Gli album più attesi del 2021

Il 2020 è stato duro per la musica, lo sappiamo. Per capire cosa succederà è ancora presto, ma intanto abbiamo alcune ottime notizie per quanto riguarda gli album con cui avremo a che fare quest’anno. Alcune uscite sono certe, per esempio quelle di Drake o Lana Del Ray, altre avvolte nel mistero, come I Cani.

Una lista di quello che ascolteremo nel 2021, sperando di tornare a vedere concerti dal vivo.

 

 

 

Drake: l’album del rapper con più meme di tutti uscirà a breve, in questo gennaio.  Certified Lover Boy  darà seguito all’ultimo Scorpion: riuscirà a essere all’altezza di Nothing Was The Same?

Lana Del Ray: l’annuncio di un nuovo lavoro di Lana Del Ray è sempre una grande notizia. Chemtrails Over The Country Club’ è il titolo del suo quinto album, a quasi due anni dall’ultimo Norman Fucking Rockwell!.

I Cani: a dicembre Contessa ha rilasciato un singolo su Soundcloud, “Alla fine del sogno“, e la cosa ci ha riportati indietro di dieci anni. Quello che è probabilmente il cantautore più importante dell’ultimo decennio in Italia non pubblica un album da quattro anni, da Aurora. L’attesa è snervante.

Verdena: Alberto Ferrari sul palco di Xfactor ha fatto impallidire i puristi. “I Verdena a XFactor? Allora vale davvero tutto”. Non ci interessa. Quello che vogliamo è un nuovo album dei Verdena. Si vocifera da troppo tempo: Enkadenz ha bisogno di un erede.

Tommaso Paradiso: A proposito di cantautori fondamentali in Italia. Che piaccia o no, o che abbia omaggiato Johnny (o Tommy) è quasi magia, l’attesa del primo album solista di Paradiso senza i Thegiornalisti è un momento importante per la musica di oggi. L’uscita è prevista per marzo, vediamo che succede.

Carmen Consoli: Insieme a Levante (e a DiMartino) ha scritto una delle più belle canzoni che siano uscite da queste parti negli ultimi tempi, “Lo stretto necessario“. Consoli manca da un po’ di tempo e la musica senza di lei perde sempre qualcosa.

Kendrick Lamar: In questo momento è il rapper più influente al mondo (sì, Kanye) e quindi le notizie che trapelano via social non possono che creare una certa elettricità. Che riesca a tirare fuori qualcosa come To Pimp a Buttefly: questa è la nostra (ovvia) speranza.

Arcade Fire: la band più importante degli anni ’10? Probabilmente sì. The Suburbs, The Reflektor e Everything Now sono album che hanno segnato l’ultimo decennio. Dove sapranno portarci oggi i canadesi è un mistero che siamo disposti ad aspettare. Ma che facciano in fretta, però.

copertina di Ada brucia di Anja Trevisan

L’assedio incantato

«Qua è così ogni giorno: a volte gli sembra che ci siano più insetti in casa di quanti ne vivano fuori».

Un giardino, abitato da insetti e da fantasmi, e da bugie, un giardino che è dentro una casa, dove viene piantato un piccolo fiore prezioso, un giardino che è dentro la mente di un ragazzo, è il luogo in cui si svolgono le vicende di Ada brucia. Storia di un amore minuscolo (effequ, 2020) romanzo d’esordio di Anja Trevisan. Qui è dove vive Rino, il protagonista, ragazzo sensibile, incline al pianto, un buono, il più buono di tutti, per la gente del posto, un orologiaio, un falegname, che vive nella casa sprofondata nel verde in cui è vissuto con il nonno, finché lui non è morto, lasciandolo solo.

«Rino annuisce, apre la porta ma non può impedirsi di guardare nella stanza in cui la signora ha appena acceso la luce e lì vedere una culla rosa da cui spunta una manina piccola, bianco candido; e Rino non vede nient’altro, solo una mano minuscola che gli fa per un secondo sobbalzare il cuore».

Questa è la storia di Rino, il bel ragazzo imprendibile e schivo, mai toccato dall’amore ed è anche la storia di Beatrice, una bambina di pochi mesi che viene rapita, il piccolo fiore che lui recide, strappandola alla sua famiglia, per portarla via con sé e farla crescere nel giardino mentale che è la sua casa, dove lei metterà radici e cambierà nome per diventare Ada, un amore che lui coltiverà nel più completo segreto, lontano da tutti gli altri, un amore costruito su misura.

Ada, così piccola e inerme tra le mani di Rino, è un fiore cresciuto nella serra da lui costruita per proteggerla da tutto, tranne dai suoi desideri e dal suo amore rapace e sbagliato, che lui racconta a sé stesso essere giusto.

Questo l’intreccio, ma un romanzo, lo sappiamo, non è la sua storia e il romanzo di Trevisan , anche se tratta di pedofilia e ossessione, anche se l’autrice stessa cita trai suoi riferimenti, Lolita, non può essere paragonato al romanzo di Nabokov, senza rischiare fraintendimenti di quello che è il testo, non tanto nelle intenzioni dell’autrice, ma nella sua resa finale, come opera compiuta, che trascende l’immaginario che l’ha generata. Tralasciando altri elementi che segnano questa distanza incolmabile, non siamo qui, come nel romanzo di Nabokov, in un racconto dell’orrore, dove un uomo, innamorato, disincantato e fin troppo consapevole delle sue brame, utilizza il racconto come una fantasia che ha lo scopo di eternare l’amata morta e di evocare il suo fantasma del desiderio.

Ada Brucia, è, invece, la storia di un assedio causato da un incantesimo, e il suo protagonista, Rino, che del resto manterrà le redini della storia solo fino a metà romanzo, per poi passare il testimone alla voce narrante, in terza persona immersa, di Ada stessa, è un personaggio completamente stupefatto, intinto nella sua favola oscura, occupato a raccogliere segni che giustifichino le sue pulsioni, che sembra vagare nella storia come intrappolato in un sogno d’amore da cui sono esclusi dilemmi morali e senso della realtà.

«La sua voce, così piccola e innocente e pura, piccola voce che ha sentito solo lui, che consente solo a lui di ascoltare e che non vuole essere sentita da nessun altro. Solo lui. In tutto il mondo».

Questo incantesimo d’amore, in realtà è un assedio disturbante, che si fonda, proprio come nel film Dogtooth di Yorgos Lanthimos, su una bugia oppressiva, attirerà nella sua malia Ada, che da semplice oggetto d’amore prenderà, nella seconda parte del romanzo, le redini della storia trascinandola verso un epilogo inatteso ma coerente con il mondo creato dall’autrice.

Un pervasivo senso di minaccia, una tensione resa ancora più singolare, per contrasto, dall’ambientazione fiabesca in cui è immerso il resoconto delle azioni del protagonista, anima la prima parte del romanzo per poi calare nel momento in cui la voce narrante, che fino a quel momento ci aveva restituito principalmente le sensazioni e i pensieri di Rino, cede la parola ad Ada, che diventa il punto di vista privilegiato da cui osservare il dispiegarsi della storia, che copre l’arco temporale di trent’anni nella vita dei protagonisti.

Proprio in questo passaggio di consegne mi sembra di cogliere un limite del romanzo, perché mentre l’immersione nella mente di Rino riusciva a toccare argomenti e situazioni capaci di alimentare la sottotrama angosciante, il cuore pulsante del libro, traghettandola in una dimensione in bilico tra la favola e il racconto raccapricciante, questo statuto del racconto in parte si perde nel passaggio a una narrazione più neutra, che presenta i fatti e il loro susseguirsi all’interno della trama come allontanandosi dalla mente dei protagonisti.

Nella seconda parte del romanzo Rino viene spesso lasciato fuori, per offrirci in cambio delle incursioni nel sistema di credenze, desideri e paure attorno al quale si è costituita l’identità di Ada, ormai divenuta la vera protagonista dell’azione. Non appena usciamo dalla casa incantata questo sortilegio inizia a disperdersi, a perdere parte della forza di impatto con il quale noi lettori siamo stati sedotti al principio della storia.

«Ada non disse nulla: era abituata, e accettò subito che una cosa così bella dovesse per forza fare anche male, in un modo o nell’altro. Strinse le braccia attorno al collo di Bapu e continuò a guardare il mondo fuori finché la porta non si chiuse, di nuovo, a chiave».

La storia, piena di lacrime, insetti, corpi che si sfiorano nel buio e personaggi che non vogliono vedere la realtà in cui sono immersi, è sostenuta dal nitore di uno stile che lascia emergere, senza travolgerli, dettagli di immagini che colpiscono e restano nella memoria del lettore, a testimoniare la percezione frammentata del desiderio, che si nutre di parti irrelate di un intero che forse non conosceremo mai: una mano che emerge da una culla, un fiore stropicciato, capelli dorati in un assolato giardino ricolmo di fiori.

Un romanzo, quello della Trevisan, che conferma l’attenzione di effequ per scritture curate e storie mai banali, una scrittura spesso capace di rivelare con misurati tocchi sensibili il mistero dei destini individuali di due personaggi dalle motivazioni indecifrabili, che non lascia indifferenti con la sua messa in scena di un sogno mostruoso, che appare un disgustoso incubo solo a chi non vi è rimasto impigliato dentro.

(Anja Trevisan, Ada brucia. Storia di un amore minuscolo, effequ, 2020, pp. 304, euro 15, articolo di Emanuela Cocco)
Copertina di Numeri uno di Sabatini

“Numeri uno”: vent’anni di vicende editoriali italiane

Oltre a far parte della redazione di Flanerí, di cui cura la sezione Critica, Gabriele Sabatini si occupa da diversi anni di storia dell’editoria italiana. Nel 2018 aveva cominciato a raccogliere alcune vicende editoriali pubblicando Visto si stampi per Italo Svevo. Ora con Numeri uno (minimum fax, 2020) prosegue idealmente quel lavoro con un obiettivo più preciso: raccontare le storie di alcuni libri che hanno inaugurato collane negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento. Da Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, pubblicato da Rizzoli nel 1940, proprio alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, fino a Il soldato, per cui Carlo Cassola rischia nel 1958 di rompere il legame con Einaudi pubblicando nella nuova collana di Feltrinelli diretta dall’amico Giorgio Bassani, Sabatini ripercorre con leggerezza e rigore storico le vicende di personaggi e di libri che hanno segnato non solo l’editoria ma anche la cultura italiana dello scorso secolo.

In un anno in cui le occasioni di incontro sono ridotte all’essenziale, abbiamo deciso di parlare del suo libro per telefono.

 

Com’è nato Numeri uno?

Numeri uno è nato soprattutto come conseguenza di Visto si stampi (Italo Svevo, 2018): un piccolo libro che raccoglieva alcune vicende editoriali il cui legame è stato trovato nel momento della costruzione, e che originava anche da una serie di articoli pubblicati su Doppiozero. La voglia di approfondire e raccontare altre vicende editoriali con un respiro maggiore mi ha portato a pensare a un altro libro, simile nell’approccio, con capitoli che raccontassero ognuno un singolo libro attraverso le lettere dell’autore agli editori e agli amici, attraverso i diari, ma anche attraverso gli articoli di giornale – che permettono di vedere anche l’accoglienza che il libro ha avuto al momento dell’uscita –, e raccogliendo qua e là degli aneddoti, oltre che restituire il progetto di pubblicazione attraverso la voce degli stessi autori.

Mentre per Visto si stampi il legame non era immediatamente percepibile, nel caso di Numeri uno si tratta di otto libri che hanno inaugurato delle collane importanti degli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento – con qualche eccezione.

Poi in realtà il libro è nato anche perché tramite Carlotta Colarieti ho avuto l’occasione di sottoporre il progetto a Alessandro Gazoia, editor di minimum fax. Ovviamente come spesso succede il progetto è stato modificato: si aggiungono e si eliminano dei pezzi, ma il risultato alla fine è un libro abbastanza compatto, con capitoli di una lunghezza che mi ha consentito di avere un po’ più di aria nell’architettura rispetto al ritmo serrato di Visto si stampi.

 

Si tratta in tutti i casi di collane e case editrici che hanno fatto l’editoria di quel tempo. In che modo le hai scelte?

Trovata una miccia, cioè parlare di libri che hanno inaugurato delle collane, bisognava costruire con dei criteri. Si è cercato in questo caso di scegliere libri che hanno ancora una reperibilità in libreria: confrontandomi con Gazoia, ci è sembrato importante che fossero libri ancora rintracciabili, perché se per esempio una persona legge un capitolo su un libro che non ha letto può essere interessato a cercarlo. Ci sembrava interessante instaurare questo dialogo tra i capitoli di Numeri uno e i romanzi di cui parlo.

Tutto ciò è vero tranne che un romanzo, Quaderno proibito di Alba de Céspedes, che attualmente non è in libreria ma si spera che torni presto, perché si tratta di una scrittrice molto nota del suo tempo, un’autrice di punta di Mondadori che vendeva milioni di copie. Erano molto famose le sue rubriche sui rotocalchi: oltre a essere una grande scrittrice era un personaggio.

Quaderno proibito è un libro che parla della condizione femminile, ma non solo: è la storia di Valeria, una madre di quarant’anni, che lavora e si prende cura della famiglia – una condizione comune per una donna degli anni Cinquanta. Valeria comincia a tenere questo diario, che è proibito sin dall’inizio perché lo compra di domenica, quando le cartolerie e tabaccherie erano aperte ma si potevano vendere soltanto i tabacchi, ma il tabaccaio le dice di prenderlo ma di non farsi vedere. Poi continua ad avere l’istinto di nasconderlo, perché che cosa avrebbe mai da scrivere una donna come lei, una madre di famiglia con le sue regole e i suoi impegni? Ma nel quaderno riversa invece ciò che c’è nel suo animo e quindi non è confessabile: non qualcosa di violento o efferato, ma ciò che è nell’animo di moltissime persone – e non dico di donne, perché il tema fondamentale del libro è se siamo in grado di rinunciare ai legami, agli obblighi familiari e sociali.

Valeria non ci riesce. I sei mesi nei quali tiene il quaderno, durante i quali c’è anche un possibile adulterio che non viene poi consumato, hanno come esito una rinuncia: la rinuncia al quaderno e quindi il rientro nel proprio ruolo sociale. Attraverso la propria rinuncia Valeria vuole obbligare gli altri membri della famiglia a rispettare le stesse regole: lo fa quasi per vendetta.

Un libro del genere è ancora molto attuale, è un tema perpetuo, e sebbene la sua fama fosse dettata dal fatto che parlava della condizione femminile, Quaderno proibito non parla solo di questo – che è un tema comunque importantissimo – ma parla a tutti. Anche per questo si è scelto di inserirlo.

Se vogliamo c’è una seconda eccezione allo spirito del libro. Il prete bello di Goffredo Parise non ha inaugurato una collana, ma ha contribuito a stravolgere la collana in cui è stato pubblicato. Romanzi moderni di Garzanti era già attiva, ma la nuova presa della direzione della casa editrice da parte di Livio Garzanti ne cambia radicalmente lo spirito, tanto da consentirgli di scegliere autori come Pasolini, Volponi, Gadda e appunto Parise.

 

In Numeri uno c’è sempre una tensione tra il lavoro editoriale – racconti di come sono nate alcune collane – e il punto di vista degli autori. Ma ci sono anche casi in cui gli autori fanno loro stessi parte del mondo editoriale, come Natalia Ginzburg o Cesare Pavese.

In alcuni casi, come De Céspedes, c’è un classico rapporto autore-editore, anche se lei voleva mettere molto il naso nei suoi libri e nei paratesti – ma questo pertiene ai comportamenti degli autori importanti che sentono di poter invadere un po’ il campo dell’editore. Anche nel caso di Cassola il rapporto è quello tra autore e editore, non solo con Bassani ma anche con Einaudi, con cui deve giustificare la scelta di pubblicare Il soldato da Feltrinelli. I ruoli comunque restano sempre definiti.

In altri invece, e soprattutto gli autori Einaudi, Pavese e Ginzburg, sono membri della casa editrice: non solo per scrivere il proprio romanzo sfruttano il tavolo della casa editrice, per cui si lavorava ma che era anche un luogo in cui ci si poteva permettere di rimanere. Una cosa che incidentalmente ho avuto la fortuna di fare anch’io, che ho potuto timbrare il cartellino ma rimanere in ufficio a lavorare a Numeri uno. L’ho scritto anche nel magazine di minimum fax: Numeri uno nasce su tre tavoli: la scrivania di casa, i tavoli della Biblioteca nazionale e la scrivania di Carocci.

Comunque, Paesi tuoi di Cesare Pavese inaugura una collana che inizialmente arriva in libreria col nome di Biblioteca dello struzzo, ma che cambia perché il nome non piaceva ad alcuni: soprattutto a Leone Ginzburg, che dal confino manda una lettera in cui dice che gli faceva pensare a «libri indigeribili, che solo uno struzzo può divorare». Quindi il libro esce e cambia il nome della collana, ma in tutto il capitolo che ho scritto su Pavese si vede come in realtà lui avesse voglia di far emergere la collana più che il suo libro: sia nella raccolta degli autori, sia nello spazio della quarta e nelle recensioni, Pavese lavorava per far sì che la collana avesse il suo slancio. Perciò il Pavese editore prevale sul Pavese scrittore, ma questo fa parte di quella adesione di Pavese a Einaudi, che era veramente parte del suo spirito.

 

In effetti leggendo il libro si sente davvero questo contrasto fra quelli che sono solo scrittori e queste persone che quasi tengono più al lavoro editoriale che ai propri libri, che hanno consapevolezza. È come se li mettessi un po’ a confronto…

Questa è una cosa molto interessante. Adesso che mi ci fai pensare, Buzzati è un giornalista, e infatti fa fare le bozze al suo più caro amico perché lui è in Africa, lascia il suo romanzo alle mani di qualcun altro. Invece per personaggi come la Ginzburg o Pavese, il lavoro è fianco a fianco, editoriale e di scrittura.

 

I capitoli di Numeri uno collocano i libri nella collana e nel momento storico e culturale in cui escono, ma riportano anche tutta una serie di lettere, messaggi, di pettegolezzi che non sono solo piuttosto divertenti, ma che in fondo formano una sorta di storia orale dell’editoria. È il modo in cui pensavi di raccontarli o è qualcosa che è successo in fase di scrittura?

Nei carteggi si trovano tante cose: in una singola lettera ci sono dalle stoccate alle battute di spirito, a seconda della confidenza in cui l’autore è con il destinatario. Trovi magari un paragrafo personale su quanto è stato bello vedersi al mare l’estate precedente, su come stanno le bambine, una battuta, e poi il vero e proprio lavoro. Capita soprattutto con i carteggi di autori che non si sentono tutti i giorni. Quindi questa commistione di pettegolezzo, di cameratismo o goliardia paralleli al lavoro editoriale è venuta in un certo senso automatica.

Questo avviene soprattutto nelle lettere dei consulenti editoriali: se pensi alle lettere interne a Einaudi, della Ginzburg o di Vittorini con Pavese, viene molto fuori questa sovrapposizione, ma in realtà è ovvio. È un mondo abbastanza piccolo, com’è ancora oggi, e forse allora anche di più: si conoscevano tutti – erano persone normali che volevano anche farsi due risate.

 

Infatti, da questi carteggi emergono davvero le persone dietro gli autori, ed è una cosa che per chi magari ha letto i loro libri ma scopre per la prima volta la loro voce nella vita di tutti i giorni può essere davvero interessante.

Sì. Per esempio, la Morante a un certo punto va a Torino per correggere le bozze di Menzogna e sortilegio perché ci tiene moltissimo, al punto che le viene la febbre per l’impegno emotivo riversato. Poi la sera si ferma a chiacchierare nei caffè con Pavese, la Ginzburg o altri del gruppo di Einaudi, un po’ nel modo in cui oggi andremmo a fare l’aperitivo.

È tutto molto umano. Nel tempo mi sono andato convincendo che prima dei personaggi ci sono le persone. Anche le stesse scelte che i personaggi fanno sono più date dalle persone che sono che dalle figure che si trovano a essere: la persona prevale sul personaggio storico.

 

Perché hai scelto di trattare questo periodo specifico?

Numeri uno non è un libro su delle collane, ma sui libri che le hanno inaugurate. Nessuno si aspetti quindi di trovare la storia di una collana, quanti libri ha pubblicato, i grandi successi… Delle collane si parla in modo collaterale.

Una volta scelto il tema bisogna verificare quanto materiale c’è, se è raggiungibile… Dagli anni Trenta ai Settanta si poteva mettere insieme molto materiale, quindi l’idea iniziale era un libro che coprisse gli anni dalla nascita dell’editore protagonista fino a un passo prima delle grandi concentrazioni industriali, quindi con gli anni Ottanta.

Ho cominciato a lavorare sui capitoli centrali perché avevo già del materiale, avevo più facilità su quel periodo, e parlando con l’editore si è cominciato a pensare di escludere il periodo prima della guerra per tenere il libro più unito. Dopo di ciò è arrivato il coronavirus a influire sul lavoro: la chiusura delle biblioteche e la difficoltà di accesso ai documenti mi ha obbligato a ridurre.

Detto ciò, guardandolo oggi forse è meglio avere un libro più compatto che fosse una fotografia di questi vent’anni molto importanti, dallo scoppio della guerra fino alla vigilia del boom economico. In qualche modo il libro c’era, o almeno così sembrava nel momento in cui abbiamo fatto questa scelta. È un po’ frutto del caso, poi ti rendi dopo conto che avresti potuto pensarci prima.

 

Quando cominci una ricerca, può capitare di trovare cose che non ti aspetti, o di cambiare direzione. Mi racconti il tuo lavoro di ricerca?

In realtà non sai davvero cosa stai raccontando finché non hai finito il capitolo. All’inizio ti puoi fare un’idea ma poi va trovato il materiale per raccontare la storia in modo organico, e la scopri leggendo le lettere, altri saggi sul periodo, o gli atti di convegno, molto importanti perché in queste occasioni partecipa anche chi ha lavorato con l’autore – in questi casi però bisogna sempre cercare di interpretare la fonte, e capire cioè quanto una testimonianza è agiografica, quanto è frutto delle emozioni e dei sentimenti che prova nei confronti dell’autore.

Una volta cominciato non sai dove ti porterà la strada: non sai com’è andata e cosa andrai a raccontare, però questo non cambia la sostanza dei documenti su cui lavori. Non ci sono praticamente più viventi, perciò ciò che puoi fare è leggere i giornali, le interviste, per capire come si è parlato di un autore, e anche lì puoi avere delle sorprese. Ma di fatto non sai niente finché non cominci.

Le fonti poi sono sempre le stesse: solo nel caso di Buzzati ho avuto anche la possibilità di vedere del materiale promozionale, come i materiali informativi per i librai, che è una bella fonte perché è divertente vedere come i libri venivano raccontati negli anni Trenta: non sorprende ma è completamente diverso rispetto a ciò che si fa oggi.

 

Prima di salutarci, chiacchieriamo ancora per un po’, e anche io insieme a lui mi sento più vicina a coloro che prima di noi si sono confrontati tra una battuta e l’altra sui libri e sulla scrittura.

 

(Gabriele Sabatini, Numeri uno, minimum fax, 2020, 216 pp., euro 14, articolo di Daria De Pascale)

[Best 2020] In Musica

Anno strano, anno di cui si è detto di tutto. Di fatto non ci sono stati concerti dal vivo e la musica è stata privata di una sua parte fondamentale. Sono usciti comunque molti album, alcuni davvero notevoli.

Qui di sotto la nostra classifica, come ogni anno in ordine rigorosamente sparso.

 

Francesco Bianconi, Forever: Da solo, senza i Baustelle. Bianconi scrive un album imprescindibile di questo 2020. Forever è l’ennesima testimonianza che, se si vuole trovare una vera voce autorevole in Italia in questi anni, non bisogna far altro che ascoltare quello che scrive. Il suo esordio solista è un lavoro altissimo. Bianconi è l’unico, oggi, che può ambire a far parte dell’olimpo dei  cantautori italiani di sempre.

Fiona Apple, Fetch th Bolt Cutters: Pitchfork le ha dato 10/10. Che si ami o si odi la rivista americana, il fatto è epocale. Fiona Apple esplora ulteriormente le sue possibilità espressive e la sua genialità: le sue canzoni suonano come la risata leggera e consapevole che seppellirà il vecchiume di certa musica, la rigidità di certe convinzioni, la muffa del patriarcato.

Fontaines D.C., Hero’s Death: Gli irlandesi fanno meglio del loro esordio, cosa non facilissima.  Heros’s death è una riscrittura del post punk, un post post punk, la sua attualizzazione. L’album gira che è una meraviglia, pieno di un pathos senza retorica.  Suggestioni Interpol e Joy Division. Guarda al futuro con una base fortissima nel passato. Grian Chattel ha la faccia da stella, i Fontaines possono essere lo zenit degli anni ’20.

Sufjan Stevens, The Ascension: Stevens non sa sbagliare. La sua carriera è costellata da una serie di album imprescindibili. The Ascension è l’ennesimo esempio di un artista che sa reinventarsi in continuazione, mutare ed essere sempre sé stesso. Stevens si conferma il cantautore di cui abbiamo bisogno.

Perfume Genius, Set My Heart On Fire Immediately: Un altro che sa scrivere solo album grandiosi è Perfume Genius. Questo suo ultimo lavoro ribadisce per l’ennesima volta la sua enorme capacità compositiva, il suo potenziale artistico, la sua classe. Se c’è un album da ascoltare, questo è Set My Heart On Fire Immediately.

Phoebe Bridgers, Punisher: Con questo secondo lavoro, che supera il primo per completezza e profondità, Bridgers si conferma come uno dei migliori prospoetti della musica pop/folk dei prossimi anni.

King Krule,  Man Alive!: Un viaggio ipnotico, un flusso ovattato ma costante dove si incrociano linee e suggestioni musicali apparentemente inconciliabili, dal jazz al post-punk al rumore del traffico. King Krule mette il timbro sul 2020.

[Best 2020] I libri

Analizzato dal punto di vista dei lettori italiani, il 2020 è stato sicuramente un anno interessante. La poetessa Louise Glück, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura, è stata per i più una grande sorpresa (di suo ilSaggiatore ha pubblicato Averno e L’iris selvatico), mentre il Premio Pulitzer, assegnato a Colson Whitehead per il romanzo I ragazzi della Nickel (Mondadori) – il secondo, il primo lo aveva vinto nel 2017 con La ferrovia sotterranea (Edizioni Sur) – ha ribadito le qualità di romanziere dello scrittore statunitense.

Guardando in Italia, se il Premio Strega non ha ribaltato i pronostici iniziali – Il colibrì di Sandro Veronesi (La nave di Teseo) non è mai stato veramente in discussione per la vittoria finale –, è stato il Premio Campiello a segnalare, come spesso capita, le novità più rilevanti con la vittoria di Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapino (minimum fax, 2019), affiancato da Le isole di Norman di Veronica Galletta (Italo Svevo, 2020) come opera prima più meritevole.

Ma sono stati diversi i romanzi d’esordio degni di nota in questo 2020: a cominciare da Città sommersa di Marta Barone (Bompiani) e L’esercizio di Claudia Petrucci (La nave di Teseo), seguite da Niente per lei di Laura Mancini (e/o), La mischia di Valentina Maini (Bollati Boringhieri, trovate un suo racconto su effe #4), Ai sopravvissuti spareremo ancora di Claudio Lagomarsini (Fazi), Crocevia dei punti morti di Matteo Grilli (effequ) e Azzorre di Cecilia M. Giampaoli (Neo Edizioni), solo per citarne alcuni.

Come ogni anno, di seguito vi proponiamo i dieci libri pubblicati nel 2020 che più ci hanno colpito, non prima però di segnalarvi, permettetecelo, due pubblicazioni che ci riguardano molto da vicino: Per rabbia o per amore (66thand2nd), l’antologia di racconti curata dalla redazione di effe – Periodico di Altre Narratività (da cui usciranno due esordienti molto attesi nel 2021, Paola Moretti e Nicola Muscas) e Numeri uno – Vent’anni di collane in otto libri di Gabriele Sabatini (minimum fax), responsabile della nostra sezione di Critica.

 

Città sommersa di Marta Barone (Bompiani)
Medico incriminato e poi assolto in un processo per banda armata negli anni di piombo, militante di Servire il popolo, leader nel movimento studentesco nella Roma di Valle Giulia: prima di essere il padre difficile e sfuggente di Marta Barone, L.B. è stato tutto questo. Una città sommersa di cui l’autrice ha cercato di ricomporre la storia attraverso i documenti e i racconti delle molte persone che l’hanno conosciuto.

 

Mad in Italy di Gabriele Ferraresi (ilSaggiatore)
Mad in Italy. Manuale del trash italiano dal 1980 al 2020 è una sorta di amarcord festoso ma anche amaro, un viaggio irresistibile alla scoperta di splendori e miserie della cultura italiana.

 

Helgoland di Carlo Rovelli (Adelphi)
Rovelli scrive una coraggiosa opera di divulgazione sul modo in cui un gruppo di giovani fisici è arrivato a formulare la teoria della meccanica quantistica, una vera e propria rivoluzione scientifica dalle implicazioni ancora in gran parte sconosciute.

 

La natura è innocente di Walter Siti (Rizzoli)
La natura è innocente è il racconto di due vite parallele, le biografie quasi vere di Filippo Addamo, che a vent’anni uccise per folle gelosia la madre, e di Ruggero Freddi, pornoattore e personaggio televisivo.

 

Due vite di Emanuele Trevi (Neri Pozza)
Trevi racconta le vite di Pia Pera e Rocco Carbone, ricostruendo a partire dal proprio ricordo la storia di una lunga amicizia, non priva di scontri e incomprensioni. Due vite è il ritratto di due artisti scomparsi troppo presto che sfugge all’agiografia e sa invece di un commiato affettuoso e sincero.

 

Scoperta e conquista del Perù di Pedro Cieza de León (Quodlibet)
Terzo volume della monumentale opera Crónica del Perú del cronista spagnolo Pedro Cieza de León, proposto per la prima volta in italiano con la traduzione di Carla Forti, racconta i fatti tragici quanto straordinari della conquista del Perù da parte di Francisco Pizarro e Diego de Almagro.

 

L’ospite e altri racconti di Amparo Dávila (Safarà Editore)
I racconti horror della scrittrice messicana partono dalla quotidianità per riproporla al lettore distorta, alterata, in una parola: trasfigurata. Non ci sono creature mostruose, ma presenze che incombono e atmosfere che inquietano. Una grande autrice che merita di essere letta e riletta.

 

Inventario di alcune cose perdute di Judith Schalansky (nottetempo)
In questo volume elegante e ingegnoso dal genere impuro – un misto di memoir, saggio, catalogo e novella –, la scrittrice e designer tedesca erige un monumento a dodici cose scomparse fra elementi naturali e opere dell’uomo in tempi epici o ben concreti e in circostanze immaginate o testimoniate.

 

Darsi del tu di Edina Szvoren (Mimesis)
Una raccolta di racconti tanto esatti quanto potenti che conferma la bravura della scrittrice ungherese, già vincitrice nel 2015 del Premio letterario dell’Unione europea con la raccolta Non c’è, e non deve esserci (Mimesis, 2017).

 

La valle oscura di Anna Wiener (Adelphi)
La giornalista del New Yorker racconta la sua esperienza lavorativa nella Silicon Valley in questo memoir sovversivo che è diventato un caso letterario negli Stati Uniti fin dalla sua uscita, restituendoci uno spaccato incredibile di uno di quei luoghi più vivi ma anche più discussi del mondo.

 

[Best 2020] I film

Non è stato un anno semplice per il cinema. La chiusura delle sale ha bloccato l’uscita di alcuni dei titoli più attesi della stagione, da colossi come il nuovo Dune di Denis Villeneuve, ai tanti titoli italiani come Tre piani di Nanni Moretti, Diabolik dei fratelli Manetti e Freaks Out di Gabriele Mainetti.

Netflix ha fatto la parte del leone, avendo già abituato il pubblico all’uscita dei film in streaming diretto. Il nuovo portale Disney +, invece, ha dovuto misurarsi con un bel po’ di polemiche per la scelta di far uscire titoli come Mulan o l’attesissimo Soul in digitale senza aspettare la sala. Stesse critiche sono arrivate negli Stati Uniti per HBO Max, il nuovo portale che unisce le serie HBO ai film Warner.

In questo scenario, non è stato semplice trovare dieci titoli da inserire tra i nostri film più apprezzati dell’anno, anche considerando che titoli molto apprezzati da altre parti come MankDa 5 Bloods non ci hanno convinto affatto. Vi ricordiamo che consideriamo per questa (non) classifica solo i film usciti nel corso del 2020 in Italia, al cinema, in streaming o in VOD.

Ecco la nostra selezione.

Favolacce dei fratelli D’Innocenzo

Un film che conferma tutto il talento degli autori di La terra dell’abbastanza, premiati a Berlino per la sceneggiatura. Il miglior film italiano tra quelli visti quest’anno, per la sua capacità di condurre nella «normalità violenta degli adulti, attraverso lo sguardo silenzioso e analitico dei bambini».

Favole del tempo materiale

 

Diamanti grezzi dei Safdie Bros

Ottimo anno per le coppie di autori fratelli. Diamanti grezzi, uscito su Netflix, è una lunga metafora del capitalismo come atto cannibale e autodistruttivo, trascinata da un Adam Sandler semplicemente straordinario.

“Diamanti grezzi”, fare cinema a un’altra velocità

 

Sorry We Missed You di Ken Loach

A proposito di critiche al capitalismo è impossibile non annoverare Sorry We Missed You di Ken Loach tra i migliori film dell’anno. Prima di questo anno di isolamenti domestici forzati e consegne a domicilio, Loach parlava con dolorosa lucidità delle condizioni disumanizzanti in cui lavorano i fattorini delle grandi compagnie di distribuzione nel mondo del lavoro 2.0.

Amazon rende liberi?

 

1917 di Sam Mendes

A proposito di esperienze spersonalizzanti, Sam Mendes ci ha portato sul fronte della prima guerra mondiale in questo labirintico piano sequenza. Un viaggio infinito che dura un solo giorno e riporta allo stesso, identico, punto di partenza.

La guerra è un piano sequenza

 

JoJo Rabbit di Taika Waititi

Ancora un film con la guerra in sottofondo. Questa volta è il secondo conflitto globale visto dagli occhi di un ragazzino invasato di nazismo e convinto che Hitler sia il suo migliore amico. Un film che ha il coraggio di ridicolizzare la guerra e l’odio prendendoli sul serio, senza retorica.

Distruggere l’orrore con la fantasia

 

L’uomo invisibile di Leigh Whannell

Non è tanto il film in sé a meritare di essere menzionato tra i migliori dell’anno (pur essendo un ottimo titolo), quanto la capacità di innovare i classici. In un cinema che sempre più spesso finisce per copiare male se stesso e a trascinare all’infinito vecchie idee, la Blumhouse è riuscita ad attualizzare un classico dell’orrore e a portarlo davvero nel ventunesimo secolo.

Nascondersi dall’invisibile

 

Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman

Il film più celebrale dell’anno, complesso, stratificato e ricchissimo. Parla «del viaggio di Lucy e Jake. Del viaggio di Lucy. Del viaggio di Jake. Di Lucy. Di Jake. Del viaggio. Di te, di me, di noi, del senso, un po’ di tutto. Un altro ritratto in movimento della mente umana, dei suoi mostri, del suo tempo e del suo linguaggio (ammesso che ci siano, o che ce ne sia uno per tutti), a opera del visionario scrittore/produttore/regista Charlie Kaufman. Genio e follia sono serviti».

Il mondo è più grande della nostra testa (?)

 

His House di Remi Weekes

Nascosto nel catalogo Netflix, tra centinaia di serie tv tutte uguali e film improponibili, c’è questo capolavoro. Sembra un horror, ma non lo è. È un film che racconta meglio di molti altri l’orrore della migrazione e cosa sono disposte a fare le persone pur di abbandonare il proprio paese in fiamme.

 

Soul di Pete Docter e Kemp Powers

Quando la Pixar decide di andare sul metafisico tira sempre fuori dei film indimenticabili. Come con Inside Out, Pete Docter riesce a rendere concreto l’invisibile e trasformare in cartone animato una profonda riflessione sull’esistenza.

 

Cover di Sedici parole

Identità sospese

Le parole possono contenere una storia personale, raccontare una cultura, dare corpo e significato alle nostre origini. È proprio attraverso Sedici parole (Keller, 2020), che fa da titolo al suo romanzo d’esordio, che Nava Ebrahimi ci racconta la storia di Mona Nezemi, una ragazza alla ricerca della propria identità, sospesa fra due mondi.

Mona vive a Colonia e fa la ghostwriter di autobiografie. Si è trasferita lì insieme alla madre quando era piccola, ma il suo nome, che in persiano significa “desiderio”, appartiene all’Iran. Verso la propria terra d’origine la protagonista prova un insolubile sentimento di attrazione e repulsione: le sue radici appartengono a quel mondo, ma la sua vita si è dispiegata altrove, in Germania, dove respira una cultura che non sente sua, se non per adozione. È come se la protagonista si sentisse sospesa tra due vite, due orizzonti di significato differenti che riflettono due versioni della sua persona, e non sapesse in quale delle due riconoscersi e (ri)trovarsi.

Mona conserva qualcosa di iraniano, «un certo tipo di riserbo, di pudore, un’incapacità di fare o dire apertamente certe cose», particolari che in Germania avevano attribuito alla sua personalità. Allo stesso tempo, è proprio in Iran che si sente tedesca come in nessun altro luogo, e vive lo scollamento da una realtà che sente sua solo come ricordo lontano, come radice estirpata. Questo genera in lei un’insanabile scissione, che produce continue scosse emotive e la fa sentire fuori luogo sia nella propria patria sia nel nuovo paese che l’ha accolta. Forse il suo posto è a metà strada, «da qualche parte nello spazio aereo tra l’Iran e la Germania», quel non-luogo nel quale si sedimentano gli interrogativi irrisolti e dove i sentimenti si perdono.

Mona si vede costretta a fare ritorno a Teheran, insieme alla madre, quando le arriva la notizia della morte di maman borzog, la nonna eccentrica e sboccata, «che soffiava tutto fuori come una macchina del vento» e che nei disegni di quando era bambina veniva raffigurata come la colonna portante della famiglia. Questo infelice evento sarà occasione, per Mona, di riprendere contatto con il proprio passato familiare, fatto di ombre, silenzi enigmatici, menzogne e verità taciute, che si schiuderanno lentamente, capitolo dopo capitolo, attraverso continui flashback.

Mona respirerà di nuovo i profumi della sua terra natia, che contiene «note di tabacco, fieno greco e pistacchi», lo stesso odore che sprigionava dalla valigia della nonna quando veniva a farle visita a Colonia; riprenderà contatto con il ricordo doloroso di un padre assente, mosso da ideali rivoluzionari e troppo parsimonioso di sentimenti e parole; guarderà dal finestrino della macchina i paesaggi dell’Iran che raccolgono i segni di una storia fatta di dolore: una terra attraversata da una rivoluzione, che ha visto degli ideali accartocciarsi su loro stessi, e che ora sembra inerme, silenziosa, come se il tempo non fosse mai trascorso. Incontrerà di nuovo Ramin, col quale ha intrattenuto per anni un rapporto che ha fatto dell’incompiutezza la propria cifra unica e irripetibile: un rapporto che si nutre di impossibilità, e che Mona cerca ogni volta di allontanare perché le provoca una felicità dolorosa, che la fa sentire scoperta. Ramin, come l’Iran, suscita in lei un doppio sentimento: senso di appartenenza e autoimposto distacco, un conflitto che resta incompiuto, un po’ per contingenze, un po’ per volontà. Mona, infatti, desidera solo essere «una piccola innamorata senza numero», che non conosce i sentimenti che suscita negli altri, come la protagonista di uno dei racconti di Heinrich Boll.

Sedici parole è una storia che vede al centro della scena le donne con le loro battaglie interiori nascoste. Un universo femminile, dominato da figure fragili, che si nascondono dietro silenzi enigmatici, pudori silenti, dolori taciuti: il riflesso di una cultura, quella iraniana, nella quale gli uomini hanno un ruolo dominante. I sentimenti sono solo accennati, eppure ne si intuisce la forza dirompente, il peso del tenerli nascosti, un po’ per un pudore, un po’ per scelta.

La vita di Mona, e quella delle donne che rappresentano il suo universo personale, è costellata da non-detti, istanze taciute, ombre e segreti. La stessa gestualità, quel coprirsi la chioma con la stoffa nera del chador, si fa portatrice di emozioni e significati. È come se il velo nascondesse e tenesse al riparo dei nodi irrisolti, che si scoprono lentamente, pur mantenendo sempre qualcosa di inestricabile.

E Nava Ebrahimi, con il tratto delicato e fine della sua penna, cammina in punta di piedi sulle parole, non esplicitando mai ma facendoci sentire sulla pelle il peso delle emozioni suscitano e rievocano. Sono le parole stesse a darci una direzione, a farci entrare lentamente, capitolo dopo capitolo, nella vita di Mona, nei suoi pensieri, nei suoi silenzi, e nel suo bisogno tutto umano di cercare una propria identità dentro la quale sentirsi al sicuro. Ogni parola ricostruisce una parte di ricordi o rivela un particolare significato nella vita della protagonista, e la lingua diventa contenitore di significati, culturali e personali.

L’autrice di Sedici parole riesce a farci intuire le vibrazioni dietro a un pensiero inespresso, la consistenza tangibile di certi silenzi e le scosse di dolore che muovono certe scelte, e lo fa consegnandoci un dialogo fra Oriente e Occidente che affascina nella sua finezza scevra da giudizio.

 

(Nava Ebrahimi, Sedici parole, trad. di Angela Lorenzini, Keller, 2020, pp. 336, euro 18, articolo di Francesca Gosi)

 

Mulan: la principessa con la spada

Le principesse non sono tutte belle e buone. Ce n’è una che combatte con la spada, e lo fa meglio degli uomini. Si chiama Huan Mulan e vive in Cina. Nata nel VI secolo come figura epica, la sua leggenda continua a essere raccontata. Stavolta di nuovo dalla Disney: dopo il film animato del 1998, il live action 2020 viene firmato da una donna, la neozelandese Niki Caro. E il tocco si nota. 

Due, infatti, sono le protagoniste della storia: non solo Mulan, che dà il titolo al film, ma anche Xianniang, la strega cattiva che ne diventa alleata; donne abili nei combattimenti, ma insicure nel gestire questa scomoda superiorità rispetto agli uomini. Antagoniste solo in apparenza: un’aquila e una fenice che prima si scontrano, poi si riconoscono nella loro reciproca femminilità. In un contesto di soli uomini, nel quale le tradizioni sottolineano i caratteri di una società patriarcale, Mulan decide di fare la differenza, utilizzando il suo dono, tipicamente maschile, come strumento per affermare la giustizia. Se Xianniang offre i suoi poteri al nemico (le truppe nomadi dei Rouran, guidate dal feroce Bori Khan), Mulan rimane fedele all’imperatore, incarnando nella sua femminilità tutti i migliori valori dell’ottimo condottiero: lealtà, sincerità, coraggio e devozione per la famiglia.

Una storia affascinante, dunque, riletta secondo uno stile tipicamente occidentale, nel quale l’aquila e la fenice sembrano volerci raccontare anche un’altra vicenda, quella geopolitica che divide, per poi unire, i destini di due nazioni (gli Stati Uniti e la Cina), che si contendono il potere e la forza. Il film, però, non ha alcun intento critico, esaltando con forza il decadimento della forza mascolina, sotto i colpi di una giovane combattente che usa la forza per difendere la giustizia. Non a caso i rimaneggiamenti narrativi rispetto al poema originario vertono nella direzione di esaltare una femminilità che, ne La ballata di Mulan, si viene a scoprire soltanto alla fine. Già a metà film, invece, la protagonista scioglie i suoi capelli, vincendo il temibile Bori Khan sotto le vesti celate di una donna coraggiosa.

Mulan è quindi un film che propone dei valori forti, pur tralasciando sullo sfondo il contesto tradizionale cinese entro cui nasce e si sviluppa la storia.

La Disney prosegue la sua ormai consolidata tradizione di riedizione in live action dei classici di animazione. Rispetto a Il libro della giungla o a La bella e la bestia, però, Mulan è diventato prima ancora di uscire un doppio centro di polemiche.

Da un lato è stata criticata la scelta di far uscire il film direttamente sulla piattaforma Disney + a causa della pandemia. Dall’altro, il film non è stato accolto molto bonariamente quando l’attrice protagonista (Liu Yifei) ha esplicitato il suo supporto alla polizia di Hong Kong nella repressione delle proteste; senza contare le critiche mosse alla produzione nell’aver coinvolto alcune agenzie governative cinesi operanti nella regione dello Xinjiang, dove sarebbero stati istituiti dei campi per la rieducazione degli uiguri, etnia turcofona di religione islamica residente nel nord-est del paese. L’imperatore è dunque salvo; i diritti umani nella Cina di oggi un po’ meno.

(Mulan, di Niki Caro, 2020, azione, 115’)

Cover di Il corpo elettrico

Le voci del corpo

 

Il corpo elettrico di Jennifer Guerra (Edizioni Tlon, 2020) è uno dei saggi che in questo ultimo anno – insieme a Le ragazze stanno bene di Giulia Cuter e Giulia Perona, Tutte le ragazze avanti a cura di Giusi Marchetta, Bastava chiedere di Emma, L’atlante delle donne di Joni Seager e alcuni altri – ha arricchito notevolmente il dibattito sul femminismo fornendo punti di vista giovani, diversi o vicini tra loro, temi ricorrenti e spunti di riflessione imprevisti.

Jennifer Guerra, giornalista e redattrice di The vision, per cui ha curato anche il podcast Anticorpi, parte dalle parole di Walt Whitman in Foglie d’erba («I sing the body electric / The armies oh those I love engirth me and I engirth them / They will not let me off till I go with them, respons ti them / And discorrupt them, and charge them full with the charge of soul») per attraversare il corpo femminile dagli anni settanta a oggi, dagli slogan femministi alle varie ondate, dall’autocoscienza che diventa coscienza collettiva alle incertezze attuali sul transfemminismo.

«Il nostro corpo fa parte di un meccanismo politico più grande di noi che ci condiziona, ma che noi stesse – con la nostra coscienza – possiamo condizionare a nostra volta».

Nel capitolo Contenuti e contenitori si pone l’accento sull’habitual body monitoring ovvero l’idea ossessiva di una donna su come appare agli altri e nel mondo nonché in ambito sessuale. Quanto tempo si passa ogni giorno a pensarci? Quante riflessioni e paragoni scaturiscono dal semplice sfogliare i profili Instagram altrui? Ma soprattutto ci si chiede quali conseguenze un’ossessione come questa possa avere sulla vita vera: il rischio di associare il concetto di bellezza con quello di realizzazione personale, di successo e di felicità; e si arriva a riflettere sul significato di oggettivizzazione sessuale e sullo sguardo maschile (il cd male gaze), elementi presenti e diffusi contro i quali si può – si deve – tuttavia trovare una risposta ferma e prima o poi risolutiva.

Altro capitolo particolarmente interessante – come gli altri raccontato in modo chiaro, ben strutturato e documentato – è Dalla parte delle bambine, titolo che riprende un libro di Elena Gianini Belotti del 1973, nel quale si ragiona sui ruoli di genere e sulla rilevanza dell’educazione fin dall’infanzia.

Garantire un’educazione libera alle bambine è importante tanto quanto dare rilievo alla loro identità: non negarla, non imporre stereotipi di genere. La soluzione non risiede nel portare una bambina a praticare sport tipicamente maschili – se non è questo che desidera – bensì nell’abbandonare le idee con cui i bambini crescono da sempre, la semplice onnipresente distinzione tra giocattoli da maschi e da femmina, la netta suddivisone di libri per le femmine piene di principesse e di libri per i maschi ricchi di avventure e supereroi.

Per raccontarci come si fa, Guerra unisce le parole di Stendhal («piantare tutta la foresta») alle proprie ed ecco che la strada sembra improvvisamente dritta, quasi semplice:

«Piantare tutta la foresta è stare dalla parte delle bambine, perché sarà solo crescendole con la condizione che possono fare, esprimersi ed essere tutto quello che vogliono, che formeremo una generazione di donne (e uomini) consapevoli. Stare dalla parte delle bambine significa credere nel loro potenziale non di piccole spose o di piccole madri, ma di grandi donne – al momento alte un metro e dieci».

 

(Jennifer Guerra, Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà,  Edizioni Tlon, 2020, pp. 149, euro 15, articolo di Francesca Ceci)
Copertina di La città dei vivi di Lagioia

L’orrore muto del caso Varani

«Venerdì 4 marzo fu commesso l’omicidio. Il giorno dopo Roma fu inondata dalla pioggia».

I fatti sono noti a tutti: il 5 marzo 2016, mentre si sta recando al funerale dello zio, il ventottenne Manuel Foffo confessa al padre di aver ucciso una persona nel suo appartamento con la complicità di Marco Prato, noto pr romano conosciuto a una festa di Capodanno e rivisto soltanto in un’altra occasione.

Il nome della vittima Manuel non lo conosce neppure, il movente semplicemente non c’è, ma nella faticosa ricostruzione dei tre giorni trascorsi in compagnia di Prato e di una montagna di cocaina emerge nitida una certezza: la morte non è stata indolore, al contrario, è stata un’agonia, un atto di purissima e inspiegabile crudeltà.

Le cronache hanno poi reso noti i particolari. Luca Varani, 23 anni, è stato torturato e ucciso con oltre cento colpi di martello e coltello dopo essere stato attirato in via Igino Giordani con la scusa di una prestazione sessuale a pagamento. Manuel Foffo, reo confesso, è stato condannato a trent’anni di carcere dopo essere ricorso al rito abbreviato. Marco Prato si è ucciso nel carcere di Velletri alla vigilia della prima udienza, lasciando a parenti, giornalisti e curiosi un senso di smarrimento difficile da razionalizzare.

Il caso Varani ha rappresentato sin da subito il soggetto ideale per libri, documentari e film, ma, contrariamente a quanto si potesse immaginare, così non è stato. Tra gli scrittori e i registi italiani più apprezzati, nessuno fino a questo momento aveva osato confrontarsi con l’accaduto sotto un profilo autoriale che prendesse le distanze dai moralismi da talk show e dalla morbosità della nera, forse per paura di toccare questioni troppo delicate, forse per la difficoltà di raccontare una vicenda che, da sola, supera di slancio la più originale delle fantasie letterarie.

Ci prova adesso Nicola Lagioia con La città dei vivi (Einaudi, 2020), il prodotto di anni di ricerche, interviste e riflessioni (e ossessioni?) maturate in seguito a un reportage commissionatogli nel 2016 da il Venerdì.

Partiamo da una considerazione: se altri scrittori avessero raccolto il guanto di sfida e si fossero cimentati nell’impresa, credo che La città dei vivi continuerebbe a rappresentare una delle migliori versioni possibili.

Lagioia non scade mai nel sensazionalismo, non addita i mostri, scava nei verbali e nelle deposizioni, incontra persone, si reca nei posti. Da un punto di vista puramente letterario, il montaggio dei capitoli si rivela perfetto (si parte dalla confessione di Manuel, si torna indietro ai mesi precedenti per arrivare, un passo alla volta e dolorosamente, all’omicidio), la narrazione ti costringe a non mollare neanche per un attimo le oltre 450 pagine e a concludere la lettura il più in fretta possibile.

Sulle orme del Meyer Levin di Compulsion e del Carrère di L’avversario, l’autore osserva con curiosità i due assassini, scandaglia i loro abissi interiori, valuta le ipotesi psicologiche (l’omicidio rituale, il contagio psichico) in certi casi arriva perfino a empatizzare con loro, e al tempo stesso documenta il suo calarsi sempre più a fondo nella storia come individuo, una storia che all’apparenza non lo riguarda, ma che per qualche motivo fa risuonare in lui corde familiari.

I confini di un discorso mediatico asfittico vengono allargati da una polifonia di voci, srotolati per mostrare le pieghe che la cronaca non è riuscita – o non era interessata – a trattare, mettendo in luce alcuni elementi che all’epoca mi avevano molto colpito.

Il primo: il fatto che gli orientamenti sessuali di Varani e di Foffo abbiano occupato uno spazio preponderante nel racconto proposto dai media e dagli stessi protagonisti. Nessuno lo diceva esplicitamente, ma era come se si stesse insinuando che l’aver avuto rapporti con uomini avesse aggiunto un’ulteriore nota di depravazione al carnefice, e determinato un contrappasso per la vittima.

Ma è possibile confessare un omicidio nei suoi dettagli più scabrosi e aver timore che l’opinione pubblica ti identifichi come omosessuale? E di fronte a una morte così atroce, la pretesa di «difendere l’onore» di Luca dalle voci che lo descrivevano come una sorta di ragazzo di vita che si prostituisce per fare piccoli regali alla ragazza e per tentare il colpaccio ai videopoker ha una qualche sensatezza o è soltanto la riprova di quanto l’immagine che abbiamo dei nostri affetti sia spesso lontana dal restituirci la totalità di una persona?

«Le assicuro che per Manuel è più facile pensare di aver ucciso qualcuno per il gusto di farlo che immaginare di essere gay». (Marco Prato)

«A noi Foffo non ci piacciono i gay, ci piacciono le donne vere. E mio figlio non è da meno». (Valter Foffo)

«Tutti respingevano con rabbia l’ipotesi che Luca si prostituisse. La respingevano perché la reputavano disonorevole, perché vittima e carnefici si sarebbero ritrovati altrimenti sullo stesso piano, e anche perché assecondarla significava assecondare il racconto del nemico. […] Respingere l’idea che Luca si prostituisse significava negare una narrazione falsa anche se fosse stata vera, marcia quanto più era lastricata di buone intenzioni».

Il secondo: il ruolo del caso. Luca non era stato scelto, aveva soltanto avuto la sfortuna di rispondere a uno degli sms inviati dagli assassini, di arrivare nell’appartamento quando i due avevano ormai raggiunto l’apice del loro delirio. Eppure, nella sua vita, Luca era stato scelto. Infatti, dopo anni di pratiche per richiedere l’adozione, i coniugi Varani si erano finalmente recati in ex Jugoslavia per realizzare il loro sogno.

All’orfanotrofio trovarono la sorpresa. I bambini adottabili erano addirittura tre e loro avrebbero dovuto sceglierne uno. Non se l’erano immaginata così, credevano che l’assegnazione sarebbe stata automatica in base a documenti e priorità, e invece ogni cosa era affidata al loro arbitrio.

Che cosa ne sarebbe stato di Luca senza l’incontro con i genitori? E dove sarebbe ora se quel 4 marzo 2016 non avesse risposto al messaggio di Prato? Impossibile non domandarselo.

Il terzo: la figura di Marco Prato. Per molti un manipolatore, un seduttore di eterosessuali incline al ricatto, per altri un ragazzo fragile alla faticosa ricerca della sua vera identità. Le numerose testimonianze raccolte da Lagioia e i verbali dei due assassini non chiariscono fino in fondo la sua posizione. È stato Marco a ispirare il massacro oppure la sua colpa è stata quella di non aver saputo placare la furia di Manuel? E il tentato suicidio nell’albergo di piazza Bologna dopo il delitto deriva da un pentimento fino a qual punto sincero?

La verità la conoscono soltanto gli assassini ed è destinata a non essere mai rivelata, a maggior ragione dopo l’uscita di scena di Prato, trovato morto nella sua cella la mattina della prima udienza, già rinviata in ben due occasioni a seguito di uno sciopero dei penalisti. Anche qui, il caso che torna…

Ma se preso come indagine il libro sembra funzionare alla perfezione, come opera letteraria, invece, mostra alcuni lati meno convincenti.

Il reiterato ammiccamento a una Roma suburra – bellissima e feroce, eterna e fatiscente, meravigliosa e corrotta – non si rivela in ultima analisi né causa né effetto di ciò che si sta raccontando, il collegamento con un altro fatto di cronaca avvenuto in città è tutto sommato labile.

«Il vecchio anfiteatro comparve all’improvviso in fondo al viale, così pallido e grigio, simile alla luna quando è bassa all’orizzonte e sembra venirti addosso. Il Colosseo nell’aria fredda di marzo, tra le cartacce, i senzatetto, l’acqua putrida nelle fontane. Poco distante, coperto a malapena da una siepe, un signore di mezza età stava pisciando all’aria aperta. Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai».

I ratti al Colosseo, i tassisti che vengono alle mani con i clienti, lo spaccio, i disservizi, possono rappresentare davvero l’humus dal quale trae linfa una vicenda così assurda, o costituiscono semplicemente un set nel quale sembra più comprensibile collocare i fatti?

La stessa perplessità si ripresenta quando Lagioia riflette sulla possibilità di un male puro che s’impossessa degli esseri umani:

«Esiste una malvagità dei luoghi?, mi chiedevo, si può parlare di persistenza fisica del male dopo che è stato consumato? O è solo suggestione?»

«Era sorprendente l’aspetto di Marco. Ma era sorprendente anche l’aspetto dell’appartamento. In apparenza era lo stesso ambiente della notte precedente, eppure tutto lì dentro sembrava galleggiare in un’atmosfera nuova, come se tra quelle mura ribollisse qualcosa, e ancora meglio, come se, una volta entrati, si fosse scaraventati a chilometri di distanza».

«Ne parlavano come se ad agire non fossero stati loro ma qualcos’altro, un oscuro regista che aveva preso il sopravvento».

In realtà, come ben evidenzia il libro in altri passaggi, credo che la peggior colpa di Foffo e Prato stia nell’aver liberato un male insito nella nostra natura umana, un male che non cala dall’alto, ma che risiede in ognuno noi. Non c’è un momento preciso e prestabilito in cui tutto ciò è avvenuto. Ci sono state tante piccole scelte volontarie che hanno poi reso l’omicidio inevitabile. Dopo che si è pianificato un festino a base di coca e alcol, dopo che si è fantasticato di violenze e ricatti, dopo che si è iniziato a invitare conoscenti a casa, a drogargli i drink, dopo che si è usciti nella notte per cercare qualcuno da assoldare per uno stupro non si sa quanto simulato, cos’altro può accadere di differente?

Del tutto forzato appare invece il legame che spinge l’autore ad appassionarsi al caso e a sentirsi in qualche modo coinvolto da un punto di vista personale. Dobbiamo attendere oltre metà libro e una sana dose di suspense per capire di cosa si tratta: un giovane e tormentato Nicola Lagioia che sfoga le sue inquietudini con piccoli atti vandalici nel corso della sua adolescenza barese e che, qualche anno più tardi, valuta di prostituirsi per far fronte a un lavoro promesso e poi saltato nei suoi primi giorni di vita romana. Cosa vorrebbe suggerirci l’autore? Che basta poco per ritrovarsi Manuel Foffo o Luca Varani? Che è sufficiente un periodo di vulnerabilità per diventare vittima o carnefice?

L’omicidio in questione ci parla di qualcosa di molto più complesso di un male che ci prende, rendendoci inermi, o di una ragazzata che si trasforma in tragedia. Questo Lagioia dimostra di saperlo perfettamente. E se in certi passaggi non sembra riuscire a descrivere questa complessità senza fare ricorso a espedienti narrativi non è certo per suo demerito. Il problema, a mio avviso, risiede in un’impossibilità, da parte della scrittura, di arrivare oltre un certo limite, se non avvalendosi del conforto dei suoi strumenti. Di fronte all’assurdità e all’incomprensibilità dell’orrore la scrittura normalizza, trovando riparo nei più classici tòpoi letterari del giallo o del thriller, di fronte all’inaccessibilità delle persone la scrittura risponde con i personaggi, di fronte al fascino, per certi versi morboso, che nutriamo nei confronti di un fatto di sangue la scrittura ripassa le tappe del viaggio dell’eroe (la chiamata, il rifiuto, gli alleati ecc.).

Quello che resta di La città dei vivi è un senso di impotenza e di irreparabilità, oltre ad alcuni particolari recuperati dalle numerose sottotrame che entrano a far parte, spesso a titolo minore, della vicenda principale e che Lagioia non si risparmia dal ricostruire scrupolosamente. I poliziotti che, sbagliando piano, tentano di fare irruzione nell’appartamento di una vicina, la app di calciatori che Foffo sognava di sviluppare «per svoltare», un’orda di eterosessuali che pur di non fare i conti con la propria sessualità preferiscono considerarsi vittime del malefico carisma di Prato, l’agghiacciante presa di coscienza da parte di Damiano Parodi e Alex Tiburtina di non essere al posto di Luca Varani giusto per un dettaglio, Marco e Manuel che, sfiniti, dormono in camera da letto con il cadavere di Luca a pochi passi, un risentimento diffuso che cova a partire dalla famiglia e che si riversa nella società. Storie di assassini e di vittime, che ancor prima di essere assassini e vittime sono state innanzitutto persone.

«Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di un’educazione. Il primo è assai più misterioso».

 

(Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, 2020, 472 pp., euro 22, articolo di Martin Hofer)

 

“La belva”: un action movie che parla italiano

Sarebbe un vezzo da antiquari affermare che il cinema italiano è morto con i grandi del passato. La belva, uscito a fine novembre su Netflix, del giovanissimo Ludovico Di Martino (classe 1992) ci dimostra il contrario. Sta già accadendo da un po’ di tempo che la generazione tra i Settanta e i Novanta sforni registi in erba molto interessanti, capaci di confrontarsi con la storiografia cinematografica in maniera tutt’altro che banale.

La belva, per esempio, guarda agli action movie statunitensi, i film di seconda categoria tutti botte e scazzottate, riuscendo a evitare quel sentore emulativo che avrebbe di sicuro affossato il film. De Martino, invece, propone una pellicola facilmente confondibile con una produzione americana, e irriconoscibilmente italiana, complice anche il buio, che scombussola l’orientamento spaziale e temporale dello spettatore: se non guardassimo La belva in lingua originale, potremmo pensare di essere in uno dei tanti sobborghi statunitensi (quelli dei b-movie di seconda categoria) dove i pugni la fanno da padrone.

Questo anche grazie all’ottima catarsi di Fabrizio Gifuni, rasato a zero e con un bomber verde, potentissimo nella sua versione “cattiva”, capace di cambiare il registro recitativo al quale siamo abituati per vestire letteralmente i panni del bruto di poche parole che mena pugni e si rialza, le prende e si rimette in piedi, viene ferito e si ricuce da solo. Leonida Riva, il figlio di nessuno, soprannominato “la belva”, non si risparmia per salvare la figlia: buca la notte, nonostante i demoni del passato. Picchia, ferisce e uccide, quasi come nei fumetti, dove le onomatopee hanno la meglio sulle parole. I suoni predominanti del film sono, infatti, quelli della carne che si spacca, delle ossa che si rompono, dell respiro che arranca. Un mondo al quale ci ha abituato il cinema americano, non di certo il nostro.

Allora, sebbene il film non sia perfetto, offre sicuramente un valido spunto per affermare che siamo pronti a sperimentare narrazioni diverse, senza incorrere nell’errore di copiare male o scimmiottare generi che non sono nostri. Come era già successo, per esempio, per Lo chiamavano Jeeg Robot, dove il primo vero “supereroe” italiano bucò lo schermo, scardinando l’idea che un certo tipo di film potesse parlare solo una lingua. Con risultati qualitativamente diversi, anche La belva riesce nell’intento: dimostrare che i giovani registi sono pronti a cambiare il nostro cinema.

(La belva, di Ludovico Di Martino, 2020, azione, 90’)

copertina di Il lavoro dello spirito

L’eco di Max Weber

Il lavoro dello spirito, in tedesco geistige Arbeit: questo il titolo dell’ultima opera di Massimo Cacciari pubblicata con Adelphi. Un titolo che riprende esplicitamente quello usato da Max Weber per la pubblicazione delle sue celebri conferenze tenute all’Università di Monaco: La scienza come professione, nel 1917, e La politica come professione, nel 1919. Il compito in cui il filosofo veneziano si cimenta in queste pagine, infatti, è solo uno: riascoltare e far ascoltare Weber, ripensare le drammatiche questioni che quest’ultimo aveva posto oltre un secolo fa sul rapporto tra scienza e politica nel mondo della razionalizzazione tecnica. Non è certo la prima volta che Cacciari si propone di riattualizzare Weber: da dove scaturisce la necessità di insistere? Che cosa possono dirci le parole di Weber se ancora oggi bisogna tendere l’orecchio al loro eco?

Nel primo capitolo del libro Cacciari delinea lo sfondo concettuale della nostra epoca, ovvero quali sono le idee che innervano il sistema del capitalismo, che più passa il tempo e prende potere più «rivela la sua vera natura, che è tutta immateriale o metafisica. Essa si svolge integralmente sul terreno della potenza della mente e cioè del lavoro dello spirito». La natura del capitalismo non viene dal nulla, come tutto ciò che è terreno nella storia degli uomini poggia su un avvenimento, in questo caso l’affermarsi della scienza moderna e della sua visione del mondo. E la scienza moderna è un continuo autosuperarsi; come dice lo stesso Weber: «essere superati scientificamente – è bene ripeterlo – è non solo il destino di noi tutti, ma anche il nostro scopo». Da qui il continuo rifarsi del mondo, il paradigma per cui tutto vive solo per la propria morte, per cui la merce è creata in vista del suo immediato sopprimersi in nuova merce, dove predomina ciò che diviene su ciò che sta. In breve, la desostanzializzazione del mondo, di cui una conseguenza che Weber ancora non poteva vedere è che «il capitalismo è essenzialmente capitale finanziario», come osserva Cacciari. Questo è il mondo attuale, prodotto dalla progressiva razionalizzazione scientifica. Nessun giudizio negativo, il sistema funziona, anzi, va da sé, potrebbe tutto sottomettere al suo incessante movimento di creazione e distruzione, un moto che procede per crisi, che non sono quindi falle nel sistema, ma il motore stesso.

Qualsiasi critica reazionaria e nostalgica al processo di razionalizzazione del mondo sarebbe un infantilismo sterile, un mettersi a cantare una volta che si è nel buio per non sentire la paura dello smarrimento, per dirla con Robert Musil, altro grande lettore disincantato del proprio tempo. E del proprio tempo bisogna essere all’altezza, capirne ilproblema, che potrebbe essere definito come il problema dell’ordine. Come ordinare il mondo nell’epoca del capitalismo avanzato? È corretto semplicemente far andare da sé la “macchina”, amministrarla? Oppure bisogna svincolarsi completamente da essa, puntare nuovamente su grandi ideali che escludano l’idea scientifica di calcolo e razionalizzazione? C’è una terza via tra i due estremi appena indicati: a quest’ultima pensa Cacciari riattualizzando Weber, in un dialogo nel quale si scorge sempre un altro grande critico dell’ordine dell’epoca contemporanea come Carl Schmitt. Il problema dell’ordine è un problema politico. Quindi la questione è come deve agire la politica nel mondo razionalizzato della tecnica scientifica, questo il fil rouge tra le due conferenze di Weber.

Innanzitutto, ci dice Cacciari sulla scorta del grande sociologo tedesco, bisogna capire non soltanto che ormai «il modello di razionalità della scienza moderna diviene il valore che informa di sé i mondi vitali del moderno», ma anche che la scienza ha il suo valore nell’avalutatività (quindi essa persegue sì un valore!), nel suo porsi come ricerca oggettivante che nell’esperimento procede eliminando l’uomo e i valori nei quali è storicamente immerso. Questa è la sua potenza che ci permette di assaporarne i frutti. Ma proprio per questo, la scienza non può dirci come agire, né può dire scientificamente se abbia senso perseguire il progetto scientifico. Le scienze non possono esprimersi sul senso e quindi sull’agire umano, per Weber possono solamente darci «una risposta alla domanda: che cosa dobbiamo fare se vogliamo dominare tecnicamente la vita? Se però dobbiamo e vogliamo dominarla tecnicamente, e se ciò abbia, in ultima analisi, propriamente senso, esse lo lasciano del tutto da parte». I singoli scienziati potranno sì esprimersi a riguardo, ma non in quanto scienziati, perché il metodo della scienza a ciò non può rispondere.

Nel Lavoro dello spirito Cacciari elabora e approfondisce queste pagine weberiane sotto un profilo storico-filosofico. È crollato, sostiene, il sogno dell’idealismo e della borghesia: che il sistema della scienza porti, nel suo procedere e compiersi, al sistema della libertà. Il progresso scientifico non porta da sé il progresso verso una maggiore libertà, ci saranno sempre differenze, “servi e padroni”.

Sarà allora la politica a guidare il nostro agire, poiché procede non avalutativamente ma cerca anzi di instaurare valori nel mondo, decide per essi e vuole farli valere. Il politico deve decidersi per un valore, deve essere convinto della sua preminenza, portandolo quindi a farlo valere contro gli altri valori. Il buon politico deve inoltre essere responsabile, in quanto deve riconosce la legittimità degli altri valori, non concepire il proprio come il valore assoluto. Si rende conto che la scena politica è scena tragica. Lo scontro tra i valori necessita di essere rappresentato, da qui la democrazia rappresentativa guidata da partiti che prendono parte per determinate gruppi uniti dal rispettivo interesse – enon per il fantasma del popolo.

Il politico di professione deve inoltre essere responsabile delle conseguenze che produce nel portare avanti la propria causa, deve saper mediare e rinunciare, nello scontro con gli altri valori: mai impuntarsi, illudersi di realizzare il suo progetto come lo aveva pensato. Se tutto fosse sacrificabile al valore prescelto, il politico sarebbe un ideologo o un profeta che predica di aver trovato la via della salvezza a cui tutti debbano sottomettersi.

Per agire nel mondo contemporaneo, che prende forma sulla visione scientifica e disincantata del mondo, il politico non può fare a meno di pianificare attentamente il suo operato, di essere il più coerente e chiaro possibile nel perseguire il proprio obiettivo. E «questa conoscenza» precisa Cacciari «non può venirgli che dallo studioso, dallo scienziato […] poco importa se lo studioso sia in lui o accanto a lui». Il politico deve quindi far propri i mezzi della razionalizzazione tecnica scientifica, che in politica hanno l’aspetto della burocrazia. Deve immergersi nel mondo in cui è attivo e nel suo modus operandi: «la vera e propria decisione politica ha sempre luogo, per Weber, all’interno della dimensione tecnico-burocratico-razionale del moderno Politico». Un politico che non agisse in tal modo sarebbe niente di più che un demagogo che aizza le masse anziché condurle verso un mondo strutturato dal valore che lui ha deciso; che fa opportunisticamente suo quello che di volta in volta è il valore in cui i più si ritrovano (poco importa se sia la sicurezza o la stabilità economica e il pareggio di bilancio o la grandezza della Nazione) lodandolo come “salvifico”.

Da questo lavoro eroico di mediazione tra l’aspetto scientifico-burocratico, il perseguire il proprio valore e il riconoscimento degli altri, due sono gli estremi in cui il lavoro del politico può naufragare. Da un lato, l’eccessiva burocratizzazione, il porsi completamente al servizio del sistema capitalistico e i suoi fini, diventando così semplice amministratore, incapace di dar forma al mondo seguendo la via di un determinato valore scelto tra altri. Al contempo, la scienza stessa cercherà di «trasformarsi in modello etico-politico (propriamente in progetto di de-politicizzazione)», e l’avalutatività del processo tecnico-razionale non potrà che assecondare l’andamento del sistema e porsi anch’essa come sua amministrazione razionale.

Dall’altro lato, la politica rischia di separarsi totalmente dall’aspetto tecnico-burocratico, inseguendo ciecamente un valore concepito come “panacea sociale”: il politico-demagogo spinge per un’azione diretta, immediata (e in quanto tale sempre più elogiata dai partiti che sostengono di fare gli interessi del popolo, inteso come un tutt’uno), insofferente all’apparato di mediazioni proprio della democrazia.

In entrambe le derive la politica sarà succube del sistema stesso, impotente a rispondere alle istanze di libertà che vengono avanzate di fronte a una «gabbia d’acciaio» che elimina ogni autonomia del politico rispetto al corso del mondo. E in entrambi i casi si può notare il conflitto tra la scienza e la politica: questo scontro non deve essere soppresso, deve rimanere acceso, nella misura in cui ognuna delle parti si serve dell’altra. Senza conflitto reciproco, scienza e politica verrebbero schiacciate dalla razionalità orientata al profitto propria del sistema capitalistico: la scienza diverrebbe meramente funzionale all’economico, mentre la politica diverrebbe pura amministrazione dell’economico, incapace di frenare esplosioni di demagogia e tendenze antiscientifiche che, nella speranza di sovvertire il sistema, se ne renderanno ancora più schiave.

Cacciari ha scritto Il lavoro dello spirito mentre era chiuso in casa, come milioni di altre persone nel mondo, per la pandemia di Covid-19. Una reclusione infelice, come ha avuto modo di testimoniare, trascorsa osservando con disperazione un nuovo conflitto in cui scienza e politica vogliono prevalere l’una sull’altra. La pandemia si innesta in una crisi economica che procede da ormai più di dieci anni, e a cui sembra che la politica risponda solamente inseguendo l’evolversi dell’economia, peraltro senza tenerne il passo. Il capitalismo avanzato e le tecniche su cui poggia hanno eroso ogni distanza spaziale, infliggendo un colpo mortale alla forma dello Stato moderno (forma ancora essenziale per la visione di Weber, sulla cui crisi si espresse Carl Schmitt già nella prima metà del secolo scorso). Si disintegra in tal modo lo scenario in cui si poteva rappresentare lo scontro tra i valori: quella di oggi non è forse una crisi del sistema politico rappresentativo?

Se, seguendo Cacciari e Schmitt, dopo lo Stato il mondo dovrà essere ripensato in Grandi Stati che “imperino” (termine appunto schmittiano), non si può non osservare come l’Europa, che potrebbe e dovrebbe assumere questa forma, sia oggi fragilissima: incapace di prendere decisioni secondo un qualche valore, si limita a esistere in una modalità funzionalista, restando nient’altro che un patto tra stati (o quel che rimane di essi). Basta vedere la gestione della crisi migratoria e le farse sulla distribuzione delle mascherine (e in generale sulla gestione dell’emergenza sanitaria), per capire che un’Europa politica semplicemente non esiste. Da qui nascono al suo interno i movimenti sovranisti che vorrebbero smontarla, l’altra faccia della stessa medaglia. Il capitalismo finanziario cavalca questa crisi – lo dicevamo, le crisi sono il suo motore – e si rafforza, andando a erodere sempre più l’autonomia della politica.

È di moda citare Mark Fisher: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Così sembrano andare le cose, e se fosse vero saremmo veramente già arrivati alla fine della storia, nota Cacciari, poiché il «tempo di questa è quello dell’accelerazione senza fine», del perenne rinnovarsi del mondo «senza che alcun Fine risulti indicabile»:l’illimitata idea di progresso lasciata senza briglie. Ma proprio così deve andare? «There is no alternative», secondo l’altrettanto celebre affermazione di Margaret Thatcher? La risposta di Cacciari (e Weber) è no, anche se – ciascuno nella sua epoca – entrambi riconoscono disincantati quanto difficile sia l’uscita dal tunnel.

Una via d’uscita però esiste, perché anche il processo di de-politicizzazione è un processo politico: quest’ultimo non può scomparire dalla scena del sistema capitalistico, gli è consustanziale. Ma può certo perdere forze, sottomettersi e fare il suo gioco. Ecco perché bisogna continuare ad ascoltare le parole di Weber, sempre riattualizzarle, ragionare inquadrando il conflitto tra razionalizzazione scientifica e decisione politica nel mondo della tecnica, così da tenerlo nella giusta tensione. Si può sempre spezzare il sistema – come del resto perdervisi –, nessuna logica lo vieta; perché se «qui la storia non finisce, ciò non potrà dipendere, ancora, che dall’energia contenuta nel geistige Arbeit, nel suo conatus a resistere come potenza autonoma a ogni sua sussunzione economica, politica e religiosa».

 

(Massimo Cacciari, Il lavoro dello spirito, Adelphi, 2020, pp. 118, euro 13, articolo di Marco Varaldo)

 

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