Cover di Il viaggio di Veronica

Contro le fotografie

Se dal portafoglio estraggo la mia stropicciata carta d’identità non digitale, e provo ad aprirla con cura per non strapparla del tutto, la foto al suo interno ritrae un uomo che io non riconosco. Non nego che possa essere una mia foto di una certa mattina di un certo mese di qualche anno fa, ma oggi io quell’uomo con la barba e i capelli corti, gli occhi sottili, il naso lungo, non lo riconosco. Non gli somiglio affatto, non ha niente del me di ora. E mentre mi avvolgo in queste considerazioni, ripenso a una breve, ma molto affascinante invettiva di Giovanni Arpino ripubblicata dalle Edizioni Henry Beyle, Contro la fotografia (2014), in cui il raffinato polemista scrive: «La peggiore macchina che l’uomo abbia in uso è quella destinata a partorire fotografie».

Non riusciva a soffrirle, le fotografie, Giovanni Arpino. Di qualsiasi tipo. Pensava fossero ingannevoli e velenose, capaci soltanto di fermare un particolare secondo di un particolare momento della nostra esistenza, di ridurci e limitarci a quell’istante. Una riduzione e una limitazione che vanno a scontrarsi con le possibilità di sentirsi l’età che desideriamo avere in qualsiasi frangente: di riconoscersi giovani da vecchi e vecchi da giovani, di rifuggire l’oggettività dell’età. Le fotografie, soprattutto i nostri ritratti fotografici, sono invece delle lapidi definitive. Diventano un vincolo ermeneutico su noi stessi, almeno «finché non si scopre», continua Arpino, «che quello che le fotografie dicono è così facile, epidermico, momentaneo e imbambolato, per cui hanno sempre torto».

Sul perenne torto delle fotografie conviene Ferdinando Scianna, tra i maggiori fotografi e fotoreporter del Novecento, che firma una nota alla fine del volume. Sostiene anzi che la posizione di Arpino è «tutto sommato moderata». Per Scianna «fredda e necrofila è la fotografia. Nel momento in cui ci illude di immortalare un istante contemporaneamente lo uccide e ci fa capire che l’istante solo esiste se è istante di vita, se è vivo esso stesso, se noi siamo vivi con lui».

Ma quando, è lecito chiedersi, l’istante è davvero istante di vita, quando prende vita? E una fotografia potrebbe mai riuscire a cristallizzare un istante di vita?

Ecco, quando è arrivato sugli scaffali delle librerie il nuovo saggio di Ferdinando Scianna, Il viaggio di Veronica. Una storia personale del ritratto fotografico (Utet, 2020), ho istintivamente indirizzato la lettura alla ricerca di alcune risposte per questi interrogativi sospesi.

Di risposte, in questo racconto estremamente appassionante dei ritratti nella storia della fotografia, ce ne sono molte, disseminate nei densi capitoli di riflessioni e aneddoti e immagini.

E tra queste immagini, la prima che mi cattura è quella di una carta d’identità (le piccole ossessioni guidano sempre lo sguardo). Osservandola con grande attenzione, noto che è la carta d’identità dello stesso Scianna e chiude il capitolo «Dalla fisiognomica alla fotografia giudiziaria» con una riflessione sulla capitale relazione tra fotografia, società e identità. Tre termini che elencati così, potrebbero sembrare tre concetti assoluti, tre categorie debitamente distinte, eppure si sintetizzano tutti in quel pezzo stropicciato di carta che conserviamo con cura nel nostro portafoglio.

Pensiamoci bene, scrive Scianna: se ci trovassimo a prendere un aereo o se un agente di polizia ci chiedesse di mostrare i nostri documenti, la prova insindacabile della nostra identità sarebbe la foto nella nostra carta d’identità. Lo è stato per circa un secolo, e continuerà a esserlo fino a quando altre prove, come il riconoscimento del DNA, non sostituiranno questa pratica. Ma finora, per la società noi siamo gli uomini e le donne che i nostri documenti ritraggono: «Sembra una faccenda puramente tecnica e ha invece una portata culturale enorme, perché questo significa che la nostra società a un certo momento della sua storia ha deciso di delegare all’immagine, non più alla persona, il concetto di identità».

Devo accettarlo, al di là di qualsiasi elucubrazione filosofica: per il mondo sono – e posso soltanto essere – quel piccolo ritratto incollato sul mio documento. Aveva certo ragione Giovanni Arpino a lamentarsi. Tuttavia, restano insolute quelle domande che prima abbiamo sollevato. Ebbene, per non sottrarre del tutto al futuro lettore la possibilità, e soprattutto il piacere, di scoprire le risposte da solo, mi limito a citare soltanto un altro capitolo, le pagine dedicate a Henri Cartier-Bresson.

«Figura paterna e magistrale», per Scianna Henri Cartier-Bresson, oltre a essere il teorico del «decisive moment» e l’autore di alcuni degli scatti più celebri della Storia, è una sorta di sinonimo della parola fotografia. L’importanza della sua opera, sottolinea l’autore del Viaggio di Veronica, incarna la cultura europea che tenta di definirsi oltre le «aritmetiche della moneta unica» e trova la sua massima espressione nell’arte del ritratto.

Per Cartier-Bresson il ritratto nasce da un istante di vita condiviso tra il fotografo e il fotografato (ci ritorna in mente quando Scianna scrive nella postilla ad Arpino che un istante è vivo se siamo «vivi con lui»). L’istante di vita che anima il ritratto fotografico ha l’aspetto di un’antinomia: da una parte deve essere frutto di una confidenza, di una sintonia; dall’altra deve scaturire da una folgorazione, essere fulmineo, cogliere «l’istante decisivo»: «Anche se il ritratto si fa nella reciproca consapevolezza e connivenza, vale, per raggiungere il buon risultato, quello che vale per ogni altro tipo di fotografia: riconoscere come una folgorazione l’istante decisivo. Nessuna messa in scena. Tutto deve avvenire nella spontaneità. Niente lunghe sedute. Un solo rullo in macchina. Basta e avanza. Se dopo trentasei scatti il ritratto non c’è, inutile insistere: non ci sarà».

Condizioni impossibili, si direbbe subito. Eppure, per convincerci delle teorie di Cartier-Bresson e di Scianna, ci basta ammirare il ritratto dei coniugi Curie o di Coco Chanel: prove di quella filosofia dell’istante in cui siamo noi in tutto il nostro essere. Allora è vero che un istante di vita può essere cristallizzato in un’unica foto, ed è vero che in un solo attimo può essere fermata un’intera esistenza.

Riprendo in mano la mia stropicciata carta d’identità. Adesso, forse, comincio a riconoscere quell’uomo, inizio a convincermi che potrei essere io, in tutte le stagioni della vita, passate presenti e future.

 

(Ferdinando Scianna, Il viaggio di Veronica. Una storia personale del ritratto fotografico, Utet, 2020, pp. 192, euro 29, articolo di Marco Marino)

Gazzelle prigioniero di Gazzelle

Siamo al terzo album in quattro anni. Dall’esordio con Superbattito, passando per Punk, oggi arriviamo a Ok. In mezzo ci mettiamo pure una raccolta di poesie, Limbo, e ci rendiamo conto che Gazzelle ha sempre avuto qualcosa da fare ultimamente. Forse troppo.

Avrebbe potuto scrivere un album invece di scriverne tre. Ne avrebbe giovato la qualità generale. Sarebbe stato anche un esercizio di pazienza per riflettere sulla costruzione di un linguaggio diverso da quello piuttosto banale a cui ci sottopone. È chiaro che dietro alla scelta di una produzione così serrata ci siano logiche di mercato che stanno fuori da quelle prettamente artistiche. E che è meglio spremere fino all’osso gli artisti per cavare il maggior profitto fino a che è possibile.

Perché per quanto si possa avere l’impressione che sia un cantautore furbo, che scriva quello che ci si aspetta che scriva, materia simil boyband, attraverso un linguaggio verso il basso, allo stesso tempo la sua capacità comunicativa sarebbe potuta essere declinata in altro modo.  Non c’è una frase, un’idea, una pausa, una chitarra o una batteria che non stia precisamente dove ci si aspetta che stia. «Era bellissimissimissimissimissimo», detta in quel modo, come se lo dicesse via messaggio Whatsapp in maniera smaccatamente ruffiana, raggruppa ciò che Gazzelle rappresenta e deve rappresentare. Gazzelle prigioniero del personaggio Gazzelle.

Il singolo che traina l’album è “Destri“. Un buon pezzo pop con richiami ai Travis – al netto comunque di un testo piuttosto mediocre – con un ritornello funzionale e che pare paradossalmente non troppo dentro a certe logiche alla Gazzelle. C’è poi soprattutto “Lacri-ma“, che pare una canzone alla Giorgio Poi che si è ripreso da un viaggio lisergico, dove emerge quello di cui si parlava sopra, Gazzelle come occasione mancata: su questa linea avrebbe potuto (o potrebbe, è ancora giovane) far viaggiare la sua carriera. Qui Gazzelle fa altro da quello che ci si aspetta da Gazzelle, e il risultato è nettamente superiore al resto.

L’immaginario di Ok è quello che da Cremonini (le Winston spezzate) passa per Calcutta. Non si scappa. C’è anche spazio per tentativi di Paradisizzazione (“Scusa“, ma anche “Un po’ come noi“, con addirittura delle deviazioni pseudo Beatles) come in Punk, ma come allora il tentativo è un po’ un buco nell’acqua.

Ascoltando Gazzelle al terzo tentativo, non si stacca di dosso la sensazione pulsante di trovarsi di fronte a un epigono del cantautore di Latina che non riesce a staccarsi dal un cordone ombelicale che ha le sembianze sinistre di un cappio. Una semplificazione di Calcutta. E più che Cremonini, poi, il risultato sono gli Zero Assoluto.

L’andazzo di tutto l’album è sempre quello a cui Gazzelle ci ha abituati. Un romanticismo spicciolo, dozzinale. Un immaginario piuttosto piatto («Ma è sempre così / Ad annegare / Come un’oliva nel gin / Going back to routine / fa così male», “GBTR“; «Però che bello è quando ti giri / Mi fai vedere bene che vestito hai / Però che brutto è quando ti sposti / Mi fai capire che non te lo toglierai / Però mannaggia oh», “Però“). Solo che ora abbiamo due episodi alle sue spalle per contestualizzare e capire di più.

Qualsiasi sia il livello dell’itpop oggi, poi, Gazzelle in questo momento pare abbia deciso di affondarlo definitivamente. Un gioco al ribasso che è un po’ la morte di un sottogenere da qualche tempo agonizzante sotto i colpi della trap, nonostante i numeri ancora importanti per esempio di “Destri“, arrivato a 35 milioni di ascolti solo su Spotify.

Sarà interessante capire cosa sarà di Pardini in futuro, ma il featuring con tha Supreme in “Coltellata” potrebbe suggerirci qualcosa.

Copertina di Steve Jobs non abita più qui di Masneri

Rotolando verso la California

Come raccontare ciò che oggi c’è, domani forse, dopodomani invece no, è già sparito, si è evoluto, è stato rimpiazzato, è diventato altro, è stato inglobato, ha un nuovo nome e una nuova funzione? Ci ha provato Michele Masneri in Steve Jobs non abita più qui (Adelphi, 2020), volume eterogeneo e poliedrico figlio di un Erasmus tardivo (i quaranta saranno per caso i nuovi venti?) svolto a più riprese in California, e in special modo a San Francisco.

Terra di santi, santoni, guru, aspiranti ricchi, miracoli tecnologici, utopie visionarie, startuppari tossici, ceo in crisi di mezz’età, imprenditori con notevoli problemi nelle pubbliche relazioni, dove si progettano viaggi spaziali e realtà parallele postumane, la Silicon Valley è il vero centro propulsore di questo libro che è allo stesso tempo ascrivibile al filone della letteratura di viaggio, del reportage di costume e società, del memoir personale divertito e frizzantino.

Masneri spicca per ironia e autoindulgenza, forse ancora più del suo maestro Arbasino, da giovane adulto un po’ sornione e malizioso, pronto a meravigliarsi e a incuriosirsi per ogni inaspettato epifenomeno, per ogni insospettabile incontro, dialogo, apparizione, senza però mai strabuzzare eccessivamente gli occhi o cedere all’agiografia incensata. Non c’è pedanteria nelle valutazioni, né vezzo sermoneggiante, né esaltazione o invocazione alla palingenesi catartica, solo il resoconto vivido e arguto, a tratti irriverente e scanzonato, di uno dei pezzi di terra più avanzati al mondo, forse l’ultima “Terra Promessa”, presunta Happyland perversa dove il tempo vale più dell’oro e la classe media è letteralmente sparita, messasi in salvo in borghi limitrofi più adatti ad accogliere le esigenze abitudinarie di una classica vita famigliare (casa+figli+macchina+cane).

Ingegnoso e duttile, Masneri sembra possedere lo sguardo estroso, ambivalente e mai banale di chi osserva e allo stesso tempo riveste già, almeno mentalmente, quella osservazione di parole, definizioni, annotazioni. Uno sguardo che si appunta senza prendersi troppo sul serio, abile a selezionare ciò che è interessante mettere dentro, formalizzare in racconto, e ciò che invece è meglio lasciar fuori perché già letto, già sentito o già scritto. Sempre in equilibrio fra il serio e il faceto, fra il comico e il drammatico, l’opera di Masneri nasconde in sé una meritata rivincita del genere descrittivo – soprattutto di quella predisposizione descrittiva che indugia sull’architettura, sul design, sui dettagli d’ambiente domestico e d’atmosfera – e anche della forma ritratto, che a volte si fa lieve caricatura, a volte impietosa epifania (in questo senso i capitoli-intervista a Jonathan Franzen e a Bret Easton Ellis rappresentano davvero delle bonus tracks, affreschi esistenziali che coronano l’intera costruzione narrativa). Del resto, è nel particolare più irrilevante che può celarsi fugacemente il senso ultimo delle cose, o almeno il significato a noi più prossimo.

Utilizzando una lingua varia e variegata, un pastiche colorito e riccamente declinato, che mescola con studiata fluidità l’alto e il basso, lo slang e l’erudizione, la parola altrui e quella propria, Masneri non ha paura di nominare le cose, di nominarle specificamente, a costo di sembrare puntiglioso o esagerato, perché il tono di leggerezza soggiacente e il registro vivificante quanto sostenuto smorzano l’impatto delle rapsodiche tendenze catalogatorie. Come già accennato, Arbasino aleggia in quanto nume tutelare, posizionato a un’altezza ineguagliabile, sull’intero testo di Masneri ed è in fondo giusto così, perché la sua presenza fantasmatica legittima la verve compositiva di quest’ultimo, che non è mera emulazione, copia sbiadita e anacronistica, ma seria e organizzata rielaborazione individuale di una precisa modalità di fare prosa, di stendere e stemperare il linguaggio sulla pagina, di giocare con le parole e con la gamma semantica che esse disvelano, di ricercare un ritmo sostanziato ma non dilagante.

A volte, infatti, il sostrato d’occasione che alimenta i capitoli spezza l’ordito del narrato, ma la frammentarietà e l’ecletticità degli argomenti trattati sono più che giustificabili data la natura originariamente giornalistica di gran parte del materiale, poi revisionato, affinato e sublimato in forma di libro compiuto. Inoltre, il reiterato accostamento ai fatti e ai luoghi italiani – la Firenze rinascimentale, la Brianza iperproduttiva, la Sicilia gattopardesca –, che produce altrettante comparazioni e raffronti ha il merito, creando uno stuolo di riferimenti comuni e accessibili, di gettare dialetticamente maggior luce sulla fisionomia di certi atteggiamenti, peculiari attitudini ed esperienze apicali per noi ora come ora impensabili.

Ne vien fuori la panoramica realistica, stratificata e composita di un micromondo in cui l’efficienza e la dinamicità sono assurte a divinità crudeli e volubili, abitato dalle anime più svariate e agli antipodi – geni del web, maghi dell’hi-tech, adventure capitalist, vecchi fricchettoni, clochard, liberal impenitenti, libertari che sognano isole artificiali e autosussistenti, paladini dei diritti civili – che a gran fatica coesistono, convivono e si sopportano a vicenda, rischiando costantemente di sprofondare in una crisi d’isteria e di nevrosi generalizzata o in uno psicodramma collettivo, in balia di una giostra schizoide di alti e bassi, vizi e virtù, delizie e orrori.

Dotato di una spiccata vocazione per la ricezione dell’esotico californiano e delle sue manifestazioni più bizzarre e peculiari, Masneri tratteggia e abbozza con tono colloquiale e vagamente aneddotico non solo le esistenze disperate, frenetiche ed entusiaste di coloro che si gettano a capofitto nella ricerca di un successo duraturo e appagante, ma anche le condizioni di vita, le aspirazioni e i desideri dei suoi disparati interlocutori – dal multimilionario allo studentello arrivato da poco in città –, soffermandosi spesso sull’evidente sfasatura che si viene a creare tra ciò che essi fanno, progettano e rappresentano e le condizioni reali della loro esistenza quotidiana, sia pubblica che privata, soprattutto nel caso di quelli che stazionano stabilmente nel limbo della scala gerarchica, né troppo in alto né troppo in basso.

I riferimenti sostanziali ai luoghi e agli spazi di questo pellegrinaggio sulfureo nella Uncanny Valley (per citare un altro libro Adelphi uscito da poco, La valle oscura di Anna Wiener) divengono cartina tornasole dei personaggi che li attraversano, li abitano, li abbandonano, rivelando di frequente la sproporzione netta che collega, secondo una traiettoria inversamente strutturata, l’ambizione personale e il tenore di vita.

Una delle particolarità vincenti del libro sta proprio nella capacità di Masneri di verticalizzare estemporaneamente il racconto attraverso digressive rievocazioni storiche o fulminei excursus biografici, sempre aneddotici e mai nozionistici, che arricchiscono la materia narrata non solo contestualizzandola in maniera pertinente, ma ponendola in una prospettiva anche interpretativa la cui aggiunta profondità non permette di appiattire il tema sull’attualità pura e cruda e sui giudizi che ne scaturirebbero in prim’ordine.

D’altronde andare di pari passo all’attualità in una terra in cui l’oggi è talmente sfuggente da essere imprendibile, il domani è già il prossimo decennio e le polarizzazioni sociali e relazionali sono così estreme da rasentare l’implosione, è sforzo titanico ma fatuo, impresa vana quanto inutile. Masneri ne è consapevole e decide di collocarsi allora oltre l’attualità spicciola (i rimandi a Trump non sono poi così ricorrenti), cercando di fotografare le tendenze macroscopiche, le costanti dominanti, i tratti centrali e maggiormente caratterizzanti di una società in continua evoluzione, squarciando a tratti anche l’alone mistico che ne impregna la giovane ma crescente mitologia. Sviluppandosi entro un perimetro temporale ben delineato, la contingente fisionomia del libro può aiutare a circostanziare e a comprendere meglio i fenomeni in atto, quelli passati e quelli presenti, ciò che è stato e ciò che presumibilmente sarà, se non lì, nella terra dell’estremo imprevedibile, almeno qui da noi, nella nostra anziana e cara Europa, dove tutti gli stravolgimenti sociali, economici, artistici, importati dall’estero arrivano (fortunatamente) con placida e rassicurante calma.

 

(Michele Masneri, Steve Jobs non abita più qui, Adelphi, 2020, 253 pp., euro 19, articolo di Niccolò Amelii)

 

copertina di Voci di Prokosh

Prokosch: l’incontro inatteso

Sono molti gli scrittori che hanno raccontato il potere del caso sugli uomini, che hanno osservato la fatalità degli eventi piegare persino le vite più tenaci. Frederic Prokosch era uno di loro ma, a differenza di Kafka e Camus, per lui l’imprevedibilità del destino non aveva il sapore amaro di una condanna.

Il suo Voci (Adelphi, prima ed. ita. 1985) è un’opera dal titolo e dall’anima sfuggenti, eppure intensa e carica di lusinghe: non solo, infatti, promette di osservare con malcelata ingordigia le minuzie dei grandi autori del Novecento, ma anche di ricordare agli uomini che la vita è fatta di incontri inattesi e di istanti rivelatori: Voci è, in apparenza, un libro sulla capacità, più o meno fortuita, dell’imbattersi in qualcuno, o in qualcosa.

Il talento di questo scrittore statunitense, classe 1908, – che tradisce nel nome e nello stile origini austriache – sta nell’incontrare le persone in momenti precisi, ma inusuali della loro vita, e immortalarle nel loro trovarsi altrove rispetto ai luoghi consueti; ciò che ricerca non è il realismo dell’immagine, bensì l’autenticità delle cose. L’eterno stato crepuscolare in cui questi personaggi si muovono, agiscono e parlano, ci restituisce l’immeritato e inconsapevole potere della fortuna: gran parte della suggestione di quest’opera si deve all’inevitabile attrazione umana nei confronti della sorte, delle maschere e dell’imprevisto.

Pubblicato per la prima volta nel 1983, questo libro di oniriche memorie permette di entrare in una Wunderkammer insidiosa quanto la vita; è diviso in tre parti, dedicate alla giovinezza, all’arte e alla natura: ogni capitolo rappresenta un incontro, e quasi mai il titolo lascia intuire chi sarà esattamente il protagonista.

Ma la scrittura di Prokosch delinea sempre l’esatto profilo delle cose, dei luoghi, delle persone: Virginia Woolf, rarefatta come la sua prosa; l’America, invenzione kafkiana, in cui tutto è destinato a morire; Peggy Guggenheim e il senso radicato della felicità; il volto sfuggente di Curzio Malaparte sotto il sole di Capri; l’oscura e ancestrale armonia di Karen Blixen; il pallore di T.S. Eliot aggravato dalle ombre di Palazzo Caetani.

E poi il bisogno giovanile di indagare, chiedere, fare domande semplici a persone complicate, ricercare il senso della vita, pungere quando necessario. L’ironia di Prokosch, infatti, non risparmia nessuno: come quando in una libreria, con una certa balbuziente perplessità, chiede a Joyce cosa pensi di Virginia Woolf, o quando riporta l’esilarante conversazione prandiale, al cospetto dei coniugi Mann, sullo stream of consciousness. («Quando dico tutto, non escludo niente, neanche il colore della tappezzeria, gli insetti e la costernazione. Tutte le cose che ti passano per la mente quando cerchi di fare un sonnellino». «Anche le zanzare?» domandò maliziosamente Miss Bascom. «Delle zanzare non sono sicura,» rispose Miss Donnelly).

Leggendo le oltre 300 pagine di Voci ci si imbatte in una Roma talmente intima da chiedersi se quelle parole siano l’inevitabile conseguenza di un incontro autentico, o solo una casuale abilità letteraria: in poche righe si respira il sentore greve del brutale passato della città; ci si perde nei suoi vicoli umidi e infiniti, nei suoi angoli inaspettati, nella sua barocca disarmonia.

Come insegna Edgar Morin nella sua autobiografia I ricordi mi vengono incontro (Raffaello Cortina, 2020), rievocare il passato non è mai un percorso lineare, né tantomeno innocente: occorre ammettere l’importanza dei legami con persone e luoghi,  recuperare dall’oblio cose e momenti che credevamo trascurabili e comprendere che vivere vuol dire accettare l’imprevisto, il caso, la vulnerabilità di fronte all’irragionevolezza degli eventi

La spirito errante, insaziabile e acuto di Frederic Prokosch – così ben descritto da un gigante della letteratura come Gore Vidal, nella raccolta Il canarino e la miniera. Saggi letterari 1956-2000 (Fazi, 2003) – ha spesso a che fare con l’illusione: quando scrisse due dei suoi romanzi (Gli asiatici e I sette in fuga), li ambientò in Asia, senza però mai esserci stato. Ad ogni pagina di Voci, viene da chiedersi, allora, se quegli incontri siano davvero accaduti, se abbia sul serio calpestato i vicoli oscuri di Roma per raggiungere Mario Praz, se sia realmente andato a caccia di farfalle con Nabokov. Poco importa, perché il senso di questo libro, sta nei suoi ingannevoli dettagli: solitario e timido per sua stessa ammissione, Prokosch ci ricorda non solo che la letteratura è quasi sempre un atto di spudorata alterazione della verità, ma soprattutto che ciò che la vita ci insegna si nasconde solo nel silenzio del ricordo.

Copertina di I rischi della percezione di Duffy

Perché tutti ci sbagliamo su tutto

«Stando a tutti i nostri studi, in ogni paese le persone si sbagliano, e di grosso, su quasi ogni argomento, come i livelli di immigrazione, le gravidanze adolescenziali, i tassi di criminalità, l’obesità, l’andamento della povertà globale, il numero di iscritti a Facebook. Ma l’interrogativo fondamentale è “Perché?”»

Bastano queste poche righe a riassumere il senso del primo libro pubblicato in Italia da Bobby Duffy, I rischi della percezione. Perché ci sbagliamo su quasi tutto (Einaudi, 2019). Duffy, professore di Politiche pubbliche e direttore del Policy Institute al King’s College di Londra, è stato in passato direttore globale dell’Ipsos Social Research Institute. In poche parole è un esperto di statistica, con una passione per quegli aneddoti che fanno fare bella figura ai matrimoni e alle cene con i parenti, caratteristica che non guasta, quando si scrive un libro di divulgazione.

In I rischi della percezione Duffy raccoglie una serie ampia e variegata di esempi che dimostrano come la popolazione mondiale abbia una percezione completamente distorta della realtà, spesso molto più tragica ed esagerata. Ma non si ferma a questa diagnosi: appoggiandosi a un’ampia e ben curata bibliografia, cerca di analizzare le ragioni dei nostri errori di percezione, passando dalla psicologia alla biologia, dall’analisi comportamentale alle teorie della percezione in un intreccio complesso e vasto di cause, effetti e correlazioni.

Il primo pensiero di chi (me compresa) si appresta a leggere un libro del genere è sempre: «Certo, lo vedo che la gente non sa ragionare, io invece non mi sbaglio». Ecco l’importanza del lavoro di Duffy, e la sua utilità nell’aiutarci a costruire una coscienza politica e sociale migliore: voi che mi state leggendo, e io che sto scrivendo, esattamente come tutti gli altri, ci sbagliamo nell’analizzare il nostro ambiente. Molti errori della percezione sono universali, e non si curano del grado di istruzione, dell’estrazione sociale, o dell’intelligenza personale. Anzi se ne fanno beffa, visto che uno dei dati che emergono dal volume è proprio quello secondo cui in genere attribuiamo a noi stessi una capacità cognitiva e di analisi superiore al reale. Tendiamo persino a ricordare voti scolastici più alti di quelli che prendevamo davvero. Insomma, Duffy sembra dirci che prima di tutto serve un bagno di umiltà, perché tendiamo a crederci migliori di quello che siamo.

I pregi di questo libro sono molti, ma vorrei concentrarmi in particolare su due. Il primo è che contiene un repertorio impressionante di curiosità e dati spiazzanti, che vi permetteranno di fare ottima figura con i colleghi alla macchinetta del caffè o con gli amici al bar (ma forse sarebbe meglio dire «in videocall», di questi tempi), chiedendo loro qual è la percentuale di ragazze madri e svelando poi che sono abbastanza lontani dalla realtà. Se poi volete spingervi in là nella discussione, potreste indagare quanto sia sbagliato credere che il resto d’Italia abbia le nostre stesse possibilità, quando un quarto delle famiglie italiane non ha accesso a internet, e quindi, in questa nefasta epoca pandemica, neanche alla didattica a distanza, al telelavoro, o anche solo all’intrattenimento in casa. Insomma, Duffy può persino aiutare a riconsiderare le necessità politiche andando oltre il nostro sguardo privilegiato, anche se nulla ci vieta di usare le sue statistiche solo per stupire gli altri prima di tornare a parlare di serie tv e calcio.

Il secondo grande pregio del libro è che non punta il dito contro l’ignoranza, o magari «l’incompetenza», non elenca i nostri errori per dimostrare che siamo senza speranze. Al contrario, lo fa per suonare un campanello d’allarme che ci spinga a non scaricare sugli altri la colpa delle fake news, di Cambridge Analitica, del populismo e degli anti-vaccinisti. Tutti noi cadiamo in errori che ci portano ad avere un’immagine distorta del mondo, bisogna solo riconoscerli e gestirli, senza cercare di eliminare l’emotività dal ragionamento, perché è impossibile e dannoso. L’emotività va compresa e inserita nelle variabili.

Un esempio su tutti: siamo impostati a livello evolutivo per sovrastimare le minacce. Quando i nostri antenati sentivano un rumore sospetto nella giungla per loro era meglio cominciare a scappare nell’ipotesi che fosse una tigre, piuttosto che fermarsi, calcolatrice alla mano, e chiedersi la probabilità che invece fosse solo il cugino Groot, con cui ci si era già incontrati la mattina per una colazione a base di miele e grasso di gnu. Questo meccanismo non è sbagliato in sé, è stato utile per la nostra evoluzione e può esserlo ancora adesso, quando inchiodiamo alla guida di un’auto o quando controlliamo se dai bruciatori esca puzza di gas. Ma ci conduce a errori di percezione quando dobbiamo riflettere su elementi come il rischio di attentato terroristico nel nostro paese, o la possibilità che i ladri ci rubino in casa.

Molte scelte politiche e sociali sono dettate da percezioni sbagliate. La soluzione non è cercare di non farsi condizionare dal negativo più che dal positivo, sarebbe umanamente impossibile; la soluzione, suggerisce Duffy, sta nel riconoscere questo meccanismo, e riadattare la nostra percezione con più consapevolezza: «So che sono spaventata dai ladri, ma visto che mi sono informata e ho scoperto che i furti nella mia città sono notevolmente diminuiti negli ultimi anni, non credo che vada aumentata la spesa pubblica per la sicurezza».

Quello appena riportato è solo un esempio tra molti: non crediate che sia una prerogativa solo di un certo populismo di destra adattare (o magari manipolare) le percezioni in base ai propri principi. Mentre leggevo il libro ho provato a chiedere a mio marito, le cui idee sono opposte alla destra nazionalista, quale fosse secondo lui la percentuale di immigrati in Italia nel 2020 (il dato reale è il 10,3 per cento). Se l’italiano medio sovrastima di molto i numeri, arrivando a moltiplicarli per tre, lui li ha sottostimati in modo insensato, sostenendo che la percentuale fosse inferiore all’un per cento. Tutti siamo vittime di uno dei più comuni errori della percezione: adattare i dati alle nostre idee sociali e politiche, quando si dovrebbe fare il contrario. Questo meccanismo, spiega Duffy appoggiandosi a un’ampia letteratura di studi e ricerche, viene accentuato dal modo in cui oggi reperiamo le informazioni: possiamo selezionare i giornali, le pagine Facebook, gli amici, i commentatori che sappiamo essere in accordo con le nostre posizioni, e gli algoritmi dei social network ci favoriscono in questa selezione, creando l’ormai famosa «bolla» che ci chiude sempre di più nelle nostre convinzioni.

Ogni capitolo del libro di Duffy, che si parli di come risparmiare meglio, di Brexit o dei social network, è un viaggio, ironico e ben narrato, verso la comprensione dei meccanismi del ragionamento. Una finestra sul mondo com’è davvero, non come lo immaginiamo.

Arrivo a dire che leggerlo può rendere cittadini migliori. E che in tal senso le basi della statistica e del ragionamento ponderato potrebbero essere persino più importanti dell’educazione civica. In questo periodo di post verità, informazioni non verificate e selettività dei contenuti, imparare a uscire dalla propria bolla e conoscere il mondo è fondamentale, ma non sempre facile. Per fortuna ci sono autori come Bobby Duffy ad aiutarci.

 

(Bobby Duffy, I rischi della percezione. Perché ci sbagliamo su quasi tutto, trad. it. di Francesca Pe’, Einaudi, 2019, 228 pp., euro 18, articolo di Elisabetta Sangiorgio)

 

La stanchezza dei Foo Fighters

Un’introduzione su Dave Grohl e i Nirvana, la malinconia di qualcosa finita troppo presto in maniera drammatica. Dave Grohl e Kurt Cobain. Di come dalle ceneri di uno dei gruppi fondamentali del ‘900 sia nato qualcosa che potesse prenderne l’eredità, ma con un’indole molto più mainstream e che, nel 2021, esce con un nuovo lavoro, Medicine at Midnight. Questo bisognerebbe fare ogni volta che esce un album dei Foo Fighters.

Ma di anni ne sono passati 25 e ricordare questo doppio binario con i Nirvana oramai non ha più senso per parlare di quello che la band di Grohl produce ora. I Foo Fighters sono un fenomeno a parte, sono entrati nel quarto decennio di esistenza  e mai come prima sarebbe da chiudere tutto.

Medicine at Midnight sembra uscito dalle rotazioni di MTV a cavallo del 2000. Ma è una musica che sarebbe stata stanca e logora anche in quell’epoca, figuriamoci adesso. Dave Grohl azzecca forse solo un brano, “Chasing Birds“, poi butta in mezzo una classica ballata post grunge che avrebbero potuto scrivere anche gli Smashing Pumpkins in questi anni, “Waiting on a War“: dopo c’è davvero il vuoto.

La sensazione è quella di assistere all’album d’esordio di un gruppo  che per anni ha fatto cover che spaziano dai Sound Garden ai Metallica e che a un certo punto ha deciso di scriverne uno per sublimare le proprie velleità. L’inconsistenza di “Making a Fire“, l’approssimazione in “Cloudspotter“, il classic rock didascalico imbevuto di Talking Heads di “Medicine at Midnight“.

Ovunque peschi, peschi male. È triste vedere uno come Grohl mentre ci prova, avendo la sensazione  che quello che sta facendo è davvero tutto sbagliato.

Il cantato tipico di Seattle anni ’90,  poi, dove Dave Grohl sembra scimmiottare proprio Dave Grohl, con effetto comico annesso, è talmente stantio che si prova un po’ di pena per un gruppo che non ha davvero più nulla, ma di cui si ricorda che alle spalle una storia importante ce l’ha.

I Foo Fighters non hanno molto da dire da diverso tempo, ora è palese che la loro fine artistica sia arrivata. Ma è più che probabile che tra un due/tre anni ci troveremo a che fare di nuovo con questo strano classic rock grunge e a ripensare ai Nirvana e a dire basta con i paragoni con il passato.

Medicine at Midnight è l’esempio lampante per cui alcuni artisti, a un certo punto, dovrebbero dedicarsi ad altro nella vita.

 

Copertina di L’ospite e altri racconti di Amparo Dávila

Uno scricchiolio familiare

Chiamatelo insolito, weird, horror, fantastico, perturbante. Di qualsiasi cosa si tratti, Amparo Dávila ne è maestra. E a pensarci bene varrebbe davvero la pena non chiamarlo affatto, perché a questa cosa che ha attraversato gran parte dei racconti della scrittrice, neppure la sua creatrice ha osato dare un nome. È un male impronunciabile, inspiegabile, una crepa dell’anima che si schiude nella realtà, o forse un nemico che bussa dall’esterno, impossibile cercare una risposta dato che la risposta, semplicemente, non c’è.

Nata nel 1928 a Pinos, Messico centrale, e scomparsa soltanto pochi mesi fa all’età di novantadue anni, Dávila è stata autrice tutt’altro che prolifica se si contano (sulle cinque dita di una sola mano) le raccolte di racconti e di poesie (sull’altra mano) pubblicate in patria. Ciononostante il suo nome, seppur in età già matura, è stato spesso identificato come uno dei più importanti nella storia del racconto messicano. E se sono in molti a rintracciare in lei l’influenza di Edgar Allan Poe (lo diceva anche Cortázar, suo grande estimatore) e Shirley Jackson, sembra che Dávila sia stata a sua volta uno dei principali riferimenti per la nuova generazione di scrittrici, perlopiù argentine, che camminano sul filo sottile che separa l’insolito dal distopico (Mariana Enríquez, Samantha Schweblin, la boliviana Giovanna Rivero, per fermarci ad alcune tradotte in Italia).

L’ironia della sorte ha voluto che la pubblicazione di L’ospite e altri racconti (Safarà, 2020), suo esordio assoluto in Italia, sia giunta proprio a pochi mesi dalla sua scomparsa, un destino beffardo che potrebbe tranquillamente essere materia per una delle storie uscite dalla penna dell’autrice.

A lettura ultimata, il primo aspetto che salta subito all’occhio è che i dodici racconti che compongono la raccolta si presentano come dodici variazioni su tema della medesima storia.

I protagonisti sono quasi sempre uomini o donne solitari (“Frammento di un diario”, “Tina Reyes”), costretti per ragioni famigliari o di salute tra le mura domestiche (“L’ospite”, “La cella”, “Moisés e Gaspar”, “Il funerale”), spesso sopraffatti dal rimpianto o dal terrore per un passato con cui si ritroveranno a fare i conti (“Fine di una lotta”, “Óscar”). E qui arriva l’elemento sinistro, la cosa indicibile che non ha quasi mai un nome, né una descrizione.

Come fa notare lo scrittore Alberto Chimal nella prefazione «chi legge Amparo Dávila non saprà mai esattamente identificare le minacce che le sue protagoniste, quasi sempre donne, si trovano ad affrontare», e ancora «il mistero non si spiega mai, né viene mitizzato, ma rimane informe, diventando quindi fonte inesauribile di angoscia, di inquietudine».

Il processo di omissione, in alcuni casi, viene spinto fino alle sue estreme possibilità. Chi è (o forse sarebbe più corretto dire che cos’è) l’ospite che nell’omonimo racconto turba le notti della protagonista e della sua domestica? Moisés e Gaspar, lascito di un suicida all’amato fratello, sono animali o bambini? Di quale malattia mentale o deformità fisica soffre Óscar, l’essere che vive segregato nella cantina della famiglia Roman e che esce solo di notte?

Sempre Chimal: «Nessuno in Messico aveva mai provato quella combinazione così precisa e particolare di ambiente quotidiano, domestico, angosciante – in cui lei stessa ha vissuto – con l’oscuro: la cognizione di qualcosa di indecifrabile, una o molte possibilità di esistenza diverse dall’abituale e perfino dall’umano».

Il male immaginato da Dávila è indecifrabile perché strettamente connesso all’interiorità dei personaggi. Dargli una forma significherebbe per loro riconoscere l’esistenza di un trauma, accettarlo come qualcosa di presente, un ospite senza invito che ormai sta lì, e non si può più cacciar via.

Meglio quindi non scendere troppo nei particolari, se è un mostro non esiste? se non lo descrivo sparirà?, sembrano chiedersi implicitamente i protagonisti di questi racconti della rimozione (ed eccoci a Shirley Jackson e ai suoi romanzi).

Alla luce di tutto ciò, il gesto estremo – talvolta compiuto nei confronti degli altri, altre volte nei confronti di sé stessi – che battezza gran parte dei finali giunge quasi come una liberazione, una catarsi purificatrice di sangue o fuoco attraverso la quale i personaggi sembrano trovare finalmente pace. I racconti si interrompono però prima di svelare al lettore se la morte porti a una reale salvezza oppure a una dannazione eterna.

I pregiudizi, le incomprensioni e le solitudini che dalla società sgocciolano nell’ambiente famigliare sembrerebbero tornare di racconto in racconto, tramandarsi di generazione in generazione, una sorta di malocchio con il quale si deve coesistere, almeno fino a quando la vita non diventa insostenibile.

«È inutile opporsi, possiamo fare mille giri e arrivare sempre al punto di partenza […] Ci sono cose contro le quali non si può lottare, caro José».

Lo dice Leónidas, nel racconto “Moisés e Gaspar”. Qualche tempo dopo si toglierà la vita nella propria abitazione, accompagnato soltanto dai propri demoni.

 

(Amparo Dávila, L’ospite e altri racconti, trad. di Giulia Zavagna, Safarà, 2020, pp. 138, euro 16.50, articolo di Martin Hofer)
Copertina di Le città di carta di Fortier

Silenzi di carta

Tanto è stato scritto su Emily Dickinson, la cui figura ancora oggi conserva dei segreti. Di lei conosciamo un unico volto, quello che ci restituisce una sua fotografia di quando aveva sedici anni: un corpo sottile avvolto in un vestito blu, uno sguardo attento accompagnato da un leggero sorriso sulle labbra e due elementi che accompagneranno per sempre la sua vita: un libro e un mazzolino di fiori.

La storia ci consegna una sola immagine, che in Le città di carta (Alter Ego, 2020) di Dominique Fortier riesce a prendere vita, animandosi davanti e dentro di noi. L’autrice, con questa biografia intimista, ci fa immergere gradualmente nella storia personale di Emily Dickinson e ce la racconta vestendo il suo mondo interiore. E noi ci facciamo portare nei misteri della poetessa americana, tanto che in queste pagine ci sembra di essere alla scrivania con lei, a osservare dietro alla finestra il fruscio delle foglie mosse dal vento e quell’universo di creature e suoni che popolano il suo giardino e la sua poesia. Dominique Fortier ci accompagna in quella stanza segreta che è la sua mente, dove i libri occupano da sempre lo spazio più grande, perché è il mondo stesso a richiamarli.

Emily Dickinson nasce nel 1830 ad Amherst, nella prima casa in mattoni della città fatta costruire dal nonno paterno. È qui, in questa cittadina «un po’ fuori dal tempo e dallo spazio», e nella cornice storica di un’America puritana, che Emily trascorre la sua prima infanzia e la vita adulta insieme ai genitori e ai suoi due fratelli, Austin e Lavinia, che ama profondamente. Il padre, Edward Dickinson, severo e allo stesso tempo benevolo, ritiene che i figli non debbano essere viziati, per questo regala loro solo libri e stampe. Emily, quindi, si avvicina fin da piccola alla carta, e lì impara subito a trovarvi rifugio, come rifugio troveranno anche le piante e i fiori che raccoglierà per realizzare meticolosamente il suo erbario. Dopo essere andata a scuola alla Amherst Academy, trascorrerà poco meno di un anno al Mount Holyoke Female Seminary, dove inizierà a manifestarsi il suo carattere deciso e ostinato, insieme alla sua volontà di non accogliere l’esistenza di un Dio che trascende le parole: l’unico filtro attraverso il quale Emily riconosce il mondo.

Per questo, «quando alza gli occhi al cielo, Emily non vede altro che le nuvole» e l’Eden, per lei, è innanzitutto un giardino. Poco meno di un anno dopo, fa ritorno nella sua casa ad Amherst, felice di potersi di nuovo chiudere la porta della sua camera alle spalle per entrare in dialogo con la sua solitudine e i suoi silenzi. È dentro lo spazio della sua stanza che scrive poesie, annota pensieri e intrattiene fitte corrispondenze con persone reali o immaginate, accumulando segretamente nei suoi cassetti veri e propri imperi di carta. L’unico mondo che Emily riconosce, infatti, è quello che si veste d’inchiostro per tracciare parole sul rovescio di una busta da lettere o sul frammento di un sacchetto di farina vuoto.

Emily è fatta «di carne, di sangue e d’inchiostro» e i suoi pensieri sono inframezzati da tanti trattini che sembrano respiri, come se volessero dare la possibilità ai silenzi di insinuarsi fra le parole. Da sempre «scissa nel tentativo di vivere e al contempo scrivere la vita», verso i trent’anni deciderà di fare della scrittura e della solitudine una scelta radicale. Inizierà quindi il suo isolamento, riducendo prima le sue visite in città, per poi limitarsi a qualche uscita nel suo giardino e infine chiudersi nella sua camera al secondo piano senza uscire mai più.

Sono molti gli studiosi che si chiedono cosa abbia portato Emily a raccogliersi e a sciogliere ogni contatto con il mondo esterno: un trauma? Un amore infelice? Un qualche evento significativo? In Le città di carta Dominique Fortier prova a darci una risposta, come se parlasse di un’amica. Forse, dice, a un certo punto della sua vita la poetessa ha semplicemente deciso di assecondare la sua natura, di accogliere quel suo bisogno istintivo di chiudersi in silenzi e abitare l’unico mondo che per lei ha un’esistenza concreta: quello fatto di parole scritte sulla carta. Con il suo isolamento, quindi, non ha cercato di nascondersi o proteggersi, ma di immergersi nella profondità delle cose per abitarle attraverso la poesia. La sua scelta diventa così radicale che Emily decide di spogliarsi anche dei colori e di vestirsi solo di bianco, come se a un certo punto fosse lei stessa a voler diventare un «essere di carta», una pagina vuota da riempire. II colori restano fuori dalla sua stanza, e il bianco inizia a dominare la sua vita.

Bianche sono anche le sue poesie, che palpitano nell’oscurità per illuminare il mondo, come piccole lucciole. Emily dedica la sua esistenza all’osservazione e all’ascolto: sente i respiri delle foglie, il profumo dei fiori o i silenzi del suo giardino ricoperto di neve, e questo mondo che vede attraverso una finestra «finirà per essere tutto contenuto nella punta della penna che stringe tra le dita»: un cumulo di foglietti ripiegati e cuciti da lei stessa con ago e filo, che verrà scoperto solo dopo la sua morte dalla sorella Lavinia. Sappiamo che Emily Dickinson scrisse più di tremila poesie, insieme a centinaia di lettere, pensieri sparsi e appunti, e che solo sette dei suoi componimenti vennero pubblicati in vita. Avversa alla notorietà, lei stessa era restia alla pubblicazione, come se la vita dello scrittore dovesse intrinsecamente nutrirsi di silenzi e la scrittura fosse un atto fine a se stesso, che non chiede riconoscimenti. Emily voleva solo abitare l’unica realtà che la faceva sentire esistente, quella popolata da esseri di carta: la poesia.

Come le città di carta, che pur avendo coordinate precise hanno una verità solo sulla mappa, così Emily esisteva, viveva e sentiva, ma sentiva di avere una realtà effettuale solo sulla pagina. E Dominique Fortier, in Le città di carta, rispetta i bordi inquieti della sua personalità e ce la racconta dopo averla incontrata «nella casa delle sue poesie» o, in altre parole, nella sua città di carta.

 

(Dominique Fortier, Le città di carta, Alter Ego, 2020, 192 pp., euro 16, articolo di Francesca Gosi)

 

Poster della docuserie Sanpa

Quanto male tolleriamo in nome del bene?

La docuserie Sanpa ha suscitato non poche reazioni, tra l’entusiasmo di pubblico e giornalisti e critiche da parte di alcune delle persone coinvolte. La comunità di San Patrignano se ne è completamente dissociata. «Il racconto che emerge è sommario e parziale, con una narrazione che si focalizza in prevalenza sulle testimonianze di detrattori», si legge nel comunicato ufficiale, arrivato pochi giorni dopo l’uscita della serie su Netflix, lo scorso 30 dicembre.

Frutto di un lavoro documentale molto importante, con oltre 180 ore di interviste e altre 200 di materiali d’archivio dell’epoca, durante il quale si sono rispettate le stringenti regole imposte da Netflix che impongono una triplica verifica delle fonti, la docuserie firmata da Cosima Spender è un prodotto notevole. 

Al di là del giudizio meramente personale sul confine tra oggettivo e soggettivo che può emergere nella comunicazione intorno a un evento storico o a un personaggio pubblico (cosa che nel nostro paese suscita spesso reazioni di disappunto quando la verità è piuttosto scomoda), Sanpa ci ricorda che raccontare una storia non è un male, soprattutto se il lavoro di ricerca è approfondito e mai del tutto accusatorio. Sì, perché addentrandosi attraverso le cinque puntate in cui è suddiviso il lungo documentario, chi guarda è portato a cambiare spesso idea nel tentativo di rispondere a una domanda implicita, sottesa a tutta la serie: quanto male si è disposti a tollerare perché venga fatto del bene? Carlo Gabardini lo dice chiaramente nella presentazione a Sanpa, di cui è autore: il documentario vuole essere una riflessione sul potere, quello delle persone, delle sostanze, della politica. 

Attraverso le 25 testimonianze, che conducono il racconto privo di una voce narrante su due direttrici, una cronologica e l’altra tematica, viene ricostruita la nascita della comunità di San Patrignano e le vicende mediatico-giudiziarie che ne hanno accompagnato il fondatore, Vincenzo Muccioli. Osannato da molti, soprattutto famiglie abbandonate dallo stato nel buio dell’eroina, per aver salvato centinaia di tossicodipendenti, è stato poi accusato per i metodi non proprio leciti (e pacifici) adottati nella comunità, spesso conditi da percosse, violenze, segregazione coatta, e sfociati in alcune morti sospette (un omicidio e tre suicidi), che hanno definitivamente gettato un’ombra indelebile sull’intera comunità. Qui si affaccia il dubbio atroce, sollevato dallo stesso Muccioli durante il primo dei due processi in cui fu imputato: è lecito usare la forza, anche quella più bruta e violenta, per salvare una vita? Lui stesso porta a esempio una persona che tenta di buttarsi da un ponte, salvata da un altro che lo afferra e poi lo scuote per redimerlo. Messa così non si potrebbe che dargli ragione, come poi fecero i giudici in secondo grado assolvendolo: non posso assistere alla scena di uno che vuole togliersi la vita, o farsi del male; devo intervenire, anche a costo di usare la forza.

Eppure questa giustificazione non è del tutto convincente, soprattutto se si pensa alle origini dell’espressione “comunità terapeutica” riferita per la prima volta da Thomas Main, nel 1946, al lavoro operato in alcuni ospedali psichiatrici inglesi e arrivata in Italia grazie a Franco Basaglia, che, a partire dagli anni Sessanta, inizia la sua sperimentazione. Un decennio dopo, quando l’eroina investe l’Italia e l’Europa occidentale, alcuni preti intuiscono la possibilità di utilizzare quell’idea di comunità per aprire le porte ai tossicodipendenti, che cominciavano ad affollare le strade del nostro paese: padre Eligio Gelmini fonda Mondo X nel 1967, quattro anni dopo don Mario Picchi avvia il Centro Italiano di Solidarietà, nel 1973 nasce Comunità Nuova di don Gino Rigoldi.

Quando lo Stato, nel 1978 con la legge 180, chiude almeno ufficialmente i manicomi, Vincenzo Muccioli fonda la sua comunità terapeutica, nella quale si fanno strada molte delle pratiche violente perpetrate per decenni negli ospedali psichiatrici. Nel momento esatto in cui si avvia un lungo processo di de-istituzionalizzazione dei metodi di cura e recupero dei malati di mente, a San Patrignano nasce una cittadella “indipendente” di 200 ettari, che sotto la sua apparenza “salvifica” nasconde un sistema patriarcale costruito su quanto Basaglia ha sempre cercato di destituire: «l’ideologia della morte come soluzione alle proprie contraddizioni». A Sanpa tutto ruota intorno a un uomo forte, comunicativo, empatico, capace di far leva sulle buone intenzioni che lo animano, cioè salvare gli emarginati abbandonati dallo Stato. Ascoltandolo si pensa che abbia ragione, senza alcuna ombra di dubbio; ma la docuserie suscita un dilemma “quasi” irrisolvibile: per salvare una persona è lecito usare la violenza?

Umanamente, no. Considerando il contesto, la risposta potrebbe non essere così ovvia. Solo nel 1990, con la legge 162, vengono formalmente istituiti i Servizi per le Tossicodipendenze (SerT), dopo un ventennio di vuoto istituzionale, durante il quale furono le comunità terapeutiche, nate per iniziativa personale, a cambiare la percezione della società nei confronti dei tossicodipendenti: da esclusi e disturbatori, a persone bisognose di sostegno psicologico e morale. Non a caso anche il DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, utilizzato a livello internazionale) ha gradualmente introdotto i disturbi da uso di sostanze nelle revisioni succedutesi a quella del 1968. 

Muccioli è uno dei pochi che si mette a servizio per tentare di salvare i “bucati” sbattuti per le strade, lui che all’inizio si propone come il “santone del Cenacolo”, una ostentata (e ridicola) reincarnazione di Cristo, quasi a eguagliare se non superare i preti che prima di lui si accorsero che qualcosa mancava, e bisognava intervenire. Da uomo astuto capisce subito cosa ha tra le mani, impegnando tutto il suo corpo massiccio e mediatico a un tempo per attuare una piccola “rivoluzione”, nonostante i metodi poco leciti: salvare dalla morte certa centinaia di persone. Autoproclamatosi profeta messianico, diventa medico, terapeuta, psicologo, salvatore di una intera generazione di perduti, che, senza di lui, oggi sarebbe sparita, inghiottita nel silenzio della droga. Privo di qualsiasi competenza in materia, anticipa i tempi quando capisce che il lavoro e il sostegno di una comunità possono essere salvifici; che poi si sia perso nelle maglie strette del potere e dell’affermazione di sé è un fatto: come padrone esigente implode nella sua creatura, che riesce comunque a sopravvivergli. 

Il suo operato azzera quanto raggiunto da Basaglia: da una parte gli abusi dei manicomi giudicati illegali dalla legge 180, dall’altra le sue ingerenze violente per le quali non si è mai intervenuti. L’esperienza di Muccioli mette in luce tutte le contraddizioni di una società incapace di essere trasparente sulle proprie zone d’ombra, garantendosi risparmio in denaro e ricerca scientifica nel momento in cui si affida a un uomo senza alcuna specializzazione, che però è un mattatore mediatico e sa bene come utilizzare le parole e i gesti.

Qualcuno ha visto in Muccioli l’alter ego di Giorgio Rosa. Entrambi fondatori, nel riminese e a soli dieci anni di distanza, di due stati “indipendentisti”; uno liberale e pacifico (quello dell’Isola delle rose), l’altro patriarcale e un po’ manesco (quello al quale si accede percorrendo Via di San Patrignano).

Qualcun altro ha scorto in Sanpa la risposta italiana a Soul, laddove la comunità diventa il daimon dei tossicodipendenti, capace di salvarli dalla dannazione e restituirgli quella scintilla vitale senza la quale la morte è assicurata. In realtà, le tre storie non hanno molto in comune, soprattutto per via di quel torbido che sottende alla comunità di San Patrignano e al suo fondatore. Sanpa non è infatti una narrazione di redenzione dalla droga, o di un sogno utopico e un po’ bizzarro. La docuserie racconta il potere; delle persone, delle sostanze, della politica. E della violenza.

 

Copertina di Fake Sud

Il Mezzogiorno, oltre gli stereotipi

L’Italia si divide in Sud e Nord e si sa, non è una frattura soltanto geografica. Il problema è che tutti ne parlano con approssimazione, un’approssimazione che sconfina spesso nello stereotipo o persino nel razzismo, e impedisce al Paese di trovare una soluzione all’annosa Questione meridionale. Ma basta una “semplice” operazione verità, ed emergono così tanti argomenti a sostegno delle tesi meridionaliste, che affrontare il dibattito diventa inevitabile anche per chi si è sforzato di chiuderlo.

Sembra questo il messaggio di Fake Sud. Perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d’Italia (Piemme, 2020), l’ultima fatica di Marco Esposito. Un libro di agevole lettura che con prosa brillante riesce ad affrontare i problemi più tecnici e complessi del Mezzogiorno. Non si tratta però di un mero testo di inchiesta e divulgazione: il volume è un j’accuse che rompe il silenzio su una mentalità collettiva colpevole di tacciare i meridionali di pigrizia, inefficienza, sudditanza ai poteri criminali, sperpero di risorse pubbliche. Accuse in larga parte false, come s’incarica di dimostrare Esposito, mettendo in luce una realtà in cui nello Stato italiano le Regioni del Sud sono meno finanziate e meno rispettate nelle sedi pubbliche centrali.

Un dibattito pubblico così inquinato da falsi miti stronca ogni tentativo di politica di coesione. L’assurdità della narrazione settentrionalista è spesso palese: se esiste un razzismo al contrario, come denunciava Ferruccio de Bortoli sull’Huffington Post, allora esiste un «razzismo “nel verso corretto”, cioè verso il Sud?» si chiede Esposito. Sono tante le pagine in cui il giornalista napoletano aggredisce questo comune modo di pensare ai meridionali, cui corrisponde, da parte di questi ultimi, la percezione di essere condannati a «un destino da cittadini dimezzati».

Tra gli altri esempi, documentati e circostanziati, che contribuiscono a delineare questo quadro desolante dell’immaginario italiano, possiamo citarne uno recente. Quando molti cittadini di tutto il Paese, nel marzo 2020, violano le regole del lockdown nazionale, è il Corriere della Sera a scrivere: «Per una volta a Napoli e a Palermo si comportano da svedesi». E osservando il panorama mediatico ci si rende conto che l’immagine di una Napoli (e con essa tutto il Sud) in cui l’eccellenza è una sorpresa, un fatto eccezionale, è radicata davvero ovunque.

Una coltre di pregiudizi offusca gli enormi problemi reali del Sud. Eppure Esposito non indulge al piagnisteo: Fake Sud è anche e soprattutto il tentativo di svelare cosa c’è dietro questa nebbia di falsi miti. Interrogarsi sul Mezzogiorno equivale a scoperchiare un vaso di Pandora: il libro inizia con la storica favoletta della siringa sicula che costa il doppio di quella veneta, e dimostra che fu una fake news in piena regola. Poi allarga lo sguardo alla sanità meridionale, tacciata di essere inefficiente e corrotta. I dati e le fonti raccontano una storia diversa, in cui i soldi destinati al Sud sono inferiori rispetto al Nord, e i servizi sanitari meridionali scarseggiano di personale, non di produttività.

E che dire dei fondi europei? Si dice che il Mezzogiorno italiano sia stata l’unica area incapace di sfruttarli per recuperare il suo gap economico. Corruzione, incapacità amministrativa, sprechi e clientelismo? No: semplicemente, lo Stato italiano ha usato i fondi europei per compensare i tagli ai finanziamenti ordinari. Dietro i pregiudizi infondati, si cela una storia politica di ingiustizie e disparità che nuoce al Sud ma in definitiva al Paese intero, penalizzandone la competitività internazionale.

Smontare la percezione nazionale che si ha del Sud e i relativi miti è per Esposito un mezzo, non un fine; non debunking ma opera d’agitazione, appello alla mobilitazione contro l’ingiustizia. Se un libro del genere riesce in questo intento è solo perché sa mantenere in ogni pagina una credibilità quasi scientifica fatta di dati, numeri, fonti, dettagli, nomi e cognomi. La prosa a volte romanzesca si unisce all’affresco statistico per far emergere fatti trascurati (o negati) dal dibattito pubblico, per esempio, che la pressione fiscale è più alta al Sud che al Nord, e che il presunto basso costo della vita meridionale non è che un miraggio aritmetico-statistico.

Esposito approda così a una vera e propria denuncia dell’offensiva settentrionale («quasi coloniale»), ma anche dell’inerzia meridionale, ai danni dei cittadini del Sud. Il vuoto politico incarnato dalle classi dirigenti meridionali deve scuotere le coscienze: la seconda parte del volume («A chi servono le bugie?») diviene allora la sede ideale per raccontare la resistenza (fruttuosa) contro gli effetti perversi del federalismo fiscale, che penalizza i comuni meridionali, e il progetto dell’autonomia differenziata. Aggiungendo a dati e numeri stralci di mail, interviste, il racconto del suo impegno personale, Esposito riesce a convincerci che politiche diverse sono davvero possibili.

Nella terza parte l’autore passa a smontare le falsità storiche sul passato del Sud, magnificato da alcuni meridionalisti. L’intento è correggere l’«errore del pendolo», la tendenza di neoborbonici e affini a reagire con bufale ed esagerazioni ai pregiudizi e agli errori ideologici della storiografia mainstream. Nonostante una preparazione scrupolosa, questi ultimi capitoli sembrano meno riusciti: lo slancio politico della ricerca si perde, se non c’è più un problema attuale da inquadrare con cognizione di causa, bensì un dibattito storiografico più simbolico che significativo.

Certo, fare chiarezza sul passato dovrebbe servire a interpretare meglio le condizioni del Sud con la ricostruzione delle sue radici storiche, e la bella penna di Esposito riesce ad appassionarci anche alle ottocentesche locomotive napoletane. Ma smontare le bufale sui primati delle Due Sicilie interessa poco, a chi non si sia fatto irretire da certe narrazioni vittimiste. Meglio soffermarsi sulle ragioni profonde dell’arretratezza meridionale, di cui comunque Esposito illustra egregiamente le varie chiavi di lettura, e su alcune perle storiche che in Fake Sud sovvertono l’immaginario collettivo (come le prime elezioni a suffragio universale in Italia, quelle duo-siciliane del 1820).

Ben documentato, ben scritto, ben costruito, analitico e insieme sintetico (in coda a ogni capitolo c’è l’elenco delle bufale confutate), Fake Sud è un’inchiesta appassionante che aiuta a immaginare e (magari, chissà) a pretendere un Mezzogiorno, e un’Italia, migliore.

 

 

(Marco Esposito, Fake Sud. Perché i pregiudizi sui meridionali sono la vera palla al piede d’Italia, Piemme, 2020, pp. 312, euro 15,90, articolo di Marco Di Geronimo)

5 anni di Aurora de I Cani

I Cani è il fenomeno cardine della musica italiana degli ultimi dieci anni. Prima di Calcutta e di Tommaso Paradiso. Senza Niccolò Contessa, il primo non avrebbe trovato il terreno per il suo pop da cameretta (che poi si è trasformato in pop da stadio) e il secondo molto probabilmente non avrebbe avuto l’intuizione della svolta retro anni ’80. Mentre loro esplodevano definitivamente e la trap segnava il suo anno di svolta in Italia, il 29 gennaio di cinque anni fa usciva Aurora.

Contessa è un personaggio che sfugge, intangibile. Una sorta di fantasma che si aggira nel mondo della musica. Le sue apparizioni, come quella di “Alla fine del sogno” dello scorso 27 dicembre  su Soundcloud, vengono vissute come delle manifestazioni messianiche. Appartiene a questo universo, gli ha dato origine, in qualche modo (anche involontariamente) lo ha plasmato. Allo stesso tempo sembra non ci sia spazio per lui, l’espressione della sua natura è esaltata dalla sottrazione del suo personaggio che poi, per dei giochi psicologici, lo rende qualcosa di estremamente attraente.

In dieci anni ha scritto tre album: Il sorprendete album d’esordio dei Cani, Glamour e, appunto, Aurora. La scansione del tempo dei lavori de I Cani è quella di certi grandi artisti che si prendono il loro tempo per dare vita alle loro opere. Aspetto da non sottovalutare, e che rientra nell’epica che c’è attorno a lui e che lo rende così specifico nel panorama musicale italiano.

Aurora è il suo lavoro evidentemente più maturo, e a cinque anni di distanza risulta ancora così, anche se quest’aggettivo ambiguo si porta appresso dei significati che potrebbero deviare quello che è il senso del discorso che Contessa sta facendo della sua carriera, semplificando inutilmente. Ma è indubbio che ci sia molta più stratificazione – una coscienza della fragilità che raggiunge livelli esponenziali -, e che i brani abbiano dietro di loro universi che i due precedenti non hanno. Nonostante i primi due (soprattutto Il Sorprendete album), di fatto, si facevano apprezzare per un’immediatezza di quel pop punk sui generis a cui sommava delle intuizioni notevoli dei tic nei rapporti umani (“Le coppie“, per esempio).

Attraverso Glamour, Contessa è riuscito a costruire, a potenziare, un ragionamento sul senso della solitudine dell’individuo, preso come singola unità all’interno di quel sistema complessa che è la società,  prima nei rapporti interpersonali, e poi, quasi di riflesso, di fronte al mistero di fenomeni che ci sembrano sempre troppo distanti da noi. Ragionare in questi termini poteva dare vita a confusione e pressapochismo, un lavoro che sarebbe potuto essere uno stop, invece in Aurora emerge tutta la capacità di analisi e perspicacia di Contessa.

La sua poetica vive di istantanee quotidiane e illuminazioni sull’enormità dell’universo, i suoi movimenti insondabili, il senso complesso dell’infinito e delle sue leggi fisiche.  E se non è il cosmo, sono logiche dei mercati finanziari, altra materia in cui siamo immersi, come in “In questo nostro grande amore” (che poi in “Sparire” si traduce in un abbandono nichilista struggente e crudele: «Quello che non mi fa addormentare non è il capitale / Non è il triste destino che attende questo mondo cane / È la polvere che sta aspettando il mio ritorno»).

Già in “San Lorenzo” era presente la difficoltà dolorosa di mettersi di fronte all’essere infintamente inutili al cospetto delle meccaniche celesti, meschini ed egoisti nel chiedere qualcosa per noi di fronte all’imponderabile mistero dell’universo. In Aurora questo discorso viene portato a un livello superiore (che trova il suo massimo nell’affresco della già citata “Finirà“) e declinato con grande intelligenza.

Dovendo tracciare delle linee, pare evidente come Calcutta ne segua una ideale che da Battisti e Gaetano arrivi a lui attraverso Cesare Cremonini, mentre Tommaso Paradiso è il culmine di qualcosa che da Venditti e Vasco Rossi si confonde con Luca Carboni. Contessa è figlio di un altro discorso, che ha in Battiato l’origine e nei Baustelle il suo filtro.

Contessa prende l’eredità di questa traiettoria, costruisce un suo immaginario lirico e sonoro che si distacca da quello dei suoi  maestri, tenendo a mente un’idea chiara e decisa.  Il rapporto tra essere umano e natura, tra filosofia e astronomia, e un intrinseco misticismo alla Battiato, in Aurora emerge in maniera significativa.

Un terreno non battuto, complesso, di difficile lettura. E che rimane quasi qualcosa a sé stante, senza ripercussioni reali, a oggi, sulla musica italiana.

L’unico esempio che può rientrare in questo discorso è legato, non a caso, con i dovuti distinguo, al primo lavoro solista di Bianconi, Forever. C’è una spinta che nasce nello stesso luogo (per estensione appunto Battiato) e che si dirama nel contemporaneo senza scimmiottare il passato, ma prendendosi la responsabilità di dover parlare del proprio tempo spingendosi oltre i confini della finitezza umana. Aurora è, in definitiva, il capolavoro di Niccolò Contessa.

 

 

Copertina di Gli effetti invisibili del nuoto di Capponi

Bestiario umano in vasca

Lo scorso settembre, proprio in quel momento dell’anno nel quale ai bagni di mare pian piano si sostituiscono sessioni di allenamento in piscine coperte, è uscita una raccolta di undici racconti tutti intrisi d’acqua clorata, Gli effetti invisibili del nuoto (Hacca, 2020) di Alessandro Capponi. Giornalista per il Corriere della Sera, con alle spalle un esordio letterario (L’amore dei nudi, Salerno Editrice, 2007) premiato come miglior “Premier roman” italiano al festival di Chambery e una biografia di Valerio Verbano (Sia folgorante la fine, Rizzoli, 2009) – scritta a quattro mani insieme a Carla Verbano, madre dell’antifascista assassinato, appena diciannovenne, nel 1980 –, Capponi, dopo più di un decennio di silenzio, ritorna in libreria.

Per farlo, ha deciso di esprimersi nella forma breve del racconto, con una prosa lieve, scorrevole e potente come l’elemento privilegiato, l’acqua.

Simbolicamente sinonimo di rinascita e rinnovamento, l’immersione in acqua e tutti i gesti misurati che vi si accompagnano hanno la sacralità di un rituale e, come in ogni rituale, ciascun attore che vi prende parte ha un proprio animale-guida, espediente che Capponi sfrutta, più che per esplorare le applicazioni mistiche di un totem teriomorfo, per disegnare un’immediata fisionomia dei tipi umani nella mente del lettore. Tartarughe, trichechi, gamberi, lumache e topi sbuffano per riprendere ossigeno tra una bracciata e l’altra, si avvicendano di storia in storia tra le corsie separate da galleggianti di plastica colorata.

Tuttavia, fatta eccezione per le due storie incentrate sui personaggi più anziani di tutta l’antologia – “La ricchezza del gambero” e “Olga Segreto, classe 1925 (al massimo 1926)” –, l’ambiente raccolto della piccola piscina di quartiere non è mai l’alveo dal quale scaturiscono e tantomeno è punto focale di snodo nelle vicende umane.

Posta a lato degli episodi narrati, alcuni quotidiani – a volte solo banali –, altri onirici, la piscina d’inverno in via Casilina è uno spazio residuale nelle vite dei protagonisti degli undici racconti autoconclusivi, frequentata ma mai assiduamente, a volte lontana nell’orizzonte temporale delle vite private di ognuno di essi. La piscina è, di fatto, invisibile, così come, da titolo, sono gli effetti che il nuoto esercita su chiunque trovi il coraggio di cimentarsi, immergersi, risalire.

Essa è più, all’occorrenza, una fonte battesimale, uno Stige, una sorgente della giovinezza, una vasca di deprivazione sensoriale, un non-luogo rigenerante, un brodo primordiale dove alle figure che popolano una Roma contemporanea e caotica è concesso sguazzare, portando a compimento la metamorfosi predetta dai nomignoli zoologici che l’estro dell’istruttrice Barbara assegna a ciascun allievo della scuola di nuoto.

Nelle narrazioni di Capponi non vi è traccia di agonismo, cronometraggi o prestazioni, di malinconia da atleta fallito o di retorica da Bildungsroman imperniato sui sani princìpi dello sport. Dopo la scuola o prima dell’ufficio, terapia per il mal di schiena cronico eseguita di malavoglia nei ritagli di tempo, hobby riscoperto o appagante evasione dal tran-tran, il nuoto diviene per la schiera di dilettanti un modo per rilasciare accidentalmente particelle delle proprie umane tensioni, gioie e dolori, nelle acque celestine dai fondali a mosaico.

È tramite una rete di gesti sottili e trascurabili – assenze improvvise, sfuriate a sproposito, una fretta insolita, un saluto mancato, gli occhialini dimenticati a bordo vasca, un crawl fiacco – che  tutti i protagonisti finiscono col disseminare per la piscina, agli occhi accorti degli istruttori Barbara e Germano, di Laura seduta alla reception, indizi sui propri tumulti interiori, indizi che non verranno mai seguiti e che rimangono come bolle sospese, a disperdersi nelle goccioline di vapore acqueo del getto della doccia calda a fine esercizio, nel soffio caldo dei phon ronzanti negli spogliatoi, coperte dai tonfi sordi dei tuffi spiccati dai trampolini sgangherati.

Oltre la porta a vetri che protegge e racchiude come un acquario questo rassicurante panorama, c’è, però, anche chi rischia di affogare nei flutti infidi del mare aperto, chi annaspa perseguitato negli abissi delle proprie ombre, chi riemerge col respiro spezzato ma la «spina dorsale d’acciaio», chi compie un viaggio surreale trasportato dalle rapide nel torrente urbano della città alluvionata, chi agita i piedi senza riuscire a staccarsi dal blocco di partenza.

Sebbene Capponi tratteggi i più variegati stralci dell’esperienza umana, dal tradimento coniugale alla malattia, dal disagio adolescenziale all’apatia della routine, il tono si mantiene sempre molto lontano tanto dalla profondità degli abissi di disperazione – niente a che fare col disperato Nuotatore di John Cheever – quanto dalle altezze vertiginose di tuffi inebrianti nella joie de vivre. Blandamente riconnessi da raccordi, posti a margine ma sufficienti perché per chi legge tutto divenga familiare e interconnesso, i racconti di Gli effetti invisibili del nuoto sono narrati con una lingua scorrevole ed efficace, frammista di dialogo e flusso di coscienza, i frammenti di esistenza che gli interessa riprendere, guizza senza difficoltà dall’onniscienza narrativa al monologo interiore, ma fa tutto questo restando in una tiepida e rassicurante pozza di acqua dolce, senza mai davvero prendere il largo. Ogni momento è sussurrato, come a sentirlo sott’acqua.

Si addice a un libro che sposa la metafora equorea per rendere piccoli sprazzi di vita l’andamento ondulatorio che caratterizza la qualità dei racconti. Accanto a ritratti evocativi e delicati (su tutti, spiccano “La leggerezza della lumaca” Beatrice, che prende a nuotare  fendendo l’aria di una calda mattina a piazza Esedra per spostarsi più agilmente tra i luoghi della propria esistenza, e Eleonora di “Braccia rana, gambe delfino, cuore umano” che, stanca di sentirsi spezzata, decide allora di nuotare e vivere nello stile che è solo suo), ve ne sono altri meno riusciti ed equilibrati nel ritmo, nei quali i tempi sono rarefatti e talvolta troppo imprecisi. Lo svolgimento dei brani si ripete in uno schema simile, che in modo soave e ineluttabile – talvolta fino a sfiorare il fastidio – approda a quello che si potrebbe dire lieto inizio, più che lieto fine, sempre aperto verso una corrente di rinnovamento, rinfrancante come l’esercizio per i muscoli stanchi. L’evolversi di qualunque situazione fluisce seguendo un canale già solcato, che presuppone l’abbandono di una postura ormai stantia e dolorosa per uno slancio in avanti – il colpo di reni nel delfino – nello scroscio delle onde smosse dai corpi che ritrovano finalmente consistenza, senso, consapevolezza, valore.

 

 

(Alessandro Capponi, Gli effetti invisibili del nuoto, Hacca, 2020, 160 pp., euro 15, articolo di Valentina Cela)