“Breve storia di una generazione” di Torto O.G.

«A cosa servono le parole? A riempire le intercapedini tra i silenzi? A delimitare l’infinità degli spazi bianchi? E quanto pesano?».

Sicuramente pesano molto, se affilate con la giusta cura, come avviene in molti dei diciannove articoli contenuti in questo libro. Un libro molto breve, certo, dalla lettura agile, ma al contempo più profonda di quanto possa sembrare in apparenza. È composto da una raccolta di brevi pensieri dell’autore, già pubblicati nel suo blog, accompagnati da foto di murales scattate in quella che si considera la capitale per eccellenza della libertà europea, Berlino. I graffiti e i murales di Kreuzberg, in bianco e nero, anziché distrarre il lettore dalle parole dell’autore, le rafforzano e danno loro un’ancor maggiore incisività.

Il leitmotiv del libro sembra mostrare lo scarto tra il presente e il futuro, tra ciò che il rap italiano era un tempo e ciò che è oggi, un confronto – un contrasto, forse? – tra generazioni che sembra essersi accentuato in modo notevole. Fin dalla prefazione, firmata J-Ax, è possibile riconoscere un iniziale contrasto, quello tra il “noi” e il “voi”, tra quelli che sono già arrivati e quelli che stanno intraprendendo la propria strada: se il rap è ovviamente lo sfondo su cui si stagliano contrasti e disagi, il sentimento espresso da J-Ax sembra un esempio di un classico italiano ben poco appagante: «Scuole di pensiero diverse che, invece del confronto, cercavano il modo di delegittimare. Specialmente con l’ingiuria, come da tradizione». Un classico italiano, che sembra attraversare l’intero Paese e abbattersi su ogni aspetto della sua vita, sia essa politica o culturale.

Il libro contiene tutto l’amore dell’autore per il rap, «che si distingue da tutto il resto», ma contiene anche un’invocazione, un «sappiateci apprezzare» che sembra una richiesta di riconoscimento per un genere considerato a volte marginale perché troppo poco elegante, mentre sa invece offrirci vere e proprie poesie, intrise di un desiderio di lasciarsi indietro il peso del passato e calciare in avanti quello del futuro. Il passato e il futuro appaiono come una ferita per l’autore, ma anche il presente, con la sua industria delle illusioni e il suo mondo corrotto, sembra non essere di gran lunga migliore. Eppure, a tratti, riusciamo a scorgere una certa nostalgia di tempi trascorsi: se ieri i rapper facevano paura e colpivano, oggi sparano nel mucchio, fanno ridere, vanno di moda, sono corrotti dalle illusioni e dalle tendenze che corrompono la nostra quotidianità, da quell’industria che inganna tutti. In questa critica al nostro presente, tuttavia, c’è anche lo spazio per un (debole) positivismo: il nostro mondo «tutto sommato fa zero […]. Zero è zero, è nulla, è vero, però è molto più del niente, se lo zero è la somma di tutti i giorni goduti e sofferti». Non c’è solo del male da estirpare, non c’è solo un passato da cacciare: debolmente si ammette che c’era anche del buono. Nonostante le difficoltà, nonostante le opposizioni di quelli che erano già arrivati, che sapevano dare consigli tanto ipocriti quanto mutevoli. Questo è ciò che Torto O.G. sottolinea, non senza colorita rabbia, nella sua introduzione, ormai virale su internet, culminando con un improperio in cui tutti, giovani e meno, in questo momento economicamente e socialmente complesso, si riconoscono.
 

(Torto O.G., Breve storia di una generazione. Versi e visioni di rivolta metropolitana, CaratteriMobili, 2012, pp. 47, euro 13)

Emmy Awards 2012: i vincitori

Dopo aver fornito una panoramica sulla nuova stagione televisiva e sui primi consigli per la visione, è il momento di dare uno sguardo ai vincitori degli Emmy Awards 2012, i più importanti riconoscimenti riguardanti il mondo della televisione.

La cerimonia di premiazione, avvenuta come ogni anno al Nokia Theatre di Los Angeles, è stata presentata dal comico statunitense Jimmy Kimmel e ha visto la presenza di una lunghissima serie di artisti saliti sul palco per annunciare e ricevere le numerose statuette.

La serie che ha ottenuto maggiori soddisfazioni è stata una delle rivelazioni della passata stagione, Homeland, che racconta la storia di un marine americano liberato dopo anni di prigionia da parte di Al-Qaida e sospettato di essere passato dalla parte del nemico, diventando una minaccia per tutti gli Stati Uniti. Il programma, mandato in onda dal canale via cavo Showtime, ha scalzato dal trono Mad Men dopo ben quattro anni di dominio ed è stato il trionfatore della cerimonia, vincendo ben 6 premi tra le varie categorie; si è affermata come migliore serie drammatica e con un cast d’eccezione: Damian Lewis e Claire Danes, nei ruoli del sergente Nicholas Brody e dell’analista della CIA Carrie Mathison, sono stati eletti rispettivamente miglior attore e miglior attrice protagonisti. La conferma di queste scelte azzeccate sta anche nel premio per il miglior casting dell’anno, ricevuto alla cerimonia dei Creative Arts Emmy Awards (evento che precede di una settimana la consegna degli Emmy e che si sofferma su tutte le categorie che riguardano il lato prettamente tecnico e tutto quello che rientra nel “dietro le quinte” delle varie serie tv).

L’altro grande vincitore di questa edizione è stato sicuramente Modern Family, una creazione della coppia Lloyd e Levitan che si è confermata per la terza volta miglior comedy, portando a casa cinque statuette (stesso risultato del 2011). I grandi avversari, come The Big Bang Theory o 30 Rock, sono usciti sconfitti su quasi tutta la linea e solo in pochi casi c’è chi riuscito a spuntarla sul grande dominatore di questa categoria.

Prima di passare ai delusi di questo anno va menzionato Game Of  Thrones (in Italia Il Trono Di Spade), rimasto all’asciutto per il Primetime, ma vincitore di ben sei premi durante la cerimonia dei Creative Awards.

A questo punto bisogna obbligatoriamente nominare tutte le serie arrivate con grandi aspettative a questa premiazione ma tornate a casa a mani vuote (o quasi).

È il caso di American Horror Story con le sue 17 nomination all’attivo, uscita vincitrice con la sola Jessica Lange come migliore attrice non protagonista per una miniserie o film per la tv e il premio per le migliori acconciature nella sua categoria. Forse ancora peggio è andata all’emittente via cavo AMC, con ben 30 possibilità di portare a casa qualche statuetta con Mad Men (già migliore serie drammatica dal 2008, come già detto) e Breaking Bad, ma capace di prevalere solo grazie ad Aaron Paul (migliore attore non protagonista proprio in Breaking Bad) e gli zombie di The Walking Dead, valsi ai truccatori dello show il premio come migliore make-up.

Non ci siamo voluti soffermare su Game Change, dominatore tra le miniserie ed i film per la tv, un lungometraggio sicuramente più vicino agli americani rispetto a noi europei che ripercorre la corsa alle presidenziali del 2008 di John McCain contro Barack Obama, uscito poi vincitore ed eletto presidente degli Stati Uniti.

HBO ha colto nel segno portando a casa 5 premi (a cui si aggiungono i 4 vinti da Boardwalk Empire, di cui uno solo però era tra i Primetime Awards). Probabilmente AMC cercherà la sua “vendetta” per aver visto interrompere un regno incontrastato per così tanto tempo, forte di due armi come Mad Men e Breaking Bad  (senza contare un outsider come The Walking Dead), e a Homeland non resta che sfornare una seconda stagione (iniziata giusto qualche settimana fa) che confermi il successo della prima per evitare di essere destituito subito e per dimostrarsi così il degno erede sul trono delle serie tv americane.

66thand2nd: a tu per tu con Isabella Ferretti

Vi avevamo lasciato con la collana Attese, ci ritroviamo oggi per raccontarvi l’ultima e fondamentale tappa del nostro viaggio “dietro le quarte” di 66thand2nd: l’intervista.

Abbiamo chiesto di parlare del progetto 66thand2nd a chi lo conosce davvero, a chi lo ha vissuto da dentro, a chi lo ha costruito, lo ha visto crescere e prendere nuove forme nel tempo. Abbiamo intervistato Isabella Ferretti.

 

New York, un incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la Seconda Avenue. Lei e Tomaso Cenci avete scelto di diventare editori. Ci raccontate della nascita di questa idea?

Grazie per averci dato l’opportunità di fare questa intervista con voi. Il soggiorno negli USA e, prima ancora, in UK, ci ha fatto conoscere autori e generi letterari poco proposti al pubblico italiano. Questo è stato particolarmente vero per gli autori di melting pot e per la letteratura sportiva. Tornati in Italia abbiamo pensato di proporre le nostre letture al pubblico italiano e piano piano stiamo cercando di crearci uno spazio nel panorama editoriale del nostro paese.

 

Parliamo di generi, del vostro genere prediletto, del romanzo. Cosa significa pubblicare romanzi oggi, in un panorama editoriale cartaceo e online che pullula di generi e sottogeneri nuovi?

La nostra forza è la specificità del progetto editoriale e la coerenza con cui scegliamo i nostri autori. Questo crea riconoscibilità del prodotto e affidamento nel marchio. Inoltre, pubblichiamo molte raccolte di racconti, anche questa una cifra distintiva e programmatica della casa editrice.

 

L’integrazione, l’interculturalità, l’incontro delle tradizioni, lo sport, il sogno, l’attesa. Questi i colori predominanti dei vostri romanzi, cosa vi ha guidato in questa scelta?

Il progetto editoriale di 66thand2nd è nato dalle passioni e dalle esperienze degli editori, si è sviluppato grazie a queste e allo studio del mercato editoriale italiano. Attese incarna la passione per lo sport come metafora di vita. Bazar allarga agli scrittori del mondo l’esperienza del vivere in un luogo diverso da quello delle origini e farlo proprio rimanendo sé stessi. Bookclub vuole proporre l’informalità del gruppo di lettura anglosassone per riportare la lettura al centro della vita sociale dell’individuo. B-Polar, ultima nata in casa 66th, è la nostra risposta alla sete di noir e polizieschi, basata sul lavoro di ricerca e scouting intrapreso con Bazar. 

 

I vostri libri colpiscono prima di tutto per le copertine, che rivelano una grande cura e attenzione a ogni dettaglio. Possiamo sapere qualcosa in più su questo progetto grafico così particolare?

La grafica delle collane è affidata al nostro art director, la bravissima Silvana Amato, assistita da Marta Biddau, che ha saputo ben interpretare – anche nella scelta degli illustratori, Julia Binfield per la collana Bazar e Claude Marzotto di Alexis Rom Estudio per Attese – il senso del nostro progetto editoriale. Volevamo carte pregiate, un manto di bianco su cui potessero spiccare squisite illustrazioni, un marchio semplice ma legato alla nostra storia, copertine idonee a evocare il senso narrativo del testo: insomma ogni libro doveva essere un oggetto prezioso, un sogno, un atto d’amore nei confronti del lettore. Come si può predicare l’eccezionalità degli autori, cercati con fatica e voluti con determinazione, e poi relegarli in un contenente di basso livello, fatto di foto ammiccanti e materiali scadenti?

 

Qualche giorno fa abbiamo letto che avete affidato a Leonardo Luccone la direzione editoriale. Ricordiamo ai lettori che Luccone è tra i fondatori dell’agenzia letteraria romana Oblique e della rivista Watt, oltre che traduttore e grande esperto di editoria e narrativa. Quali sono le caratteristiche del progetto che vi ha proposto?

Tomaso e io siamo editori vintage, in un certo senso. Coltiviamo ideali e contenuti, crediamo che la cultura, e la lettura in particolare, sia l’unica leva per cambiare la società, per dare una speranza ai giovani. Bob Dylan ha detto che il rock non può cambiare il mondo. Noi invece speriamo che fare libri possa spingere le persone a cambiare, a combattere per un mondo migliore. Conoscevamo già Leonardo e lui conosceva il nostro progetto e la determinazione degli editori nel voler crescere. Abbiamo scelto lui – insieme agli ottimi Giuliano Boraso e Elvira Grassi – per la sua capacità di integrarsi con la struttura e di abbracciare il nostro progetto in chiave di crescita, appunto. La nostra forza è il lavoro di squadra e Leonardo fa squadra pur mettendo a disposizione un talento da solista e l’aspirazione a fare il meglio. Ci saranno sorprese, anche nel campo della narrativa italiana…

 

Siete soddisfatti, in generale, della risposta del pubblico e delle librerie, considerando anche le difficoltà odierne del mercato editoriale e la sfida lanciata dall’ebook, di cui ormai si straparla? Avete intenzione di muovervi anche in questa nuova direzione?

66thand2nd è ancora nella fase di crescita fisiologica. La crisi del mercato però ci rallenta molto. Il nostro non è un prodotto mainstream e, dunque, dobbiamo faticare molto di più per affermarci e ottenere visibilità. Abbiamo un nostro zoccolo duro di lettori e siamo ben accolti in libreria, soprattutto presso gli indipendenti. Diverso è il discorso con le catene che hanno rinunciato all’importante lavoro che gli compete, vale a dire quello di valorizzare e dare spazio a realtà editoriali meritevoli di attenzione a favore di un’ottica di meri ricavi che favorisce la logica dei grandi gruppi. Diffondiamo la versione ebook dei nostri libri attraverso la piattaforma di BookRepublic. Nel 2013 rafforzeremo la nostra presenza in questo mercato.

 

Parliamo del futuro. Che vento soffia nell’incrocio 66thand2nd?

Il 2013 sarà un anno di potenziamento dell’offerta. Salirà la quantità di libri pubblicati, la presenza della casa editrice nelle manifestazioni fieristiche e ai festival, il contatto con il pubblico. Il piano editoriale presenta grandi autori, mai portati prima in Italia. Tra questi, Denis Lachaud, Anthony Cartwright, Binyavanga Wainaina, Tupelo Hassman. Tra gli italiani, Riccardo Romani, con un romanzo potente di ambientazione inedita per un autore italiano. Vi aspettiamo in libreria!

 

Ringraziamo Isabella Ferretti per la sua disponibilità e cortesia e concludiamo il nostro viaggio all'interno di 66thand2nd, sperando di aver soddisfatto tutte le vostre curiosità.

“DietroLeQuarte” vi aspetta qui anche la prossima settimana, sempre di mercoledì, per l’ultimo articolo del mese di ottobre. Il mondo dell’editoria indipendente si sta rivelando affascinante e a tratti misconosciuto in tutte le sue tappe, dalla realizzazione del libro in casa editrice, alla pubblicazione, alla distribuzione… ma basta anticipazioni! Vogliamo che sia una sorpresa.

A mercoledì!



 

“Diavoleide” di Michail Bulgakov

In principio fu l’Americana, un’antologia di racconti di scrittori americani, uscita censurata durante il periodo fascista per i tipi di Bompiani sotto la supervisione di Vittorini. La traduzione dei testi fu opera di vari autori italiani tra cui Vittorini stesso, Pavese, Montale, Moravia, etc. Pavese definì questa antologia «una storia letteraria vista da un poeta come storia della propria poetica». Di fatto ogni traduzione rappresentava un’occasione per testare temi e stilemi che saranno cari agli stessi traduttori-scrittori nelle proprie opere.

Dal 1983 al 2000 fu la volta di Einaudi che creò una collana Scrittori tradotti da scrittori, ossia grandi classici della letteratura mondiale venivano resi disponibili al pubblico italiano in versioni d’autore: ad esempio Manganelli tradusse Fiducia di Henry James, Natalia Ginzburg testi di Maupassant, Celati Jack London, etc.

Sulla scia della casa editrice torinese, Voland nel 2010 ha dato vita a Sírin classica, collana che raccoglie romanzi della letteratura russa nella traduzione di importanti autori italiani. Per comprendere la qualità veramente elevata di queste traduzioni occorrerebbe confrontarle con le vecchie versioni. Ma ancora più probante di qualsiasi erudita comparazione è il constatare la fluidità del nuovo dettato lasciandosi travolgere come un torrente montano dalla freschezza delle parole.

È l’impressione che si ha leggendo Diavoleide e Le avventure di Čičikov di Michail Bulgakov nella versione data dallo scrittore Andrea Tarabbia. Chi ha letto Il Maestro e Margherita è già avvezzo al mondo grottesco e allucinato bulgakoviano di cui Diavoleide è una anticipazione (il racconto è del 1923) straordinaria. Provate a leggerlo tutto d’un fiato, lasciatevi trasportare dal ritmo concitato e a volte, è il caso di dirlo, indiavolato della storia senza preoccuparvi se non riuscite a comprendere tutto immediatamente. Ma mi raccomando non fermatevi mai. I battiti accelerati, la testa confusa e i contorni sempre più sfumati della realtà. Se questo era l’intento dello scrittore, questa sensazione di vertigine che ti prende come quando sei appena sceso dalle montagne russe è la chiave per godere a pieno della lettura di questo piccolo capolavoro.

Vartolomej Korotkov è segretario presso la Sede Centrale Principale dei Materiali per Fiammiferi di Mosca, ossia l’“uomo superfluo” di ottocentesca memoria che si trova a fare i conti con la complicatissima burocrazia sovietica, con la realtà della NEP, il nuovo corso politico-economico inaugurato dopo la guerra civile fra i bolscevichi e i Bianchi antirivoluzionari, con il razionamento del cibo e con la mancanza di soldi (all’inizio del racconto al posto del denaro come stipendio gli impiegati verranno retribuiti con «i prodotti della produzione», quindi nel caso di Korotkov scatole su scatole di fiammiferi…). Il suo licenziamento da parte del nuovo direttore Mutandoner sarà il pretesto che darà inizio a una serie di inseguimenti, alla ricerca di spiegazioni e nel tentativo vano di essere reintegrato al suo posto di lavoro, in un vorticoso susseguirsi di stanze, scale, pareti a vetri e ascensori a specchio in cui osservare il proprio riflesso e in assurdi incontri con bizzarri personaggi dall’aspetto e dal comportamento a metà fra il comico e il grottesco, che sembrano usciti da una tela surrealista (dattilografe dai denti piccoli, personaggi che si sdoppiano comparendo ora glabri ora con una lunga barba come Mutandoner, identità svanite o rubate insieme ai documenti che le attestano, etc.).

Il secondo racconto, presentato sotto forma di sogno, Le avventure di Čičikov è un omaggio al maestro Gogol’. I personaggi di Anime morte sono trasferiti infatti nella Mosca di inizio ’900. Čičikov è un furbo truffaldino che, abbandonati i modi di contraffazione zaristi, si adegua ben presto alle nuove tecniche del regime sovietico. A differenza di Diavoleide però qui è lo Stato sovietico a essere raggirato.

Misurarsi con l’assurdo mondo di Bulgakov non è certo facile. In un recente intervento alla Casa delle traduzioni di Roma, Tarabbia spiega come è stato possibile non venire schiacciato dal peso di confrontarsi con l’opera del grande Maestro russo: «Diavoleide e Le avventure di Čičikov sono due racconti che Bulgakov scrisse nei primi anni ’20 per poi pubblicarli nel 1925, quando aveva 34 anni. Io, oggi, ho 34 anni. Non mi sono reso subito conto di questa coincidenza che, naturalmente, lascia il tempo che trova. C’è però un particolare, in questo fatto, che in qualche modo mi è stato d’aiuto. Bulgakov, come ho detto, è uno dei miei maestri, uno degli autori su cui mi sono formato come persona e come scrittore. L’idea di tradurlo, all’inizio, mi spaventava proprio per questo: pagavo un debito, d’accordo, ma allo stesso tempo mettevo le mani – io, traduttore inesperto – su una lingua e su un mondo grazie ai quali ero cresciuto, uno scrittore di cui avevo cercato e visitato i luoghi in giro per Mosca e al quale tornavo e torno ogni volta come una sorta di “ritorno a casa”. Oltretutto, la grafica delle copertine di Sírin classica prevede che il nome del curatore del volume sia scritto grande come quello dell’autore. È una responsabilità e un onore, d’accordo, ma anche, per quanto mi riguarda, una “lesa maestà”. Siamo abituati a percepire i grandi scrittori del passato come dei cristalli, delle figure immutabili dispensatrici di classici e di insegnamenti. In parte, lo so, è inevitabile che sia così, e forse è perfino giusto. Però il Bulgakov con cui mi sono misurato io non era ancora un classico intramontabile: era un giovane scrittore di belle speranze, pieno di pregi e di difetti, che si affacciava sul mondo della letteratura. A 34 anni non aveva ancora nemmeno immaginato Il Maestro e Margherita, e aveva scritto solo alcune delle cose che in seguito sarebbero divenute immortali. Era insomma uno scrittore in fieri (Zamjatin, letto Diavoleide, parlò di Bulgakov come di una promessa e disse – a ragione – che dalla sua prosa traspariva un grande talento che si sarebbe sicuramente espresso negli anni a venire): ecco, forse io sono riuscito a tradurre Bulgakov, con tutto il peso che questo comporta, perché mentre lavoravo ho finto di non sapere che esiste Il Maestro e Margherita, perché non ho pensato a una figura canonizzata ma a uno che, alla mia età, rimboccandosi le maniche prova a trovare un posto da dove raccontare agli altri la sua visione del mondo».

Se il coetaneo Bulgakov suscita in Tarabbia un po’ meno timore reverenziale rispetto al già affermato autore de Il Maestro e Margherita, è indubbio che ci troviamo già di fronte a un acuto osservatore della sua contemporaneità, un narratore che incalza e ipnotizza con le sue miscele esplosive di eccessi deliranti e deformanti un reale sezionato in tutta la sua allucinante e ipertrofica banalità quotidiana e dominato da un Potere che puzza di zolfo.

 

(Michail A. Bulgakov, Diavoleide, trad. Andrea Tarabbia, Voland 2012, pp. 104, euro 10)

“Apostoloff” di Sibylle Lewitscharoff

La casa editrice Del Vecchio pubblica nell’ambito di Narrativa, la collana dedicata agli scrittori contemporanei d’oltralpe, Apostoloff, di Sibylle Lewitscharoff. Il volume, che prima di ogni altra impressione, lascia una felice sensazione tattile di maneggevolezza, si annuncia con un titolo carico di aspettative messianiche e che rimanda all’immagine di copertina confondendo il lettore nel suggerirgli di avere a che fare con un romanzo on the road. Ma l’inganno si scioglie in fretta.

Già dalle prime pagine balza agli occhi che ci troviamo solo fisicamente seduti sul sedile posteriore di un’automobile in movimento. In realtà siamo all’interno della Figlia-di-Kristo dove il pensiero ha la forma di un romanzo perché la Figlia-di-Kristo e sua sorella hanno sempre vissuto di romanzi. Romanzi come finestre, come mattoni per solide mura, come pietre miliari. La testa della Figlia-di-Kristo non si ferma mai, è una testa pesante, piena di citazioni, di immagini, di incubi e di dolore, appoggiata su pistoni sempre in movimento che si alimentano dell’energia dell’umorismo nero all’interno di un capolavoro di ingegneria linguistica. È una testa nella quale il lettore non è il benvenuto. Nella testa della Figlia-di-Kristo non viene spostata nemmeno una sedia perché vi si accomodi.

Il flusso di coscienza magistralmente diretto da Lewitscharoff non è semplice da navigare. I pensieri sono riportati con estrema coerenza: difficilmente quando si elabora la storia che si sta vivendo ci si chiama per nome, quindi il lettore non conosce l’identità del parlante. Altre informazioni basilari, poi sono date semplicemente per scontate. Sappiamo che la Figlia-di-Kristo e sua sorella (anche il suo nome è sconosciuto al lettore) sono di ritorno in Germania una volta scioltosi il corteo che ha accompagnato un gruppo di riesumati emigranti bulgari e le loro famiglie nel viaggio di ritorno postumo in patria, organizzato da Tabokoff, un danaroso superstite. Questa vicenda però, nella stratigrafia del pensiero, quasi non ha importanza. I particolari del viaggio, quanti siano i partecipanti, l’identità dei vivi, la durata del percorso e il percorso stesso, lo apprendiamo, prestando attenzione, da indizi disseminati all’interno del romanzo. Al centro dei pensieri della Figlia-di-Kristo ci sono questioni più ingombranti.

Innanzitutto la Bulgaria. La Figlia-di-Kristo odia con forza ogni città e ogni paese che il terzetto di cui è parte attraversa. Il paese che l’automobile di Rumen Apostoloff percorre è bruttissimo e triste. La magia ha abbandonato la terra dei Traci e gli angeli si trascinano a terra senza ali. L’autrice descrive al negativo un paese denso di storia scorrendo con il dito le rughe di questa porzione di Vecchia Europa e soffermandosi ad accarezzare la Storia incarnata da icone carbonizzate, architettura sovietica e desolazioni post – comuniste. Da questa terra orribile e ripugnante germogliano i ricordi evocati dai fantasmi che il corteo funebre ha risvegliato.

Kristo, Cristo, Dio padre, il padre, sopra tutti, tiene il suo occhio spalancato sulle figlie. La Figlia-di-Kristo, accompagnandolo nella replica dell’ultimo viaggio, rivive la propria infanzia, costretta a elaborare nuovamente lutti e traumi infantili dallo svolgersi tortuoso del viaggio durante il quale sfoga la sua rabbia incontenibile contro la terra per vendicarsi del genitore. Il padre si è infatti impiccato dopo aver una lunga depressione costellata di tentativi falliti di suicidio. Sangue e corda è il padre che, aiutato da una madre fatta tutta di mani e disappunto, ha scavato un gorgo di sofferenza all’interno delle figlie. Questo padre è tratteggiato in maniera commovente: nonostante la protagonista sia una donna di mezz’età, pare non aver affatto costruito una narrazione lineare della propria infanzia così, con la voce della bambina, passa al microscopio episodi minimi che accadono ancora e ancora qui e oggi e, contemporaneamente, con la voce dell’adulta, riapre con poche parole ferite rimarginate di fresco.

Apostoloff è un romanzo denso, intrigante e insolente che al lettore chiede moltissimo, soprattutto l’impiego di tempo e di attenzione. Non è possibile farne una scorpacciata nei ritagli di tempo o sui mezzi pubblici, a meno di perdere la capacità di mettere a fuoco le immagini, di trovarsi persi tra le connessioni logiche, a volte pindariche, e di sentirsi orfani dei sentimenti che la protagonista violentemente accende e repentinamente spegne. In concreto Apostoloff si rivela un viaggio affascinante in un mondo a più dimensioni, purché si adottino le contromisure per scampare il mal di testa e la nausea del mal d’auto.

 

(Sibylle Lewitscharoff, Apostoloff, trad. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio, 2012, pp. 248, euro 14)

“Guarda l’uccellino” di Kurt Vonnegut

Ha visto impazzire una città, l’ha vista farsi così piccola da nebulizzarsi in un pulviscolo di schegge.

Un’insalata di grida e d’insetti. Dove tutte le certezze architettoniche sciamano in fretta sotto un primo boato, che porta con sé fin troppi fratelli. Era a Dresda nel febbraio del ’45, mentre sparivano persone e palazzi. Un incantesimo al contrario. 135.000 nomi diventati  un ricordo in uno scoppio e qualche giorno. Forse anche questo gli ha insegnato a scrivere, a raccontare l’umanità nel modo che lo ha distinto e poi celebrato. A cinque anni dalla sua scomparsa, Kurt Vonnegut è ancora qui, su pagine fresche di casa editrice, con la raccolta di racconti Guarda l’uccellino (Feltrinelli).

La sfilata s’inaugura con “Confido”, geniale apparecchio che promette miracoli, messo a punto da Henry Bowers. È un uomo qualunque, sposato in modo altrettanto qualunque, che crede di poter saltare il fosso, di scavalcare il suo anonimato attraverso una brillante invenzione. Una scatola di latta, con un filo e un auricolare. Chiamato appunto “Confido”, come un arnese mitologico, metà cane e metà confessore, perché (già allora), in una società che cresce ma non si guarda negli occhi, il desiderio massimo è qualcuno che ci ascolti, qualcuno che s’insinui nel nostro orecchio e custodisca i nostri pensieri. Confido parla e intuisce, dal canale uditivo si cala giù e scava nelle grotte dei timori, nei pozzetti di dubbi e insicurezze. Da lì  estrapola il peggio, i giudizi funesti che dovrebbero restare sommersi. Sobilla, scopre il dorso ammaccato delle nostre debolezze. Ellen, la moglie di Henry, si sente dire di non essere abbastanza felice, di non aver chiesto il giusto, di essersi solo accontentata dipingendosi addosso la smorfia migliore, che non è riuscita più a staccare. E quindi la fine più saggia è sotterrare Confido, è non sperare di poter cambiare vita. È lasciare sepolte certe voci, perché potrebbero trasformarci. O forse fare solo affiorare la meschinità assoluta che ci fa compagnia sotto metri di cuscini e d’ipocrisia.

Si prosegue con “Fubar”, storia ennesima di un uomo ordinario, Fuzz Littler, impiegato in un’azienda che non ha posto per lui e lo relega in uffici inappropriati. Il solo diversivo è rappresentato dall’arrivo di una giovane aiutante, eccitata dal suo primo giorno, che constata però presto quanto in quella stanza non ci sia niente da fare. E per Fuzz quel sorriso sgonfiato è come uno specchio. Si riconosce nel suo grigiore, nel suo eterno «non l’ho mai fatto», nella pungente vacuità del suo lavoro e di quel rumore intorno definito “vita”. Finché non comprende che probabilmente un’alternativa esiste.

Il racconto più lungo e più potente è “Il Club privé di Ed Luby”. La surreale parabola di Harve e Claire, una coppia colpevole di aver bussato alla porta sbagliata per festeggiare il proprio anniversario. Il locale frequentato solo una volta all’anno per benedire quell’occasione si è tramutato in un club privato, in cui i loro risparmi piccolo borghesi sono quasi un insulto. Il proprietario Ed Luby ha esteso il suo dominio a tutta la città e può permettersi non solo di cacciarli, ma anche di uccidere una donna e di accusare loro. Perché loro non hanno valore, sono avventori trasparenti, comparse senza peso di un film prodotto e diretto dalle sue ruvide mani di feudatario e criminale. Una vertigine d’insolubile ingiustizia, che rievoca Kafka e il suo Processo, un vortice inspiegato a cui diventa impossibile opporsi. Si viene risucchiati e si smette di pensare. Perché pensare ferisce. Harve e Claire conoscono il loro capo d’imputazione, ma non possono difendersi, perché l’intero teatro della faccenda e tutti gli attori orbitanti sono sotto scacco, prezzolati, corrotti, affabulati dai poteri maligni del signore e padrone.
Bisogna prendere le dovute distanze, sperare nell’onestà ormai labile e inattesaper poter intravedere un davanzale di salvezza.

Si prosegue conLabirinto di specchi”, la vicenda di un ipnotizzatore vinto dai suoi stessi trucchi; poi è la volta de “Il tagliacarte”, la storia di un uomo innamorato che torna a casa contando solo di stringere sua moglie e che si vede recapitare addosso un tagliacarte/navicella, da cui fuoriescono uomini miniaturizzati. Nel giro di poche ore incontra la verità di quelle creature misteriose e del suo matrimonio, che riesce a svanire come uno starnuto, quando sembrava l’unica conquista.

E ancora c’è il racconto che battezza tutto il libro, l’esperienza di un uomo avvicinato da un altro che promette di aiutarlo, ovvero di sbarazzarsi di un conoscente disprezzato, con un metodo infallibile. Utilizzando come sicari dei paranoici convinti di una congiura. Ma quando si ha a che fare con la follia, bisogna immaginare che quell’arma conosce bene la via del ritorno. E può ritorcersi contro, come se nulla fosse. 

Esatto, come se nulla fosse. Perché nel minimalismo acuto e inconfondibile di Vonnegut, tutto può accadere con semplicità. Anche l’evento più impensato è narrato con il clamore di una finestra che sbatte. Di una corrente leggera che attraversa ogni uomo. La radiografia inclemente del genero umano, le frustrazioni appese come giacche dentro ognuno di noi. Il firmamento dei nostri vizi incrollabili, delle nostre piccolezze che si fanno romanzo, letteratura. E che una sola battuta sa fotografare. Quattordici congegni perfetti, che sfilano e sfrecciano fino all’ultima riga. Non ci stupisce che da un tagliacarte sbuchino uomini, che un rapporto d’amore evapori in un attimo o che ne spunti un altro da premesse inverosimili. L’ironia di Vonnegut pungola e scandisce, senza perdere un colpo. Siamo lì anche noi, ad aspettare che parta il flash, a farci immortalare guardando l’uccellino.

 

(Kurt Vonnegut, Guarda luccellino, trad. di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, 2012, pp.249, euro 18)

“Meat and Bone” dei Jon Spencer Blues Explosion

Sai che quando c’è di mezzo Jon Spencer difficilmente si rimane delusi. Lo sai perché quando leggi quel nome, ripensi subito al grezzo schianto della prima band, i Pussy Galore. Poi rivivi la sua storia recente, i live pieni di furore e grinta, e al nome e cognome aggiungi anche due altre parole chiave: Blues ed Explosion. E il quadro si completa e parte nelle tue orecchie la musica di una band capace – grazie a originalità e forza – di scardinare le categorie e i limiti della musica moderna, creando una fusione di punk, rock e blues, dagli esiti paurosi, come testimoniano dischi ormai cult, Orange su tutti. E la voglia di alzare al massimo il volume diventa irrefrenabile.

La Jon Spencer Blues Explosion (composta per l’appunto da Jon Spencer alla voce e chitarra, Judah Bauer alla chitarra e Russell Simins alla batteria) è un nome che in Italia richiama la gesta dei Bud Spencer Blues Explosion, fedeli devoti del maestro e che all’estero viene giustamente anteposto ai più recenti e forse più celebri The White Stripes e The Black Keys.

Il trio di New York, a otto anni dall’ultimo lavoro di inediti Damage, torna alla riscossa, con l’intenzione di mantenere fede alle propria vocazione. Lo fa con Meat and Bone, dualismo scarno e forte, molto probabilmente riferito alla base di quella che è la loro struttura strumentale: chitarre e batteria, la carne e le ossa della loro produzione.

Il disco è onesto fin dall’inizio e da semplicemente ciò che promette per chi conosce la band: una raffica di pezzi elettrici ed energici dove la furia di Jon Specer – qui va detto più trattenuto rispetto ai lavori precedenti – si fonde perfettamente con la ritmica di Simins. In alcuni casi le parole non bastano nemmeno, ci pensano gli assoli.

Per chi non li conoscesse, la prima canzone dell’album, “Black Mold” vale più di mille parole e spiegazioni: ritmica martellante, chitarre distorte di sottofondo, riff infuocati e la solita performance hard di Mr.Spencer, anche virtuoso dell’armonica della seconda traccia “Bag of Bones”. Proseguendo nell’ascolto, non c’è una canzone o un momento fuori posto o superfluo: per altri nove brani la Blues Explosion incatena momenti di rock puro, a volte duro e secco a volte sintetizzato e distorto: “Danger”, “Ice Cream Killer” e le due “piccole” “Strange Baby” e “Bottle Baby”. Poi il blues’n’roll di “Unclear” e il finale strumentale di “Zingar”.

Ancora una volta l’esplosione ha bruciato e distrutto tutto: fortunatamente solo a livello musicale, grazie a Jon Spencer e soci. Se non ci fossero loro…
 

“Quattro soli a motore” di Nicola Pezzoli

«Eravamo una famiglia in bianco e nero ma io, pecora colorata della famiglia, mi innamoravo di tutto ciò che dava tono e vivacità al mondo.»

Forse ecco perché Corradino la sera del 25 giugno 1978 tifa per le maglie arancioni dell’Olanda anziché per i «ladroni di casa» biancoazzurri nella finale della Coppa del Mondo nonostante l’italianità dei «vari Daniel Bretoni, Tarantini e Passarella».

Quattro soli a motore (Neo Edizioni) di Nicola Pezzoli è ambientato a Cuviago. Siamo nella Lombardia occidentale a ridosso delle Prealpi e non lontano dal Lago maggiore tra boschi fitti di querce, faggi, castani secolari, ontani neri, robinie e ampie distese di granturco, c’è la fattoria Stevanato, i nuovi padroni di questo «borgo di millesettecento anime abbastanza stronzolette». Percorrendo via del Campo Chiuso fino alla Cappelletta di San Michele Arcangelo «dagli occhi di bragia» si arriva a via Roccolo 2, la casa di Marilù del bosco dove in compagnia del signor Sandro si può vedere la tv a colori.

Corradino è un ragazzino undicenne, maltrattato dal padre da quando ha perso il lavoro, trascurato dalla madre alcolizzata e vilipeso dai bulli di paese che gli hanno affibbiato il soprannome di “Scrofa”. Ma anche di questo la colpa è di Corradino. Come lo è il fatto che i genitori litigano e che per un piccolo pretesto il suo «Videla domestico» lo prenda a cinghiate. Corradino è una spugna che assorbe tutte le cattiverie somatizzandole in tic, pipì a letto e pugni ai più deboli. La realtà della sofferenza è l’unica realtà certa. Capisce presto che le sue boccheggianti speranze sono destinata ad affogare perché nella vita, per motivi a volte insondabili, si finisce per soffrire maledettamente tantissimo. E Corradino questo lo capisce anche in amore, quando in un sol colpo perde la potenziale fidanzatina, Cristina, e il di lei fratello e migliore amico Gianni, aspirante scrittore di distopie fantascientifiche e compagno di avventure e giochi, costretti a trasferirsi «sul Veneto». Corradino ha una visione rigida della storia per cui ogni atto anche minimo ritiene che possa provocare enormi cambiamenti e una serie di reazioni a catena come se il mondo fosse abitato da tante palle da biliardo. Basta un gesto e la traiettoria della pallina muta e di conseguenza anche quella delle altre inevitabilmente.

È un mondo angosciante e pieno di responsabilità personale quello del piccolo protagonista che addirittura crede di essersi macchiato di omicidio per il solo fatto di aver scritto sul taccuino rosso di Wolsburg, rubato dalla soffitta della zia Clarissa, di desiderare la morte delle persone che maggiormente l’hanno fatto soffrire, zia Trude, la “capoprete” signorina De Ropp, il padre e Glauco, facendo quasi suo il grido del Giacomo di Ionesco: “O parole quanti crimini si commettono in vostro nome!”.
Corradino è convinto fermamente di avere perso l’innocenza da quando la nonna Corinna gli ha rivelato che la sua nascita è stata segnata da un «mistero doloroso».

Ma Cuviago cela un altro mistero che avvolge di leggenda la villa di Kestenholz abitata da un vecchio centenario che si sussurra abbia ucciso e poi mummificato o addirittura mangiato, novello conte Ugolino, i suoi tre figli durante la Grande Guerra. A questo punto, il romanzo di formazione, volendo, si fa anche noir.

Ma quando la narrativa affonda la propria ragion d’essere nelle ferite aperte del corpo e dell’anima, come fa Pezzoli in Quattro soli a motore, il risultato non può che essere una storia dotata di una forte carica emotiva con sfumature tragiche e comiche insieme.


(Nicola Pezzoli, Quattro soli a motore, Neo Edizioni, 2012, pp. 304, euro 15)
 

Elmerindo Fiore e la sua “Trilogia del Tempo”

Trilogia del Tempo di Elmerindo Fiore somiglia a una grande cattedrale con gli archi rampanti, i pinnacoli, gli archi di scarico, le vetrate. Galleggia sul vuoto come la Notre Dame dell’Île de la Cité. Vi somiglia per tinte, atmosfere e per aspirazione all’assoluto. Scritta agli inizi degli anni Settanta, Trilogia del Tempo presenta già, in nuce, tutti i caratteri ricorrenti delle opere di Fiore e i nuclei proble-mate-matici sui quali si interroga, con quella cura amorevole verso l’esistenza che è propria di ogni poeta. Se ti affacci dalla balconata con balaustra, ti coglie una vertigine, sebbene ci sia tutta quella oscurità in fondo, morbida come ovatta. Trilogia del Tempo non è certamente un’opera di intrattenimento, né una lettura lieve; è un’esperienza misticheggiante che va alle radici dell’esistenza, tentando di percorrere le strade (tre!) del Tempo. Il libro, prefato da Giovanni Fontana, teorizzatore della poesia pre-testuale (poesia che precede le lingue e si esprime attraverso i più disparati linguaggi), si articola, infatti, in tre parti: “Frammenti per un’ipotesi sulla nascita del tempo”, “L’acqua il fuoco e una ballata in tono maledetto”, “Frammenti per un’ipotesi sulla morte del tempo”.

Nel primo capitolo, Fiore seziona il fuoco che è genesi di tutto, riprendendo il presocratico Eraclito, e racconta la caduta nel Tempo dell’uomo «disseminato sulla terra a forma umana (miracolo dell’ira e principio delle cose)»; l’uomo non è qui ridotto a mero cocktail di terra e di fuoco ma, platonicamente, è congiunto al sogno tramite l’ «amore / laccio ombelicale», scarico dell’onirico. Dentro a quelle viscere sugose, soffia l’amore che è tensione conoscitiva. Non c’è per l’uomo altra catena a cui aggrapparsi. L’amore, come dice Galimberti, rifacendosi a una probabile etimologia della parola, è «a-mors, toglimento di morte». «Ridammi al vento», si sente gridare, «se si apre il cerchio delle luci/ uccidi i sogni e ridammi al vento»: se non posso più aggrapparmi alla catena del sogno, ridammi pure alla cenere. Eppure l’uomo nel Tempo non ha le ali: «Io non oso porgermi a questi baratri / la strada è scoscesa e non ho l’ali / spogliami fratello (…) / affinché io possa riprendere respiro/ e ridammi al vento / perché con il respiro si congiunga».

Fiore, come fosse un cronista, un daimon che sta nell’orecchio di quell’uomo a cui capitò la ventura (sventura?) di ritrovarsi nel Tempo, riporta in versi-note da telegrafo lo «stupore dell’essere vivo / stop / carnale / stop / alla ricerca dell’oggetto». Quest’individuo non può fare a meno di andare, appunto, «alla ricerca dell’oggetto», di prescindere, cioè, dalla sua individualità, dal soggetto: è una tensione atavica, che custodisce dentro. Anche per Fiore è così: nella sua opera l’io che in poesia tradizionalmente racconta le sue vicende, perlopiù liricamente, si avvilisce fino a scomparire: Fiore squarcia la tela dell’io e resta in attesa che il mondo con i suoi giochi carnali e preternaturali si palesi. Non è Elmerindo che osserva, ma è il suo puro pensiero, o meglio, uno specchio metafisico, incastonato tra l’aorta e il ventricolo destro: «Sotto i passi la terra si restringe / la rapirò con lo specchio».

Di grande intensità sono, inoltre, le scene che popolano questa sezione. La scena del lavarsi che canta di una tragica e violenta abluzione: «Mani trafiggersi con l’acqua / ti assecondano le labbra nella lingua / la terra è liquida»: questi versi sono “La tinozza”di Degas capovolta. C’è un nesso eloquente tra questo Degas capovolto in versi, del Fiore ventenne, e una sua opera degli anni della maturità, “Plein air”, che rappresenta un quadro naturalistico capovolto su un cavalletto.

Di grande bellezza è anche la “scena dell’orinare”: come non pensare a un chiaro riferimento a “La Pisseuse” di Picasso? Anche qui il gesto, di una semplicità e lordura disarmanti, diventa rappresentazione delle forze della natura; una natura che nasce e ingrassa come rigurgito del Tempo, che c’è, cioè, che esiste grazie ad Esso (la lettera maiuscola è d’obbligo perché in Fiore il tempo oscilla tra la figura mitica di Urano e la sua raffigurazione umanamente percepibile, l’orologio).

Nell’opera di Fiore è imprescindibile il confronto con l’arte visiva, dato il suo impegno di performer e la sua grande, grandissima capacità di creare immagini, altari di divinazione, affastellati, accatastati sulla pagina, in una smania demoniaca di conoscenza, in un horror vacui. Ma la più bella delle scene di questa sezione è quella “del vomitare, femminile con grido”: «Posso vomitare sul tuo cuore / posso / figlio delle mie vertebre / ti ho dato in un vomito e ti ho maledetto». Vomitare deriva dal latino vomere, che significa eruttare, emettere: proprio questo è il significato della scena, che è la rappresentazione di un parto, «quando il grido è largo sui piedi»: dolcezza e strazio si mescolano a creare un sapore agrodolce che Fiore predilige.

Fiore scopre nella Trilogia del Tempo il gusto del tono tragico (mai lirico!), che a tratti si mescola con l’ironia e vira in direzione del grottesco e in giochi linguistico-sonori alla maniera di Palazzeschi: «Ballo di lulù / chiodo schiaccia chiodo / tempo schiaccia tempo / lulù (lilì) / blu notte». Giorgio Agamben scriveva: «Dove finisce il linguaggio, comincia non l’indicibile, ma la materia della parola»; questo è quanto mai vero nell’opera di Fiore che con la parola canta l’indicibile e misura le capacità della parola stessa. Ma quella di Fiore non è parola che dice, è parola che evoca. In un tempo caratterizzato dalla smania di comunicazione, dalla sovrabbondanza dei messaggi pubblicitari, Fiore riscopre il tempo della sospensione e dell’evocazione. Qui l’io non ha più spazio: levitano gli oggetti, i pensieri, le parole. Ma in questa condizione si perdono i tradizionali punti di riferimento: allora gli opposti diventano identici e riaffiora il caos.

Il Tempo con la sua trilogia (vita, acme, morte) solo apparentemente si sviluppa in senso verticale. Sembrerebbe che fosse inscritto in una dimensione cronologica; ma non è così: il Tempo diventa il Cerchio. Allora la morte è, in realtà, l’inizio della vita. In questo la poesia di Fiore si lascia molto ispirare da Hölderlin, con la sua ansia di fare emergere la verità delle cose, senza il mezzo del logos. Hölderlin aveva scritto nell’Iperione: «Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l'uomo […] Essere uno con tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua austera corazza, lo spirito umano lo scettro e tutti i pensieri si disperdono innanzi all'immagine del mondo […] un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette […]». La poesia di Fiore non riflette, non filosofeggia: umilmente si attiene alla sua visione, come un dono caduto chissà da quale cielo. In fondo è proprio questo che fanno i poeti: «I poeti nelle strade / a raccogliere immagini».

“Guttuso. 1912-2012”: profumi di Sicilia al Vittoriano

Dal 12 ottobre fino al 2 febbraio 2013, il Complesso del Vittoriano ospita la mostra Guttuso. 1912-2012, per celebrare l’artista a cento anni dalla nascita e venticinque dalla morte, un quarto di secolo che permette un’analisi ormai storicizzata dell’opera dell’artista.

La mostra fornisce una visione antologica dell’opera di Guttuso, che intende restituire la complessità dell’opera del pittore sia dal punto di vista cronologico sia tematico. L’obiettivo è stato raggiunto e l’esposizione, nel suo insieme, è una rassegna di buon livello, che permette così al Complesso del Vittoriano di invertire la tendenza verso l’abisso che le ultime mostre su Mondrian e Dalì sembravano assicurare. Anche i prestatori, contrariamente a quanto accaduto in passato, sono vari e importanti, tra gli altri, la GNAM, il Museo Guttuso di Bagheria e gli Archivi Guttuso del Palazzo del Grillo a Roma, il che ha contribuito non poco alla buona riuscita della mostra.

L’esposizione delle opere non segue un ordine cronologico, ma piuttosto è organizzata per temi, scelta efficace che permette di mostrare le tematiche e la poetica dell’artista nella loro interezza. Le stanze e i corridoi si snodano arricchiti di nature morte o ritratti, come quelli dedicati alla moglie, figura chiave nelle opere dell’artista, e agli amici, come Alberto Moravia o Anna Magnani. Non mancano poi quadri legati ai problemi sociali o alla brutalità della guerra e della violenza, come “Occupazione delle terre” o “Fucilazione in campagna”, ispirata a “Le fucilazioni del 3 Maggio” di Francisco Goya. Sono proprio i temi sociali della sua contemporaneità, come i diritti negati o la violenza, a permeare più a fondo la poetica e l’opera di Guttuso, che viveva il mestiere di pittore come una missione di testimonianza del suo tempo e che raccontava la propria realtà con un linguaggio in bilico tra realismo ed espressionismo, influenzato anche dalle avanguardie cubiste e surrealiste. Tanti i riferimenti e le citazioni di amici e colleghi: la sedia di Van Gogh, i cavalli di Picasso o i ritratti di De Chirico popolano l’universo pittorico dell’artista, obbligando lo spettatore a innalzare il livello dell’attenzione. Altro tema onnipresente è poi la Sicilia, comunicata e ricordata attraverso i toni caldi e i colori accesi dell’entroterra, o i molti blu della costa, o ancora più esplicitamente nelle rappresentazioni figurative di stampo realista di contadini e pescatori.

Molto bella la sala delle Grandi Tele, opere di circa 200×200 che l’artista si impegnò a portare a termine dagli anni ’40 con cadenza annuale. Nella sala sono esposte opere importanti e rappresentative come “I Funerali di Togliatti”, testimonianza del forte impegno politico di Guttuso, anche sotto l’influenza dell’amico Picasso, “La Spiaggia”, ritratto della società che negli anni ’50 iniziava a subire i radicali cambiamenti portati dal boom economico, o ancora “La Solfatara”e “Vucciria”, due ritratti di Sicilia impregnati di realismo.

Molto particolare e affascinante l’impatto con quest’ultima tela, “Vucciria”, rappresentazione dell’omonimo mercato storico palermitano. Il quadro è un capolavoro di realismo che riesce a rendere in modo unico e coinvolgente l’impatto e l’atmosfera del luogo. L’assenza di un vero e proprio soggetto centrale, la sovrabbondanza di immagini e colori restituiscono alla perfezione la confusione e la dispersione che si provano entrando in un mercato, e, esattamente come accade nei mercati, l’occhio si abitua a poco a poco alla visione di insieme e inizia a cogliere i particolari che emergono a tratti, continuamente, e si ha come l’impressione di essere davanti a un quadro sempre diverso, senza mai la certezza di averlo esplorato a sufficienza. La vitalità caotica e confusionaria del clima del mercato è stata impressa talmente realisticamente che lo stesso autore racconta di come, chiedendo agli amici quante persone vedessero raffigurate nel quadro, questi dicessero sempre un numero diverso e mai quello esatto.
 


 

Altra tela necessariamente da citare e presente nell’esposizione è sicuramente la “Crocifissione”, apparsa al premio Bergamo del 1941 dopo un anno di lavoro, e che tanto scandalo creò negli ambienti vaticani per i nudi dei personaggi, soprattutto quello della Maddalena, tanto da valere al pittore l’appellativo di pictor diabolicus. In realtà, nelle intenzioni del pittore, come lui stesso dichiara, quei nudi erano funzionali a sottrarre i personaggi a una collocazione temporale, poiché essi sono visti come attori di un dramma eterno, «una tragedia di oggi, il giusto perseguitato è cosa che soprattutto oggi ci riguarda». Non poteva essere altrimenti per un artista che viveva il suo essere pittore come un mestiere, il mestiere di testimone chiamato a raccontare per le generazioni future il dramma del proprio presente, segnato dalla guerra e da un incredibile livello di violenza e atrocità. Esperienze forti e segnanti che traspaiono appieno dalla tela della “Crocifissione”, nei volti e nelle pose dei protagonisti, nello sfondo e nel paesaggio, una città bombardata, ma anche e soprattutto nel richiamo evidente a un’altra grande tela storica che come poche ha saputo ritrarre l’orrore della guerra: “Guernica” del collega e amico Pablo Picasso.
 


 

La vita artistica di Guttuso, così radicata nelle tecniche e nelle esperienze d’avanguardia del secolo scorso ma così attuale nei contenuti e nelle tematiche, è veramente ben riportata nella mostra del Vittoriano che vale la pena di essere vista e per cui ognuno potrebbe dirsi soddisfatto di aver pagato il biglietto, parafrasando Enrico IV, si potrebbe affermare con serenità che «Guttuso al Vittoriano val bene 12.50€».

 


Guttuso. 1912-2012
Dal 12 ottobre fino al 2 febbraio 2013 presso il Complesso del Vittoriano

Per maggiori informazioni:
http://www.romeguide.it/mostre/guttusovittoriano/guttusovittoriano.html

“Il comandante e la cicogna” di Silvio Soldini

Leo (Valerio Mastandrea) è un idraulico inarrestabile che si aggira per la città sul suo furgone in compagnia del socio Fiorenzo (Shi Yang), cinese ormai stabilmente trapiantato in Italia e controllato costantemente da una gelosissima fidanzata. Padre di due adolescenti diversamente complicati, Maddalena, sedicenne alla scoperta degli uomini, ed Elia, introverso esploratore che passa le sue giornate tra internet, libri, e l’incredibile amicizia con la cicogna del titolo, che tenta di mettere in riga con riunioni di famiglia minuziosamente verbalizzate, Leo è rimasto vedovo un’estate di cinque anni prima, ma la moglie Teresa (Claudia Gerini) non lo ha abbandonato e gli appare puntuale ogni notte alle quattro e due minuti. Si siedono sul divano, lei annusa la polvere di caffè dal barattolo, l’unica cosa che le manca realmente della vita, e parlano dei figli e di quell’Aldilà ben diverso da quello immaginato abitualmente, fatto di scioperi, graduatorie e divisioni per paesi e religioni.
Diana (Alba Rohrwacher) è un’artista sognatrice e sfortunata sempre alla ricerca di soldi per pagare l’affitto al bizzarro padrone di casa Amanzio (Giuseppe Battiston), castigatore di costumi e citazionista seriale. Per racimolare quanto le serve per coprire i debiti, Diana accetta di affrescare, rigorosamente in nero, la parete dello studio dell’avvocato Malaffano (Luca Zingaretti), esperto in scappatoie e sotterfugi per evitare ai propri clienti guai con fisco e giustizia.
Malaffano sarà proprio l’avvocato cui Leo si rivolgerà per far rimuovere da internet un video erotico amatoriale di cui la figlia è ignara protagonista. Nello studio, di fronte alla giungla affrescata cui Diana si dedica con frustrazione crescente, i due si conosceranno e qualcosa cambierà.
A otto anni di distanza da Agata e la tempesta, Silvio Soldini torna alla commedia con Il Comandante e la cicogna. Un ritorno leggero e fiabesco in cui recupera lo spirito incantato delle sue commedie migliori senza però dimenticare l’analisi dell’Italia contemporanea portata avanti nei più recenti Giorni e nuvole e Cosa voglio di più.
Sullo sfondo di una Torino che potrebbe essere una qualsiasi città del nord, in una mescolanza di dialetti che lascia lo spettatore senza gli abituali riferimenti (Mastandrea napoletano, Gerini genovese, credibilissimi), Soldini racconta le vicende di persone semplici, oneste al limite dell’ingenuità, che si trovano costrette dalla vita e dal bisogno a scendere a compromessi con l’Italia peggiore, quella degli affaristi, dei collusi e corrotti. In una contrapposizione eccessivamente semplice e priva di sfumature (i buoni sono buoni, sempre, i cattivi sempre cattivi e immediatamente antipatici) l’unica soluzione possibile per sollevare il Paese dalla palude in cui ogni giorno scivola di più è, secondo il film, appellarsi al passato, a quelle figure alte a cui sono stati eretti monumenti e dedicate strade e piazze, a quei Da Vinci, Verdi, Garibaldi e Leopardi che Soldini fa parlare per commentare con amarezza il degrado cui sono costretti ad assistere, immobili, dai loro piedistalli.
Muovendosi sul confine tra dolce e amaro, con incursioni in un surreale posticcio e colorato che può risultare irresistibile o stucchevole a seconda dei punti di vista, la sgangherata compagine di Soldini sfugge alla decadenza di un’Italia malata inseguendo obiettivi più semplici rispetto al guadagno e al potere, ma non per questo meno appaganti, come la famiglia, l’arte, l’educazione, o una cicogna ferita e persa da qualche parte nella Svizzera tedesca.
Ottima la prova di tutti gli attori, con cameo vocale di Pierfrancesco Favino, Neri Marcorè e Gigio Alberti nel ruolo delle statue. Mastandrea, tuttavia, spicca sugli altri per la misurata pazienza del suo Leo, padre affettuoso e pronto a tutto per i figli, che porta sul corpo, in un punto bianco sul sopracciglio destro, tutto il dolore e la fatica della perdita della moglie.

(Il comandante e la cicogna, regia di Silvio Soldini, 2012, commedia, 108’)

Da “Muse of Lust” al nuovo album: a tu per tu con gli ÆMÆT

Black Comics Home Studio, lo Studio Alveare. Nella provincia di Latina, a Itri, in una sala di registrazione tappezzata da pagine di vecchi fumetti in bianco e nero, gli ÆMÆT sono di nuovo al lavoro. La rock band, completamente rinnovata nel 2010 dalla voce di Cristian Suardi e, nel 2012, dal chitarrista Giovanni Ialongo, si sta preparando con grande impegno all’uscita del suo primo disco. Un EP, Muse of Lust, pubblicato nel Settembre 2011, un tour che li ha visti portare in giro gli strumenti per tutto il Lazio, un’energia che non smette di creare e sperimentare.

Pubblichiamo in esclusiva per Flanerí l’intervista al bassista in nero, Cristian Ciccone, che abbiamo incontrato durante una pausa dalle lunghe sedute di registrazioni di questi giorni. Cristian, insieme al batterista Stefano di Russo, rappresenta il nucleo originario degli ÆMÆT.

 

ÆMÆT, chissà quante volte vi siete trovati a correggere fan e giornalisti sulla pronuncia di questo nome così particolare. Possiamo sapere cosa significa e perché lo avete scelto?

ÆMÆT è un termine ebraico e significa verità. Lo abbiamo preso da un film muto del regista tedesco Paul Wegener, Der Golem del 1915 (ci piace molto l’espressionismo tedesco). Secondo la leggenda, il rabbino utilizza questa parola sacra per dar vita alla materia informe, al golem appunto, e così facendo acquista parvenze divine, poiché dà vita. Un gesto che dà vita e dà verità, ed è un po’ quello che la musica è per noi: vita vera. Inoltre, come hai sottolineato tu, ognuno lo pronuncia come vuole, e credimi, ne abbiamo sentite di tutti i colori…

 

Vi riconoscete in qualche genere in particolare? Come definireste la vostra musica a chi si appresta ad ascoltare i vostri pezzi per la prima volta?

Credo che l’unica etichetta possibile sia quella di rock alternativo, ben mescolato con elementi grunge e new wave. Tuttavia è giusto precisare che siamo in perpetuo divenire, e le etichette ci stancano presto; il nostro obiettivo è la continua ricerca e sperimentazione.

 

Come molti altri gruppi italiani, emergenti e non, avete scelto di scrivere i testi delle vostre canzoni in inglese. Siete soddisfatti della resa testuale attraverso un codice che non è propriamente vostro? Chi di voi scrive i testi?

Il mercato italiano ci interessa, ma non quanto quello europeo, americano o asiatico. La lingua inglese ci permette un mercato planetario, e questa è la sola ragione per cui l’abbiamo scelta. Ovviamente, per quanto riguarda la resa testuale, siamo più che soddisfatti. Scrive soprattutto Cristian Suardi, il cantante. Ma in quest’ultimo lavoro ho contribuito anch’io in minima parte. I due stili sono molto differenti eppure perfettamente complementari: Cristian S. lavora molto sulle immagini: è onirico, intimo, emozionale; un po’ il contrario di Cristian C., che preferisce dare all’ascoltatore indizi precisi per permettergli di afferrare un significato inequivocabile, e spesso tagliente. Potremmo fare un test. Secondo voi chi ha scritto il testo di “Hangman”?

 

Avete intenzioni di trasferirvi, quindi?

Per ora non ci sono le possibilità, né tanto meno le intenzioni. Nel nostro “Alveare” c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e ricreare uno spazio del genere altrove sarebbe certamente molto difficile. Abbiamo tuttavia l’intenzione di spostarci all’estero in occasione di un tour, soprattutto nel nord Europa. Ci stiamo muovendo già da ora per quest’obiettivo, ma siamo consapevoli che dovrà passare ancora un po’ di tempo, che dedicheremo senz’altro alla promozione di questo nuovo lavoro in cui crediamo molto.

 

Di cosa parlano le vostre canzoni? Quali tematiche ha ispirato la vostra “Muse of Lust”?

Muse of lust è un cd cupo, malinconico… e tuttavia dolce: tutti i brani raccontano di un’esperienza sentimentale profonda, intensa, vissuta in maniera quasi sacrale; il lavoro cerca di scoprire se si tratti, in fondo, di un’esperienza felice o infelice. La frase che racchiude bene il senso dell’intero lavoro, a mio avviso, è tratta da “Coagulation”: «All these sorrows for an explosion of richness». Chi può negare che la massima gioia sia nascosta, spesso, dietro il più estremo dolore?
Diverso è il discorso per i nuovi brani. Le riflessioni sono più ampie e traggono molto della loro forza dal mondo reale in cui siamo immersi, che visto in maniera oggettiva sembra dominato più da forze malefiche che non vòlte al bene collettivo. Ma sarà il caso di riparlarne quando uscirà il cd…

 

Il 2012 è stato un anno ricchissimo di concerti ed eventi musicali davvero unici; uno dopo l’altro, a Roma e nel resto d’Italia. Abbiamo avuto l’impressione che non saremmo mai riusciti a vederli tutti. Domanda sognatrice, prima di quale gruppo avreste voluto suonare?

Bella domanda. Nell’ambito della musica italiana credo che il gruppo più indicato sia Il teatro degli orrori; ho la sensazione che l’energia dei nostri attuali concerti si inserirebbe molto bene in apertura di un loro spettacolo. A livello internazionale penso ai Muse, più o meno per le stesse ragioni. Ma immagino che stiamo davvero parlando, ora, di fantamusica…

 

E i vostri concerti, invece? Qual è quello che vi ha dato più emozioni?

Difficile rispondere a questa domanda: ormai cominciano a essere numerosi i concerti che abbiamo svolto in questi due anni. Per la risposta di pubblico ottenuta penso alla data della Locanda Blues, a Roma, nel maggio di quest’anno. Siamo arrivati lì come perfetti sconosciuti, e quando siamo andati via sembravamo un gruppo capace di lavorare tranquillamente con la propria musica rock. Sono queste le esperienze che alimentano le nostre convinzioni, perché è giustissimo credere in se stessi, ma è altrettanto giusto realizzare che il tuo prodotto funziona ed è apprezzato da un pubblico caloroso.

 

Durante il vostro ultimo live avete regalato al vostro pubblico numerose anticipazioni dei nuovi pezzi. Si percepisce un deciso cambio di rotta tra Muse of Lust e il nuovo lavoro. Che percorso avete intrapreso e cosa ha influenzato le vostre scelte?

Muse of Lust è stato un lavoro velocissimo, realizzato in pochissimo tempo e conserva tutti gli elementi del debutto. È, come detto, un’opera lenta, claustrofobica. Nel nostro nuovo lavoro abbiamo ovviamente sentito il bisogno di allontanarci da quel tipo di approccio, cercando maggior brevità e aumentando decisamente il numero di bpm (battiti per minuto, ovvero la velocità del metronomo, n.d.r.). Direi che la molla che sta dietro al nuovo lavoro è la rabbia: sappiamo benissimo che le cose non vanno, o meglio che vanno fin troppo bene, ma non per quelli come noi, che vogliono sentirsi liberi. Quindi non ci resta che rabbia, frutto di lucida consapevolezza e attraversata da terrificante angoscia – io personalmente mi sgomento ancora quando mi fermo a pensare cosa sia realmente questa società. Ma queste sono solo vanità artistiche, per ora noi stiamo benissimo…

 

A questo punto siamo curiosi di sentire il nuovo album. Grazie mille, Cristian. A presto!

 

Per rispondere alla sfida lanciata da Cristian, potete ascoltare “The Hangman” qui:
http://soundcloud.com/aemaet/the-hangman-muse-of-lust

Trova gli ÆMÆT (praticamente ovunque!):
Facebook: http://www.facebook.com/Aemaet
Myspace: http://www.myspace.com/aemaetband
Soundcloud: http://soundcloud.com/aemaet
Youtube: www.youtube.com/aemaetband
Tumblr: aemaet.tumblr.com
E la galleria del «Black Comics Home Studio» su Flickr: http://www.flickr.com/photos/aemaet/sets/72157631553411138/