e disfarsi di mode estemporanee e durature, sui pregiudizi inossidabili e fatui, sul logorante e caleidoscopico esercizio d’essere sempre un altro e sempre sé stesso. All’interno di un’orchestrazione contrappuntistica, che alterna senza soluzione di continuità racconto e personal essay, Barnes è in grado di soffermarsi con leggiadria sulle contraddizioni che sorgono tra essere uomo e personaggio, sulla necessità di calzare maschere variopinte e antitetiche in base all’occasione e alla compagnia, sul dubbio amletico di piacere a sé stessi o ai propri simili, sul giogo vessatorio dell’ostracismo, sulle schizofreniche pratiche sociali di glorificazione e repulsione, sui meccanismi e sulle dinamiche latenti della fama e della celebrità, del successo personale, sui moti che si celano dietro invidie manifeste o malcelate.

Proprio in virtù di questa seconda pelle, che cresce in maniera contigua alla prima assecondando una traiettoria complementare e inclusiva, quello di Barnes, oltre ad essere un colto e raffinato divertissement,  è un libro che sfiora tangenzialmente la dimensione del politico. Non stupisce quindi la chiosa finale polemica e al vetriolo che conclude il volume, in cui l’autore inglese si rammarica per la Brexit e per le decisioni scellerate prese dai suoi concittadini e dalla classe politica attuale negli ultimi anni, rimpiangendo i tempi lontani rievocati nel romanzo, in cui ci si spostava in comitiva da Parigi per andare a fare pregiate compere a Londra e gli inglesi andavano in Francia per assaporare un po’ di sano libertinismo e discutere con accanimento e letizia di arte e letteratura.

 

(Julian Barnes, L’uomo con la vestaglia rossa, trad. di Daniela Fargione, Einaudi, 2020, 296 pp., euro 22, articolo di Niccolò Amelii)

 

copertina di Storia della violenza

Quando l’autobiografia diventa un fatto di cronaca

Mentre il premio Goncourt 2020 è stato assegnato a Hervé Le Tellier per il libro L’anomalia (La nave di Teseo, 2021), a discapito di quello che sembrava essere il favorito, Yoga di Emmanuel Carrère, scartato in seguito alle accuse legali della moglie, l’8 dicembre scorso è stato reso pubblico il verdetto del tribunale che ha incolpato di stupro Riadh B., il “Reda” di Storia della violenza (Bompiani, 2016), libro nel quale Edouard Louis racconta la sua aggressione.

 

Quando il dibattito critico – e la letteratura in generale – passano dai circuiti letterari al banco degli imputati, viene spontaneo interrogarsi su quella che Edouard Louis definisce come una «rivoluzione comparabile alla proliferazione del romanzo propria al diciannovesimo secolo». Su di un post pubblicato nel mese di settembre su Instagram e ripreso da alcuni quotidiani francesi, tra cui Libération, lo scrittore si felicita della fine della “finzione”: il romanzo è morto, la narrazione in prima persona l’ha divorato. Diversi libri accompagnano la didascalia della foto, tra cui quello di Annie Ernaux, Ocean Vuong, Deborah Levy e Patty Smith. «L’autobiografia è una delle forme più potenti politicamente», scrive il giovane autore che considera il genere come una delle forme più d’avanguardia per pensare il reale. Aggiunge poi come i tempi nei quali Zola scriveva di operai per mostrare la loro condizione siano finiti: «abbiamo accesso a tutte queste informazioni, non serve più un intermediario. Solamente l’io è attraversato dal mondo, dalla sua portata storica e sociale». Edouard Louis politicizza un’evidenza editoriale che in questi ultimi due mesi ha attraversato il dibattito letterario in Francia: il romanzo Yoga di Emmanuel Carrère. Barra al contempo quel luogo che poi è piuttosto un non-luogo del fare letterario – l’immaginario –, da Kafka a Gabriel Garcia Marquez, da Bolaño a Thomas Mann, dalla Kristof alla Munro.

Passiamo allora al caso Carrère. Recentemente, l’autore francese – conosciuto per alcune delle biografie più violente di questi ultimi anni, come quella dell’assassino Jean Claude Romand (L’Avversario, 1993) o dello scrittore russo Limonov (Limonov, 2011) – migrava verso il genere autobiografico e pubblicava il suo ultimo romanzo, Yoga (P.O.L, 2020), giusto in tempo per la rentrée littéraire, quel periodo che coincide con il ritorno sui banchi di scuola e che, nel milieu dell’editoria, vede gli editori stampare le migliori promesse e farli competere nei vari premi letterari. Tra ottobre e novembre si susseguono in Francia il Prix Médicis, Femina, Renaudot, Inter, Fnac, Giono, Flore, Deux Magots, il Goncourt e il Goncourt dei liceali. La selezione esce a ottobre, il vincitore è annunciato a novembre. Tutta la stampa letteraria ruota attorno a questi eventi, così come gli scaffali in libreria, e il più importante è sicuramente il Goncourt che corrisponde allo Strega italiano. Yoga non ha tardato a passare la prima selezione, tra elogi e record di vendite. Lo scrittore narra uno scorcio della sua vita, sviscera la depressione, l’internamento, l’elettroshock, poi la ripresa con la meditazione, lo yoga e un viaggio di qualche mese in un campo di migranti su di un’isola greca che lo ha portato verso la via della guarigione. Ma ecco che la seconda selezione del premio ha visto una battuta d’arresto: l’autore è stato scartato dalla lista dei finalisti. In causa, il processo con l’ex-moglie: su Vanity Fair, Hélène Devynck ha voluto chiarire la sua posizione. Oltre al fatto che Carrère ha firmato un contratto secondo il quale è obbligato a chiederle il consenso qualora volesse utilizzarla a scopi narrativi, la Devynck lo accusa di non aver presentato i fatti così come sono realmente accaduti. «La letteratura è quel luogo dove non si mente», scrive Carrère. Secondo la Devynck, la storia, presentata come autobiografica, è falsa. Emmanuel ha fatto della sua malattia psichica una descrizione compiacente: «il lettore potrà così credere che dopo il ricovero, l’autore ne esce grazie ai due mesi trascorsi tra i rifugiati a Leros, peccato però che i due mesi siano durati solo qualche giorno e hanno avuto luogo prima, e non dopo il ricovero». Sorge, da questa disputa legale, il dubbio di quanto ci sia di vero e di autentico in un’autobiografia. E se l’io sia una messa in scena o una postura (o impostura) letteraria?

La questione è del resto lungi dall’essere una novità, come mostra per esempio la diatriba che ha accompagnato per anni gli studi ariosteschi: a lungo si è pensato che le Satire fossero una serie di missive di stampo autobiografico dedicate al cardinale Ippolito d’Este, mentre studi recenti hanno evidenziato che si tratta di componimenti letterari. Allo stesso modo, lo scrittore polacco Witold Gombrowicz ha redatto non uno, bensì due diari: il primo – pubblico – è uscito mensilmente sulla rivista dell’emigrazione polacca “Kultura”, l’altro – Kronos – è invece rimasto inedito fino a poco tempo fa e ha rivelato l’immagine di un Gombrowitcz ben diverso, più intimo, ipocondriaco, spocchioso. È qui che l’autore sonda le perversioni, la bisessualità, la promiscuità, poi la malattia, la routine quotidiana, la paura della morte. Gli esempi, insomma, di questo passaggio tra vita e letteratura, tra finzione e auto-finzione, sono numerosi (non a caso lo stesso Gombrowicz aveva trovato ispirazione in un’altra autobiografia romanzata, quella di André Gide).

D’altronde, proprio Edouard Louis negli scorsi mesi è stato oggetto di cronaca: si è da non molto chiuso il processo di Riadh B, personaggio che appare nel romanzo intitolato Storia della violenza, accusato – nella vita reale – d’aggressione sessuale dal giovane autore francese. In aula, giudici e avvocati sono alle prese con diverse narrazioni: quella del romanzo, che si è sostituita alla parola dello scrittore – assente al processo –, quella di un amico dell’accusato, che parla di “complicità amicale”, e quella dell’indagine, che ha proceduto a tentoni tra testimonianze e finzione letteraria. I fatti: il 24 dicembre 2012, rientrando da una cena di Natale, Edouard Louis incrocia Riadh B., che si fa chiamare “Reda”. Sono le tre del mattino. «Sei bello», dice l’algerino. Edoaurd Louis lo invita a salire da lui. I due bevono vodka e fanno l’amore più volte. Nella denuncia sporta l’indomani, Edoaurd Louis evoca dei “rapporti consenzienti e protetti”. Dopo però i fatti si complicano. Uscito dalla doccia, Edoaurd Louis si accorge di non avere più né il tablet, né il telefono, e accusa “Reda” di furto. L’altro tenta di strangolarlo con una sciarpa e, dopo averlo minacciato con un’arma, lo penetra con forza senza preservativo. Il mattino seguente, Edoaurd Louis si reca all’ospedale per prendere una triterapia preventiva ed evitare i rischi di contagio dall’AIDS. Il pomeriggio, Didier Eribon e Geoffroy de Lagasnerie lo convincono a denunciare l’accaduto. La perizia medica realizzata l’indomani rileva delle ecchimosi su diverse parti del corpo, il collo soprattutto, e delle lesioni anali. Lo stesso giorno, nell’appartamento di Edoaurd Louis, la polizia recupera il DNA del sospetto. Solamente cinque anni dopo, nel gennaio 2016, quando Riadh B. sarà arrestato per un affare di stupefacenti e il suo DNA prelevato, se ne ritroveranno le tracce. Incarcerato in detenzione provvisoria, sarà liberato undici mesi dopo. Per una coincidenza di calendario, lo stesso mese, Edouard Louis pubblica Una storia della violenza.

Alla barra degli accusati, Riadh B. ammette di aver avuto con la vittima una relazione «focosa ma non brutale» e nega lo stupro. Didier Eribon, chiamato a testimoniare, evoca in aula le insonnie e i sonniferi che la vittima prende per dormire, «l’ha descritto nel suo romanzo», aggiunge, mentre nella sua arringa il magistrato Emmanuel Pierrat ricorda i propositi del cliente fatti durante la promozione del libro: «La mia ossessione era di scrivere la verità». «Non siamo qui per parlare del libro – risponde il giudice – ma solo dei fatti», ciononostante il romanzo è onnipresente nel processo, al punto che l’avvocato di Riadh B. si appella alle conclusioni della psicologa: «Edouard Louis gioca con l’immaginario e rischia di perdersi». Il caso è stato archiviato a favore della vittima: il procuratore ha chiesto quattro anni di prigione per Riadh B. La deliberazione è stata resa nota l’8 dicembre.

Ma lasciamo da parte il caso giuridico e torniamo alla finzione: perché si dovrebbe parlare di fine del romanzo – per riprendere il proposito di Edouard Louis – per legittimare la corrente letteraria di cui si è fatto il portavoce? È indubbio che Storia della violenza sia un testo lodevole per la scrittura diretta, cruda, senza poesia, immediata così come immediata è la violenza, che non concede abbellimenti né retorica. Ciononostante, la forza della sua esperienza può considerarsi una ragione valida per svalutare la potenza dell’immaginario? A tal proposito, vale la pena di terminare questa riflessione facendo appello a un altro testo che gioca sulla dimensione ambivalente della verità, la Trilogia della città di K (Einaudi, 1998) di Agota Kristof. Si tratta di un libro splendido ma devastante. Vi si narra la storia di due fratelli (o forse si tratta di uno solo?), dei traumatismi della guerra, della violenza dell’abbandono, della morte. Verso la fine, qualcuno domanda a uno dei due se abbia scritto la verità oppure abbia inventato tutto. Al ché lui risponde: «cerco di scrivere delle storie vere, ma, a un certo punto, la storia diventa insopportabile proprio per la sua verità e allora sono costretto a cambiarla. Le dico che cerco di raccontare la mia storia, ma non ci riesco, non ne ho il coraggio, fa troppo male. Allora abbellisco tutto e descrivo le cose non come sono accadute, ma come avrei voluto che accadessero».

La vera storia di Sutton Hoo

Può capitare che il protagonista di un film non sia una persona, ma una situazione, un evento o addirittura un oggetto. In La nave sepolta (omonimo adattamento del romanzo di John Preston) è uno scavo archeologico, intorno al quale si intrecciano rapporti e nuove relazioni.

Tradotto forse con troppa leggerezza, il titolo originale The dig mette al centro il vero soggetto di questa che sembra quasi una pièce teatrale trasposta sul piccolo schermo di Netflix: lo “scavo” di Sutton Hoo, nella contea inglese del Suffolk, territorio scelto dagli anglosassoni 1400 anni fa come luogo di sepoltura reale.

I personaggi si muovono quasi con circospezione di fronte a una scoperta archeologica straordinaria, che ancora oggi suscita non poche domande. Dopo la seconda guerra mondiale, infatti, il sito è stato a più riprese oggetto di ulteriori scavi e analisi storiche. La grande nave funeraria lunga 27 metri, fatta risalire lungo il fiume Deben, è solo uno dei resti datati VII secolo dopo Cristo.

Gli oggetti portati alla luce mostrano un’abilità artistica davvero sorprendente, con l’utilizzo di materie prime importate già allora dalle Indie, oltre che una particolare sensibilità verso la cura dei defunti.  

La formazione teatrale del regista, Simon Stone, è fondamentale nel processo di narrazione intorno ai diciotto tumuli presenti nella proprietà della giovanissima vedova Edith May Pretty (Carey Mulligan). Spinta da una forte passione di famiglia, perché certa che nascondano qualcosa, la donna – nel 1939 – si affida all’archeologo autodidatta Basil Brown (Ralph Fiennes), pioniere assai modesto di un sito ancora oggi visitato.

Conservati al British Museum, a cui la stessa Edith donò i reperti, i manufatti di Sutton Hoo confermano che il Medioevo non è stata l’età buia che si volle far credere nel XV secolo, quando le fu attribuito questo nome per rimarcarne la differenza rispetto a Rinascimento e Umanesimo, culla di una nuova età classica. Posto in mezzo tra la fine dell’Impero Romano (476 d.C.) e la scoperta dell’America (1492), il Medioevo è stato accusato di “inferiorità” rispetto ad altre epoche apparentemente più ricche e floride, associato spesso a eventi considerati negativi, come le invasioni barbariche del V secolo o la peste nera a metà del 1300.

In realtà, senza di esso, le scienze umane avrebbero avuto tutt’altro corso, e non solo. Il Medioevo italiano, per esempio, conta tra i letterati Dante, Petrarca e Boccaccio; in campo filosofico-teologico pensatori come Tommaso D’Aquino; per la geografia Il milione di Marco Polo eguaglia in diffusione la Bibbia degli amanuensi. In Inghilterra, invece, la dissoluzione dell’Impero Romano favorisce l’arrivo, attraverso il Mare del Nord, di “nuovi conquistatori” da Paesi Bassi, Germania e Scandinavia, che metteranno le basi alla definizione degli anglosassoni e della lingua inglese.

La nave sepolta propone allora un messaggio fondamentale, sottolineato con troppa poca forza: ogni “luogo di morte”, fisico o interiore, porta con sé tutto il carico del passato, ricordandoci che senza di esso il futuro non avrebbe motivo di esistere.

(La nave sepolta, di Simon Scott, 2021, storico, 112’)

 

Sbagliando non si impara di Garofalo

Quanto è razionale la mente?

La razionalità, lo sappiamo, non è tutto nella vita. Eppure, quando dobbiamo fare una scelta, ci illudiamo di farlo in modo scientifico, puntando con consapevolezza alla massimizzazione del nostro benessere. Per non parlare dell’economia mainstream, che presuppone egoisti e razionali tutti gli esseri umani e su questa premessa fonda i suoi modelli. Si tratta però di illusioni ingenue: il mondo attorno a noi continua a parlare facendo appello principalmente alle nostre emozioni, e solo così riesce a ottenere la nostra attenzione e a guidare le nostre scelte. Non possiamo ignorare che viviamo nell’epoca dell’emozione portata agli estremi, del marketing aggressivo e iper-targettizzato, delle bolle social, né fingere che tutto questo coinvolga solo gli altri, e non noi.

Prima di prendere decisioni, piccole o grandi, che influenzano la nostra vita, forse è bene fare un bel respiro e cercare di capire quali meccanismi il nostro cervello mette in atto quando deve valutare fra diverse opzioni, e se questi meccanismi siano positivi o meno per raggiungere i nostri obiettivi (sempre se siamo in grado di capire che cosa vogliamo davvero). Non è facile: come esseri umani siamo progettati per sbagliare, gli errori del pensiero sono connaturati in noi ed è arduo non caderci. Anche perché il solo riconoscerli vorrebbe dire ammettere in primo luogo la nostra fallibilità, e poi anche la presenza costante del nostro lato emotivo.

Possiamo, in questo tira e molla tra razionalità e impulso che viviamo tutti indiscriminatamente, ma di cui siamo più o meno inconsci, riconoscere i nostri errori e non compierli più? Secondo Sara Garofalo, autrice di Sbagliando non si impara (il Saggiatore, 2020) si può, almeno in parte.

Nella sua guida agli errori del pensiero Garofalo – divulgatrice scientifica e ricercatrice che si occupa di apprendimento per rinforzo, statistica e scienze cognitive – espone i più comuni bias cognitivi e le euristiche, ovvero le scorciatoie, a cui il nostro cervello tende ad affidarsi quando dobbiamo arrivare una decisione. Non lo fa con un puro intento informativo, ma con l’auspicio che i lettori, grazie alle nozioni apprese di capitolo in capitolo, imparino ad allenare la mente per evitare questi errori o almeno accorgersene.

Allenare la mente: perché non esistono vie di fuga o pozioni miracolose per non sbagliare più. Per fare le scelte giuste e per non cadere più in abbagli cognitivi o condizionamenti nessuno può sperare di astrarsi completamente dai propri meccanismi di pensiero, e gli errori di percezione possono sempre ripresentarsi, a prescindere dalle conseguenze negative che ci hanno fatto sperimentare. Tutto ciò che possiamo fare – esattamente come quando vogliamo rimodellare la nostra forma fisica, migliorare nell’uso di una lingua straniera o affinare le nostre doti in qualsiasi campo – è allenarci con costanza per ottimizzare le risposte della nostra mente ai tanti input quotidiani: che si tratti di comprare un computer nuovo, decidere se lasciare la fidanzata o semplicemente pensare a cosa mangiare per cena. E se vogliamo allenarci con cognizione di causa, orientando i nostri sforzi nella giusta direzione, il libro di Sara Garofalo è un ottimo punto di partenza, e un manuale a cui tornare in caso di dubbi.

Sbagliando non si impara tocca ambiti molto diversi: dall’avversione alla perdita, che ci porta a decidere per il futuro guardando troppo al passato, all’illusione di scegliere seguendo un ragionamento matematico quando in realtà siamo influenzati da condizioni esterne che con il nostro obiettivo non c’entrano nulla; dalla nostra vulnerabilità alle più diffuse tecniche di marketing alla scarsa capacità di considerare gli effetti a lungo termine delle nostre decisioni.

Grazie a un ampio repertorio di numeri e acquisizioni scientifiche, Garofalo si diverte a far crollare le certezze del lettore, per spiegare poi su quali nuove basi è possibile ricostruirle. Le teorie e le analisi sui bias cognitivi e le situazioni-tipo trattate nel libro non sono novità per chi si occupa di scienze statistiche e cognitive: l’autrice non introduce nessun tema innovativo o eclatante; il suo pregio sta piuttosto nell’efficacia della forma argomentativa e nell’intento di proporre un vero e proprio manuale, non solo un saggio.

Poiché non possiamo sempre affidarci alla sola logica – non essendo fatti di sola logica – Sara Garofalo si affida a tre metodi diversi per spiegare e raccontare gli errori che commettiamo. Il primo è quello classico del saggio. Il secondo è la narrazione, perché non bastano argomenti e dati, servono anche storie che diano forma alle teorie rendendole umane, perché, con le parole della stessa Garofalo «La mente umana cerca, crea e si evolve grazie alla narrazione. […] Le storie ci insegnano concetti elaborati con una forza e un’efficacia paragonabili a pochi altri strumenti; funzionano come un simulatore in cui la nostra mente si allena a risolvere problemi e situazioni complesse nelle quali potremmo ritrovarci». Il terzo metodo è costituito dagli esercizi, con cui il lettore può cimentarsi per valutare i propri specifici meccanismi di pensiero.

Sempre imperniato su solide basi teoriche scientifiche, questo stile di divulgazione ibrido è efficace e divertente. Stimola il lettore a mettersi in gioco in prima persona, a cercare nella sua mente le situazioni in cui si è imbattuto in errori e dilemmi tipici e come ne è uscito, ma anche a capire come cambiare il suo ambiente per non cadere più nelle solite trappole. Io, per esempio, dopo aver letto questo libro, la sera ho deciso di lasciare il cellulare a caricare la batteria in una stanza diversa da quella in cui dormo, così da non essere attirata dal led delle notifiche la mattina appena sveglia e prima di assopirmi. Semplice no? Eppure non mi ero mai convinta a farlo, ci voleva Sbagliando non si impara.

In definitiva, con il suo libro Sara Garofalo offre gli strumenti giusti per allenare la mente a riconoscere i propri errori e cercare di evitarli, tenendo fede all’auspicio espresso nell’introduzione: «Il mio augurio è che le soluzioni – e le risoluzioni – che incontrerai lungo questo percorso potranno tornarti in mente in futuro, quando ne avrai bisogno; che, una volta presa coscienza degli errori causati dalle nostre scorciatoie mentali, sia più facile individuarle anche in altri contesti, in modo da schivarle in tempo. O, perché no, lanciarcisi dentro a piedi uniti, con consapevolezza totale. In fondo pochi piaceri sono deliziosi come lo scivolare in un errore sapendo a cosa si va incontro».

 

(Sara Garofalo, Sbagliando non si impara. Perché facciamo sempre le scelte sbagliate in amore, sul lavoro e nella vita quotidiana, il Saggiatore, 2020, 216 pp., 14 euro, articolo di Elisabetta Sangiorgio)

 

copertina di L'uomo di latta

O capitano, mio capitano!

Capita ancora di bere un bicchiere di vino con un amico che ti suggerisce di leggere un romanzo che a lui è piaciuto parecchio. Poi, prima che le regole Covid ti costringano a tornare velocemente a casa, gli prometti di leggerlo e di dirgli che ne pensi. Il romanzo è di Sarah Winman, il titolo è L’uomo di latta, per la traduzione di Marco Rossari, Mondadori l’editore. In poco meno di 170 pagine, Winman riesce a raccontare un intero mondo di «libertà. Possibilità. Bellezza», di amore e amicizia, ma anche di struggimento, di occasioni perse, di tempo irrimediabilmente fuggito. Inoltre è un romanzo che contiene tantissima musica, che andrebbe ascoltata mentre si legge, da David Bowie a Donna Summer, per arrivare agli Oasis, solo per citarne alcuni.

L’uomo di latta si apre con un prologo, per poi proseguire con due parti distinte fra loro. Nel prologo leggiamo di una ribellione, quella di Dora nei confronti del marito Leonard, durante una riffa al centro ricreativo di Cawley, Oxford, 1950. Dora vince quella riffa e può scegliere tra un whisky d’annata, che farebbe la felicità del marito, o una copia dei girasoli di Van Gogh. Nonostante Leonard le gridi di prendere lo scotch, lei afferra il quadro; così quello «fu il suo primo gesto di ribellione. Come tagliarsi un orecchio. E lo fece in pubblico». Il quadro, i girasoli e Van Gogh diventano il fil rouge che accompagna l’intera narrazione.

Nella prima parte si salta al 1996, il protagonista è Ellis, il figlio di Dora, morta quando lui aveva solo dodici anni. Quel lutto, ovviamente, è un punto di svolta nella vita di Ellis, è la fine della sua infanzia. Infatti se fino ad allora, sostenuto dalla madre, sognava di diventare un pittore, con quella riproduzione di Van Gogh a campeggiare sulla parete della ribellione di Dora, ora si ritrova da solo col padre che gli intima la sera stessa di ritirarsi dagli studi e a mettersi a lavorare. Qui compare Michael, dodicenne come Ellis, suo amico – anzi migliore amico. È lui il primo a lenire il dolore di Ellis, in un’amicizia tanto forte da sfociare in un vero amore adolescenziale. Si attraversa così l’Inghilterra industriale degli anni Sessanta poi della crisi degli anni Settanta, infine del thatcherismo.

Al presente della narrazione Ellis cerca di rimettere a posto i tasselli, ora che anche lui è vedovo e ha quasi cinquant’anni. Lavora nella fabbrica automobilistica di Cawley, e la sua mansione è di verniciatore – quasi un contrappasso del suo desiderio di diventare pittore. La sua è stata una vita di dolori, di sogni e amore repressi, è sopravvissuto creandosi una corazza – da qui, e non solo, L’uomo di latta – che lo ha condotto a una continua rimozione. Ma una sera, mentre torna dal lavoro in bicicletta, viene investito. Non è niente di grave, ma l’incidente è il clic che covava da tempo. Si licenzia dalla fabbrica e prova a rimettere in piedi la vita, quella vita che sognava da ragazzino. Per prima cosa torna alla casa paterna e chiede di riavere il famoso quadro di sua madre, che Leonard aveva provveduto subito a far sparire alla morte della moglie. Appena lo rià fra le mani lo osserva e pensa che «l’originale era stato dipinto da uno degli uomini più soli al mondo», come adesso lo è lui.

Ellis si chiede dove siano «finiti gli anni», il tempo scivolato via: i tredici anni d’amore con Annie, l’amicizia con Michael. Prova per la prima volta a non «scacciare il pensiero» della notte in cui i due sono morti in un incidente stradale – una maledetta sera in cui Ellis aveva deciso di restare da solo a casa, mentre moglie e amico andavano a ascoltare una lettura dell’opera di Walt Whitman. Gli tornano, allora, alla mente dei versi che Michael amava ripetere: «O Capitano! O mio capitano! Il nostro temibile viaggio è terminato…». Si ricorda che stava ascoltando Chet Baker, in attesa che Annie e Michael rientrassero a casa, e aveva anche «pensato a quant’era fortunato ad amarli». Finalmente con coraggio per la prima volta fissa nella mente quello che era stato «il mondo dove aveva vissuto tra il momento in cui stava accadendo e il momento in cui l’aveva scoperto». Quindi ricorda l’arrivo della polizia, il riconoscimento dei cadaveri, la scoperta in quell’istante che Michael era malato, aveva l’Aids, e lui non lo sapeva; non sapeva più niente del suo amico.

Nella seconda parte del romanzo Sarah Winman cambia voce e prospettiva. La narrazione passa in prima persona attraverso il racconto di Michael, per la precisione il suo diario. Si svela così tutto ciò che il narratore esterno della prima parte, nell’osservazione di Ellis, aveva tenuto celato, aveva di continuo frenato. Si liberano le reticenze e i colori e le pennellate diventano quelle vangoghiane.

Siamo tra il 1989 e il 1990, poco prima dell’incidente che gli stroncherà la vita. Michael assiste G, un suo amante, malato terminale di Aids. Mentre è lì, in ospedale, parla con un altro paziente, un ragazzo di diciannove anni, anche lui gravemente malato; e si ritrova così a confessargli del suo unico vero amore, che non è G, ma è Ellis. Michael allora descrive sul suo diario il loro rapporto e amicizia fino al giorno in cui quel legame misto di tenerezza e comprensione diventa qualcosa di più durante un viaggio in Provenza, quando sono poco meno che ventenni. Quei nove giorni segnano Michael, che da allora non riuscirà a amare più nessuno. Al contempo, però, deve accettare che Ellis non dia seguito a quella loro relazione, che cominci a rimuovere, fino addirittura a «non ricordare niente», si accontenta di restargli amico, finché entra in scena Annie che Ellis sposa. Così si ripropone lo schema di una laison a tre, laddove prima c’era Dora, ora c’è Annie.

Michael seguita a ricordare e raccontare. Parla della sua fuga a Londra, in cui tradisce quella laison, fino a sparire dalla vita di Ellis e Annie. Finché un giorno, dopo aver assistito alla fine di G, capisce di essere malato a sua volta. Allora parte per Arles, sui passi dell’ultimo Van Gogh, della sua relazione con Gaugin. Rimane un’intera estate, lavora in un mas davanti a un campo di girasoli; pulisce le camere e i turisti lo chiamano Monsieur Triste. E lui si sente «goffo e profondamente» solo. Allora decide di tornare a Cawley da Ellis e Annie. L’epilogo lo conosciamo.

La bravura di Sarah Winman non passa solo attraverso una storia malinconica e commovente, raccontata con sapienza e capacità di gestire tempo e struttura narrativa, ma si rivela anche nell’attenzione di differenziare il registro stilistico tra la prima e la seconda parte. Se la narrazione esterna di Ellis è metallizzata, lucida, secca e reticente come lo è quell’uomo di latta, al contrario l’io narrante di Michael è sofferto, viscerale, colloquiale e poetico come è lui.

 

(Sarah Winman, L’uomo di latta, trad. di Marco Rossari, Mondadori, 2021, pp. 165, euro 17, articolo di Fernando Coratelli)