Copertina di Ferdydurke di Gombrowicz

L’incanto mostruoso dell’immaturità

La parola Ferdydurke, in polacco, non vuol dire niente – si ispira probabilmente al nome di un personaggio di Babbitt di Sinclair Lewis, o forse a un’eccentrica espressione francese. In realtà, però, è proprio la sua bizzarra assenza di significato, il suo nonsense misterioso, a adattarsi bene al tono grottesco del romanzo di Witold Gombrowicz. Ferdydurke, pubblicato nel 1938, assomiglia fin dalle prime pagine a un’esibizione da circo, ma anche a un sofisticato atto di tortura: è una parodia violenta e sgangherata della Polonia del tempo, una premonizione della tragedia in cui l’Europa stava per crollare. È il caos della letteratura che svela, e anticipa, quello della realtà: d’altronde nel romanzo di Gombrowicz ci si trova di continuo di fronte a immagini confusionarie, a lotte dove i corpi si ingarbugliano l’uno con l’altro, a smorfie, facce deformate, ridicoli ma rischiosi duelli intellettuali.

Ferdydurke, tra i libri più significativi del Novecento, è da poco stato ripubblicato da il Saggiatore, che negli ultimi anni ha riproposto varie opere dello scrittore polacco: la particolarità di questa edizione è che alla traduzione di Irene Salvatori ha contribuito anche Michele Mari, che ha ricreato in italiano tutta la complessità e la schizofrenia linguistica del testo originario.

Giuso, il protagonista del romanzo, è un trentenne che non si sente ancora accettato dal mondo degli adulti; dopo una notte tormentata gli si presenta in casa un ometto dall’aria severa: si tratta del professor Pimko, che decreta inderogabilmente che Giuso debba tornare a scuola; l’uomo regredisce così all’adolescenza – non nel corpo ma nella percezione che il mondo ha di lui. La sua rocambolesca avventura di trentenne-liceale si articola a questo punto in tre atti. Prima di tutto Giuso si ritrova tra i banchi della scuola, che Gombrowicz descrive attraverso l’inutile teatrino delle lezioni: i professori sono apatici, gli alunni annoiati, i programmi tediosi; è tutto fasullo, imposto una volta per tutte, e niente può essere messo in discussione. La propria presunta maturità viene percepita dagli adulti (gli educatori) solo in contrasto all’immaturità degli adolescenti; i professori descritti da Gombrowicz, infatti, non sono altro che maschere informi, e acquistano una precaria identità unicamente all’interno della fatiscente istituzione scolastica.

Il tema della forma e dell’identità verrà affrontato con costanza durante il corso del romanzo: nella seconda parte Giuso va a vivere in una famiglia della borghesia polacca che si atteggia a moderna e progressista; finisce poi per regredire ancora di più all’infanzia tra le grinfie «ziesche» della nobiltà terriera, tutta intrisa di paure e falsi valori. Ogni evento fa parte della stessa spirale folle con cui Gombrowicz racconta il paradossale infantilismo di una società ipocrita e ottusa, fieramente convinta della sua maturità – cioè di possedere un volto, una forma definita.

Tra una parte e l’altra Gombrowicz inserisce due intermezzi simili a parabole, che dovrebbero racchiudere il significato profondo del romanzo ma che finiscono per esaltare ancora di più la potenza del caos e dell’informe: nel primo intermezzo si racconta dello scontro mortale – e spassoso – tra due professori, il maggior paladino della Sintesi e quello dell’Analisi; nel secondo una serie di eventi casuali durante una partita di tennis conduce alla confusione più totale, che ha il suo picco nel vagito di un bambino, chiaro simbolo di un’immaturità onnipresente e vittoriosa.

Quello dell’immaturità, in Ferdydurke, è però un concetto ambiguo. La società polacca di Gombrowicz, nel suo pensarsi saggia e adulta – nel progressismo della borghesia come nel conservatorismo della nobiltà –, non fa altro che atteggiarsi, ostentando un insieme di pose ridicole. È l’immaturità travestita da maturità; sono i bambini che fingono di essere adulti. Il gioco delle apparenze è infatti ossessivo, e i personaggi si sentono continuamente osservati e giudicati, nel terrore costante di perdere lo status che li contraddistingue. È proprio lo sguardo dell’altro a distorcere i lineamenti, a rendere i volti orridi, alterandoli in smorfie sempre più marcate.

Ferdydurke è insomma una critica sociale sotto forma di satira, ma anche una stravagante indagine esistenziale. L’immaturità non è solo la peculiarità di un mondo smarrito tra finte ideologie e ormai sull’orlo del baratro; immaturo è l’individuo informe, che non può essere mai un tutt’uno con sé stesso, che non può raggiungere la coerenza senza atteggiarsi oppure sformarsi del tutto.

Cosa rappresenta allora l’immaturità di Giuso? È un’imposizione della società che non vuole accettarlo nel novero degli adulti, oppure la sua è in fondo una regressione volontaria? Si tratta forse di un’immaturità positiva, più autentica proprio perché palesata? Giuso è un personaggio capriccioso incapace di responsabilizzarsi, un ipocrita come tutti gli altri o magari un ribelle? L’adolescenza perenne, forse, è l’unica scelta sensata in un universo che ha le fattezze di un incubo buffonesco – un universo nel quale, a conti fatti, è meglio non diventare mai adulti.

Di conseguenza, è l’opera stessa di Gombrowicz, la sua struttura romanzesca, a presentarsi come informe: Ferdydurke è un insieme di parti irregolari, non combacianti, in cui predominano stravaganze stilistiche e giochi di parole (emblematiche le mille variazioni del termine «culo», che scandiscono ossessivamente il ritmo della storia); è un vortice disordinato di realismo e follia, una satira tragicomica dove morte e vita, risata e dramma, si perdono l’una nell’altra; in fin dei conti, Ferdydurke è un tentativo di rappresentare il caos accettandone tutte le sue beffarde declinazioni.

Sarà la storia stessa del libro, d’altronde, a essere contrassegnata da un destino tipicamente gombrowicziano: partito per l’Argentina come giornalista, lo scrittore vi sbarcherà a pochi giorni dall’invasione nazista della Polonia; deciderà quindi di fermarsi e rimarrà lì per ventiquattro anni. Per farsi conoscere nell’ambiente intellettuale argentino intraprenderà lui stesso, con l’aiuto di un gruppo di suoi allievi, la traduzione di Ferdydurke; il problema era che Gombrowicz parlava male lo spagnolo, mentre gli allievi non conoscevano il polacco. Con il francese come unico punto di incontro, il romanzo, per forza di cose, cambierà forma durante la traduzione, si stravolgerà in una paradossale esaltazione della sua filosofia.

Ferdydurke, a più di ottant’anni dalla sua prima pubblicazione, è dotato di un’attualità paradossale, a tratti inquietante; l’ironica descrizione dell’universo scolastico, per esempio, così come il progressismo di facciata della borghesia, appaiono più contemporanei che mai. Ancora più lampante, nella sua modernità, è l’immagine di Giuso, il trentenne impossibilitato a crescere, intrappolato in un’adolescenza perenne, con il mondo intorno che fa di tutto per ricordargli la sua colpevole immaturità. La società polacca degli anni Trenta ha insomma molto in comune con la nostra; o forse le smorfie di Ferdydurke deformano da sempre – e per sempre – le nostre facce.

 

(Witold Gombrowicz, Ferdydurke, trad. di Irene Salvatori e Michele Mari, il Saggiatore, 2020, 336 pp., euro 22, articolo di Claudio Bello)

 

Poster di Notizie del mondo

Quando la speranza fiorisce dalle macerie del passato

Texas, 1870. Cinque anni dopo la fine della Guerra di Secessione, il capitano Jefferson Kidd – un’impeccabile Tom Hanks – attraversa lo Stato per raccontare le notizie. In questo viaggio itinerante incontra Johanna – la sorprendente Helena Zengel –, e decide di accompagnarla dagli ultimi parenti rimasti in vita.

Basato sull’omonimo romanzo di Paulette Jiles  pubblicato in Italia da Neri PozzaNotizie dal mondo si propone come un western contemporaneo, almeno a livello figurativo. Da un punto di vista più strettamente ideologico, il nuovo film di Paul Greengrass si discosta totalmente dalla serie di Jason Bourne, rinsaldando l’accoppiata con Tom Hanks dopo il successo di Captain Phillips, per affrontare il delicato tema dell’integrazione razziale nell’America di fine Ottocento. Che è poi un pretesto per raccontare implicitamente ciò che accade ancora oggi.

La questione corre su vari piani, diligentemente amalgamati fra loro dal regista, la cui abitudine al genere thriller rende il film molto scorrevole.

Prima di tutto c’è un problema politico, dato da un conflitto il cui ricordo è ancora troppo fresco, e i cui effetti poco visibili: sebbene la secessione non abbia avuto luogo, la pratica schiavista non si dissolve con la fine della guerra civile. Anzi, gli animi risultano stanchi delle lotte, ma saldi nelle proprie convinzioni.

Il capitano Kidd, nelle sue affollate assemblee di “paese”, legge le notizie dai giornali, proponendosi come mediatore tra le voci più accalorate. Si impone, infatti, come divulgatore di una società preda di ferventi cambiamenti: si guardi, ad esempio, al giornalismo dell’epoca, che vede nascere la figura del corrispondente di guerra, mentre l’uso del telegrafo conduce le “cinque W” nell’attacco degli articoli stampati. Pur non essendo prettamente del mestiere, Kidd diventa il mattatore della scena mediatica del Texas di allora, una specie di antesignano del moderno storyteller: le notizie sono una scusa per calmare gli animi, tentando di condurli a una risoluzione pacifica dei contrasti ancora fortissimi.

Da un punto di vista sociale, le pieghe violente che assumono i toni e i gesti dei bianchi texani nascondono un chiaro rimando a quello che leggiamo ancora oggi tra le notizie. In tempi recentissimi le destre più estreme sono rifiorite, portando a galla quei sentimenti di superiorità razziale che sembravano essere stati sconfitti con la Seconda Guerra Mondiale.

Che siano rivolte contro i neri, o qualsiasi altra minoranza, la rabbia e la violenza sono costruttrici soltanto di morte e desolazione. Non a caso lo stesso capitano, quando sembra imbrigliato dalle minacce di un leader fortemente discriminatore, intuisce il vero desiderio di chi lo ascolta: non l’apologia del potere, ma la condivisione di storie umane e rassicuranti.

Sta forse in questa sua eleganza nella gestione dei rapporti umani l’attrazione che porta la piccola Johanna ad affidarsi a lui per il suo viaggio di ritorno in quella che non sarà poi la sua “vera” casa. Due nomi sconosciuti scritti su un pezzo di carta non rappresentano nulla per una bambina adottata dai Kiowa (società delle praterie nordamericane, insediatasi poi in Colorado e Oklahoma, dove conduce insieme con i Comanche una sanguinosa guerriglia contro i coloni del Messico settentrionale e del Texas) dopo l’uccisione dei genitori tedeschi a opera della stessa tribù di nativi d’America.

Pur non comprendendosi linguisticamente, il capitano e Johanna si trovano e si scelgono, decidendo poi di rimanere insieme, incapaci di rinunciare a un rapporto nato nel silenzio, e cresciuto nella curiosità che li spinge a conoscersi. Lui viene colpito dalla sua profonda saggezza, nonostante i capelli arruffati e i modi un po’ buffi: arriva a capirne i gesti immensi quando descrive la sua idea di vita e di mondo. I loro sguardi insegnano che un incontro vero fra culture è possibile davvero: un uomo bianco e una bimba cresciuta con gli indiani possono diventare davvero un padre e una figlia.

(Notizie dal mondo, di Paul Greengrass, 2021, western, 118’)

 

Cover di non morire boyer

Il nostro comune incidente

Leggo sul profilo Facebook di un noto intellettuale italiano che Non morire (La nave di Teseo, 2020), il memoir sull’esperienza del cancro al seno di Anne Boyer (vincitore del Premio Pulitzer 2020 nella categoria General Non-fiction), è un libro che non l’ha convinto perché sembra cavalcare «l’idea che la letteratura sia intelligenza, osservazione acuta». Il memoir di Boyer sarebbe troppo preciso, troppo adorno di riflessioni, troppo accurato, troppo intelligente. Mentre – continua nella recensione – sono le opere che trasudano «distorsione, ottusità, omissione, ipermetropia, ossessione, ironia, follia, abisso» a emozionarlo come lettore.

Preciso, riflessivo, accurato, intelligente: se queste sono le accuse, il libro di Boyer è decisamente colpevole. Non morire nasce nel 2014 quando Boyer, poetessa e saggista quarantunenne che lavora come insegnante e vive con sua figlia nella periferia di Kansas City, scopre di avere il cancro. Un carcinoma mammario triplo-negativo che sta crescendo nel suo corpo quattro volte più veloce dell’espansione considerata «altamente aggressiva».

Per curarsi e sopravvivere, Boyer passerà attraverso una chemioterapia a dose-dense, poi deciderà di cambiare medico accettando di sottoporsi a un controverso trattamento chemio per affrontare il suo particolarmente feroce tipo di cancro; finirà il protocollo sanitario con una doppia mastectomia che, negli Stati Uniti, è considerata alla stregua di una procedura medica standard. Il giorno dopo l’operazione, infatti, un’infermiera la inviterà a lasciare il posto letto: «Dopo l’operazione, le dimissioni mi parvero premature e violente […]. Ma nessuno ti chiede mai come farai non appena ti dimettono forzatamente dal centro chirurgico – chi hai, se hai qualcuno, che si prenda cura di te» (p. 141).

Lei farà sì con la testa e se ne andrà, con ancora quattro drenaggi che le pendono dal busto.

Se questo fosse un libro che vive solo della sua trama, avremmo già finito di parlarne; e se solo di vissuto autobiografico si trattasse, sarebbe facile vederlo come l’ordinato segmento di una lunga catena di scritti del sé attraverso la malattia e il dolore.

Ma Non morire non è un libro che parla (solo) di malattia, ed è per questo che la critica del noto intellettuale italiano non coglie pienamente nel segno: o meglio, tratta come limite quello che è la vera potenza dell’opera.

Perché questo di Boyer è ciò che si potrebbe definire un “libro di linguaggio”, un memoir in cui alla penetrante storia vissuta si ibridano viscerali riflessioni su come oggi, nella nostra società, il cancro venga nominato, affrontato e anche autonarrato sempre in un certo modo. Così come negli anni Settanta aleggiavano, intorno alla malattia, sia stigma che rimosso, Boyer rintraccia come oggi il discorso pubblico sul cancro sposi l’idea dell’empowerment del malato che, solo davanti al mostro da combattere, deve dimostrarsi forte, ottimista, performante. La persona malata è un vero e proprio soldato che deve vincere la battaglia contro il nemico invisibile.

Considerazioni del genere, a suo tempo, erano già presenti in Malattia come metafora di Susan Sontag (1978), un saggio ritenuto fondamentale nel campo della critica culturale. E tuttavia Boyer aggiunge qualcosa che non c’era nel libro di Sontag (che pure soffrì e morì di cancro al seno): l’autrice assembla la narrazione usando la prima persona, restituendo così, in modo quasi tattile, la sofferenza insita nell’essere una malata di cancro.

La scelta della prima persona, però, non deve far credere che Boyer si conceda una prosa autoindulgente: se possibile, proprio il contrario. Stilisticamente, infatti, la scelta è l’antiretorica, un protocollo “antiperformativo”: nel suo dipanarsi antifilmico, antivisivo, Non morire è un libro autentico, che non si adegua a una compassata grammatica del dolore. Un libro che si compone anche di tempi morti, periodi sconnessi, piccole annotazioni apparentemente senza senso: è così che Boyer vuole raccontare il dolore, intimo e universale, per quello che realmente è e comporta.

La storia della letteratura è piena di scritture di chi, confrontandosi con l’esperienza della «malattia del secolo», ha voluto trovare dei granelli di senso dentro la più feroce delle casualità e ha deciso di rendere una testimonianza del proprio viaggio dentro e con il cancro. E nel novero di queste autonarrazioni (o autoesposizioni), se pure è vero che tanti – forse tutti – scrivono in modo sincero della propria malattia, è altresì vero che la tendenza è quella della prospettiva “io contro la malattia”, “io devo vincere”, “io mi faccio forza e sorrido”.

Pensarsi singoli nella malattia, responsabili della propria guarigione e del doversi mostrare ottimisti e combattivi per sopravvivere al cancro: tutto questo indebolisce la possibilità di un pensiero politico sulle cause del cancro. Anne Boyer non ci sta: il suo vissuto di dolore viene aperto, massimamente estroflesso, alla riflessione politica e collettiva sul cancro.

«Immobilizzata a letto, decido di dedicare la mia vita a far sì che la risposta socialmente accettabile alla notizia della diagnosi di tumore mammario non sia il correttivo “Sii positiva”» (p. 120). Perché singolarizzare la malattia e aderire alla narrazione neoliberista sono due facce della stessa medaglia: se sei positiva e ottimista e pensi di poterlo sconfiggere, tu lo sconfiggerai. Dipende solo da te.

«Il fallimento morale del cancro non è nelle persone che muoiono: è nel mondo che le fa ammalare, le manda in bancarotta per una cura e poi le fa ulteriormente ammalare, infine le incolpa per le loro morti» (p. 182).

Per Boyer, il cancro è «il nostro comune incidente»: «Il cancro è visto come una sofferenza speciale, ma non c’è niente di audace nel patire l’inevitabilità del nostro comune incidente. Essere figlia di questo imprevisto non mi ha mai resa membro di una classe audace» (p. 120).

Agli antipodi rispetto alla versione motivazionale dell’avere il cancro, Boyer affonda le sue radici in tutt’altro terreno e trae la propria forza e il proprio furore analitico dal non sapersi sola, ma malata tra malate, vittima tra vittime. Non per godere della propria subalternità ma per ristabilire dove stanno le responsabilità della «carcinogenosfera rovinosa del patriarcato di suprematisti bianchi capitalisti» (p. 81).

Ma per avere questa forza, questo furore analitico, deve esserci uno spietato atto di decostruzione del linguaggio: ci vogliono intelligenza, acume e precisione. Come ci vuole una grande forza morale per sapersi opporre alla narrazione dominante che diventa anche condizione di comfort. Ci vuole forza per sapersi calare nella realtà, avvilente e squallida: la realtà dove il cancro è una malattia che colpisce a caso, un fenomeno dall’eziologia ancora molto incerta ma che coinvolge milioni di persone ogni anno.

Ci vuole un libro come questo per continuare a interrogarsi sulla tensione, mai sopita, tra essere un individuo ed esistere, in modo contingente, in mezzo agli altri. «Scrivere solo di se stessi magari è scrivere di morte, ma scrivere di morte è scrivere di tutti» (p. 17).

 

(Anne Boyer, Non morire, La nave di Teseo [The undying, trad. di Viola Di Grado], 2020, pp. 282, euro 20, articolo di Silvia Gola).

Benedetta sfortuna

Pochi giorni prima dell’inizio di Sanremo, i Fine Before You Came pubblicano il loro sesto  disco, Forme complesse. La modalità di uscita  in controtendenza e la vicinanza temporale con il Festival, mezzo per rilasciare singoli e foraggiare il mercato attraverso qualsiasi tipo di piattaforma, confermano ancora oggi, anche solo per una coincidenza ( o no?) cronologica, la cifra artistica e l’approccio nei confronti del mondo del gruppo di Milano.

L’album esce solo su Bandcamp, non gratis, ma con una donazione minima di cinque euro. L’abitudine alla fruizione compulsiva, gratis e ovunque, per quanto idealmente utile e salvifica, ha i suoi risvolti negativi amplificati da quest’ultimo anno, e porta i FBYC a una riflessione  e alla decisione di fare qualcosa che quasi nessuno, oggi, ha il coraggio di fare: se dovesse esistere un modo giusto di promuovere la musica, è quello a cui siamo abituati in questi tempi?

Andando oltre quella che è una vera e propria questione politica, e spingendoci dentro Forme complesse, troviamo qualcosa di inedito rispetto all’immagine che abbiamo quando pensiamo ai FBYC.

Sfortuna, tanto cara a Niccolò Contessa, inno generazionale (anche solo di una subcultura) e Ormai (a oggi probabilmente l’album migliore dei milanesi), inno alla disperazione, sono imbevuti di emocore, post-rock e post-hardcore, un ritmo incalzante dove è quasi impossibile contenere la voce che sembra voler sfondare la propria dimensione per arrivare da qualche parte dove tutto quel dolore possa trovare conforto.  Forme complesse ne prende formalmente le distanze, lavora per sottrazione.

Non troviamo ritornelli alla «In questo piccolo paese conosco solo questa strada», nulla da esternare in maniera animalesca. Non si urla, il cantato è quasi un sussurro.  Non ci sono i FBYC per come li conosciamo.  È un album intimista, che si riflette su sé stesso e trova sollievo in una universo raccolto.  Un lavoro cantautorale, più melodico, meno da stadio (da stadio-club), più da camera.

Abbiamo a che fare probabilmente con il lavoro più cupo dei FBYC. I brani sono sospesi, tempi che sfiorano il doom, qualcosa alla Mark Kozelek e i primi Iliketrains in un’architettura pensata dai Diaframma trent’anni dopo.

I FBYC sono un oggetto di culto e un gruppo che ha sempre trovato il proprio sé in un mondo riconoscibile, mai sovraesposto. E così continua a essere. Forme complesse è un album adulto (si sono vestiti da adulti, alla fine?), che prende in controtempo chi si aspettava quella cosa da loro e si ritrova ad aver a che fare con un altro linguaggio da decifrare. Un sistema con cui dovremo ripensare ai FBYC,  ma che i sei di Milano riescono a mostrarci con una grazia sporca come solo pochi sanno fare.

 

 

 

Copertina di Quando abbiamo smesso di capire il mondo

Vertigine di popoli e universi

Un paio di anni fa mi imbattei in una preziosa antologia di racconti di autori cileni edita da Gran vía (Tintas, 2017, a cura di Maria Cristina Secci). Tra scrittori e scrittrici relativamente conosciuti nel nostro paese – Nona Fernádez, Alejandro Zambra –e nomi ancora inediti, spiccava “L’Antartide finisce qui” di Benjamín Labatut, il racconto dell’enigmatico e controverso poeta-soldato Vasek (cognome che ricorre anche in questo libro, nel personaggio del pittore suicida Jean-Baptiste Vasek) e di una fantomatica spedizione da lui capitanata nel continente più impenetrabile della Terra: l’Antartide.

A fronte di un innesco narrativo un po’ trito (aspirante scrittore che vivacchia in un giornale inizia a nutrire un’ossessione per il pezzo al quale sta lavorando), il racconto colpiva per il suo potente immaginario e per la sua capacità di frullare moltissimi spunti e generi letterari in una trentina di pagine scarse.

Oggi ritroviamo Benjamín Labatut con questo Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021), un’opera altrettanto ibrida e ancor più ambiziosa nel suo tentativo di mescolare fiction, saggistica, biografie di personaggi storici e contraffazione biografica, dalla configurazione instabile sia nella struttura che nella forma.

Partendo dalla struttura, potremmo affermare con una certa dose di approssimazione che Quando abbiamo smesso di capire il mondo è composto da tre racconti lunghi (“Blu di Prussia”, “La singolarità di Schwarzschild”, “Il cuore del cuore”), un romanzo breve (l’omonimo “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”) e un epilogo (“Il giardiniere notturno”).

Prima di addentrarsi nella lettura, può anche essere utile specificare che ci troviamo al cospetto di «un’opera di finzione basata su fatti reali» e che «la quantità di finzione va aumentando nel corso del libro», per dirla con parole dell’autore.

Questa premessa è uno dei pochi elementi ai quali è possibile aggrapparsi nel momento in cui, pagina dopo pagina, Labatut inizia a trascinare il lettore in un vortice di storie, aneddoti, corsi e ricorsi storici che inseriscono alcuni personaggi esistiti o esistenti – l’alchimista Johann Konrad Dippel e il chimico Fritz Haber, il matematico Shinichi Mochizuki e l’apolide Alexander Grothendieck, il fisico Erwin Schrödinger e il suo rivale Werner Karl Heisenberg – in un universo di irrealtà reale o, se preferiamo, di verosimile menzogna.

Saltando da epoche lontane alla contemporaneità, dalla scienza all’alchimia, dalla consacrazione al baratro, questo libro riannoda i fili della Storia e il vissuto di alcune figure rivoluzionarie per parlarci di una trama più grande e sostanzialmente ineffabile, una complessità – qualcuno la chiamerà Destino, qualcun altro Dio – che ci dirige, ci governa, e in ultimo ci condanna.

Quando abbiamo smesso di capire il mondo è dunque un romanzo di conseguenze, come testimonia fin da principio “Blu di Prussia”, un racconto corale che, attraverso un percorso accidentato che procede quasi per associazioni, riesce a collegare la fortuita scoperta del “colore originale del cielo” con il soffio letale dello Zyklon B nelle camera a gas, il tutto chiamando in causa Swedenborg, Napoleone, Rasputin, Mary Shelley e Turing. Un esempio:

«Uno dei componenti dell’elisir di Dippel avrebbe poi prodotto il blu che compare nella Notte stellata di Van Gogh e nelle acque della Grande onda di Kanagawa di Hokusai, ma anche nell’uniforme di fanteria dell’esercito prussiano, come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l’ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell’alchimista che faceva a pezzi animali vivi, assemblava i loro resti in orribili chimere e tentava di rianimarli con scariche elettriche».

In una recente conversazione con Claudia Durastanti, Labatut ha evidenziato l’impossibilità di interagire con la complessità se non per mezzo di storie, lo strumento privilegiato dall’essere umano per rielaborare e dare forma al mondo.

Come sostengono Bohr e Heinsberg al momento di presentare la loro versione della meccanica quantistica in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo”:

«La realtà […] non esiste come qualcosa che prescinde dall’atto dell’osservazione. Un elettrone non si trova in nessun luogo fisso finché non lo si misura: appare soltanto in quell’istante. Prima della misurazione non possiede alcun attributo; prima dell’osservazione non lo si può nemmeno pensare».

Le storie sembrano quindi essere per lo scrittore cileno l’equivalente delle operazioni di misurazione e osservazione in ambito scientifico.

Il guaio è che tale forma, anziché rassicurarci, ci proietta in una vertigine di popoli, di reazioni chimiche, di scoperte scientifiche, di teoremi matematici e di eventi naturali che si aggregano in una rete di interdipendenze a tratti insostenibile, come se stessimo sollevando un sasso sotto al quale pullula un formicaio sterminato.

In questo caos è possibile però identificare alcune costanti labatutiane che, guarda caso, possono essere rintracciate anche in “L’Antartide finisce qui”. Innanzitutto la rappresentazione di una natura ostile e spietata, ma al contempo rivelatrice. È grazie al confronto con le scogliere di Helgoland o con le tempeste di neve in Antartide che i personaggi, spesso allo stremo delle loro forze, riescono a raggiungere o perfezionare un’intuizione che cambierà per sempre il corso delle cose.

La seconda costante è la fascinazione per il genio e per il fardello che il genio scarica sulla vita di chi lo ospita e di chi gli sta attorno. L’epifania e gli anni di studio per mettere a punto una scoperta non vengono mai vissuti dai personaggi del libro come una passeggiata di salute nei territori della conoscenza. Il genio viene più volte respinto, rifuggito. Perché? Di nuovo per il peso delle conseguenze che si potrebbero abbattere sull’umanità, e forse anche per paura di spingersi a un livello di comprensione della realtà troppo estremo. Il livello in cui si smette di capire il mondo, appunto.

Dopo aver rivoltato come un calzino ogni certezza matematica, Alexander Grothendieck fece progressivamente perdere le sue tracce e dette mandato di ritirare tutte le sue pubblicazioni perché “nessuno doveva soffrire per colpa delle sue scoperte”.

«Grothendieck non poteva fare a meno di mettere in discussione l’effetto delle proprie azioni sul mondo. Quali nuovi mostri avrebbe generato una comprensione totale come quella cui lui ambiva? Cosa avrebbe fatto l’uomo se fosse riuscito a toccare il cuore del cuore?»

«Possiamo scindere gli atomi, ammirare la prima luce e predire la fine dell’universo con un pugno di equazioni, scarabocchi e simboli arcani che le persone normali, che pure controllano ogni minimo dettaglio della propria vita, non comprendono. Ma non si tratta solo della gente comune: nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo-ambiente».

E qui arriviamo alla terza e ultima costante: la violenza, evocata non soltanto dalle trincee o dai campi di sterminio nazisti, ma anche dalle voragini che il progresso sembra condannato a lasciarsi alle spalle ogni volta che ci spinge un po’ più avanti. L’invito di Labatut è quello di accogliere questa natura bifronte – della scienza, del mondo, ma anche di noi stessi – di osservare la realtà senza banalizzarla. Solo una visione d’insieme «come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico, ci permetterà di decifrare la forma in cui è organizzato il mondo». E se non basterà (e non basterà), avremo comunque imparato a guardare in fondo all’abisso resistendo alla vertigine.

(Benjamín Labatut, Quando abbiamo smesso di capire il mondo, trad. di Lisa Topi, Adelphi, 2021, pp. 180, euro 18, articolo di Martin Hofer)
Copertina di La figlia unica di Nettel

Ogni possibile maternità

Essere o non essere madre, il dilemma di una nuova generazione di donne che si trova a fare i conti con i retaggi legati alla maternità e al ruolo della donna come madre, un passato prossimo che talvolta ha il sapore amaro di un futuro anteriore.

Ma poi che vuol dire essere madre? È soltanto un’etichetta da scrollarsi di dosso? Per parlare di un simile argomento ci vuole una donna. Una donna che parli la lingua delle donne, ma che sappia tradurla in scrittura universale. Questo è quanto riesce a fare Guadalupe Nettel nel suo nuovo romanzo, La figlia unica (La Nuova Frontiera, 2020, trad. Federica Niola), mettendo in scena la storia di Laura, Alina e Doris, che raccontano e si raccontano con commovente onestà.

Salutata come una delle voci più significative della letteratura latinoamericana contemporanea, la scrittrice messicana si addentra in una materia atavica, ostica, che porta con sé l’eco di tutta la fragilità umana. Senza alcuna retorica né facili sovrastrutture, Nettel analizza fin nel profondo il concetto di maternità e lo fa guardando da tutte le possibili angolazioni.

Forse è proprio per questo che sceglie gli occhi e la voce di Laura per narrare la storia, una donna che si è fatta chiudere le tube per non cedere alla «tentazione della gravidanza», una studiosa che vuole concentrarsi su se stessa e concepisce la propria tesi di dottorato come il frutto del suo grembo cerebrale. Nettel ha bisogno di uno sguardo capace di vivere sia la negazione che la possibilità dell’essere madre, uno sguardo non incastrato nel meccanismo che spinge l’individuo alla ricerca spasmodica «di concepire a ogni costo».

Sarà Laura quindi a raccontare la maternità dolorosa della sua amica Alina, apparentemente condannata a partorire la morte, dando alla luce un essere malato, capace solo di appassire velocemente. (A questo proposito, ovvero sul legame tra maternità e morte, segnalo l’illuminante riflessione di Nadia Terranova, La domanda più scema: “E tu, figli?”). Sempre Laura a raccontare la maternità complessa e claustrofobica della vicina di casa Doris, che nel figlio rivive la possessione delle violenze subite.

Può una donna che ha scelto di non voler essere madre parlare di maternità? Sì, perché bisogna andare oltre un discorso sterilmente biologico. È necessario procedere per scarti e scelte non convenzionali. Che poi, in fin dei conti, benché i dettami sociali sembrino convincerci del contrario, non può esistere convenzione quando si parla di donna, né quando si parla di maternità.

Sullo sfondo di questa narrazione corale si staglia il Messico, perennemente in lotta con le sue tante anime. Un Paese non in grado di assicurare alle donne la pienezza dei propri diritti, dove si ha paura a uscire per strada in certi orari e le donne muoiono senza che si parli di femminicidio, dove i collettivi femministi combattono per affermare che un altro presente può esistere. «La cosa certa è che nella nostra società i figli sono assegnati ai padri in modo facoltativo e alle madri obbligatoriamente», non basta altro che un «fiotto di sperma», «un gesto di una leggerezza offensiva», e ci si ritrova padri forse solo per un momento e madri per tutta una vita.

In La figlia unica, le figure maschili vivono di riflesso rispetto alle donne con cui interagiscono: una scelta ben precisa dell’autrice di tratteggiare un universo femminile che si stringe su se stesso per darsi forza. E se a un primo sguardo sembra quasi che lo stigma sociale della maternità che divide le donne in compartimenti stagni – le madri, le non madri per scelta, le non madri per impossibilità biologica – sia un muro invalicabile, questo viene frantumato da Nettel, la quale ha la capacità di detergere i nostri occhi offuscati dalla pigrizia dei pregiudizi per metterci di fronte a un affresco vivo e cangiante.

La maternità è qualcosa di permeabile ed è la natura stessa a mostrarcelo. Ritorna, quindi, il parallelismo con il mondo animale, così caro all’autrice che si è già fatta conoscere con il corroborante Bestiario sentimentale (La Nuova Frontiera, 2018, trad. Federica Niola). Dall’osservazione dei due piccioni che hanno scelto di nidificare sul terrazzo di Laura, probabili vittime consapevoli del parassitismo di cova, i piccioni e il loro figlio/non figlio diventano il simbolo di tutte le possibili maternità.

I piccioni non temono di affrontare una maternità non biologica e si stringono a formare una famiglia, liberi dalle imposizioni sociali e dalle gabbie di regole in cui spesso noi ci rifugiamo, andando così oltre quella famiglia biologica che occorre desacralizzare se non più in grado di essere nucleo valoriale.

E come vive una maternità che ti spinge a mettere al mondo un essere per poi disfartene o portarti a dire che sarebbe stato meglio non averlo, c’è anche quella che ti porta a non procreare per scoprirti infine ad accudire un figlio non tuo per cui ti senti in qualche modo responsabile. Perché se esiste un amore che sembra svilupparsi per forza di cose dall’utero, esiste anche un «amore lieve e insieme intenso di chi non è costretto a rimanere». «Abbiamo sempre accudito i figli delle altre, e le altre donne ci hanno sempre aiutato ad accudire i nostri», in un eterno ciclo che alla fine sembra volerci tutti partecipi.

Gioia, sofferenza, fatica, soddisfazione, La figlia unica appare come una comédie humaine femminile che racconta le donne attraverso una prosa che ne restituisce con limpidezza e toni anche ironici le paure, le aspettative, i desideri. Memori della saggezza buddista che ci ricorda che nulla di quanto costruiamo è per sempre, Nettel esorta a squarciare la cortina che ci costringe a pensare noi stessi per categorie definite, e predisporci al cambiamento.

Così la stessa carta pescata dal mazzo di tarocchi può raccontare due storie diverse, perché tesaurizzando l’insegnamento che ci arriva dal mondo animale occorre tenere a mente che la maternità o la sua assenza è comunque una storia di resistenza e che il libero arbitrio «consiste nel modo in cui prendiamo le cose che ci tocca vivere».

 

(Guadalupe Nettel, La figlia unica, La Nuova Frontiera, 2020, trad. di Federica Niola, 224 pp., euro 16,90, articolo di Giulia Eusebi)

 

Copertina di Rayuela di Cortazar

Cortázar, tutto il tempo del mondo

Sarebbe facile e pigro limitarsi a dire che Rayuela (Einaudi, 1969) non è un romanzo, ma un gioco – e qualcuno, cedendo alla stucchevolezza, potrebbe completare “è il gioco della letteratura”. Intendiamoci, non si tratterebbe di un errore: questo libro è in effetti una sfida lanciata e, come tutte le sfide, può essere legittimamente declinata. Ma allo stesso modo, come accade sempre quando poi inizi a giocare, un gioco cessa di essere solo un gioco e diventa qualcosa di più – e a volte, pare, è una questione di vita o di morte. Poi, fuori dal gioco, la vita continua, ma a noi sembra comunque d’averla ingannata, d’aver piegato o dilatato il tempo, ed ecco perché è davvero anche una questione di morte: perché, per il tempo che il gioco dura, la si scaccia, e anche il tempo, se si misura, è solo il tempo del gioco, che in quel momento coincide esattamente con la vita che invece non ha tempo.

Accettiamo la sfida, dunque, e smettiamo di pensare a Rayuela come a un gioco, ma prendiamolo sul serio come un romanzo. Siano lasciate da parte per ora le definizioni di contro-romanzo o anti-romanzo. Si provi quindi a leggerlo seguendo lo schema suggerito da Cortázar, quello che ci fa iniziare dal capitolo 73. È allora probabile che, una volta lette le prime righe, si scelga di tornare indietro a controllare la così detta “tavola di orientamento”, per poi accertarsi che sì, è proprio da lì che dobbiamo partire, sebbene questo incipit non abbia praticamente nulla di un incipit tradizionale. È una lunga domanda che termina con un punto fermo e comincia con un’affermazione («Sì, ma chi ci guarirà dal fuoco sordo, […]»), in una pagina che prosegue con quello che a prima lettura appare come un delirio alla cui fine il lettore rimane inevitabilmente stordito – magari estasiato, sì, ma stordito. Il capitolo peraltro ha una struttura interna piuttosto densa, si compone di due soli paragrafi che comandano una lettura forsennata – per esempio con l’abbondanza di elenchi che ne accelerano il ritmo – ma costringono a un tempo effettivo parecchio dilatato, proprio perché la quantità di input e informazioni è copiosa, ma il lettore non ha indizi per comprenderne la maggiore o minore importanza e finisce quindi per essere costretto ad accogliere tutto. È il primo modo attraverso cui Cortázar comincia a giocare col tempo.

Si scala poi fino al capitolo 1, che è per noi il secondo ma è a sua volta l’incipit di chi ha deciso di leggerlo in ordine. La struttura di questo capitolo è (in parte) più canonica, ha una scansione più “comoda” e qualcosa che si avvicina a una presentazione dei fatti, ma condivide con l’altro una particolarità essenziale: entrambi si aprono con una domanda (qui è l’ormai celeberrima «Avrei incontrato la Maga?»). Questa analogia, che forse è perfino casuale (ma forse no), rivela presto l’anima del romanzo: Rayuela è anzitutto un libro di domande. Ma, al di là dei quesiti narrativi (legati cioè alla trama – perché il romanzo una trama ce l’ha) o di quelli “metafisici” (cioè di natura esistenziale, autonomi rispetto al testo), Rayuela solleva una questione prettamente estetica. Qual è il grado di consapevolezza necessario alla creazione artistica? A leggere le parole dello stesso Cortázar (ci si riferisce qui all’intervista del 1985 riportata nell’edizione Einaudi), la risposta a questa domanda si è tentati di cercarla nella trascendenza. Lo scrittore pare ammettere un’inconsapevolezza pressoché totale non soltanto di un piano, ma perfino dello sviluppo di alcuni temi che lettori e critici hanno poi individuato all’interno del romanzo. Ciò che invece rivendica è «un tentativo di ricominciare da zero sul piano del linguaggio». È quasi come se la de-strutturazione letteraria compiuta da Cortázar avesse costretto lo stesso autore a una propria lettura critica che fosse però posteriore alla creazione. Quasi come, insomma, se egli avesse dato forma a un’esigenza di rottura impellente a cui era inevitabile arrivare.

Cortázar inizia a scrivere Rayuela nel 1951, inconsapevole di star scrivendo un romanzo, e prosegue a «frammenti» lungo tutto il decennio, periodo durante il quale la struttura del libro rimane indefinita. Proprio nel 1951, sempre in Francia, esce per Gallimard L’uomo in rivolta di Albert Camus, saggio che possiamo provare a legare a Rayuela per due concetti chiave: l’assurdo (che già rappresentava il nucleo delle precedenti opere di Camus) e la rivolta. La differenza, ancora una volta, pare farla un diverso grado di consapevolezza. Oltre che metafisica, la rivolta di Camus è storica, quindi politica, mentre Cortázar rifiuta completamente questa dimensione. Come però si è già accennato, Rayuela non è soltanto un romanzo sul tempo, ma è calato nel tempo, e risponde a un’esigenza che non è solo artistica, ma in qualche modo sociale. Se anche i geni sono visionari, essi lo sono nella misura in cui traducono prima degli altri questo sentimento di rivolta. Pur restando nella propria dimensione estetica, l’arte trasmette sempre una visione generale del mondo. Gli anni Sessanta – la prima edizione è del 1963 – rimangono un periodo a cui è difficile non associare certe istanze, a maggior ragione se pensiamo all’America latina, che inizia in questa fase ad avvertire in modo sensibile le ripercussioni della rivoluzione cubana. «Bisogna cercare di capire», dice Cortázar, «in quale momento il cammino dell’uomo ha imboccato la strada sbagliata, quando in realtà c’erano alternative migliori.»

Questa ricerca collettiva, però, si proietta nella ricerca tutta personale di Horacio – «un uomo che non è affatto un genio, nemmeno lontanamente, e che cerca disperatamente qualcosa, senza sapere esattamente che cosa». Per dare concretezza a una ricerca che non ha una meta esatta, le si assegna allora una parola – per Horacio sarà soprattutto Centro, ma anche Unità – che, vuota com’è, si riduce al proprio significante.

Cos’è il Centro? La felicità? Per Horacio sembrerebbe essere soprattutto la comprensione delle cose – un tentativo inesausto che lo sfianca e a cui tributa la vita intera. Ma, essendo il tempo infinito, il Centro è una meta impossibile, dal momento che infinito è qualcosa che, per definizione, manca di inizio e di fine, e quindi anche di centro. E forse la Maga raggiunge la propria unità perché rifiuta la ricerca – è un personaggio eccentrico rispetto agli altri. «Non ha bisogno di sapere, può vivere nel disordine senza che alcuna coscienza di ordine la trattenga». In questo senso, nel rifiuto della sua ricerca, gli altri personaggi accettano il mistero della Maga come la Maga accetta il mistero del mondo – con una leggera irritazione che è solo intermittente. Pur volendo accettare la natura ottimista del libro che Cortázar rivendica, è alla Maga che viene assegnato il privilegio più alto: nella finzione dell’arte, essa diventa immortale, perché a un certo punto del libro scompare senza morire – senza la certezza che sia morta. Perfino così la Maga resta un enigma per tutti – per il lettore, che non ha prove del suo annegamento, e per i personaggi, che “credono” che sia morta senza sapere se lo sia davvero. La Maga diventa quindi un fantasma, un ricordo, sfuma senza sparire, come questo libro non ha più forma esatta (Horacio la intravede in Talita), mentre gli altri personaggi restano cristallizzati nel romanzo.

Nel corso della ricerca, di ritorno a Buenos Aires, Horacio sembra accorgersi che la propria vita non è nell’Arte, e allora prende a cercarla nella vita degli altri – così rivede sé stesso in Traveler e la Maga in Talita. Questa visione esterna che conferisce unità alla vita altrui è teorizzata dallo stesso Camus proprio in L’uomo in rivolta: «Scorgendo dall’esterno queste esistenze, (gli uomini) attribuiscono loro una coerenza e unità che in realtà non possono avere, ma che paiono evidenti all’osservatore». Il passo successivo è il ritorno all’Arte: noi «romanziamo» quelle esistenze. Così fa Horacio, che proietta in Traveler la vita che lui stesso avrebbe potuto avere, se non avesse mai lasciato Buenos Aires. Senza scriverlo, nella confusione quasi folle della propria mente, immagina per sé una vita che non esiste.

Cortázar gioca in fondo la stessa partita di Proust, ma attraverso un percorso alternativo, in un viaggio che disseziona la vita – e il mondo – senza pretesa di soluzioni, per mezzo di una voce che è perfino antitetica – che non risolve né postula né sentenzia e nemmeno analizza, ma ragiona, scivola, si torce, si annulla, riflette a tentoni. Cortázar al proprio romanzo non assegna nemmeno una struttura fissa, perché il tempo perduto rimane perduto – non a caso, invece, l’ultimo libro della Recherche s’intitola proprio Il Tempo Ritrovato – e il tentativo di afferrarlo e capirlo si è perduto insieme allo stesso. In questo senso, Cortázar rappresenta una risposta a Proust perché suggerisce che nemmeno l’Arte può “domare” il Tempo – che piega il romanzo perché lo contiene. Il Tempo è insomma superiore a tutto, anche all’Arte, che avrà fine quando avrà fine il Tempo. Il rapporto tra Arte e Tempo – come quello tra qualsiasi cosa e il Tempo – non è interdipendente, ma di dipendenza: quando anche ci sembra che sia l’Arte a definire i tempi, accade sempre il contrario, che sono i tempi a maturare quanto basta affinché una certa idea di Arte possa fiorire. Per tornare a Camus, il romanzo quindi nasce insieme allo spirito di rivolta e «traduce, in senso estetico, la medesima ambizione». Ogni rivolta scoppia per un’esigenza di rottura, ma aspira a un desiderio di ordine – ed ecco che Rayuela viene a essere paradigma della rivoluzione (anche) letteraria: riflette, nel proprio disordine, un ordine nuovo. Attraverso sé stesso, la sua composizione, Rayuela afferma i limiti della ragione – e nemmeno l’Arte è sua figlia esclusiva. Del resto, in uno dei frammenti si può leggere «La ragione ci serve unicamente per disseccare la realtà in piena calma, (…) mai per risolvere una crisi improvvisa». Si tratta quindi di un ritorno al Romanticismo? No, perché Cortázar non riconosce una supremazia dei sentimenti, ma si limita a mostrare gli imbarazzi dell’una e dell’altra cosa. Afferma, senza mai postularla, l’insensatezza della ricerca, ma ne ribadisce l’inevitabilità – proprio come nessuna intelligenza riesce a sottrarsi alla passione.

In un passo di All’ombra delle fanciulle in fiore, Proust scrive che «ognuno chiama “chiare” le idee che sono allo stesso grado di confusione delle proprie». Rayuela, nel suo rifiuto a formulare risposte univoche, nella fluidità della sua struttura, porta con sé un mistero eterno che è tale perfino al proprio autore. Il lettore – al pari di Horacio, come gli uomini tutti – prosegue in un proprio percorso di decifrazione che gli consente l’accesso a un mondo – quello del romanzo – che, come quello reale, contiene gli stessi elementi accessibili a tutti, ma che egli legge e dispone a suo modo. Se anche una risposta esistesse e si avessero tutti i mezzi necessari a trovarla, nessuno potrebbe coglierla, giacché mai ci è stata rivelata. Questa è la Vita – un dono che ci è stato consegnato insieme a questo imperativo: Cerca. Di volta in volta, le offriamo una risposta diversa che solo il silenzio accoglie. In un tempo infinito, formuliamo infinite risposte – e, non ricevendo assenso, le scartiamo tutte, compresa quell’unica che è la soluzione. Lo sappiamo, e nondimeno continuiamo – e continuiamo, e continuiamo.

Il maiuscolo con cui si chiude l’ultima pagina della Recherche («nel Tempo») rimanda a una dimensione mistica – nella misura in cui il Tempo non può essere colto attraverso l’uso della ragione. L’intelligenza può infatti intuire l’infinito, ma è poi costretta a ritrarsi giacché le risulta impossibile figurarlo. Come alcuni giochi, l’infinito è vero ma non è reale. Allora l’uomo gli assegna un nome e può accettarlo soltanto come un mistero.

Copertina di Progettare l'uguaglianza

Che fine ha fatto la democrazia sociale

Va detto subito che leggere Progettare l’uguaglianza nell’Italia di inizio 2021 potrebbe suscitare sconforto e frustrazione, negli animi politicamente più sensibili. Il titolo, infatti, non allude a un’alternativa possibile, a una ricetta contro l’aumento delle disuguaglianze che imperversa da cinquant’anni ed è divenuto dirompente in seguito alla pandemia di Covid-19. Quello tracciato nel volume curato da Mattia Gambilonghi e Alessandro Tedde (Mimesis, 2020) è invece un bilancio, o addirittura un primo tentativo di genealogia, dell’esperienza storica della democrazia sociale, che è quanto di più vicino a una società degli uguali abbia prodotto l’umanità su questo pianeta.

Chi, nel pantano postdemocratico in cui si è arenata la politica italiana, ancora si ostina a coltivare l’ottimismo della volontà – e chi cerca rifugio da un dibattito pubblico che tra un elogio della “competenza” e un Osanna ai nuovi re taumaturghi ha espulso ogni pur minimo richiamo all’idea di giustizia sociale – potrà comunque trovare in questa raccolta di saggi una formidabile fonte d’ispirazione.

Che cosa sono, innanzitutto, le democrazie sociali? Fra le prime e sperimentali risposte fornite dai paesi europei e occidentali alla crisi del 1929 e la metà dei Settanta, questa particolare forma di organizzazione politica e economica delle società capitalistiche è stata in grado di assicurare livelli di uguaglianza e tassi di partecipazione politica mai visti in precedenza. E che non abbiamo più visto neanche in seguito, perché se c’è un significato nel concetto passepartout di neoliberismo (o neoliberalismo, come preferiscono gli autori del libro) è proprio questo: il ridimensionamento della democrazia sociale. Una triste parabola di cui, indulgendo in semplificazioni precluse agli autori accademici, potremmo individuare due punti particolarmente significativi dal punto di vista simbolico: il celebre, citatissimo, rapporto della Trilateral Commission del 1975, che attribuiva le difficoltà economiche degli anni Settanta a un «eccesso di democrazia», e le parole di un Mario Draghi d’annata, pronunciate nel 2012 a commento della crisi greca, secondo cui «Il modello sociale europeo è ormai superato».

Naturalmente, il concetto di democrazia sociale ha numerose affinità con quello di Stato sociale, purché quest’ultimo – spiega Gambilonghi – non sia inteso in una prospettiva riduttiva ed economicistica, come semplice somma di politiche pubbliche volte ad assicurare erogazioni di sussidi e servizi per i cittadini, ma piuttosto come una vera e propria forma politica. Una forma politica inedita e innovativa, che s’innesta nel tronco delle istituzioni liberali sorte dalla Rivoluzione francese, ma le rinnova mostrando un’autonoma e originale razionalità interna, dando reale concretezza ai principi di libertà, uguaglianza e solidarietà. Un’idea di Stato e democrazia impressa nelle “costituzione materiale” delle società occidentali (ma anche, nero su bianco, in molte Carte costituzionali, su tutte quella italiana), e che segna una discontinuità rispetto alla precedente esperienza dello Stato liberale di diritto, da un lato attribuendo ai poteri pubblici una funzione decisiva per il ciclo economico (non solo in termini redistributivi, ma anche di investimento diretto), dall’altro imponendo nel sistema di mercato, a cui lo Stato partecipa in prima persona, una logica non mercantile (un principio di equità, potremmo dire).

Il libro ha il pregio di adottare uno sguardo storico profondo e originale sull’elaborazione teorica che ispira le diverse fasi (i «momenti») e direttrici di sviluppo (i «percorsi») della democrazia sociale già prima dei suoi «gloriosi» trent’anni del secondo dopoguerra. Nella rassegna di casi storici in cui «progettare l’uguaglianza» si è rivelato possibile o almeno concepibile, incontriamo dunque saggi preziosi sulla Francia del movimento solidarista di fine Ottocento, che trova nel grande sociologo Emile Durkheim uno straordinario punto di riferimento, valido ancora oggi contro le miserie dell’utilitarismo e del laissez-faire; sulla Repubblica di Weimar nella Germania del primo dopoguerra, che prima di veder calare le tenebre del nazismo indaga fervidamente la possibilità di riconciliare democrazia politica e democrazia economica; sul «planismo» e il «corporatismo democratico» attraverso cui, negli anni Trenta, le correnti più eretiche e innovative del movimento operaio e socialista della Francia intendono rifondare lo Stato facendo del lavoro organizzato la sua base politica e morale.

Ma è soprattutto sul saggio dedicato da Alessio Francesco Olivieri alla figura e al pensiero del dirigente socialista e padre costituente Lelio Basso, che si sofferma la nostra attenzione. Basso si interrogò lungamente sul modo in cui cui fare della Costituzione sorta dalla Resistenza (di cui scrisse quell’esemplare concentrato di democrazia sociale che l’articolo 3) non una semplice stabilizzazione della riconquistata democrazia, ma uno «Stato costituzionale del lavoro», uno strumento dinamico e progressivo di trasformazione sociale. «La democrazia» sosteneva «comincia a diventare una cosa seria soltanto quando ciascuno è messo in grado di esercitare una stessa porzione di influenza reale sulla vita pubblica, cioè quando il popolo, accanto alla libertà giuridica, realizza anche a libertà dal bisogno, dalla paura e dall’ignoranza».

Ma già all’inizio degli anni Settanta, e con notevole preveggenza, Basso si accorse che il vento della storia stava cambiando: «Elemento caratteristico della presente situazione mi sembra essere il passaggio dai capitalismi nazionali all’internazionalizzazione del capitale. […] Ciò comporta che i centri di decisione da cui dipende la nostra vita quotidiana si spostino sempre più lontano, […] senza possibilità di interferire in queste decisioni che ci riguardano da vicino». Si udivano insomma i primi scricchiolii, nella convivenza forzata tra capitalismo e democrazia; e oggi che il divorzio si è compiuto non occorrono studi approfonditi per accorgersi dello stato comatoso in cui versa quest’ultima.

In Progettare l’uguaglianza la ricostruzione delle riflessioni di Basso su sovranità popolare e democrazia sociale si unisce  ad altre esperienze intellettuali e di lotta sindacale e politica nel proporre una nuova relazione virtuosa tra classe e nazione, tra patria e socialismo, un’ipotesi di comunità nazionale le cui basi siano integralmente politiche, e per questa ragione antitetica a quella, dalle venature etno-razziali, dei fascismi e dei nazismi.

Solo mettendo a fuoco i pilastri dell’articolata e multiforme costruzione dello Stato sociale possiamo comprendere le ragioni del suo declino e la natura delle trasformazioni successive, su cui si concentrano i saggi della sezione finale del volume. In particolare, gli autori si soffermano su alcuni «slittamenti» intervenuti nel discorso pubblico e nei sistemi politici con l’egemonia neoliberale. Per esempio il passaggio dalla figura del lavoratore a quella del povero, quale punto di riferimento delle politiche sociali, non più chiamate a combattere le disuguaglianze prodotte dalle logiche di mercato, ma ad evitare solo le forme più odiose di povertà ed emarginazione sociale. O ancora, il passaggio dall’idea di governo – che malgrado i suoi limiti gerarchici, è comunque il potenziale soggetto di un’azione redistributiva e regolativa ispirata all’interesse generale – al paradigma della governance, che dietro una retorica «orizzontalista» e partecipativa pone i soggetti sociali gli uni di fronte agli altri a prescindere dal loro differente potere sociale: nell’assenza di qualsiasi istanza politica superiore si afferma la legge del più forte.

Rilanciare le democrazie sociali quali forme politiche per una convivenza civile più egualitaria è un compito immane, talvolta persino inimmaginabile: il libro curato da Gambilonghi e Tedde fornisce materiali indispensabili per affrontare con consapevolezza questa sfida epocale, che la crisi pandemica ripropone più urgente che mai.

 

(Mattia Gambilonghi e Alessandro Tedde, a cura di, Progettare l’uguaglianza. Momenti e percorsi della democrazia sociale, prefazione di Mario Barcellona, postfazione di Michele Carducci, Mimesis, Milano-Udine 2020, 385 pp., euro 25, articolo di Paolo Ortelli)

 

La meravigliosa microstoria del punk

Double Nickels è una giovane casa editrice di base a Bologna che si propone di esplorare l’intersezione fra musica e letteratura pubblicando le fatiche letterarie di musicisti e critici. Una realtà che guarda in primis alla scena punk e post-punk e che, nata dall’attitudine diy, ha deciso di strutturarsi come casa editrice proprio in questo difficile momento, in volenterosa controtendenza con la recessione culturale della fase che stiamo attraversando.

Sappiamo bene quanto alcuni fra i più noti esponenti della musica di qualità mondiale non siano avari di intuizioni anche quando si confrontano con la pagina scritta, basti pensare alla produzione letteraria di Nick Cave che si sta affermando anche in Italia con notevoli riscontri. Se non stupisce che musicisti e performer siano buoni scrittori oltre che sopraffini parolieri, ancora meno dobbiamo stupirci se sono i critici musicali ad adoperare la penna per scrivere narrativa. Proprio a questo versante guarda la prima pubblicazione di Double Nickels, Memorial Device di David Keenan, firma storica di The Wire ed esponente di spicco della critica musicale inglese che non ha nulla da invidiare a gente del calibro di Julian Cope e Simon Reynolds.

Tuttavia, pur guadagnandosi i galloni sul campo della critica, lo scozzese Keenan mostra di cavarsela egregiamente anche al banco di prova della narrativa. Memorial Device è un romanzo di ispirazione postmoderna che si inabissa nella provincia scozzese e, tramite il filtro del mondo musicale, regala l’affresco di un microcosmo sconfinato come la vita. Keenan orchestra con grande dovizia di particolari la storia dei Memorial Device, band punk nella provincia scozzese attiva dal 1978 al 1986. L’epopea della band è un cavallo di Troia per raccontare la parabola dei suoi membri, fra permanenti e passeggeri, e con essa la storia di un territorio e di una moltitudine che Keenan non ha paura a chiamare “scena”.

Ovviamente l’autore mette in mostra con rigore filologico il diorama della sue conoscenze, dimostrando la competenza musicale che ci si aspetta e stilando, quasi a ricalcare l’apparato di note di una cattedrale postmoderna come Infinite Jest, la discografia della band fittizia dei Memorial Device. Ma non è solo l’acribia filologica e l’inventiva a stupire, e nemmeno la precisione linguistica con cui l’autore rende i tecnicismi degli addetti ai lavori o il gergo della scena punk che va a (ri)costruire. La bontà di questo romanzo risiede nella molteplicità dei punti di vista a partire da cui è narrata la vicenda: racconti esagitati, testimonianze di amici o di chi gravitata attorno alla band, confessioni di groupie, interviste, dicerie, materiale vario. La bravura di Keenan risiede nel variare registro all’occorrenza e intessere una fitta trama di rimandi, un arazzo biografico e sociologico che costruisce l’arzigogolo della vicenda dei Memorial Device. Ogni capitolo riserva sorprese per stile e focalizzazione, una vivacità stilistica e formale che ricorda le parabole proletarie del connazionale Irvine Welsh.

E per una varietà di esperienza non manca una ponderato ventaglio tematico: dal rapporto con la musica, alla ricostruzione di una scena musicale, fino all’indagine sulla giovinezza e sull’universo ideologico dell’underground, quella serie di valori ingenui e assoluti che spingono le menti più diverse a una facile quanto sincera ribellione contro la realtà già data. E poi ancora il macrotema della provincia, perché in questo Keenan sembra pescare appieno nel proprio vissuto: con naturalezza affresca la solitudine degli adolescenti di metà Settanta nel microcosmo scozzese, e allo stesso tempo l’estrema inventiva che dovevano necessariamente dimostrare per sopravvivere alla noia.

Memorial Device è un romanzo divertente che non lascia nulla al caso e che, nel suo debordante fluire, appassiona il lettore in fissa con la musica e quello addentro al mezzo letterario. Una piccola perla, la prima di tante, che gli spiriti bellicosi di Double Nickels hanno deciso di regalarci.

 

(David Keenan, Memorial Device, trad. di Matteo Camporesi e Lorenzo Mari, Double Nickels, 2020, 318 pp., euro 18)

Cover di L'estate dei fantasmi

Quegli splendidi animali

Qualche mese fa, per i tipi di Adelphi, è uscito il nuovo romanzo di Lawrence Osborne, pubblicato in realtà nel 2017 in Inghilterra. Si intitola L’estate dei fantasmi, o meglio questo è il titolo scelto per l’edizione italiana, in originale è Beautiful Animals, molto più appropriato per quel che riguarda la storia e i personaggi. Infatti è un campionario di splendidi animali in vacanza sull’isola greca di Idra a essere protagonista della vicenda.

Da un lato c’è Naomi Codrington, avvocato venticinquenne inglese che è stata appena licenziata dallo studio in cui lavorava, dall’altro Samantha Haldane, più giovane di qualche anno, statunitense, bella e scolpita come sanno essere le ragazze americane. Le due si conoscono mentre sono a Idra, in vacanza con i genitori. A dire il vero la famiglia di Naomi ha casa sull’isola, lei ci viene da quando è bambina, da quando era ancora viva sua madre che è morta ormai da una decina d’anni. Suo padre, Jimmie, si è risposato con una greca aristocratica, Phaine, che Naomi in realtà non sopporta granché.

Neanche i rapporti tra Naomi e il padre sono tra i migliori, lui proprietario di una compagnia aerea e mercante d’arte, non capisce le bizzarrie della figlia sempre in prima linea contro le ingiustizie sociali. Così – lui che di autentico non ha nulla – si chiede cosa si possa fare per «costringere i figli a essere autentici». Già, perché «i giovani adottavano vedute progressiste che non avevano niente a che fare con le loro condizioni materiali», in pratica Jimmie considera sua figlia una buona samaritana la cui coscienza è «stata creata dai media, non dalla vita». Se Osborne fosse italiano la definirebbe una radical chic.

Dall’altra parte, come detto, c’è Samantha (Sam), che è a Idra per la prima volta. Anche lei è con la sua famiglia, decisamente più ordinaria di quella dei Codrington, seppure attratta da questi strani animali che sono gli europei ricchi che si riversano sull’isola d’estate tra feste e artistoidi. Sam resta subito affascinata da Naomi, anche se le due per quanto simili dal punto di vista sociale restano «divise da un linguaggio comune» (qui, si evidenzia l’antica questione linguistica anglo-americana).

Così, prendono a frequentarsi. Finché una mattina, mentre sono in giro sullo yacht della famiglia Codrington, fanno una nuotata e raggiungono un angolo disabitato dell’isola. Qui si imbattono in un uomo, evidentemente un profugo, che dorme al sole, coi vestiti laceri. Le due non lo svegliano, lo osservano, come si fa quando vedi un cagnolino randagio. Allora Naomi ha un’idea: possono tornare in quel punto con del cibo e sfamarlo. In verità, ci mettono qualche giorno a decidersi, ma alla fine lo fanno. Di nascosto alle famiglie tornano e portano da mangiare al profugo, naufragato chissà da dove. Gli portano pesche, pomodori e feta – perché è quello di cui tendono a nutrirsi le due ragazze, salvo poi rendersi conto che forse dovrebbero portargli qualcosa di più nutriente.

L’uomo, che si chiama Faoud, non rientra però nell’archetipo del profugo di Naomi, non è un derelitto senza arti né parti, anzi, parla inglese e francese correntemente, cosicché la ragazza resta sorpresa fino a trasalire «nello scoprire che era più borghese di lei». In ogni caso, proprio come si fa quando si ritrova un cane randagio, Naomi gli trova prima un rifugio affittando una capanna da un pastore, poi in un certo senso lo adotta, se lo porta a casa, anche se la casa in realtà è un lussuoso albergo in pieno centro turistico. Sam la copre e la sostiene, anche se non condivide del tutto le mosse dell’amica, ma è da lei pur sempre soggiogata. Piuttosto, ci rimane male quando si accorge che Faoud sembra fisicamente più attratto da Naomi che da lei, nonostante sappia di essere più bella della ragazza inglese. Accetta la situazione, e anche se Naomi non le confesserà la notte di sesso che avrà con Faoud in albergo, lei lo immagina.

Da qui, il romanzo prende un’altra piega e un’altra velocità sotto ogni punto di vista. Quello che finora è sembrato solo un romanzo di costume e critica sociale a un’annoiata ricca classe borghese (per cui «l’imperativo era passarsela bene e galleggiare sulla superficie luminescente» delle cose, che passeggia sotto il sole di mezzogiorno perché «solo i ricchi disoccupati potevano infliggersi quel genere di torture»), assume le sembianze del noir, un noir esistenzialista di fattura simenoniana. Cambia anche il ritmo che imprime alla pagina Osborne che abbandona la lentezza languida e indolente da spiaggia estiva e sfodera eventi, dialoghi e colpi di scena.

Naomi ha un’idea balzana per donare un po’ delle ricchezze della sua famiglia a Faoud e permettergli di partire, di lasciare la Grecia e arrivare in Italia. Faoud in principio non si fida molto, ma poi si lascia convincere. Le cose però non filano come da piano programmato, perché «si riesce a calcolare solo un certo numero di cose. Gli errori sono inevitabili». Così, avviene un doppio omicidio, arriva un investigatore privato, la vicenda si ingarbuglia e – date le premesse – non può certo finire bene.

La narrazione, come accennavo, della seconda parte varia parecchio. Cominciano ad alternarsi i capitoli che sorvegliano Naomi rimasta sull’isola con i suoi fantasmi (da qui la decisione del titolo dell’edizione italiana), con quelli che seguono Faoud nella sua fuga in terre italiane. In questa alternanza, nel ritmo che si fa sempre più serrato, in cui gli eventi si susseguono, Osborne però non perde mai le sue capacità descrittive, le sue pennellate impressioniste di luoghi e paesaggi, e non perde neanche l’abilità di saper fermare per un momento la caccia hitchcockiana all’assassino, solo per descrivere il pranzo toscano dell’investigatore, che trova il tempo di ordinare «un piatto di gnudi alla ricotta, faraona disossata e patate arrosto. Naturalmente aggiunse una bottiglia di Riserva Badia a Coltibuono».

Siamo nel climax del romanzo, e Osborne mantiene in perfetto equilibrio di stile e ritmo. Alla fine resta un romanzo sociale e di costume che si esprime attraverso trama a tinte noir e ottima rotondità psicologica dei personaggi. Sia ben chiaro, è un noir lontano da cliché canonici; è un noir alla luce del sole, anzi fin troppo accecante, come era successo a Meursault in Lo straniero di Camus. Così si sviluppa il perfetto ossimoro, come scrive Osborne: «Tutto lo scenario, le ipotesi su cui lavorare, cambiarono, […] si incupirono. Successe tra i vigneti delle colline e i viali di cipressi, nella luce del sole che civilizzava e faceva sembrare predisposte per la felicità tutte le cose che toccava».

Ecco, si potrebbe dire che è la felicità a mancare fin dal principio, in Noemi e in Sam annoiate dal loro status in cui «la solitudine era un valore che per loro non significava niente», e in Faoud che scappa prima dalla condizione di profugo poi dagli eventi che gli sfuggono di mano. Ma altrettanto nei personaggi minori che incontriamo via via.

Osborne rimane equidistante, osserva, narra, lascia che sia il lettore a diventare giudice implacabile. Anche la scelta dei luoghi del romanzo diventa una sorta di grande allegoria tra fasti del passato e contemporaneità. Dalle isole dell’antica e civilissima Grecia si finisce a Sorano e Sovana, culle della civiltà etrusca, passando per la Puglia ellenica e la Roma imperiale. Tutte civiltà che vedevano nell’altro, nel diverso il barbaro.

 

(Lawrence Osborne, L’estate dei fantasmi, trad. di Mariagrazia Gini, Adelphi, 2020, pp. 285, euro 19, articolo di Fernando Coratelli)
Copertina di Configurazione Tundra di Mirabelli

Abitare è un mestiere difficile

Quanto possono ospitare poco più di cento pagine? Quanto volume gassoso e immaginifico può restarvi condensato? Il tempo di qualche infausto ingorgo sull’autobus? Una spicciolata di notti da addomesticare? Ebbene, in questo caso, come in infiniti altri, la volubile scommessa della letteratura smentisce tutti tranne se stessa. E ci riserva un testo di agilità solo apparente, un’architettura poderosa travestita da novella.

Configurazione Tundra (Tunué, 2020), esordio di Elena Giorgiana Mirabelli, è un’operazione ardimentosa. Complessa, iperstrutturata, dove ogni paragrafo ha il peso specifico di un pianeta gioviano. All’interno di Tundra, città pianificata secondo modelli teorici ed estetici molto vincolanti, la dissidente Diana, tramite e voce narrante, trascorre un periodo di riposo in un Altrove, alloggio abitato in precedenza da qualcuno a sua volta indirizzato in un diverso Altrove. L’Altrove, come esplicita e imposta richiesta, deve assurgere a spazio ripulito, forzatamente nudo, una contea neutralizzata in cui ritemprarsi per qualche mese.

A Diana, però, capita di insediarsi in quella che fu la casa di Lea, figlia di Marta Fiani, architetta e ideatrice del progetto Tundra. E Lea decide di disattendere la norma, di non smacchiarsi da quelle pareti. Lea non spoglia l’appartamento dalle proprie impronte. Non solo, semina volutamente frattaglie di memoria. Foto, diari, lettere disperse nei cassetti, frammenti fossili di una storia che Diana si trova a ripercorrere, come fosse una medium. Evocare schegge, odori, tracce, spirali di passi per illustrare due esistenze che si specchiano dentro una visione.

A spiccare è quella demiurgica di Marta, procreatrice di un sistema-bioma rigidamente disciplinato per pilotare le direzioni dei suoi occupanti. Donna caleidoscopica, stratificata, come lo spazio urbano che pone in essere, Marta si ispira a principi logico-spirituali che finiscono col permeare ogni aspetto della sua condotta. Dal cibo alla vestizione fino alla gestione della sua maternità, l’architetta Fiani si nutre di linee e superfici, per prospettare un punto d’osservazione fortemente definito. In cui di sfuocato resta solo Lea.

«Il rapporto tra teoria e prassi può essere spiegato solo attraverso il grande grafico dell’Enneagramma. Non c’è nulla che non possa essere compreso seguendo le linee, perché è la linea che dirige l’azione». Marta stabilisce di risiedere sul bordo per scrutare e concepire, è quello il suo habitat, come misura del confine per filtrare mondo interiore e proiezioni esterne. «Ci sono diversi modi per conoscere la realtà. Io ho scelto di situarmi sul bordo. Di stare lì, sul limite estremo. Stare sul bordo è stare come dentro e fuori contemporaneamente. […] Il mio bordo è il mio corpo. Permetto che delle informazioni mi varino, mi riattivo e autoregolo. Ritrovo il mio equilibrio. Mi stabilizzo».

Tutto in Tundra è realizzato come un plastico a grandezza naturale per minimizzare l’errore, foderare l’affanno, costellare gli atti umani di traiettorie guida. Pensare e costruire per rendere gli abitanti “ottimizzati”, perfettamente inscatolati nel loro ineccepibile alveare. «Se riuscissimo a creare un sistema emotivo rigido non sarebbe tutto molto più semplice? Se riuscissimo a regolare e regolarizzare il desiderio e stilassimo una lista di agenti che non riescono ad attenersi al protocollo, non saremmo più vicini all’Eden […] Una volta raccolti i dati delle mappe esistenziali di ogni agente, la Guida riuscirà a possedere una statistica veridica e ad agire per il nuovo Orizzonte armonico».

Questa la volontà di Marta, convogliare comportamenti e pensieri su binari iper-razionali e semplificanti, in modo che l’unicità, la variante imprevedibile, il prurito sotto la crosta, siano etichettati come aberrazioni della grazia, dell’euritmia auspicabile. Progettare un complesso dove i sentimenti trovano un terreno artico e desertico in cui è difficile attecchire. In cui forse tutti sono innocui, intenti a incanalarsi nei loro sentieri purificati. Un universo forse non molto distante dal nostro, altrettanto sapientemente ammobiliato.

Il focus di Diana, anch’esso liminare come implica la sua funzione, oscilla continuamente tra lei, ciclopica anche quando assente, e sua figlia, che tesse per procura la trama di questa archeologia. Non è facile per Lea preservare una regolarità, una simmetria salvifica. E Diana non fa che vederla. La visualizza, riproduce nella mente ciò che lei ha sparpagliato tra le mura. La vede, sperimentare il piacere e subire il dominio. Mettere alla prova i suoi margini nella relazione con Ettore. Così come farà lei stessa, risucchiata da questa scoperta e costretta a rileggersi mentre scrive di loro, nel gioco ineludibile e sfinente di riconoscersi nell’Altro mentre si è immersi nell’Altrove.

Configurazione Tundra è un breve trattato di architettura, un memoriale e un romanzo distopico. È una sfida concettosa e concettuale che chiede energie ricettive non così comuni. Affaticante, spaesante, esigente. Senza la leggerezza delle Città invisibili e la follia delle biforcazioni di Borges. Sicuramente una prova coraggiosa e succosissima. Un impegno molto più lungo della sua durata.

 

(Elena Giorgiana Mirabelli, Configurazione Tundra, Tunué, 2020, 106 pp., euro 13,50, articolo di Cristiana Saporito)

 

Gli indifferenti poster film del 2020

Noia delle borghesia

C’era bisogno di una nuova versione cinematografica di Gli indifferenti? Probabilmente no. C’era bisogno di provare ad attualizzare le tematiche del romanzo per portarle in un oggi completamente cambiato sotto il profilo sociale? Sicuramente no.

Eppure, Leonardo Guerra Seragnoli e il suo co-sceneggiatore Alessandro Valenti hanno provato lo stesso ad attualizzare il capolavoro di Alberto Moravia trasportandolo in una Roma contemporanea. La trama segue la traccia del libro per cambiarne il finale e alcuni dettagli. Una famiglia dell’alta borghesia romana vive ben al di sopra dei propri mezzi trascinata dall’indolente madre Mariagrazia. Dopo la morte del marito ha continuato a comportarsi da signora con i soldi ottenuti in prestito dal suo amante Leo, che la manipola da tre anni per appropriarsi del lussuoso appartamento di famiglia. Il figlio di Mariagrazia, Michele, vive in una continua insofferenza per Leo e la sua arroganza, mentre Carla, appena diciottenne, coltiva il sogno di diventare una streamer professionista di videogiochi, e trova nell’amante della madre l’unico apparentemente disposto ad alimentare le sue ambizioni.

L’idea di rendere Carla una twitcher è l’unico pretesto di contemporaneità per questa versione di Gli indifferenti. Guerra Seragnoli aveva avuto una buona intuizione nel 2018 con il (quasi) riuscito Likemeback che parlava della società dell’apparenza attraverso tre ragazzine in vacanza in barca a vela. Qui i videogiochi diventano il solo appiglio per giustificare un tentativo di lettura contemporanea del romanzo. Altri agganci non ci sono. Moravia con il suo libro del 1929 denunciava l’indifferenza – appunto – della borghesia di fronte alla società in trasformazione. Francesco Maselli non aveva voluto attualizzare la trama per il suo film del 1964, ma di famiglia, borghesia e trasformazioni si parlava eccome negli anni Sessanta (per rimanere nel cinema basta pensare a I pugni in tasca dell’anno successivo).

Il parallelismo tra 1929 e 2020 non regge a nessun livello di lettura. Il motivo principale è che oggi quella borghesia di Gli indifferenti non esiste più, o comunque è marginale sul piano culturale. La società è cambiata in maniera troppo radicale per riuscire a rendere universale la storia di una famiglia che appartiene  a un’altra epoca. Mariagrazia e figli non sono la rappresentazione credibile di uno spaccato di società, sono un oggetto scollegato dal tempo in un film che privato della sua dimensione sociale fatica a trovare un senso. Manca nel film quello sguardo antropologico sui ricchi di titoli come Il capitale umano, o del cinema di Luca Guadagnino (Io sono l’amore, soprattutto). I personaggi di conseguenza sono freddi e detestabili, senza alcuna possibilità di empatia e ingessati in una forma che sembra aspettare solo una reazione esplosiva di libertà.

Seppur ridotto all’essenziale nella durata – non arriva a ottanta minuti – Gli indifferenti scorre a fatica verso un finale che rispetto al libro sposta l’attenzione da Michele a Carla, ultima speranza di riscatto contro le tentazioni dell’ipocrisia borghese.

Sprovvisti di una sceneggiatura credibile, i quattro protagonisti – Edoardo Pesce e Valeria Bruni Tedeschi per gli adulti, Vincenzo Crea e Betrice Grannò per i ragazzi – e la comprimaria Lisa di Giovanna Mezzogiorno sbandano senza sostegni in un vagare di espressioni contrite e silenzi.

(Gli indifferenti, di Lorenzo Guerra Seragnoli, 2020, drammatico, 78’)