Immagine di Aleister Crowley

La satira che vestì Gotico

Agli albori del XX secolo, William Somerset Maugham pubblica un romanzo unico nella sua produzione, straniante e sinistro, dall’innaturale posa gotica: Il Mago (oggi Adelphi, 2020). A renderla un’opera affascinante è di certo la chiara ispirazione dell’autore a una controversa figura del suo tempo, che aveva avuto la fortuna e la disgrazia di conoscere a Parigi: Aleister Crowley esoterista britannico a oggi considerato il padre dell’occultismo moderno. A lui si ispira la figura del protagonista, Oliver Haddo, uomo dalla mole colossale, dallo sguardo fisso e inquietante, dai modi altezzosi che oscillano tra il macabro e il ridicolo. In questi termini Maugham costruisce una satira mirata e precisa di questa figura spaventosa e di tutto ciò che rappresenta: per farlo mette in piedi una macchina che si muove agilmente nel genere horror e gotico, senza fronzoli né slanci romantici.

Così Il Mago finisce per raccogliere in sé tutti gli elementi tipici del genere, da laboratori oscuri come quello di Haddo, a incantesimi e visioni sinistre evocate nelle menti di giovani vergini innocenti, difese dal loro premuroso e impavido promesso sposo pronto a dare battaglia al mostro che minaccia il sogno d’amore.

Avanzando tra le pagine del romanzo di Maugham e seguendo queste chicche di genere è possibile seguire un sentiero che conduce direttamente al vero colosso a lui contemporaneo, che qualche anno prima pubblicava Dracula (oggi Feltrinelli, 2011) destinando a un cambiamento di rotta definitiva tutti gli autori gotici.

Lo spettro di Stoker aleggia sul Mago, plasmandone temi e risvolti, schemi narrativi e personaggi: Oliver Haddo incarna un antagonista pericoloso, temibile ma anche capriccioso e infantile nei suoi slanci vendicativi verso gli scettici. Maugham ne architetta una fisicità che poco ha dell’umano e vira piuttosto verso il mostruoso. In questo modo l’autore vuole descriverci una bestia senza cuore, arida e avida, proprio come Stoker con il suo Dracula più mostro che uomo, se non fosse per un vago sembiante. Entrambi i personaggi seguono spietatamente i loro istintivi propositi, che sia creazione di vita o desiderio del sangue della vecchia Inghilterra.

Per raggiungere i propri scopi, tanto il mago che il vampiro non mostrano scrupoli a tiranneggiare giovani donne, indifese, dall’incantevole candore che molto cozza contro l’animo putrido dei loro aggressori. Si tratta di Margaret e di Mina, vittime e prede dei due antagonisti. Margaret è una bellissima, ben educata aspirante artista che vive e studia a Parigi in attesa del matrimonio con il suo tutore e benefattore Arthur Burdon. Mina, promessa sposa dell’avvocato Jonathan Harker, è una brillante stenografa, il cui diario guida il lettore come un faro all’interno dell’articolato intreccio narrativo.

Entrambe sono oggetto di desiderio dei due mostri: il terrificante Haddo irretirà la docile Margaret attraverso visioni sataniche e incantesimi che legheranno la psiche della fanciulla alla sua persona, condizionandola a tal punto da indurla a sposarlo e a diventare cavia per i suoi crudeli esperimenti.

Così Mina viene assediata dal Conte che, per farla sua eterna sposa, la vampirizza conducendola a perdere la propria anima e a divenire anch’essa una creatura non morta. Dunque è innegabile il richiamo che entrambe avvertono nei confronti dei loro assalitori, ai quali restano misticamente legate senza possibilità di fuga, pur consapevoli di andare incontro a un destino di morte e perdizione.

In questo snodo narrativo si inseriscono i due promessi sposi, innamorati di Margaret e Mina a tal punto da superare il fragile limite della propria umanità per riaverle con sé. La centralità delle figure di Arthur e di Jonathan sta nel rappresentare il bene che insorge contro il male, l’uomo che è in grado, attraverso il proprio intelletto, di avere la meglio sulla bestia.

Arthur Burdon in particolare incarna nell’opera di Maugham la razionalità che è la principale chiave di lettura del romanzo: da chirurgo e medico emerito, risulta sin da subito scettico nei confronti dei bizzarri racconti e resoconti di Haddo che suonano alle sue orecchie come vaneggiamenti di un folle. A causa del suo scetticismo viene quindi punito dal mago che gli sottrae la donna amata con quelle stesse arti occulte che Arthur ha osato deridere.

Dopo un primo intervallo narrativo il chirurgo apprenderà gradualmente la veridicità dei vaneggiamenti del mago. Eppure sceglierà comunque di contrastarlo con mezzi umani: in un silenzio assoluto, afferra il collo di Haddo e vi affonda le dita fino a strangolarlo. Sarà lo stesso Arthur a finire il mago e a ucciderlo in una modalità che, alla luce degli incantamenti e delle stregonerie presentate nel romanzo, risulta quasi banale.

Altrettanto tangibile appare la morte di Dracula, trafitto al cuore con un paletto di frassino da Jonathan Harker, dopo pagine di incalzanti inseguimenti del vampiro. Così il giovane avvocato, inizialmente affatto convinto di cedere alla superstizione che aleggia intorno al mostro, riesce a spezzare in tempo la maledizione di Mina e a salvarla, e con lei, tutta la minacciata Inghilterra.

 

Superstizione, magia e occultismo sono il motore che alimenta il meccanismo letterario, che lo esalta e lo conclude. Tra il mondo razionale e pragmatico dei protagonisti e quello fumoso e impenetrabile dei mostri, gli autori collocano provvidenzialmente un personaggio che costituisce il tramite tra due realtà altrimenti inconciliabili: Maugham si serve del Dottor Porhoët, medico e collega di Arthur, segretamente affascinato dal mondo dell’occulto e pertanto studioso della materia. Sarà lui a svelare all’amico i segreti di Haddo e fornire spiegazioni sugli esperimenti condotti dal diabolico mago, permettendo così ad Arthur di poter combattere la propria nemesi ad armi pari.

Di certo più famoso è il tramite del tedesco Van Helsing, figura emblematica esperta di miti e creature occulte, guida essenziale per la vicenda di Mina e Jonathan, deus ex machina in grado di approntare una strategia per sconfiggere Dracula definitivamente ed evitare il compiersi dei suoi piani abietti.

Sebbene il soggetto di Stoker come quello di Maugham si ispiri a un personaggio storicamente esistito, si può notare all’interno de Il Mago una finalità ben diversa da Dracula: se entrambi vogliono condannare ed estirpare il concetto di magia da un mondo moderno dove non c’è più spazio per la superstizione, Maugham rende questo attacco satirico, aggiungendo alle note di Stoker un velo di ironia totalmente assente in Dracula. Non a caso il Mago si ispira a un personaggio esistito e contemporaneo, per evidenziare forse l’insensata esistenza di maghi e occultisti nel XX secolo. Così Haddo assume sembianze sì mostruose ma anche ridicole: è un uomo obeso, la cui mole viene tristemente strizzata dentro abiti pomposi e fuori moda, come in una mascherata nostalgica e grottesca. Le azioni che compie sono sì terrificanti, in grado di seguire con etichetta adeguata i risvolti del genere, eppure vengono costantemente descritte come fuori luogo e stranianti. In questo modo Haddo risulta uscito da un altro secolo, da un contesto più simile a quello di Shelley (oggi Feltrinelli, 2013) dei suoi mostri e scienziati vanagloriosi, e dimostra per questo una difficoltà di fondo a trovare posto nel contesto moderno in cui Maugham lo inserisce forzatamente.

Di qui probabilmente la scelta di uno stile asciutto e narrativo, di una prosa veloce e scorrevole che non incontra gli ostacoli di descrizioni volte a creare una giusta atmosfera gotica. Allora si allontana da Stoker e dai suoi artifici retorici, dalla forma epistolare che assume i toni della lirica, che pur tentando di liberarsene, si perde a volte in dettagliate articolazioni figlie del Romanticismo.

Ma di Stoker e del Gotico, Maugham riprende gli espedienti narrativi per riuscire a dare una giusta collocazione a quel suo romanzo fuori dal coro, che insegue la messinscena dell’occulto, ne scimmiotta gli atteggiamenti ma ne segue anche religiosamente i canoni: così Il Mago finisce per partecipare a questo ballo in maschera tutto letterario, sfoggiando un manieristico costume gotico.

 

Copertina di L'oro di gelli di Scardova

Bologna: i mandanti dell’orrore

Pochi minuti dopo lo scoppio della bomba alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980 alle 10.25, Roberto Scardova era già sul posto a documentare la storia di quella tragedia che uccise 85 persone innocenti. In L’oro di Gelli, uscito nel quarantennale della strage, Scardova, per anni giornalista Rai e collaboratore dell’Unità e del Resto del Carlino, riporta gli ultimi e impressionanti sviluppi investigativi circa il filone dei mandanti, oltre ai fatti che nel gennaio 2020 hanno portato alla condanna in primo grado di Gilberto Cavallini, il quarto uomo dei neofascisti dei NAR presente alla stazione il 2 agosto insieme a Fioravanti, Mambro, Ciavardini.

Dopo l’esposto presentato nel 2012 dall’Associazione dei familiari delle vittime alla procura di Bologna, e anche grazie alla digitalizzazione degli atti giudiziari che ha permesso di riconnettere fatti e circostanze che prima si pensavano scollegati, la Guardia di Finanza ha condotto approfondite indagini su alcuni documenti sequestrati a Licio Gelli, capo della loggia massonica P2, al momento del suo arresto in Svizzera nel settembre 1982. Ed è arrivata alla conclusione che tali documenti – appunti contabili già agli atti del processo sul crack del Banco Ambrosiano, ma all’epoca considerati privi di rilevanza al di fuori del fallimento bancario – si riferiscono ai presunti finanziamenti di Gelli agli autori materiali della strage. Quali mandanti dell’eccidio, oltre allo stesso Licio Gelli, sono ora accusati il suo braccio destro Umberto Ortolani, l’ex direttore del Borghese e senatore missino Mario Tedeschi, e Federico Umberto D’Amato, che fu il capo dell’Ufficio Affari Riservati, potente struttura segreta del ministero dell’Interno. Tutti deceduti, nel frattempo. Ma per la verità sul più feroce eccidio nella storia repubblicana, il punto più tragico e sconvolgente della strategia della tensione, non è mai troppo tardi.

Quello che ha attratto l’attenzione degli inquirenti, del documento riemerso, è l’intestazione «BOLOGNA» seguita da un numero di conto corrente, proprio quello di Licio Gelli, sotto la quale figura poi una tabella in cui sono riportati importi, date, denominazioni. Queste ultime, secondo gli inquirenti, fanno pensare a strutture militari dello stato («Dif. Roma», «difes. Milano») e a suoi uomini («relaz. Zaff.», «Tedeschi artic»); mentre le cifre dei pagamenti usciti dai conti di Gelli e sottratti dal crack dell’Ambrosiano ammontano a un totale di 14 milioni di dollari. Le date sono tutte a cavallo del 2 agosto 1980: da fine luglio a inizio settembre. Il che parrebbe dimostrare che la P2 non abbia avuto solo un ruolo di depistaggio, come già accertato dal processo sulla strage, ma ne sia stata l’organizzatrice diretta.

Le strutture militari dello stato che questo foglio colloca a Milano e a Roma sarebbero identificabili negli apparati eversivi (con funzione anticomunista) di Gladio e dell’Anello. Strutture militari venute alla luce solo negli anni Novanta, nell’ambito delle quali erano addestrati e integrati i civili neofascisti di Ordine Nuovo. Avanguardia Nazionale invece, organizzazione fascista sorella di ON, risultava strettamente dipendente dall’Ufficio Affari Riservati di D’Amato. Le nuove risultanze investigative confermano in maniera pressoché inequivocabile e drammatica quel che già si sapeva: per circa 11 anni, dal 1969 al 1980, in Italia si è fatto un uso politico della violenza, avallato istituzionalmente, per impedire un’evoluzione democratica della società italiana e alla legittima ascesa delle classi popolari al governo del paese. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e dei suoi agenti di scorta nel 1978 e la strage di Bologna sono l’acme di questa strategia della tensione, iniziata nel 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano (17 morti e 88 feriti); una strategia che seppe strumentalizzare a suo favore il terrorismo neofascista tanto quanto il terrorismo brigatista. Anche per questo vale la pena di leggere il libro di Scardova, che unisce in maniera ancora più nitida i tasselli del tragico mosaico.

L’altra novità di L’oro di Gelli riguarda l’ultimo processo sulla strage, quello a carico di Gilberto Cavallini conclusosi in primo grado con la condanna all’ergastolo. Neofascista milanese, classe 1952, Gilberto Cavallini è attivo fin dagli anni Settanta negli scontri di piazza e nei pestaggi verso i militanti di sinistra. Nel 1976 uccide lo studente antifascista Gaetano Amoroso; condannato a 13 anni di carcere, riesce a evadere nel 1977. Subito protetto dal numero due di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini, Cavallini sarà l’anello di congiunzione tra il neofascismo veneto e quello romano, specialmente per quanto riguarda il trasporto di armi ed esplosivi con l’aiuto della criminalità comune. A fine 1979 fa la conoscenza dei NAR del gruppo di Valerio Fioravanti.

Il 23 giugno 1980 è proprio Cavallini a uccidere il sostituto procuratore di Roma Mario Amato, il quale, lasciato solo dal resto della magistratura capitolina a indagare sul terrorismo neofascista, era giunto a una verità d’insieme. Dietro i singoli atti criminosi commessi nella capitale rivendicati da sigle diverse (NAR, TP, CLA, MRP…) si muovevano i sempiterni tessitori di trame dell’eversione nera: da Paolo Signorelli a Stefano Delle Chiaie, da Mario Tuti a Franco Freda. «Siamo in pratica alle soglie di una guerra civile» denunciava Amato di fronte al CSM il 13 giugno 1980. Gli fu addirittura negata la scorta. E fu ucciso alla fermata dell’autobus di viale Jonio: il progetto stragista poteva proseguire senza intoppi.

Nel corso del processo bolognese sono emerse prove pesanti. Una banconota spezzata, sequestrata in casa di Cavallini al momento del suo arresto nel 1983, che lascerebbe pensare a un lasciapassare per i depositi di armi di Gladio; due utenze telefoniche nell’agenda di Cavallini riconducibili alla linea riservata dell’allora SIP di Milano e allora in uso, pensano gli inquirenti, ai servizi segreti; la Opel Rekord 2000 con la quale i NAR sostengono di essersi spostati da Treviso a Padova la mattina del 2 agosto, che però risulterebbe essere stata portata proprio il 2 agosto in una carrozzeria di Milano, anch’essa legata al gruppo dell’Anello. Infine, i covi dei NAR a Milano e a Roma in appartamenti ricollegabili a società immobiliari dei servizi segreti, per i quali è stato rinviato a giudizio per false dichiarazioni al pm Domenico Catracchia, l’amministratore della società immobiliare delle palazzine romane di via Gradoli (ebbene sì, la stessa via e lo stesso appartamento delle BR in cui era detenuto Moro). Sempre nel quadro dell’inchiesta sui mandanti, sono accusati di depistaggio pure gli ex militari dei servizi segreti Piergiorgio Segatel e Quintino Spella: avrebbero mentito, o meglio negato, sulla loro conoscenza preventiva della strage, di cui in realtà avevano appreso nel luglio 1980 dagli ambienti della destra armata genovese e romana.

Ultima importante novità processuale riportata da Scardova è il coinvolgimento diretto nella strage di Paolo Bellini. Militante di Avanguardia Nazionale, latitante in Sud America, pilota di volo (si faceva chiamare Aquila Selvaggia), esperto nel furto di opere d’arte e successivamente coinvolto nei primi anni Novanta nella “trattativa” Stato-mafia, il nome di Bellini veniva associato alla strage fin dal 1983. Oggi, grazie alle migliori tecniche di visualizzazione dei filmati amatoriali dell’epoca, è stato possibile constatare una spiccata corrispondenza tra il volto di Bellini e quello di un uomo nei pressi della stazione di Bologna il 2 agosto 1980 nei momenti immediatamente precedenti e successivi l’attentato. In un filmato in Super8 girato da un turista tedesco, Bellini è stato riconosciuto anche dalla ex moglie. Per lui si attende ora il processo.

L’oro di Gelli si conclude con un prezioso resoconto dell’ex magistrato Claudio Nunziata, estremamente dettagliato, sulle prove e i fatti ricostruiti negli anni, che aiutano a comprendere meglio il contesto in cui maturò l’eccidio. Anche per questo è un libro da leggere: Scardova è una garanzia di affidabilità e finora non era mai stato possibile ritrovare nello stesso volume una ricostruzione così completa sulla strage, capace di restituire l’orrore di una bomba che uccise decine di innocenti, ma anche l’orrore del contesto politico che fu in grado di partorire un crimine così terribile.

Sono trascorsi più di quarant’anni, ma è bene resistere alla tentazione di considerarla “roba vecchia”. Non ultimo perché, malgrado la fine della Guerra fredda, lo scenario internazionale dell’epoca non è poi così diverso da oggi. Anzi, si è sbilanciato sempre più a favore degli Stati Uniti, i veri ispiratori della strategia della tensione e delle stragi.

 

(Roberto Scardova, L’oro di Gelli, con un intervento di Claudio Nunziata, Castelvecchi, 2020, 156 pp., euro 17,50, articolo di Francesco Nesti)

 

Cosa ci lascia Brigatabianca di Samuel?

Samuel aveva già scritto un album solista,  Il codice della bellezza, nel 2017. I risultati non erano stati esaltanti. O almeno non per quello che rappresentano storicamente i Subsonica. La flessione del gruppo di Torino è tangibile e questo non può che riversarsi  sul suo progetto in proprio. Cambiare aria non è servito. Oggi comunque ci riprova e fa uscire Brigatabianca.

L’album vede diverse collaborazioni e i nomi non sono casuali. Willie PeyoteEnsi, Johnny Marsiglia, Fulminacci. Dovrebbe essere  un trampolino di lancio per gli ospiti – dei più o meno giovani ospiti – come si potrebbe pensare. Invece la sensazione che si ha è che Samuel (l’entourage, la Sony) li abbia buttati in mezzo come ancora di salvataggio per lo stesso Samuel, che dall’acqua sembra invocare aiuto gridando “Ragazzi, esisto anche io, ricordatevi di me”.

Il risultato che esce  è un lavoro piuttosto scollato, con pochissime intuizioni rilevanti, dove emergono quelli che sono sempre stati un po’ i limiti nella scrittura di Samuel. In passato (Subsonica, Microchip emozionale) venivano calibrati da un impianto sonoro di livello. Oggi tutta la sua retorica sprofonda in un oblio da cui sarà difficile uscire fuori.

Quello che si nota è un tentativo di Samuel di calcare un terreno già battuto vent’anni fa, ma da un’altra prospettiva: quella cosa che era riuscito a fare nel 2000 (Sanremo, “Tutti i miei sbagli“), far conoscere un intruglio elettropop nel mainstream in Italia, oggi, 20 anni dopo, non funziona.

In Brigatabianca si fa trascinare da un tentativo di stare al passo coi tempi che rasenta il ridicolo. Un pasticcio che unisce componenti vecchie confuse per attuali, roba radiofonica, elettronica stanca, duetti fini a loro stessi.   Ramazzotti che viene inglobato dal raggaeton:  Samuel che ci casca per provare a cambiare muta ed essere ok per il presente non è un’ipotesi così remota.

Ne Il codice della bellezza c’è stata una grossa mano di Jovanotti. Oggi la scelta per stare sul pezzo, legandosi comunque in qualche mondo con l’ex rapper, non poteva che ricadere su Willie Peyote, suo erede anti intuitivo. Il risultato, “Giochi pericolosi“, è un pezzo che il Jova avrebbe potuto scrivere per una playlist chill out sponsorizzata da Tezenis. Niente di più.

“Bum Bum Bum Bum”, scritto con Ensi, è  qualcosa che non ci meritavamo. Sia perché all’interno di quest’album non ha nessun motivo artistico per apparire, completamente lontano da tutto,  sia perché  Samuel ha rappresentato qualcosa di importante e una cosa del genere suona come un insulto. Il pezzo spagnoleggiante con Johnny Marsiglia, poi, “Palermo“, con un testo pseudo distopico, avrebbe avuto bisogno solo di un video stereotipato sessista con i maschi che fanno i maschi e le femmine che fanno le femmine per essere completo al 100 per 100.  L’invocazione a Santa Rosalia, poi, rende il tutto perfettamente trash.

In questa confusione c’è un episodio che sfiora il comico: “Dimenticheremo tutto“. Un pezzo in levare che sembra scritto da Pop x, cantato da Pop x, con un testo di Alessandro D’avenia. Solo che l’autore di Lesbianitj  vive tra l’essere artista provocatore e troll vero e proprio, e a lui questo ruolo calza in maniera perfetta, mentre su Samuel è come vestirsi da coniglio in un conclave.

Due sono gli episodi degni di nota : “Quella sera” e “Io e te” . Il primo vive su una strofa ubran, estremamente scura, che però viene soffocata da un ritornello che ribalta il senso del pezzo e l’effetto che produce è quello di qualcosa che sarebbe potuto essere davvero valido e si accontenta di essere uscito monco. Nonostante questo squilibrio, comunque, è qualcosa che ha motivo d’essere.  Il secondo è il migliore del disco, l’unico che sembra una canzone vera e propria  – e sarebbe stata un’altra storia se la strada intrapresa da Brigatabianca avesse avuto lei come spirito guida. È l’unico momento in cui Samuel pare realmente concentrato sulla canzone e su nient’altro. Un peccato, se si guarda tutto quello che ha attorno.

Poi c’è “Tra un anno“, con le sue chitarre simil indie primi Strokes e un testo sempre troppo piatto, dove le scelte formali  hanno attutito la forza del significato che il brano si porta appresso, intriso di una dose di malinconia per un futuro di cui non sapremo mai nulla. C’è però qualcosa di vero dietro il pezzo, che vibra come il resto non riesce a fare.

Solo un anno fa usciva Mentale Strumentale,  del 2004, lasciato nel cassetto per troppo tempo, dove vediamo appieno le qualità dei Subsonica e di conseguenza di Samuel. Oggi il leader di uno dei più grossi gruppi italiani degli ultimi 20 anni sembra non avere più molto da dire e da dare.

Copertina di L'uomo visibile

La vita quotidiana come distruzione di sé

«L’obiettivo di essere vivi è capire cosa significa essere vivi e ci sono una miriade di modi per dedurre questa risposta, io preferisco esaminare la domanda attraverso il contesto di Pamela Anderson, di The Real World e dei Frosted Flakes». Così nell’introduzione di Sex, Drugs, and Cocoa Puffs: A Low Culture Manifesto Chuck Klosterman fa dichiarazione d’intenti neanche troppo velata a quanto perseguito con la scrittura: scoprire le intersezioni inedite tra pop culture e realtà che provocano nuove onde di significati e influenze.

Niente di nuovo dopo David Foster Wallace e gli autori postmoderni, eppure, la portata critica dei cambiamenti comunicativi e tecnologici sembra erodere continuamente tempo e capacità di analisi. Non è solo mutato il modo di fruire la lettura di ogni aspetto della quotidianità ma l’ossessione della narrazione disruptive o autoriferita, che trova espressione e pubblico tra gli internauti, rischia di ridursi a un rumore di fondo, una piccola rivoluzione a compartimenti stagni.

Ecco perché l’analisi dell’illusione dell’amore romantico di Harry ti presento Sally, la cultura americana assuefatta alle immagini del sex-tape di Pamela Anderson e Tommy Lee, un viaggio on the road alla scoperta delle icone rock (Morire per sopravvivere, minimum fax, 2018), traspongono nella vita quotidiana interrogativi che stazionano solo nel mondo idealizzato dell’immaginazione. Più interessante sarebbe anche allontanarsi dal messaggio esplicito e impegnato di un saggio e offrire una riflessione con gli elementi canonici della fiction. Chuck Klosterman ne dà una prova validissima con L’uomo visibile (Alter Ego Edizioni, 2020).

È possibile definire l’autenticità? L’interrogativo di Y___, l’anonimo paziente della psicologa Victoria Vick percorrerà l’intera vicenda. Frammenti di diario, registrazioni e trascrizioni sono espediente narrativo e corollario ironico per una terapia svolta proprio da chi dovrebbe prescriverla. La psicologa si lascerà trascinare nei monologhi del protagonista, uno scienziato in grado di creare una tuta mimetizzante che lo rende invisibile: l’idea è di usarla come un attributo moralmente neutrale per svelare i momenti più segreti e autentici dell’interiorità umana che in pubblico è continuamente recitata e rappresentata. Y___ racconterà di essere stato spettatore di una giovane donna incastrata nel loop ossessivo-compulsivo di lavoro, droghe, alimentazione bulimica e attività fisica; oppure farà visita a un anziano messicano impegnato in chiacchiere con se stesso nella completa solitudine.

Quello che a una prima impressione può sembrare un delirio di onnipotenza ci traghetta molto presto oltre l’intento scientifico dell’osservazione senza turbamento: il bisogno del paziente è di mostrarsi autentico nel suo io sfuggente e simulato, e ricercare questa possibilità nelle realtà altrui. Se per un attimo ci tornano in mente precedenti illustri come Un oscuro scrutatore di Philip K. Dick o il protagonista del libro di Ralph Ellison, Klosterman se ne tiene a distanza con velata ironia. Non c’è un vero e proprio intento politico e metaforico nell’invenzione di Y___, ma solo una proposta di autoanalisi della contemporaneità comunicativa. La mancanza di riferimenti a siti o social network non impedisce di direzionare il pensiero alla costruzione dell’ego online: qui, più che nella comunicazione sincrona, ci si esibisce in finestre di un edificio illuminate a intermittenza per svelare parti a comando.

Con il protagonista di Klosterman siamo al cospetto di un ingombrante esperimento sociologico che cerca di invertire La vita quotidiana come rappresentazione di Erving Goffman. Proprio come le facoltà del linguaggio sono già presenti in specifiche aree del cervello, la dissimulazione del sé, il senso di giusto e sbagliato, vengono apprese velocemente nel teatro della vita in funzione della performance. All’attore che inscena un’identità spetterà calibrare l’autoinganno e la stessa cosa faranno i suoi spettatori, in un effetto domino di recitazione. Naturalmente, come Goffman tiene a precisare, non tutto il mondo è un palcoscenico, ma è molto difficile individuarne la fine.

Alcune delle vittime osservate di nascosto sono incastrate in un’approvazione ricorsiva che le porta a uscire di strada, tra dipendenze e improvvisate, solo per poi ripiegare nuovamente rientrare nelle aspettative che loro stessi hanno creato. Recitare per gli altri è recitazione per sé e sorge spontanea una domanda: si è il personaggio interpretati o si finisce per diventarlo? Essere a casa, lontani dal palcoscenico, porta a riconsiderare tutte le illusioni che fanno parte di autonarrazioni eroiche («Quello che invece ho capito è che la gente ha bisogno di essere scrutinata e interpretata, così da convincersi che ciò che fa abbia importanza»).

Il riflesso del sé rimbalza senza sosta in una casa degli specchi metodicamente costruita nel corso della vita e produce una eco costante: un suono della nostra superficie che ci ha reso abili imitatori della profondità sconosciuta che nascondiamo («Le uniche circostanze in cui si è consapevoli di ciò che si prova è quando qualcosa ci ferisce. Il più delle volte ci auto addestriamo a ignorare le sensazioni»).

L’indagine di Y___ appare fallimentare persino nella lingua: nella sua semplicità e autenticità verrà travisato, scambiato per ironico, cinico senza speranza o dotato di un’illusione infantile, egocentrica ed egoista. In fondo l’unico che persegue il suo bisogno senza nasconderlo con la recitazione è un paradosso, un occultatore della norma, come uno spettatore che svela continuamente i trucchi di un mago. Andrà a finire che l’unica sincerità possibile è un miraggio, perché non è possibile immaginare un’identità libera da interpretazione e scrutinio in un continuo fraintendimento.

 

(Chuck Klosterman, L’uomo visibile, trad. di Leonardo Taiuti, Alter Ego Edizioni, pp. 288, euro 16, articolo di Fabrizia Gagliardi)
Copertina di Il vecchio lottatore di Franchini

Chi vince e chi lotta

È durato dieci anni, il silenzio di Antonio Franchini, che avevamo salutato l’ultima volta nel 2010 con Signore delle lacrime edito da Marsilio – opera simbolo, tra le altre, di una narrativa spuria, che incrocia il reportage fino a sfiorare la saggistica. Caratteristica, questa, associabile un po’ a tutta la produzione dello scrittore campano, di cui quest’ultima raccolta rappresenta un esempio aggiuntivo. La stessa rievocazione di Hemingway, certificata ora in Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani (NNEditore, 2020) a partire dal sottotitolo, non è nuova: lo scrittore-guru americano era comparso già nel 1996 insieme a Mishima nei ritratti di Quando vi ucciderete, maestro? (Marsilio, 1996), ma è evidente che costituisce, più in generale, un’influenza forte che Franchini è stato perfino costretto ad “addomesticare”.

Non ci si lasci però ingannare da questo aspetto, perché la poetica franchiniana si emancipa da quella dei maestri fino a rivendicare un’originalità ben definita e una collocazione letteraria su di un piano assai diverso. Vien quasi da immaginare che Franchini abbia scritto questo libro con una copia dei 49 Racconti a portata di mano e una o più quotes istruttive di Ernest Hemingway, attento, tuttavia, ad astenersi dall’emulazione – anche perché, da lettore caro a Hemingway qual è stato, è consapevole di come proprio questa emulazione abbia distrutto la vena di tanti scrittori negli ultimi sei decenni.

In sostanza Hemingway è presente in queste pagine come una tensione che non si compie perché si è consapevoli che non ha senso compierla, e che resta dunque come un “fantasma”, come una lacrimosa ispirazione – più concretamente, come un tributo personalissimo, nei caratteri del titolo di un racconto (“Non ho scopato con Hemingway”) o nel racconto che rinuncia quasi completamente alla propria dimensione narrativa per farsi esegesi (“Il suicidio dell’indiano”) di un racconto del maestro. Ma, ancora, Hemingway si conserva in questo libro come una “dimensione” quasi assoluta, dai luoghi ai soggetti fino a una visione del mondo che Franchini reinventa e reinterpreta sulla scorta del suo maestro.

È forse significativa e non del tutto casuale, a proposito di questo personalissimo recupero, la scelta di iniziare la raccolta con una storia dall’ambientazione metropolitana (siamo a Milano, in un palazzetto dello sport). “Le Leonardiadi” rappresenta con ogni probabilità una piccola eccezione all’idea compositiva della raccolta, un testo che segnala la propria anomalia a partire dalla narrazione in seconda persona – e che tuttavia, proprio nel suo carattere unico, spicca tra tutti gli altri, impatta col lettore in modo segnante e brilla per l’acutezza di sguardo e per un tipo di sensibilità che non incontreremo più nelle pagine successive. Ma anche in questa unicità, il racconto è un’ulteriore chiave d’accesso alla visione del mondo di Franchini – una visione che si modella sul corpo e che, col mutare del corpo, muta anch’essa negli anni. Accanto alle fatiche e agli imbarazzi di un corpo che invecchia, e il cui confronto coi giovani si vivifica in tutta la sua spietatezza, a legare questo racconto agli altri c’è il tema dell’agonismo – il confronto che si fa scontro, competizione e che decreta vincitori e sconfitti.

«Ti hanno sempre detto che molti momenti della vita, se non la vita nella sua interezza e fino alla fine, assomigliano a un agone o ne sono la metafora più facile, ma tu sai che non è vero, solo una gara assomiglia a una gara, una gara e senza rimedio e senza appello, dritta e asciutta, mentre la vita ha le sue opportunità, le sue occasioni perdute e ricreate». Passaggio esemplare, questo, di quella visione del mondo secondo cui, anche quando si presta la propria vita alla letteratura, le due dimensioni restano ad almeno un grado di separazione, perché la vita è inimitabile e non è quindi metafora di niente. Nella constatazione – sofferta – di quel che la vita comporta, la rilevazione di una fragilità diventa, paradossalmente, indice potenziale di una forza: è forte ciò che può soccombere e invece resiste, ma è forte anche chi accetta i limiti della propria dimensione e, prim’ancora di combatterli, li rispetta.

C’è una frase di Hemingway divenuta molto celebre, tratta da Il vecchio e il mare, che dice: «Adesso non è il momento di pensare a ciò che non hai. Adesso è il momento di pensare a ciò che puoi fare con quello che hai». Questa presa di coscienza dei propri mezzi a partire dai propri limiti è la virtù di ogni grande lottatore (e qui il termine si presta alle suggestioni letterarie a portata di metafora). C’è una nobiltà della forza che si assume dalla consapevolezza della propria scadenza – il fatto, insomma, che ci sono sfide che non possiamo vincere. Ma questa nobiltà fa eco al desiderio che noi abbiamo di lottare per le cose per cui vale la pena lottare. «Il mondo è un bel posto», scriveva Hemingway, «e per esso vale la pena combattere». Nel racconto che dà il titolo al libro, Franchini dice che «molte cose si possono fare per volontà, anche quelle per le quali ci vorrebbe talento». Molte cose – che significa: tante, ma non tutte. Per cui «se c’è qualcosa da vincere, la vince chi ci crede». Le cose appartengono a chi le vuole di più, dice un ragazzo in uno di questi racconti. Ecco: le cose. La natura, spoglia com’è della nostra civilizzazione, vive costantemente la sfida della vita. L’uomo, quando vi si reimmerge, se ne ricorda e si riappropria di una parte di sé.

 

(Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani, NNEditore, 2020, 256 pp., euro 17, articolo di Giuseppe Del Core)

 

10 anni di Wow dei Verdena

Il 2011 è stato la svolta per la musica italiana. Il 3 giugno di dieci anni fa, infatti, usciva ciò che ha dato il via a quella mutazione antropologica della musica indie che ha segnato l’ultimo decennio:  dopo il Il sorprendente album d’esordio dei cani non saremmo più potuti tornare indietro.

Sei mesi prima, precisamente il 18 gennaio, I Verdena  decidevano di far uscire con Wow un doppio album di 27 tracce. Al di là dei simbolismi (scelte contro intuitive di mercato rispetto a come poi l’indie stesso si sarebbe piegato a esse),  I Verdena erano arrivati al punto di potersi giocare una carta del genere mentre i tempi per la nicchia-alternative stavano cambiando per sempre.

Imparagonabili certamente i Verdena con Calcutta e i vari epigoni, chiaro.  Ma forse diamo istintivamente per buono che i Verdena si debbano comportare così, che siano altro in maniera ontologica rispetto a ciò che succede. Non che si sarebbero trasformati in una sorta di Ex-Otago, ma  magari qualche posizione ideologica si sarebbe potuta alleggerire. E invece no.

Quello che è accaduto da Wow è un manifesto di indipendentismo e di forza davvero notevoli.  I Verdena non hanno mai dato motivo di dubitare della loro intransigenza  e ciò che lo rappresenta in maniera più esplicita è attraverso ciò che non è mai accaduto: la produzione qualsiasi di un loro album che potesse strizzare l’occhio a certe mode del momento. I Verdena andavano e vanno avanti per la loro strada incuranti di tutto e tutti.

La sensazione, più che giustificata, è quindi che i Verdena siano stati sempre al di fuori da tutto quello che accadeva e che accade. C’è però un intoppo. Un fatto accaduto verso la fine dello scorso anno: l’episodio di Alberto Ferrari a XFactor. Nel momento in cui l’abbiamo visto sul palco di Sky è sicuramente successo qualcosa. Il muro che (teoricamente) ancora separava un certo mondo da un altro, magari non è stato buttato del tutto giù, ma una bella picconata l’ha sicuramente presa. Nulla di trascendentale o di eccessivamente scandaloso il fatto in sé, ma qualsiasi siano state le motivazioni (di carattere economico o l’amicizia con Agnelli o qualsiasi altra cosa), per la prima volta i Verdena sono sembrati dei non-alieni.


Dieci anni fa comunque Wow usciva dopo che il suono dei Verdena aveva preso una direzione ben precisa con Requiem, seguito non-ovvio de Il suicidio dei Samurai.  Con quest’ultimo avevano scritto uno di quegli album perfettamente incastonabili nella tradizione alternative italiana, tra Afterhours e Marlene Kuntz, raggiungendo la summa della loro produzione giovanile.

Requiem è l’inizio di un nuovo discorso complesso, ancora più cupo che in precedenza. Il suono si fa più massiccio, le tastiere di Fidel lasciano spazio a qualcosa di intrinsecamente più muscolare. Ma risulta, nonostante comunque la lunghezza, ancora intellegibile.

Wow è, invece, un album diluito in uno spazio-tempo che cambia costantemente, in un dedalo di soluzioni difficilissime da assemblare, ma che I Verdena riescono a legare con grande naturalezza. Ma ce ne accorgiamo solo in un secondo momento. Forse in un terzo. Non è facile da afferrare e decodificare subito. Stargli dietro. È un lavoro per cui c’è bisogno di molta pazienza prima che si manifesti come un unicum e non come una somma di allucinazioni sonore.

Qui, poi, il cut up di Alberto Ferrari risulta ancora più fondamentale rispetto al passato. Come in tutta la produzione Verdena, la peculiarità è quella di fare dell’italiano qualcosa di diverso dall’Italiano delle canzoni a cui siamo abituati. Il significato lascia spazio completamente al significante e alla forza del suono, andandosi a mischiare indistintamente tra i riff di chitarra, il basso e la batteria. Siamo forse al suo apice.

Wow è un miracolo che si muove su un sottile equilibrio che non dà mai la sensazione di poter venire meno.  C’è una mole di idee enorme: si spazia dallo stoner al grange, dal pop alla psichedelia. Al suo interno troviamo un po’ di tutto. L’eco dei Police in “Castelli per aria” e  “Razzi Arpie Inferno e Fiamme” che sembra esser stata scritta da Ferrari dopo aver spiato le registrazioni di In Rainbows dei Radiohead;  “È solo Lunedì” pare un pezzo dei Mew pensato in una Danimarca in piena rivoluzione guidata dai Queens of the Stone Age, mentre  Le scarpe volanti è uno strano miscuglio del Battisti-Panella e di Battiato.

Loniterp” unisce chitarre indie alla Bloc Party a qualcosa che somiglia a “Il suicidio dei samurai“. “Miglioramento” vive su una linea di basso che sembra scritta dai Queen per poi trasformarsi in un qualcosa di molto simile agli Arcade Fire. Il tutto è poi legato da un’idea ben precisa, in un continuo dialogo che si fa più sciolto attraverso pezzi non pezzi come “A Cappello”.

Forse diamo sempre un po’ troppo per scontato i Verdena, la loro grandezza e il loro genio.  Oggi, più che dieci anni fa, Wow emerge come un monolite della produzione musicale italiana.

Copertina di E avvertirono il cielo di Sini e Pievani

Natura e cultura, un cambio di prospettiva

La necessità di ripristinare un dialogo tra le «scienze della natura» e le «scienze dello spirito», per riprendere una nota distinzione di Wilhelm Dilthey, è senza dubbio tra i problemi più assillanti del nostro tempo, e il dibattito pubblico sulla gestione del Covid-19 ne ha data un’ulteriore conferma. Se da un lato coloro che una volta si sarebbero definiti “gli intellettuali” non ottemperano più alla funzione di mediatori tra ricerca scientifica e società civile, nel nome di una presunta autonomia degli studi umanistici che di fatto li confina al godimento “estetico”, dall’altro cresce il numero degli scienziati che non si perita di sostituirli in questo ruolo, senza però disporre di una formazione storica e filosofica. E ignorando di conseguenza i presupposti ontologici e culturali che, spesso implicitamente e inconsapevolmente, guidano la loro stessa ricerca scientifica.

L’autorità degli uni e gli altri appare così irrimediabilmente compromessa, e la sensazione diffusa di un’inarrestabile frammentazione del sapere, come sempre, finisce per favorire chi alza i toni sventolando soluzioni facili e di breve respiro. Sotto questo profilo E avvertirono il cielo. La nascita della cultura (Jaca Book, 2020) è un libro in controtendenza, e ciò basterebbe a consigliarne la lettura. Carlo Sini, maestro del pensiero teoretico, e Telmo Pievani, detentore della prima cattedra italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche, intavolano una conversazione a piede libero intorno a una domanda apparentemente avulsa dalle esigenze del presente, ma che proprio alla luce della pandemia è tornata a svelare la sua inquietante: qual è il confine tra natura e cultura? Che cosa ci dicono al riguardo la scienza evoluzionistica e la paleoantropologia? In breve: quid est homo?

Non è certo la prima volta che insigni esponenti delle cosiddette “due culture” si confrontano sull’argomento (basti ricordare il celebre dibattito Chomsky-Foucault tenutosi a Eindhoven nel 1971), ma ciò che stupisce qui, a dispetto della diversa formazione degli interlocutori, è lo spirito di apertura che anima il loro dialogo, ancor più sorprendente se si tiene conto delle circostanze in cui esso è sorto: l’università italiana, dove notoriamente vale per l’interdisciplinarità ciò che Metastasio diceva dell’araba fenice: «Che vi sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa». Per di più, il confronto risale al primo lockdown di marzo-aprile, che da questo punto di vista non ha fatto che peggiorare le cose, riserrando gli “esperti” all’interno dei limiti spirituali dei propri saperi non meno che nei confini naturali delle proprie abitazioni, gli uni e gli altri enfatizzati dalla pandemia.

Senza nascondersi i problemi, Sini e Pievani infrangono gli steccati disciplinari per andare alla ricerca di una base comune su cui scienza e filosofia possano tornare a dialogare, a sentire cioè, socraticamente, ciascuna i problemi dell’altra come propri. Troppo grandi e complesse sono infatti le sfide che si profilano all’orizzonte perché l’una possa illudersi di poter fare a meno dell’altra. Troppo profonda ormai la loro frattura, perché una sola delle due possa pensare di porvi rimedio. A partire da questa consapevolezza sorge la domanda che dà l’abbrivio alla conversazione, e cioè, nei termini di Sini, «se sia possibile delineare un sapere non semplicemente (ovviamente, che sia semplice… si fa per dire!) interdisciplinare, ma in qualche modo, transdisciplinare, capace di movenze integrative dei saperi, delle loro “pratiche” e dei modelli di formazione che potrebbero forse derivarne». Per riuscirci, secondo Sini, occorre prima sgombrare il campo da alcuni aspetti duri a morire del senso comune scientifico e filosofico: anzitutto l’idea che ci si possa riferire a una realtà in sé e per sé sussistente, “là fuori”, che le varie teorie avrebbero il compito di “descrivere”, e prendere coscienza del carattere giocoforza “metaforico”, relativo e storicamente situato di ogni espressione umana. Perché, come ha intuito lo stesso Darwin, «l’universo non è statico, non è già fatto e finito e nemmeno noi, appunto, lo siamo».

Pievani raccoglie la sfida, adducendo numerosi esempi che, partendo dal suo campo di studi, l’evoluzionismo, sembrano corroborare l’impostazione di Sini. Proprio la storia dell’evoluzione umana ci insegna infatti che «l’organismo cambia il mondo con le sue attività e il mondo così trasformato retroagisce selettivamente sull’organismo, che si adatta a un ambiente da esso stesso modificato e interpretato, in un gioco ricorsivo e senza fine». Allora, «non è come al solito, prima la biologia, ma il contrario, in un continuo gioco ricorsivo tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale che rompe il vecchio schema che abbiamo letto mille volte sui libri di etologia: prima viene l’evoluzione biologica, poi siamo diventati culturali. Noi siamo biologici attraverso la nostra evoluzione culturale e siamo culturali grazie alle nostre potenzialità biologiche».

Per Sini questo presupposto impone un cambio di prospettiva: le competenze relative all’organizzazione sociale, alla previsione e alla pianificazione non si “trovano” in determinate zone cerebrali, come ancora qualche uomo di scienza si arrischia a dire; è piuttosto l’utilizzo stesso di certe tecnologie e non altre a «scolpire» (la metafora è di Pievani) diversamente il corpo vivente. Assumere questo punto di vista consente allora di «osservare che quindi la cultura non è l’effetto diretto, lineare, uniforme, meccanico di quelle che consideriamo le condizioni puramente naturali o biologiche dell’esistenza», evitando  «la duplice superstizione dello spiritualismo e del riduzionismo».

«La faccenda», prosegue Sini, «è infatti più complessa e richiede, a mio avviso, una collaborazione tra scienziati e filosofi, un dialogo senza pregiudizi e difese narcisistiche». Pievani concorda, sottolineando in conclusione che sui temi dibattuti nel corso della discussione «il paesaggio scientifico sta cambiando e si aprono nuove possibili connessioni con la filosofia». Senza dubbio, almeno per quanto concerne il nostro paese, E avvertirono il cielo fornisce un contributo significativo in questa direzione.

 

(Carlo Sini e Telmo Pievani, E avvertirono il cielo. La nascita della cultura, Jaca Book, 2020, pp. 96, euro 16, articolo di Giordano Ghirelli)

 

Poster italiano di Soul

Un cartone che è già un mito contemporaneo

Vivere e morire; nascere e sognare; crescere e pensare. Di tutto questo può significare un film d’animazione, senza la zavorra didascalica di dover raccontare con semplicità un tema difficile. Dopo il capolavoro Inside Out, il nuovo lavoro della Pixar alza ulteriormente l’asticella della qualità. Soul infrange tutti i limiti narrativi di un cartone, per consegnarci l’ovvietà di un’idea complessa: si può nascere attraverso un sogno, si può morire senza aver vissuto, si può crescere alimentando una scintilla. E lo fa concentrandosi su due protagonisti, o meglio su due anime che maturano insieme, raggiungendo un fine bello per entrambe, sebbene diversissimo.

Joe Gardner, l’insegnante afroamericano che insegna musica mentre coltiva il jazz, rifiuta l’ambientazione post mortem nella quale si ritrova suo malgrado, indossando le vesti di un modernissimo Er, il soldato che torna sulla terra per raccontare la sua esperienza nell’aldilà. Ultimo mito tramandato da Platone nel finale de La Repubblica, il punto di contatto con Soul sta nella “seconda possibilità” che viene offerta alle anime morte (quella che il grande filosofo greco chiama “daimon”), quale idea di vita pienamente vissuta nell’esercizio di sé. Joe, infatti, pur avendo evidente consapevolezza delle proprie doti, non può sottrarsi dal “crescere” quando la sua anima si reincarna nel corpo di un gatto, esperienza che lo porta a decidere (proprio come nel mito di Platone) una vita diversa, fino ad allora non vissuta con la giusta consapevolezza. In lui convivono i temi della libera scelta rispetto al proprio progetto e del ruolo che il carattere può avere in questa decisione.

22 è, invece, un’anima intrappolata nell’ante-mondo, incapace di scovare la scintilla salvifica necessaria per “ottenere” una esistenza terrena.

La sua figura rimanda inevitabilmente alla “teoria della ghianda” (descritta dallo psicanalista James Hillman nel suo Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino), secondo la quale ciascun individuo viene al mondo attraverso una forma unica e irripetibile (anche qui chiamata “daimon”), che lo definisce e ne caratterizza la realizzazione. Nata proprio dalla riscoperta dei miti, utilizzati per ridefinire metaforicamente la nozione di anima (primo fra tutti lo stesso Er di Platone), la ghianda non è altro che l’archetipo della scintilla che 22 va scovando da millenni. E che alla fine trova grazie alla guida di un daimon (Joe Gardner), che diventa il genio tutelare di un’anima perduta proprio nel momento in cui anche lui va alla ricerca di un senso per sé. «Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista. Oppure può possederci totalmente: non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona».

Le parole di Hillman possono qui riferirsi sia a 22, che perde di vista la sua scintilla, sia allo stesso Joe, posseduto totalmente dalla sua di vocazione. Entrambi, infatti, sono “cercatori” e “daimon” allo stesso tempo: ognuno anela per sé un posto adeguato alla propria ghianda, e ciascuno rappresenta per l’altro una guida alla comprensione di sé.

Il vero punto di contatto tra i due (e di svolta per entrambi) sta nella scena in cui la voce di Joe torna nel suo corpo per raccontare alla madre il daimon (o ghianda scintillante) che illumina la sua esistenza: il gatto rimane sulle spalle del corpo di Joe, ma le due anime si fondono e imparano in quel momento cosa sia la vita.

Joe è il mentore assegnato a 22, ma quest’ultima diventa per lui una fonte di ispirazione: «io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce», scrive sempre Hillman. Per un attimo Joe Gardner ri-abita le sue membra, senza cacciare il gatto sulle sue spalle o 22 dentro di sé: il quartetto delle due anime e dei due corpi si trasforma in un essere unico, che insegna e impara contemporaneamente. In quel momento l’intuizione arriva a cambiare il modo di pensare dei personaggi, stimolando quella «sensazione che esiste un motivo per cui la mia persona, che è unica e irripetibile, è al mondo, e che esistono cose alle quali mi devo dedicare al di là del quotidiano e che al quotidiano conferiscono la sua ragion d’essere».

In queste poche parole di Hillman è forse concentrato il nocciolo della questione per Joe Gardner e 22: la scintilla si pone al di là del quotidiano, ma è quella cosa che gli conferisce valore. Un rocchetto, un lecca lecca, un morso di cibo non sono gli “scopi della vita”, ma sono una “scusa” per far emergere il vero “sé” di una persona. Emblematiche sono qui le parole di Jerry (personaggio che incarna la totalità dell’universo in forme umanamente comprensibili): «voi mentori, con i vostri scopi… il senso della vita… Così rudimentali». Hillman scriveva infatti che «la vocazione si esprime nei capricci e nelle ostinazioni, nelle timidezze e nelle ritrosie che sembrano volgere il bambino contro il nostro mondo, mentre servono forse a proteggere il mondo che egli porta con sé e dal quale proviene».

Suol è, quindi, un mito contemporaneo di redenzione, attraverso il quale ciascuno può rileggere la propria biografia utilizzando «le idee implicite del mito, e cioè le idee di vocazione, di anima, di daimon, di destino, di necessità». Un film bello, anzi geniale, che andrebbe rivisto più e più volte, capace di raccontare l’anima e il suo viaggio, «l’immagine di un intero destino» che sta stipata «in una minuscola ghianda, seme di una quercia enorme su esili spalle. E la sua voce che chiama è forte e insistente e altrettanto imperiosa delle voci repressive dell’ambiente».

(Soul, di Pete Docter, 2020, animazione, 101’)

 

Copertina di La valle oscura

Un disturbo globale: luci e ombre nella Silicon Valley

«Perché sembrava così tabù, chiesi, trattare il lavoro come faceva la maggior parte della gente, come uno scambio di tempo e fatica contro moneta? Perché dovevamo fingere che fosse tutto così divertente?»

Anna Wiener ha appena compiuto venticinque anni quando decide di mettere nel cassetto i sogni di una carriera editoriale per affrontare una nuova avventura nel mondo del tech. Sulle prime sembra una parentesi, un modo come un altro per mantenersi in attesa di tempi migliori. Dopotutto, agli occhi di una ragazza dalla vita «instabile ma piacevole», reduce da un’esperienza sottopagata come assistente in un’agenzia letteraria newyorkese, l’universo delle startup si presenta come un settore nebuloso, quasi venale. Perché fare soldi, nella cerchia di giovani creativi frequentati dall’autrice, è diventato talmente difficile da apparire quasi squallido. Ma ben presto, quello che doveva essere un impiego tappabucchi in un nuovo portale di eBook a NY si rivelerà essere soltanto la tappa di partenza di un viaggio che condurrà Wiener verso l’Eldorado del tech: la Silicon Valley.

Sono queste le premesse di La valle oscura (Adelphi, 2020) un libro che, oltre a svelare i segreti di Pulcinella della cultura Google & Co., ha il pregio di raccontare molto del modo di vivere il lavoro della generazione che si è affacciata all’età adulta nel bel mezzo della transizione verso il digitale. Che cosa cercano queste persone? Che cosa chiedono ai loro impieghi?

Un lavoro ben retribuito, innanzitutto, soddisfacente da un punto di vista della realizzazione personale, si spera, in un ambiente informale e flessibile, possibilmente, con opportunità di crescita economica e di carriera. Per la generazione millenial soltanto la Silicon Valley può garantire tutto questo. Sconfitti in partenza dalla crisi, scettici nei confronti della politica e delle ideologie, traditi dalla voracità e dall’ottimismo di padri e madri che non hanno alcuna intenzione di farsi da parte, i figli del disastro economico si muovono nel mondo del lavoro tra disincanto e circospezione.

A tal proposito, impietoso è il quadro che l’autrice tratteggia del panorama editoriale, un settore al collasso che continua ad arruolare forze fresche con l’unica moneta ancora in grado di spendere: la reputazione.

«La verità era un’altra: non eravamo indispensabili. C’erano molti più laureati in letteratura inglese con un sostegno economico indipendente e sfilze di stage non pagati che posti liberi nelle agenzie letterarie e nelle case editrici».

«Gli unici modi per avere una carriera accettabile e di successo nel settore editoriale erano, in apparenza, ereditare un po’ di soldi, fare un buon matrimonio, oppure aspettare che i colleghi lasciassero il lavoro, o morissero».

Di fronte alla consapevolezza di valere «cinque volte il divano nuovo dell’ufficio», restano soltanto ego e amor proprio, l’illusione di essere parte di qualcosa, di svolgere una mansione culturalmente rilevante, avulsa dal profitto e dai facili entusiasmi tecnofili.

«Tra i miei amici creativi e anticonformisti sembrava scaltro e cinico mostrare curiosità per gli affari. […] Alcuni sfoggiavano provocatoriamente vecchi cellulari a conchiglia senza accesso a Internet, preferendo chiamare quelli di noi che avevano un lavoro d’ufficio ogni volta che erano in giro e avevano bisogno di indicazioni stradali».

E proprio su questo ricatto aspirazionale basa il suo business la prima start-up che assume Anna, un’impresa fondata da tre splendidi ventenni ideatori di un’app che «non serviva tanto a leggere, quanto a far vedere che eri il tipo di persona che leggeva».
A conquistare l’autrice è la ritrovata impressione di sentirsi utile, di dividere l’ufficio con persone che vedono in lei un potenziale e che possono garantirle un futuro, l’illusione di un appiattimento della struttura gerarchica. Un approccio morbido che la spinge al grande passo del trasferimento a San Francisco, direzione Silicon Valley, ufficio Soluzioni in una start up di analisi dati.

Agli albori dell’esplosione del fenomeno big data («non tutti sapevano perché avevano bisogno dei big data, ma tutti sapevano di averne bisogno»), i dubbi sulla neutralità della gestione di informazioni sensibili – siamo in pieno scandalo National Service Agency – sono sotterrati dall’euforica consapevolezza di star cavalcando la “buona onda”.

«Non ci consideravamo parte dell’economia della sorveglianza. Non riflettevamo sul nostro ruolo, non pensavamo al fatto che stavamo favorendo e normalizzando la creazione di banche dati sul comportamento umano […] Eravamo soltanto una piattaforma neutrale, un canale».

Se nel mondo editoriale vanno per la maggiore sfiducia e insicurezza, nell’universo tech si diffondono fanatismo aziendalista e dipendenza da straordinari.

«Se qualcuno non c’era, qualcosa non andava. Le ricerche dimostravano una scarsa correlazione fra produttività e orari di lavoro prolungati, ma l’industria tecnologica si alimentava dell’idea della propria eccezionalità; i dati non valevano per noi. […] Il lavoro si era incuneato nella nostra identità. Noi eravamo l’azienda e l’azienda era noi».

Dei molti temi toccati dal libro – il capitalismo della sorveglianza, la disinformazione e le fake news, le sottili forme di maschilismo nel settore tecnologico, la trasformazione di San Francisco – quello dedicato alla descrizione dello stile di vita promosso dalla Silicon Valley è senza dubbio il blocco dal quale è possibile ricavare gli spunti più interessanti (talvolta anche involontari).

L’approccio del “tutto in uno” non è soltanto uno slogan per promuovere nuovi dispositivi che riuniscono in un solo strumento molteplici funzionalità, ma è una vera e propria filosofia che tocca da vicino fondatori e dipendenti. Nell’ambigua convergenza tra vita privata e lavorativa, ecco che lo spazio tra casa e ufficio va sempre più confondendosi: lo smart working si rivela presto un meccanismo per rendere i lavoratori isolati e sostituibili, mentre gli uffici somigliano sempre più a luoghi di svago dove suonare la chitarra a piedi scalzi e preparare cocktail diventano attività perfettamente ordinarie. Ecco che le uscite con i colleghi, la sera e nei fine settimana, somigliano sempre meno ad attività di innocente socializzazione e sempre più a strategie volte a monopolizzare il tempo libero delle persone. Ecco che il successo o il fallimento di un’azienda tocca punti sempre più profondi del lavoratore e della sua autostima.

«L’industria tecnologica mi stava rendendo una perfetta consumatrice del mondo che essa stessa stava creando».

«La Silicon Valley forse promuoveva uno stile di vita individualistico, ma su larga scala creava uniformità. (…) L’uniformità era un piccolo prezzo da pagare per cancellare la fatica di decidere. Liberava le nostre menti perché potessero applicarsi ad altro, come il lavoro».

Da questa presa di coscienza scaturisce la volontà di scendere dalla giostra. Riconquistare i rapporti umani, ritrovare entusiasmo nella politica, nella lotta per gli ideali in cui si crede veramente.

Tutto ciò sembra volerci raccontare Anna Wiener negli ultimi capitoli del libro. Io ce l’ho fatta, io ora sono libera. È veramente così? Basta rinunciare a un impiego ben retribuito per uscire dalla mischia? O il sarcasmo attraverso il quale l’autrice ci racconta uno spaccato inquietante ma per niente inconsueto di realtà è solo uno dei tanti meccanismi autoassolutori con i quali cerchiamo di considerarci in salvo dalle dinamiche omologanti e alienanti del capitalismo tecnologico?

È una delle domande più affascinanti che, forse inconsapevolmente, ci pone questo libro. Poveri millenials, poveri noi.

 

(Anna Wiener, La valle oscura, traduz. Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi, 2020, pp. 310, euro 19, articolo di Martin Hofer)
Copertina di Svegliarsi negli anni Venti di Di Paolo

Alti e bassi

«Le cose saltavano agli occhi come mai prima». Le cose non saltavano agli occhi come prima. Le cose saltano agli occhi come prima.

Ognuna di queste frasi sarebbe vera nella situazione letteraria che Paolo di Paolo ha creato scrivendo Svegliarsi negli anni Venti (Mondadori, 2020). Solo la prima è tra virgolette, perché è una citazione da Virginia Woolf. Ce ne sono altre, decine, forse un centinaio.

Di Paolo interroga gli anni Venti del Novecento in cerca di una chiave per comprendere se i nati «verso la fine di un secolo si siano fatti condizionare dalla luce scenografica del tramonto. Quella più struggente, più ricattatoria».

Ognuna delle sette parti del libro rivolge al lettore domande esistenziali in seconda persona in un modo che ricorda un po’ (Tanto)3 di Jovanotti. Al lettore di oggi come a quello di cento anni fa, nella convinzione che la storia si approfondisce, s’ispessisce se viene rivangata con gli attrezzi dell’analogia. Ad accomunare questi due decenni sarebbe la sensazione di trovarsi in un’epoca di cambiamento a seguito di eventi sconvolgenti, ma di non poter dire con esattezza quando le cose hanno cominciato a prendere una china allarmante. Né si vuole suggerire che lo schianto sia inevitabile. Il viavai di scrittori coinvolti per un veloce riscontro, però, frastorna a tal punto che il chiacchiericcio si allea al chiasso, e sembra riecheggiare nelle gallerie della modernità ora con ansia ora con attesa.

Mann, Kafka, Werfel, sull’orlo di una civiltà al collasso, per la quale viene naturale immaginare il sanatorio, il castello e il capezzale come l’allegoria di un’agonia secolare. Freud analizza Chaturbate.com, tra gli inglesi che si spaccano durante la tregua estiva dal virus fa capolino Hemingway. Gli expat a Parigi ci sono tutti, l’All-star team scalpita, si apre un varco e scatta verso il futuro colmando l’aria di presagi che non possono che avverarsi. Dall’altro lato del campo, voci ancora opache, fugaci, contingenti. C’è poco mito nel presente, quel tanto che basta a farlo sbadigliare e a prendere provvedimenti contro l’attimo. Così Di Paolo visita i santuari domestici della cultura europea: le dimore di Freud, Bohr, Mann affacciano sulle piazze gremite di ragazzini incazzati con i capi del mondo, sulle strade dai colori digitali, sulle finestre azzurre piene di commenti osceni, xenofobi, idioti. Zauerberg, Zuckerberg.

Per quello che vuole fare, la prospettiva di Svegliarsi negli anni Venti è giusta. Nel senso che non illumina i corsi e ricorsi della storia, non avanza paralleli inquietanti, non si avvolge attorno ai cicli e non pietrifica tutto in un tempo che non passa. La visione dall’alto è l’unica adatta a rappresentare un quadro in cui le figure sono abbastanza distanti da dire che si assomigliano. Una risoluzione più elevata farebbe emergere quei dettagli che dirottano le linee di convergenza.

Gli scrittori creano miti, e una delle tattiche che adottano è cercare parallelismi, somiglianze nell’ordine delle cose. In genere, queste somiglianze hanno due presupposti: si basano su un materiale abbastanza diffuso e generico da restare irrefutabile; sperano nel vizio di sopravvivenza che ci fa vedere solo le analogie andate a buon fine. Abbiamo ormai imparato che allo scrittore occorre ripetere il mantra della ricerca della verità «comunque inafferrabile» e confessare le sue ossessioni personali. Quella di Di Paolo è la misura del tempo. Strano allora che manchino gli estremi temporali delle occasioni giornalistiche da cui si dipana questa mappa mentale di affinità letterarie.

C’è poi un vizio logico-temporale: gli anni Venti del Novecento sono passati, quelli del terzo millennio non ancora. Questa asimmetria fa vacillare il piano compositivo del saggio. Inoltre, si può argomentare con buone prove che a partire dalla rivoluzione francese e da quella industriale l’esperienza della storia abbia acquisito quella dimensione per cui ogni epoca appare di passaggio. Le crisi si avvicendano e preannunciano l’avvento di un’era di rigenerazione. Sotto sotto, però, si reggerebbero su strutture universali, immutabili. La fortuna della parola disruption convive splendidamente con l’evoluzionismo neurologico. Il punto da dimostrare è già incluso nelle premesse e quel che resta è valutare la bontà dei collegamenti temporali e l’abilità con cui Di Paolo in Svegliarsi negli anni Venti rimodula le opere che hanno colto qualcosa dello spirito del tempo.

Che risultati hai, figlio di fine secolo? Alti e bassi.

 

(Paolo Di Paolo, Svegliarsi negli anni Venti, Mondadori, 2020, 192 pp., euro 18, articolo di Giuseppe Cocomazzi)
L'incredibile storia de l’isola delle rose poster film

La libertà che fa paura

Matteo Rovere e Sydney Sibilia ci azzeccano ancora. Dopo l’avvio della società di produzione Groenlandia (2014), e i due sequel di Smetto quando voglio, il produttore e il regista firmano L’incredibile storia dell’isola delle rose. Prima produzione europea a marchio Netflix Originals, il film racconta una vicenda “stranamente” italiana, improbabile proprio per l’oggetto della narrazione.

Un ingegnere, Giorgio Rosa, costruisce un’isola e ne fa una micronazione. Dichiarata indipendente il 1° maggio 1968, la “Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose” prende forma su una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati, edificata al largo della costa di Rimini e al di fuori delle acque territoriali italiane.

Ideata, progettata e costruita per «veder fiorire le rose sul mare», l’isola assume l’esperanto come lingua ufficiale, si dà un governo (cinque Dipartimenti e una Presidenza del Consiglio), adotta uno stemma con tre rose rosse raccolte in uno scudo sannitico, emette dei propri francobolli. Mai riconosciuta come stato indipendente, e tacciata di essere espressione malevola di un qualche progetto sovversivo (il gioco d’azzardo, una casa di appuntamenti, l’avamposto dei comunisti in Europa), l’isola delle rose viene occupata dalla polizia circa un mese e mezzo dopo la sua nascita ufficiale, per poi essere demolita nel febbraio 1969.

A lungo dimenticato, il pioneristico episodio di una micronazione al largo della costa adriatica viene riscoperto a partire dagli anni 2000, con un documentario (Isola delle rose, 2009) che riporta testimonianze dirette dell’epoca, un programma radiofonico (intitolato L’isola delle rose e inaugurato su Radio Zammù nel 2010) e il ritrovamento dei resti dell’isola abbattuta (2008).

Il film diretto da Sydney Sibilia porta definitivamente alla ribalta un evento unico nella storia italiana, che, pur non mostrando alcun legame con le contestazioni studentesche di quegli anni, si impone proprio nel 1968, con tutto il suo carico simbolico di stato indipendente che sboccia nel mare.

L’incredibile storia dell’isola delle rose punta con leggerezza sulla straordinarietà del racconto: dalla semplice genialità di un uomo che immagina un sogno e si impegna per realizzarlo, nasce una “repubblica” che scompiglia il governo dell’epoca e crea imbarazzo. Nonostante i rimaneggiamenti cinematografici rispetto ai fatti realmente accaduti, Sidney Sibilia ripesca una storia incredibile non solo per l’epoca, quanto per una nazione poco abituata a iniziative di questo tipo. Pur mancando l’irriverente comicità di Smetto quando voglio, Elio Germano conferma la sua ottima versatilità nel vestire i panni del protagonista (un uomo dalla calma solitaria che, con coraggio, realizza qualcosa di assolutamente utopico), così come Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti, camuffati sotto le insospettabili vesti di Franco Restivo (Ministro dell’Interno) e Giovanni Leone (Presidente del Consiglio dei Ministri).

L’incredibile storia dell’isola delle rose è, dunque, un film spassoso per quell’ingenuità collettiva che aleggia sui personaggi, capaci di sbeffeggiare in maniera assolutamente pacifica la “antiquatissima” classe politica dell’epoca, vinta dalla forza di un evento tanto vero quanto assurdo. Matteo Rovere e Sydney Sibilia hanno così salvato dall’oblio una storia all’avanguardia, anche per l’Italia di oggi, che dovrebbe entrare di diritto in tutti i manuali di storiografia. Una vicenda che non parla di scontri e non usa mai la violenza, ma che ci mostra come i sogni belli e genuini possano sempre salvarci, guidandoci sulla via della contestazione pacifica e giusta.

 

(L’incredibile storia dell’isola delle rose, di Sydney Sibilia, 2020, commedia, 117’)

 

La fantascienza dell’inconscio è vera fantascienza?

Dal Sense of wonder alle speculazioni sociologiche maturate in seno agli autori della New Wave, al genere fantascienza si riconoscono quasi esclusivamente finalità di intrattenimento. Chi guarda alla componente scientifica riconosce loro un certo spessore contenutistico, vedi i fedelissimi di Clarke, chi invece guarda alla componente fantastica riconosce loro un certo spessore letterario, vedi i fedelissimi di Vonnegut. Ma non è mai abbastanza per consacrarla come componente genetica fondamentale della tradizione artistica universale. I manuali di storia della fantascienza individuano la sua origine storica a partire dalla seconda metà del XIX sec., quando gli scrittori furono chiamati a interpretare gli effetti sociali della impetuosa e straordinaria rivoluzione industriale. L’inventiva degli artisti si impregnava di nuove fantasie, la miscela di paura e desiderio – gli stati d’animo da sempre predominanti nell’arte – forniva rappresentazioni e profezie che collocavano l’uomo al centro di immaginari inesplorati e soprattutto inesplorabili, in quanto di natura tecnologica e psicologica.

Gli autorevolissimi autori e cultori della fantascienza non ignorano di certo l’epica e i suoi epigoni, né tantomeno ignorano la sua universalità. Tuttavia non possono non adottare quel limite storico che altrimenti li costringerebbe a una trattazione enciclopedica sul genere. La nuova rivoluzione industriale provocò innegabilmente una rivoluzione della fantasia e delle sue manifestazioni artistiche. A ogni spartiacque storico corrisponde da sempre uno spartiacque artistico. Chi vuol ripercorrere la storia della fantascienza, sa che troverà Wells ad attenderlo alle porte dell’arena letteraria per assistere al folle gioco del progresso. Tripodi alieni, viaggiatori del tempo e uomini invisibili si preparano a uno scontro sovreccitante.

Non ci si può però limitare a misurare la fantascienza come manifestazione letteraria del fascino che gli scrittori provarono per il progresso tecnologico. La fantascienza è un insieme talmente grande da contenere gran parte della produzione artistica universale, e ce ne rendiamo conto ogni qualvolta leggiamo opere che non sono interessate alla tecnologia né alle riflessioni sociologiche sottese, ma che vogliono far luce sulla dimensione più oscura e inaccessibile: l’abisso dell’inconscio. I confini della fantascienza si dilatano allora fino a spezzarsi, perdendo l’essenza stessa di genere letterario. Harold Bloom ha investito non poche energie per rammentare che il solo destinatario della letteratura non sono le cause oggetto delle scienze sociali, bensì l’Io. Talvolta, il confine tra fantascienza e letteratura intesa come intima confessione del proprio voyage introspettivo si rende talmente sottile – e relativo – che si potrebbe perfino dire che la fantascienza non esiste. Alcuni artisti hanno messo al servizio del proprio genio il coraggio di patire il sentimento dell’inquietudine tutte le volte che hanno cercato la risposta alla domanda: “Cos’è la realtà?”. La mostra delle atrocità di Ballard (Feltrinelli, 2001) non è forse una lettura di riferimento al pari de Il mito tragico dell’Angelus di Millet di Dalì o de La riscoperta della mente di John Searle? Pasto nudo di Burroughs non è forse una di quelle opere di genio che sfidano la questione wittgensteiniana del linguaggio? Lungi dal considerarle mere forme di intrattenimento, moltissime opere di fantascienza concorrono a formare un laboratorio di onironautica e analisi introspettiva.

La fantascienza è diffusamente considerata come genere popolare, termine che vuole descrivere la composizione del pubblico al quale questo tipo di letteratura si rivolge: non elitario e dalle aspettative non proprio dannunziane. Ciò lo si deve alla gran mole di racconti che hanno arricchito la tradizione, gravando però sulla qualità media delle opere. Al netto dei grandi maestri, e prima che divenisse un fenomeno culturale in senso stretto, la fantascienza era prodotta da autori mediocri e rivolta a un pubblico culturalmente mediocre. Ecco come la pensava a questo proposito Kurt Vonnegut nel 1980: «Mi sembrava che gli autori di fantascienza scrivessero sui più grandi quesiti del nostro tempo. Mentre gli scrittori più in voga e quelli più rispettati dai critici si stavano ancora confrontando con le sottigliezze del carattere umano, le motivazioni e tutto il resto. E nel frattempo avevamo creato queste macchine mostruose che stavano avendo molta più influenza su di noi di qualsiasi altra cosa… forse questi soggetti non sanno scrivere così bene, ma di sicuro parlano di cose di cui bisogna parlare».

Ricercando nella nebulosa degli autori, si vuole riportare alla luce un nome autorevolissimo del genere, e che in Italia ha riscontrato sempre un particolare successo: Robert Sheckley. In rete non si trova abbastanza da compiacere chi vuol sapere vita morte e miracoli di questo autore. Roberto Quaglia lo ha intervistato nel 2004, un anno prima che morisse. Questa ripresa amatoriale non ha nulla in comune con l’attenzione mediatica riservata ai grandi autori. Sia chiaro che Robert Sheckley figura in tutte le trattazioni di fantascienza degli anni Cinquanta e Sessanta, non è di certo un autore di nicchia.

Il suo stile è popolare, ma non per questo mediocre. Non vi sono picchi stilistici o intrecci sintattici barocchi. Leggere un racconto di Sheckley equivale a lasciarsi trasportare su un tapis roulant che attraversa pianeti lontani e perfino il confine con l’aldilà. Lo si potrebbe considerare il fratello minore di Vonnegut: minore la fama, minore il genio che muove la penna. Ma come Vonnegut riesce a far sorridere il lettore e a lasciare l’amaro sapore della commozione che si cela nell’ispirazione di tutti i grandi scrittori. Nella sua scatola dei personaggi, Sheckley non tiene più di due o tre modelli, la caratterizzazione del protagonista è quasi sempre la stessa, e lo spessore psicologico del protagonista è tanto sottile quanto tenero. La forma non viene sacrificata, perché non viene anzitutto ricercata. Ci sono argomenti enormi da trattare e Sheckley non vuole farsi esponente di alcuna corrente letteraria, piuttosto sposa la causa comune a tutti gli autori di fantascienza: la sensibilizzazione.

Eppure, nel 1975 Sheckley pubblica Opzioni (Mondadori, 1976), un romanzo che rientra a pieno titolo tra le opere che scelgono come destinazione l’Io. Rispetto all’assordante coro di voci baritone come quelle di Ballard, Burroughs e Philip Dick, la voce di Sheckley è paragonabile al frinire di una cicala sperduta in un incrocio di Nuova Delhi all’ora di punta. Ma chi ha la fortuna – e il coraggio – di attraversare l’incrocio, non può fare a meno di raccogliere la cicala e portarla in un luogo appartato per sentirne la voce.

L’astronauta Tom Mishkin è costretto ad atterrare su un pianeta vicino a causa di un’avaria. Il pianeta funge da deposito di pezzi di ricambio, i quali sono volutamente sparsi sulla superfice per scongiurare il rischio che una calamità possa distruggere il magazzino e con esso tutti i pezzi contenuti. Mishkin deve cercare da sé il pezzo di ricambio, ma viene accompagnato da un robot programmato per guidare e proteggere i clienti del deposito. L’avventura che segue è ovviamente omerica, e la coppia donchisciottesca. La prima minaccia, un grosso animale che «sembrava un’allucinazione bieca, famelica e priva di scrupoli» svela l’inesperienza del robot, il quale scopre di essere stato programmato per affrontare le minacce di un altro pianeta. Sheckley ci regala allora perle come questa: «Quello che uno sa non si adatta ai suoi bisogni. Ciò che ci serve è sempre qualcosa di diverso, e il saggio costruisce la sua vita intorno a questa consapevolezza dell’inutilità delle cose che si conoscono». A proposito di stile lineare ma non mediocre, in Opzioni il ritmo è frenetico e la percezione del tempo è distorta, la personalità del protagonista barcolla tra dubbi esistenziali e quesiti fondamentali. L’animale li attacca, i due riescono a scamparla ma Mishkin batte la testa e perde i sensi. Poi rinsavisce: «Ho conquistato la realtà, adesso sto bene. Cos’è la realtà? […] Una delle tante illusioni» dice il robot. Mishkin scoppia a piangere. «Voleva una realtà esclusiva – scrive Sheckley – così era terribile, peggio di prima. Adesso tutto…» Puntini di sospensione e il respiro della storia si appesantisce, la sua consistenza è lisergica, le digressioni psichedeliche. Riecco allora un altro mostro: «la bocca del serpente secerneva fantasie. Il suo respiro era pura illusione. I suoi occhi erano ipnotici e i movimenti delle ali lanciavano incantesimi».

C’è spazio anche per un colpo di genio. Sheckley manda in scena l’Uomo dei Mille Travestimenti, alias se stesso alle prese con le sventure del suo protagonista per le quali si sente responsabile: «Caro Tom, ho tentato tutto quanto stava nelle mie possibilità per farti avere il pezzo di ricambio e toglierti da quella situazione imbarazzante di cui mi assumo tutta la responsabilità. Sono arrivato al punto di creare una nuova trama, con logica impeccabile e personaggi plausibili. Ma il mio nuovo protagonista ha preso la peste, perso l’interesse per la vita e rifiutato recisamente di portare a termine l’incarico per cui l’avevo creato». Il finale? Un bambino gioca in giardino con una scopa e una vecchia radio. La scopa è Mishkin, la vecchia radio il robot. La madre gli ordina di rientrare in casa, lui risponde: «Non posso, ho bisogno di un pezzo di ricambio per l’astronave».

In Opzioni, Sheckley rispetta i canoni letterari dell’assurdo e li integra con la sua inventiva. Un vortice narrativo psichedelico inghiotte il lettore, al quale non resta che chiedersi “Cos’è la realtà?”. Domanda che rende impossibile intendere la fantascienza come insieme di racconti che vogliono descrivere realtà diverse dalla nostra. Non resta che domandarci “Cos’è la fantascienza?”.