copertina di Dalla generazione all'individuo di Olga Campofreda

Pier Vittorio Tondelli: ritratto dell’artista “da giovani”

Permettetemi di partire con una premessa di natura strettamente personale; poi – come disse qualcuno – mi sposto e vi faccio vedere il film. Trovarmi a scrivere di Tondelli mi ha messo in ansia. Mi ha messo in ansia perché ogni tanto c’è chi, in occasione di qualche ripubblicazione, o anniversario, ci ripensa e scrive che non parliamo abbastanza di Tondelli, ma col ditino alzato, quasi a dire «che poi Tondelli era bravo, ma…» e bisogna avere tutti un’opinione tagliente e circostanziata su Tondelli, bisogna quasi giustificarsi, distinguere il Tondelli di Altri libertini da quello di Camere separate, per non parlare di Rimini!. Come se non fosse possibile dire semplicemente che ci piace, che lo abbiamo sentito vicino, o lontano, e perché.

Forse è questa la cosa più straordinaria di Tondelli, che ho riletto, anzi ho letto davvero, come fosse la prima volta, nel mio trentesimo anno grazie alla guida del bel volume critico di Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, uscito a ottobre con Mimesis.

Tondelli è divisivo perché è sempre stato diviso. La sua biografia maledetta, la morte a trentasei anni per complicazioni dovute all’Aids e non dichiarate esplicitamente (sul certificato di morte, ricordava Giacomo Papi nel 2016 sul “Post”, citando a sua volta Giovanni Dall’Orto, c’era scritto «polmonite bilaterale»), il fatto che fosse gay e militante ma anche cattolico, che parlasse dalla nicchia ma al pubblico dei best seller.

A quasi trent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 16 dicembre 1991, si continua a discutere degli eredi che (non) ha avuto.

Divenuto prestissimo autore di culto, emblema della controcultura e della contestazione giovanile grazie al suo esordio Altri libertini (Feltrinelli, 1980), che a pochi mesi dalla stampa venne sequestrato per oscenità dal procuratore della Repubblica dell’Aquila, su Tondelli pesa ed è pesato senza dubbio un certo tipo di lettura e di critica postuma, che Campofreda cerca di rimettere in discussione.

E lo fa partendo dall’analisi di alcuni inediti ritrovati negli archivi del Centro di Documentazione istituito nella biblioteca di Correggio, città natale dell’autore, che vengono riprodotti in appendice al volume: i testi delle performance Jungen Werther / Esecuzione e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile, ascrivibili agli anni 1978-79, quando Tondelli si avvicinò all’attività del gruppo di teatro di strada Simposio DifferAnte.

Proprio perché la giovinezza è il filo rosso della produzione artistica di Tondelli, per proporre un nuovo approccio della critica è corretto provare a ricostruire i modi della rappresentazione che l’autore ha via via sviluppato, considerando anche le sue esperienze come editor (l’impegno di raccolta e curatela di giovani autori esordienti del progetto Under 25).

Il limite che Olga Campofreda riconosce alla critica fino a qui risiede nel fatto che l’autore sia sempre stato eccessivamente ricondotto al proprio tempo: «La scrittura di Tondelli ne esce fuori come mera rappresentazione di un determinato tempo storico, dove la riflessione esistenziale e artistica non appartiene all’autore ma risulta frutto dell’interpretazione del discorso a lui esterno. Il continuo riferimento alle influenze, da Celati agli autori della Beat Generation, presente in ciascuno di questi contributi critici, non si evolve in un’analisi dell’originalità del pensiero tondelliano rispetto alle sue fonti. Il problema allora si colloca non nel mancato interesse nei confronti di questo autore da parte della critica, ma nel modo in cui fino a questo momento le opere di Tondelli sono state interrogate. È proprio su questo limite che è necessario intervenire al fine di restituire una certa autonomia e valore all’opera tondelliana».

Campofreda cerca di mettere a sistema tutto quanto è già stato detto dalla critica e suddivide il suo studio in quattro macrocapitoli, nei quali analizza, con estrema cura e una lodevole chiarezza e sistematicità, i diversi momenti dell’esperienza dello scrittore correggese. A partire dalla “mitologia della giovinezza” di Tondelli, la sua ossessione per la rappresentazione di personaggi giovani, e la quasi completa assenza di adulti, che emerge già nelle prime prove di scrittura, gli inediti degli anni 1978-79. In quegli anni Pier Vittorio era studente al DAMS di Bologna e impegnato nella tesi di laurea in teoria del romanzo.

La giovinezza degli esordi letterari è ispirata, prima che da Kerouac e dalla Beat Generation, dagli eroi romantici di Foscolo e Goethe (Jungen Werther). Ma l’idea di suicidio come unica alternativa di non conformazione, in difesa dell’identità dell’individuo, viene presto sostituita dal mito del viaggio on the road, dalla possibilità di libera costruzione dell’identità del singolo. Quel concetto del cercare il proprio odore che supererà il “classico” romanzo di formazione di tradizione otto-novecentesca, in cui il ragazzo si fa uomo entrando a far parte della società borghese, e lo porterà invece, come si vede in Altri libertini e Pao Pao, alla rappresentazione della giovinezza come status di opposizione costante ai concetti di integrazione e omologazione.

I giovani libertini, pur non facendo politica in maniera diretta, esprimono un loro dissenso di tipo culturale. Ma mentre per i protagonisti di romanzi appena precedenti, l’operaio di Nanni Balestrini in Vogliamo tutto!, Rocco e Antonia di Porci con le ali, la lotta sindacale o la liberazione sessuale sono strumenti per arrivare a una qualche forma di maturità che implica (anche) un compromesso, i personaggi di Tondelli rifiutano in blocco la società borghese.

Intorno al 1985, però, al trentesimo anno di età e in concomitanza con il grande successo di Rimini, questo mito inizia a incrinarsi: Tondelli va verso la scrittura più autobiografica e frammentaria di Camere separate e inizia a riflettere su una modalità che possa esprimere la maturazione di un personaggio senza renderlo un conformato.

È la scrittura la chiave di volta, il modo in cui una storia viene narrata: l’incontro con la spiritualità orientale, per la quale d’altronde aveva sempre avuto una fascinazione, risolve l’impasse narrativa grazie al concetto di satori, un momento di rivelazione tramite il quale le differenze vanno a far parte di un Tutto in equilibrio.

L’ultimo capitolo analizza infine il Tondelli curatore: la riflessione dello scrittore sulla giovinezza va avanti tramite l’impegno nel progetto Under 25, in cui si mette alla prova come editor e talent scout con tre raccolte, Giovani Blues, Belli & Perversi e Papergang, uscite per Transeuropa rispettivamente nel 1986, 1987 e 1989. Se da un lato l’intento è quello di dare una possibilità a giovani esordienti di trovare la propria voce, un impegno di tipo culturale e non solo legato all’attualità o a un’operazione furba dal punto di vista editoriale, dall’altro però cristallizza di fatto una sorta di canone del tondellismo che avrà alterne fortune editoriali e che qualcuno non gli ha ancora perdonato.

Dalla generazione all’individuo centra l’obiettivo che l’autrice si era prefissa. Non si tratta di un lavoro su Tondelli, ma attraverso l’autore e tutto quello che ha saputo raccontare di noi, dell’Italia, dei significati che la giovinezza e i suoi simboli possono assumere nella vita di ciascuno.

Se è vero, come dice citando la studiosa Francois Wahl l’altro autore simbolo dei suoi anni, Enrico Palandri, in Pier Tondelli e la generazione (Laterza, 2005), che «lo stile è il suo personaggio migliore, una voce quasi sempre parlata, che diviene a sua volta letteratura», allora il merito maggiore di Olga Campofreda è aver rimesso al centro la fonte, seppur mutevole, l’individuo da cui questa voce è provenuta.

 

(Olga Campofreda, Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli, Mimesis, 2020. Articolo di Giulia Marziali)

 

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Ti aspettavamo, Moltheni

Nel 2008 esce I segreti del corallo. Lo fai partire e la prima traccia è “Vita rubina“. Quante canzoni in Italia, scritte in quegli anni fino a oggi,  sono migliori di “Vita rubina”? Abbiamo giustamente venerato negli anni ’00 i Verdena, Vasco Brondi, gli Offlaga. Ma chi tra questi, e tra tutti gli altri, è riuscito a scrivere qualcosa del genere? Quel racconto sulla perdita dell’innocenza sorretto da un pop che trascolora nel post-rock.

Lui, Moltheni, che dal 2010 decide di scrivere canzoni sotto il suo nome di battesimo Umberto Maria Giardini e, dieci anni dopo, decide di tornare alle origini artistiche con Moltheni e l’album Senza eredità.

Motheni negli anni ’00 è stato una delle figure più interessanti del cosmo indie italiano – nel 2000 ci prova a Sanremo raggiungendo il sesto posto tra i giovani, molto tempo prima che altre grandi figure indie decidono di calcare il palco dell’Ariston.

Gli esordi con Natura in replay, un suono sporco e l’influenza più che evidente di Manuel Agnelli e Carmen Consoli. Da lì la costruzione di qualcosa di più solido e pulito, senza però mai staccarsi dal cordone del presentatore di X Factor. L’apice raggiunto con il già citato I segreti del corallo e il successivo Ingrediente Novus.

In quegli anni, poi, ha il tempo anche di fare una capatina nel film Perdutoamor di Battiato, dove è un giovane Battisti che canta  Prigioniero del mondo.

Dopo dieci anni di Moltheni, ecco che viene stravolto tutto con la scelta del cambio di nome in Umberto Maria Giardini. Una decisione drastica che probabilmente ha avuto qualche ripercussione negativa, ma Umberto Maria è dentro a logiche che hanno a che fare solo con l’arte. Sicuramente, in questa seconda muta, la sua migliore espressione nel rock di Forma mentis.

Oggi Umberto Maria torna come Moltheni e tira fuori un album fatto di canzoni del primo periodo (registrate oggi) che non sono mai riuscite a entrare in nessun lavoro di quegli anni. Solo “La mia libertà”  è un pezzo completamente nuovo.

Cosa aspettarsi da un album di Moltheni dopo queste pretese?  Catapultati in quegli anni, ma senza esserlo realmente. Quell’ondeggiare della voce, gli intrecci delle chitarre. Senza eredità sembra scorrere come in un luogo senza spazio e tempo, una delle caratteristiche tipiche dei lavori di Moltheni. Questa sospensione continua delle cose.

Le sue ballate si mischiano tra di loro senza intoppi, ognuna dipende da quella che si trova prima e da quella che si trova dopo. “Ieri”, “Estate 1983”, “Ester”, ma soprattutto “Spavaldo”,  sono Moltheni nella sua massima espressione.

Senza eredità è proprio un album di Moltheni a tutti gli effetti e non di Umberto Maria Giardini. Non riesce ad essere profondo e struggente come I segreti del corallo, ma quello che esce è qualcosa che ci ricorda che abbiamo bisogno di Moltheni,  della sua voce tormentata e poetica e del suo immaginario imponente.

 

 

 

Copertina di La famiglia di Pascual Duarte di Cela

Vita e dolori di Pascual Duarte

Una parabola miserabile sull’impotenza umana; un atto d’accusa contro sé stesso; un tentativo ultimo di redenzione: ecco come appaiono le memorie incompiute che Pascual Duarte scrive dal baratro del carcere, in attesa di essere giustiziato. Pascual – personaggio ambiguo e respingente, feroce e insieme fragile – è il protagonista di La famiglia di Pascual Duarte, romanzo del 1942 di Camilo José Cela, scrittore spagnolo vincitore del Premio Nobel nel 1989.

La famiglia di Pascual Duarte, il suo esordio, pubblicato in precedenza da Einaudi, viene adesso riproposto dalla casa editrice Utopia (nella traduzione storica di Salvatore Battaglia). Utopia è nata nel periodo del lockdown dall’unione di alcuni under-trenta, con l’idea di creare un polo giovane e coraggioso nell’universo editoriale. Le sue prime pubblicazioni mostrano infatti una linea attenta alla grande letteratura e alle riscoperte: oltre a Cela, Utopia ha inaugurato il suo catalogo con Massimo Bontempelli, Pietro Scanziani e Anne Carson.

La famiglia di Pascual Duarte è un classico di matrice esistenzialista, denso di un pessimismo asfissiante e magnetico. Le sue pagine raccontano una storia antica: la sconfitta di un uomo contro i propri demoni, la rinuncia totale di fronte al rancore e alla brutalità. La forma del romanzo è la più intima possibile, la più indiscreta e incline a menzogne: la confessione. Pascual Duarte, assassino, mette nero su bianco la sua intera vita, e – una particolare forma di espiazione – la manda per lettera a un conoscente di una delle sue vittime. La confessione dell’uomo cattivo, il lamento del mostro, possiedono sempre qualcosa di contraffatto e scandaloso; eppure la mostruosità di Pascual è autentica proprio perché non gli appartiene: è il mondo intero, infatti, ad apparire anomalo e privo di speranze. Nella sua narrazione, nel suo delineare le squallide fattezze di un villaggio spagnolo di inizio Novecento, il catastrofismo da individuale si fa contestuale, e quindi smisurato, del tutto inevitabile.

La casa della famiglia Duarte – racconta Pascual – è piccola, sporca, «misera come il suo padrone»; sua madre è una donna invidiosa che non concede affetto; suo padre un uomo debole e violento. Una sorella più piccola, Rosario, è libera e ribelle solo in apparenza; un fratellino, Mario, gravemente malato, come maledetto per il suo essere innocente. In questo contesto Pascual non studia, non evade, e si trascina appresso, tutte insieme, le disgrazie di quei padri da cui non riesce a emanciparsi.

Capita anche che si innamori di Lola, la ragazza «con un paio di occhi fondi e luminosi che a guardarli lasciavano il segno dentro», e che la sposi. Ma – regola generale di ogni buona storia – è proprio quando le cose sembrano andare bene che accade il peggio. Dopo il matrimonio, la traiettoria di Pascual non sarà altro che una strada immobile e paurosamente dritta che lo condurrà a diventare un omicida; la sua è una vicenda già tracciata, un destino prefissato nei più minimi – e subdoli – dettagli.

Leggendo La famiglia di Pascual Duarte si sperimenta un forte desiderio di fuga: sarà lo stesso Pascual, nel romanzo, a tentare di scappare – illudendo per un istante, oltre che sé stesso, anche il lettore. Il protagonista vorrebbe arrivare fino in America, correre il più lontano possibile da quella casa che è sinonimo di sfortuna e di amarezza; finirà per ingannarsi da solo, per essere risucchiato dal vortice della fatalità. Tornerà nel suo villaggio: non avrebbe potuto fare altro.

La lingua con la quale Cela fa esprimere Pascual è semplice, ricca di proverbi, modi di dire ed esagerazioni. Lo scrittore vuole mimare la parlata popolare del suo protagonista, e ci riesce benissimo, donando al testo un effetto di paradossalità dolorosa: è la banalità del male che risuona nel lessico di Pascual, nei suoi ragionamenti approssimativi e nelle sue umanissime afflizioni; è come se Pascual facesse una continua parodia di sé stesso, è come se non si trattasse davvero della sua storia. In fondo, il messaggio più disturbante di La famiglia di Pascual Duarte è proprio questo: il suo protagonista è un uomo buono e ingenuo, un sempliciotto. Ma allora come è possibile che sia diventato un omicida, una bestia, un mostro?

Non si può che ascrivere Pascual Duarte tra i grandi personaggi tragici e autodistruttivi della letteratura novecentesca. Pascual è cattivo e anche buono, vittima e insieme carnefice, proprio come il Meursault di Lo straniero di Camus (pubblicato, non a caso, nello stesso anno). La sua unica colpa è quella di essere un uomo e quindi una creatura debole fino all’inverosimile: la rabbia e il dolore sono molto più forti di lui, lo assediano e lo controllano. L’umanesimo paradossale di Cela, però, si insinua proprio in questo resoconto della comune fragilità umana; nel perdono che in fin dei conti il lettore concede a Pascual si legge un grido di aiuto, un invito disperato all’empatia.

 

(Camilo José Cela, La famiglia di Pascal Duarte, trad. di Salvatore Battaglia, Utopia, 2020, 160 pp., euro 16, articolo di Claudio Bello)

 

I fantasmi di Hollywood

Mank doveva essere uno dei film da incorniciare di questo anno disgraziato che ha paralizzato il cinema, tra le tante altre cose ben più gravi. Invece, l’atteso ritorno al lungometraggio di David Fincher è poco più di un ottimo esercizio di stile.

Il Mank del titolo è Herman J. Mankiewicz, giornalista di costume e sceneggiatore nella Hollywood degli anni Trenta. Dedito al gioco e all’alcol, Mank passa da un copione all’altro senza mettere alcun impegno nel suo lavoro. L’occasione di lavorare con Orson Welles, ragazzo d’oro del teatro e della radio chiamato al suo esordio alla regia, si trasforma in un’occasione di confronto con il suo più recente passato. Il copione che riversa sulla carta diventerà poi Quarto potere, forse il film più importante della storia del cinema.

Per tornare al lungometraggio a sei anni di distanza da L’amore bugiardo, Fincher è riuscito a trasformare in film un copione scritto da suo padre una trentina d’anni fa. Un progetto che coltivava da tempo e che finalmente è riuscito a realizzare.

È quasi paradossale che un film che rende omaggio agli anni d’oro di Hollywood sia stato prodotto e distribuito da Netflix, la piattaforma streaming che in tanti indicano come responsabile della graduale morte della sala cinematografica. Fincher ha un rapporto privilegiato con il network per cui ha già realizzato serie come House of CardsMindhunterLove, Death & Robots, quindi c’è poco da stupirsi.

Lo stupore può invece venire per il risultato finale. Mank è un film a cui si fatica a trovare una vera anima. In una scena Louise B. Mayer – la seconda M di Metro, Goldwyn e Mayer  – dice ai fratelli Mankiewicz che la sua casa di produzione vuole colpire le emozioni, e aggiunge che le emozioni si trovano nel cervello, nel cuore e nei testicoli. Fincher non riesce a centrare nessuno dei tre bersagli. Il suo film non fa riflettere, non appassiona e non scalda.

Il tentativo di fare un’opera wellesiana su Orson Welles – eminenza grigia quasi sempre assente nel film – non funziona. Il confuso avanti e indietro temporale, poi, vorrebbe creare un continuum tra l’evoluzione del copione e il vissuto di Mank, ma si ingarbuglia.

Mank non riesce a creare un’epica del cinema né a costruire personaggi titanici. Sono tutti fermi a una dimensione bidimensionale, dal Welles di Tom Burke (praticamente un’imitazione) al William Randolph Hearst di Charles Dance.

Neanche Gary Oldman riesce a conferire grandezza drammatica al suo personaggio e finisce per accumulare una serie di cliché sull’alcolizzato geniale con tanto di momenti slapstick.

Tra un vago accenno a Moby Dick e un (prolisso) parallelismo con Don ChisciotteMank vorrebbe essere la rassegna di un’epoca, ma è solo un insieme mal assortito di suggestioni.

Rimane da evidenziare, però,l’eccellente livello di ricostruzione tecnica del film, girato come una pellicola d’epoca. Fincher si cala nei panni di un regista anni Trenta e confezione un’opera ineccepibile dal punto di vista stilistico, anche grazie al bianco e nero contrastato di Erik Messerchmidt.

(Mank, di David Fincher, 2020, biografico, 130’)

Copertina di Il rosso e il blu

Il rosso e il blu

Come hanno potuto sperimentare in molti, in cattività neppure il pensiero è libero: ritorna sempre sulle solite questioni.
Mi daranno da mangiare stasera? Avranno trovato la mezza razione di cibo che ho nascosto sotto la branda? Questo bicchiere contiene acqua pulita o salata? Dove avranno portato il tizio che si è ammalato? Dov’è mio fratello? Avrà visto i messaggi che gli ho lasciato? Quanti altri soldi mi chiederanno per farmi uscire? A chi posso chiederli, chi chiamare la prossima volta? Di chi è la scia di sangue sul pavimento? Cosa succede nella stanza da cui provengono tutte quelle risate? E perché le donne escono da lì dentro piangendo? Il bambino immobile in quell’angolo dorme? Chi mi può aiutare? Stanotte verranno da noi, con i secchi d’acqua e i cavi?
Lo stesso giorno in cui hanno sguinzagliato i gatti, incaricati di far cessare la proliferazione dei ratti nel settore tre, Benedict non ha avuto più dubbi.
Nell’attesa che i felini facessero il loro dovere, i detenuti del settore erano stati spostati di nuovo all’aperto. Alcuni un’altra volta nelle gabbie, altri in baracche vicine alle latrine delle donne.
È stata una pisciata appartata che ha portato Benedict dietro all’edificio, poco più in là di dove tenevano le donne e i bambini.
Una baracca e uno stendibiancheria improvvisato, costruito con fili tenuti in aria da aste di legno, si levavano dal fango prima di lasciare posto a un unico bassopiano desolato che spaziava fino a dei crinali lontani come l’orizzonte. Cosa ci fosse dietro a quelle creste montuose non era dato saperlo. Accanto alla baracca, appoggiata a terra, c’era una cesta di panni appena lavati e, da dietro, arrivavano grugniti soffocati e risa.
I brevi passi di Benedict non erano mossi dal coraggio, bensì dall’interesse per la cesta all’apparenza dimenticata. Anche un paio di mutande pulite sarebbe stato sufficiente.
È durato tutto una manciata di secondi. Benedict ha alzato lo sguardo e ha scorso, dietro la baracca, un gruppo di guardie che tenevano immobilizzato un uomo sul fango e lo costringevano a guardare davanti a sé. Dell’uomo si distinguevano solo le sclere bianche degli occhi, l’età o l’aspetto erano rese indecifrabili da tutta la poltiglia che aveva addosso. E comunque non gli sarebbe servito altro che il suo sguardo per seguire l’andirivieni di pantaloni abbassati e natiche pelose muoversi un po’ più in su di due talloni che emergevano dal fango e continuavano in cosce di donna.
Benedict è tornato subito sui suoi passi. Ha cercato di non far rumore e ha dovuto fare finta di niente quando si è ritrovato di fronte un gruppo di guardie in una marcia scomposta verso la baracca. Un burlone lo ha preso di mira con il fucile e ha simulato di sparargli. Benedict, di riflesso, ha fatto qualche passo di lato, insufficiente dall’evitargli che uno sputo gli si posasse sulla spalla. Dietro di lui si sono alzate risa dal rumore beffardo che poco dopo si sarebbero confuse ai grugniti dietro la baracca.
In quel momento, Benedict ha capito. Ha capito che il grande edificio con la facciata semidistrutta non era altro che una rappresentazione fedele in scala uno a uno di come dovrebbe essere un edificio in una zona di guerra; che il cielo senza nuvole sopra la sua testa non era altro che un ologramma di un cielo in una continua giornata di sole; che la sbobba datagli da mangiare non era altro che una riproduzione sufficiente di quanto sarebbe bastato per nutrire un corpo umano; che l’aria che respirava non era altro che ossigeno derivato da un raffinato sistema di ventilazione; che quei buchi di culo pelosi impegnati in un avanti e indietro divertito non erano altro che una raffigurazione di come dovevano percepire l’amore in un umano; che sia l’edificio, sia il cortile esterno, sia le baracche, sia le gabbie, sia il fango, sia i camion con cui gente andava e veniva, non erano altro che imitazioni contenute in una gigantesca astronave.
Se fosse riuscito a salire sul tetto dell’edificio e avesse provato a toccare il cielo, gli si sarebbe rivelato davanti solo un gigantesco oblò trasparente, dal quale non avrebbe visto altro che lo spazio profondo e, forse, la Terra, lontana anni luce, ignara di tutto, che continuava a girare tranquilla.
Ecco perché, quando l’avevano rapito, la famiglia dell’uomo bianco non si era accorta di nulla: non per indifferenza, ma a causa dell’utilizzo di una tecnologia superiore per distorcere la realtà visibile. Ed ecco spiegate le ragioni per cui li sottoponevano a tutti quegli esperimenti che mettevano a dura prova l’integrità fisica e mentale: erano solo cavie da laboratorio, svisceravano le loro reazioni, studiavano il funzionamento di una diversa forma di vita, o di un nuovo congegno, come un liutaio può studiare il meccanismo di uno strumento a corde mai visto prima.
Ha capito che quegli uomini vestiti da guardie, in realtà, non erano altro che dei fottuti extraterrestri travestiti da umani.
Era stato rapito.

 

Questo passo è tratto da Il rosso e il blu, romanzo d’esordio di Luca Giommoni pubblicato da effequ.

Luca Giommoni (Cortona, 1985) è insegnante di italiano per stranieri. Ha lavorato sia in scuole private che in associazioni no profit. Negli ultimi anni ha svolto anche il ruolo di operatore in un centro di accoglienza straordinaria.
Suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste, tra cui Effe – Periodico di Altre Narratività, Pastrengo, L’Indiscreto e sul Corriere Fiorentino.

Il rosso e il blu: Makamba ha una missione: aggiustare il mondo attraverso l’acqua. Partito dal Mali con un quadernino di famiglia e poco più, attraversa i continenti per equilibrare i rubinetti di ogni paese. Dalla Cina alla Svezia, passando per la Libia, Makamba sbarca in Italia per ritrovarsi nel centro di accoglienza straordinaria Arcobaleno. Da lì riprende la sua ambiziosa e sconclusionata impresa, accompagnato dagli altri ospiti del centro, ognuno con la propria specifica idea di mondo, e dagli operatori, che combattono un sistema ostile a suon di cinismo e fialette puzzolenti. La loro storia si muove tra fantasia surreale e terribili esperienze, in una favola che racconta un presente meraviglioso e atroce, in cui il lieto fine va cercato a tutti i costi e, se non lo si trova, va inventato.

Leggi le altre Estrazioni.


Sfera Ebbasta, l’innocuo

Il documentario Amazon su Sfera Ebbasta rende bene la cifra di cosa sia diventato il trapper italiano più influente di tutti. Nello stesso periodo Bezos ha fatto uscire quello su Tiziano Ferro, uno con un certo pedigree. Famoso è il suo ultimo lavoro, poco ispirato e senza nulla di interessante. Un passo decisamente indietro rispetto all’ultimo Rockstar.

È sicuro che esista una questione legata a un pregiudizio su di lui e la trap. Un mondo che non viene raccontato come merita. Qualcosa che ha le sfumature del gap generazionale. C’è un problema di comunicazione. Lo sappiamo. Diamo per certo che sia una condizione assodata. Parliamo solo di Famoso e ammettiamo senza troppe questioni che sia un lavoro mediocre, un miscuglio di luoghi comuni, stracolmo di retorica, di un machismo facilone e un immaginario che sa di posticcio. Una simulazione di vita. Non racconta nulla che un algoritmo dozzinale non possa raccontare.

L’immaginario di Famoso è confuso. Non è semplice capire a chi possa riferirsi, o chi possa entrare in empatia con questo lavoro. Anche quando sembra che Sfera possa darsi all’ascoltatore, non risulta mai onesto. Lo fa perché rientra in una prassi dalle fattezze della catena di produzione industriale. Sfera parla a Sfera di Sfera e la questione si risolve sempre in questo triangolo. Questo è quello che emerge. Eccolo lì mentre tenta di bilanciare, e bilanciarsi, e spingersi verso l’altro spruzzando dosi amore materno immutabile con frasi da tatuaggio sulla schiena da esibire in spiaggia.

In tutto questo, Famoso è pieno di un vittimismo passivo aggressivo che stucca, un dissing con tutti. Fa parte del gioco, ma qui straborda nel no sense. Gli altri sono cattivi e invidiosi. Sono cattivi e invidiosi perché io ce l’ho fatta e loro vorrebbero essere come me. Guardate come sono bravo. Un perseguitato.  Davvero dobbiamo assistere a tutto questo?

Abbiamo di fronte un’operazione piena di ospiti internazionali ed è un tipo di prodotto che non si vede mai da queste parti. Sfera Ebbasta è una macchina da soldi. Soldi, Soldi, Soldi. Non esce altro che profitto da Famoso. Nient’altro. “Hollywood“, ad esempio, niente più che un adolescente tendenzialmente naif che non sa come passare le ore della sua giornata e che ha trovato la formula magica per ricavarci i soldi.

Il flow urban fa da base a un lunghissimo tema scolastico di un viveur di plastica. C’è un’incursione alla Tommaso Paradiso per andare ad allungare i tentacoli su tutto il possibile, “Giovani Re“. Non fa neanche effetto, a pensarci. Retromania. C’è Gué, poi, che partecipa insieme a Marracash a “Tik Tok“, dove il punto più alto è la rima con Big Cock. “Bottiglie Privè” è il pezzo più furbo, il brano dove accendere gli accendini o i cellulari e che sembra scritto da Gazzelle dopo aver ascoltato l’intera discografia degli Zero Assoluto, mentre “Salam Aleikum” è il tentativo stereotipato di fare Mahmood,  e non solo a proposito di soldi.

Il resto è un insieme di insensatezze che si regge su qualcosa che somiglia fortemente al vuoto.

Javier Marías, la sottile arte della prosa

Brevi (alcuni brevissimi) ma intensi, concentrati e preziosi esercizi di spirito e ingegno nella sottile arte della prosa, ecco la definizione più appropriata per descrivere i racconti di Javier Marías, riuniti adesso integralmente in un unico volume sotto il titolo di Tutti i racconti (Einaudi, 2020).

La raccolta, suddivisa dallo stesso Marías con sornione e ironico autocompiacimento in “Racconti accettati” e “Racconti accettabili”, è una vera e propria summa della produzione breve dello scrittore spagnolo perché comprende, oltre ai testi già contenuti in Mentre le donne dormono (1990) e Quand’ero mortale (1996), il racconto lungo e autonomo intitolato Malanimo (1998) e alcuni brani inediti, scritti negli anni giovanili.

Le short stories di Marías, sostenute da una prosa ritmica, voluminosa e volteggiante, racchiudono in germe, rivelandone alcuni tratti in fugaci bagliori di significanza, le grandi tematiche intorno a cui da sempre gravitano le sue opere – lealtà e tradimento, dissimulazione e dilemma, manipolazione politica, potere come coercizione, amore vero e immaginato, ossessioni e manie dell’uomo – e presentano personaggi spesso in balia dell’implacabile meccanismo narrativo che li trascende e li sovrasta (a volte anche con troppo diletto, disvelando in lontananza il ghigno beffardo dello stesso autore). E infatti la prima impressione che si forma, una volta terminato di leggere il libro, è che, si tratti pure di finti gialli, intrecci sentimentali o polizieschi, ritratti a tinte gotiche, Marías si sia molto divertito a comporre questi racconti e il sentimento di diffusa allegria traspare in controluce, sinuoso riflesso di una scrittura al contempo piacevole e letale, che non concede spazio a nessun minimalismo o rigida e banale linearità (al bando pure l’abusata “teoria dell’Iceberg”), irradiando con notevole candore il tessuto narrativo di ciascuna tessera del puzzle. Il narratore-tipo dello scrittore spagnolo, che non rinuncia mai a riutilizzare l’esteso armamentario tecnico permeato dalla letteratura classica, è nei racconti, così come nella maggior parte dei romanzi, un narratore discreto, appartato, a volte spettrale e fantasmagorico, che sembra costretto a raccontare per cause fortuite, non dipendenti dalla sua volontà. Spettatrice involontaria di scene ambigue e compromettenti, presente suo malgrado nel posto sbagliato al momento sbagliato, la persona che parla (e forse scrive), senza mai calzare perfettamente i panni di un corpo preciso e ben definito, è perciò distaccata, razionale, poco empatica. È infatti lì dove s’interpone il freddo del non-coinvolgimento diretto che la letteratura di Marías germina oltre i propri limiti e le sue capacità stilistiche fanno bella mostra di sé.

Assecondando un andamento lucido e pacato, Marías sembra apparentemente disinteressato allo scioglimento degli enigmi finali, come se fosse consapevole dell’impossibilità di risolvere il caos e avesse rinunciato a voler mettere ordine alla densa e buia nebulosa di presentimenti, presagi e previsioni che si accalca all’orizzonte. Nei suoi racconti l’irrazionale fa capolino senza enfasi o eccessi di fantasia, si tramuta in atmosfera aleggiante, normalizzato dalla penna accorta e dosata dell’autore, quanto mai interessato a esplorare, senza però artificiose forzature di pathos, i limiti instabili e incerti che dividono la normalità dall’anormalità, il noto dall’ignoto, l’abitudine dalla stranezza, la commedia dalla tragedia. Nonostante le scoperte identitarie ambigue e sorprendenti, che riecheggiano motivi pirandelliani, gli sconvolgimenti salvifici e inaspettati che gettano nuova luce sulla natura fallace dei ricordi, le rivelazioni infauste che definiscono la malvagità del potere e di chi lo esercita, la prosa estrosa e elegante di Marías, il cui registro allusivo non diviene mai né oracolare né criptico, rimane baricentro saldo delle vicende, per quanto assurde e fuori dal comune esse possano apparire.

In tempi di scrittura urlata, spezzata, ibridata, falsamente contemporanea, i racconti di Marías possiedono allora già il fascino discreto (e rivivificato) proprio della tradizione, della cui eredità, novecentesca e ottocentesca, lo scrittore spagnolo si fa contemporaneamente interprete e testimone.

 

L’insostituibile bellezza dell’arbitrio letterario

 

Raffinatissimo tessitore di trame, siano esse al centro di un romanzo o di una novella, Marías difende, ormai da più di quarant’anni a questa parte, una concezione barocca della letteratura, che si concretizza nella costruzione maniacale e meticolosa delle strutture architettoniche alla base dei suoi impianti narrativi, delle traiettorie geometriche – ellissi, spirali, curve – in cui si incanalano e si aggrovigliano le sue storie e i suoi personaggi.

In virtù di un manierismo compositivo perfettamente naturale, perché interiorizzato e maturo sin dalle prime prove – I territori del lupo (1971), Traversare l’orizzonte (1972) –, l’autore spagnolo è andato via via elaborando, nei suoi romanzi così come nei suoi racconti, intrecci e sviluppi sofisticati e complessi, che però non si esauriscono nella descrizione di realtà fatte e finite, dominate da verità e certezze incontrovertibili, preferendo invece indugiare nei coni d’ombra delle relazioni, dei sentimenti umani, delle vicende storiche, negli spazi interstiziali in cui si susseguono senza sosta congetture, ipotesi, ambiguità, false apparenze e false risposte.

La vocazione di Marías per l’analisi approfondita delle motivazioni oscure e indecifrabili che si celano dietro le azioni e i pensieri dei suoi personaggi finzionali favorisce perciò uno stile digressivo, cerebrale, in cui divagazioni argute e brillanti disquisizioni, a metà tra la filosofia e la psicanalisi, arricchiscono rapsodicamente il flusso del narrato, non disfacendo la materia, ma anzi puntellandola di interrogativi esistenziali – il destino e le sue manifestazioni, il significato del ritorno, il senso della fedeltà, la ferocia del potere, la doppiezza costitutiva dell’animo – che riaffiorano ciclicamente nel corpus letterario dello scrittore, come quesiti irrisolti e forse irrisolvibili a cui però solo la letteratura sembra poter ancora provare a rispondere.

Anglofilo impenitente (ha tradotto, tra gli altri, Faulkner, Hardy, Conrad, James, Shakespeare), Marías procede per effetto cumulativo, armato di un fraseggio a volte tortuoso e serpeggiante, ridisegnando e riposizionando continuamente nelle sue opere il confine sottile e poroso che separa la realtà dall’illusione, ciò che è da ciò che pare, soffermandosi a più riprese sugli snodi decisivi e aporetici in cui l’identità sfuma e si rivela mera apparenza, convenzione forzosa o parodia, sulle svolte in cui si decide il futuro di una persona o si rinnega il proprio passato. Come diventiamo ciò che siamo?

Intenzionato a decostruire con zelo e umorismo le sovrastrutture che ingabbiano e regolano le dinamiche sociali, il romanziere spagnolo presta la sua voce, all’interno di un altalenante contrappunto tra autore, narratore e caratteri, a personaggi spesso cinici, moralmente vacui, privi di ogni remora etica o religiosa, fautori di un individualismo supremo che ingloba in sé l’essere (vero e presunto) e le maschere che gli vengono imposte o si autoimpone, al fine di indagare il valore artificiale o viscerale, oggettivo o soggettivo, del desiderio, del rispetto, dell’amore, prestando al contempo un’attenzione ossessiva alla sensualità dell’artefatto artistico, all’arbitrarietà eccezionale della decisione narrativa, alla messa in atto del marchingegno testuale, perché non si può mai prescindere da un perimetro formale e estetico compiutamente dato e risolto.

I romanzi di Marías – dai capolavori Un cuore così bianco (1992) e Domani nella battaglia pensa a me (1994) agli ultimi lavori Così ha inizio il male (2015) e Berta Isla (2018) – valgono allora e si sostanziano in quanto articolate cattedrali narrative per le scelte che sapientemente l’autore compie, mettendole in fila una dopo l’altra, di sezione in sezione, sino a delineare il tracciato vasto e composito, talvolta eccessivo, del narrato, il disegno conclusivo e globale.

Le sue pagine lasciano intravedere in filigrana l’attenzione registica per il dettaglio e al contempo per l’impianto omnicomprensivo dell’opera. Ne consegue una dialettica del tutto peculiare e personale con le istanze narrative – alter-eghi (uni e trini) abili a tenere saldamente in mano i fili dell’intreccio –, che si dipana e concretizza nella somiglianza velata tra autore e narratore, mai però coincidenti (neanche in Nera schiena del tempo (2000), il libro più apertamente autobiografico) a causa di una sfasatura identitaria irrisolvibile, e nella strutturazione di quello che lo stesso Marías ha definito “un altro-oltre-a-me”, falso doppio che ricopre funzioni di vicariato romanzesco con autorevole dimestichezza in un valzer reiterato e festoso di accostamento e repulsione.

Accade però talvolta che, come saturo delle sue stesse certezze autoriali, il narratore-tipo dello scrittore madrileno sia posseduto dal gusto un po’ infantile e eccentrico, dal piacere fanciullesco e irrefrenabile di calarsi per un attimo nella vita degli “altri”, dei caratteri andati definendosi di capitolo in capitolo, di abitarli più di quanto a un narratore che si presenta superiore e tradizionalmente altero sarebbe lecito fare.

Contese da un autore rabdomantico, a volte un po’ voyeur a volte un po’ filosofo, innervate da una forte dose di relativismo conoscitivo e da una certa tendenza allo scetticismo cartesiano, le storie di Marías spesso non si concludono, non hanno un finale chiaro e sintetico, perché nessuna storia può concedersi il lusso di essere inequivocabile, non ritrattabile, definitiva. Esse sono sempre suscettibili di numerosi e variegati mutamenti, di un disvelamento potenziale e improvviso che spariglia le carte. Esistono troppe prospettive, angolature, punti di vista inesplorati che potrebbero tornare a illuminare una sfumatura, anche minima, ma capace di scompaginare la trama e l’ordito, di sovvertire i risultati e le intenzioni. Ogni luce nasconde più ombre e ogni storia ne produce in nuce infinite altre, che il narratore magari intuisce, ausculta in maniera estemporanea, ma non può, o non vuole, raccontare. È il dovere della letteratura, in fondo, sceglierne alcune, non sceglierne altre.

 

 

(Javier Marías, Tutti i racconti, Einaudi, 2020, pp. 424, € 21.00 | Articolo di Niccolò Amelii)
Copertina di Racconti a orologeria

Prima di oggi

Per convenzione, o talvolta per gioco, riusciamo a dividere ogni esperienza tra un “prima” e un “dopo”. Non solo la Storia, ma le nostre stesse vite si scandiscono in una serie di momenti che, per approssimazione, possiamo definire come veri e propri tempi diversi – perché diversi eravamo noi, o perché diverso era il mondo, oppure, come quasi sempre, un po’ le due cose insieme.

Nella vita di Faruk Šehić , poeta e giornalista bosniaco classe 1970, e ovviamente non solo nella sua, questa demarcazione è perfino attestata: c’è stato un giorno, nel 1992, in cui fu costretto ad accettare un’identità nuova, a scapito di una che, in contemporanea, andava pian piano disgregandosi. La Jugoslavia cesserà di esistere solo nel 2003, ma fu appunto nel ’92 che la Bosnia – dopo Croazia e Slovenia – si dichiarò indipendente. Šehić, all’epoca poco più che ventenne, studiava veterinaria quando realizzò che «la Jugoslavia non esisteva più, che dovevo difendermi dagli attacchi dei serbi». Di lì a poco si sarebbe arruolato nell’Esercito bosniaco, al servizio di cui avrebbe combattuto per quattro anni, e la sua vita, come quella di tanti, non sarebbe più stata la stessa.

Questo processo storico, oltre ad aver ispirato Šehić («vedo le cose meglio degli altri e vedo cose che prima non vedevo»), deve aver ridefinito, in lui e in molti altri, il concetto stesso di identità. L’identità personale, proprio come quella sociale e politica, è in fondo qualcosa di accidentale – ed è soprattutto, al pari di ogni cosa, in balìa del tempo. Ed è infatti non l’identità – come avremmo invece potuto aspettarci – ma il tempo a finire al centro dell’indagine di Šehić. Il tempo come elemento, il tempo come dimensione, il tempo come mezzo e strumento.

A proposito dell’esperienza diretta sul campo di battaglia, Šehić ha dichiarato in un’intervista che «il tempo non esisteva». Pare, allora, in virtù di questa mancanza, averne fatto un’ossessione letteraria, volta, se non al recupero impossibile, all’opposizione di quel pensiero: al di là della guerra, oltre la morte procurata o assistita, esiste la vita, che si consuma nel tempo – e quindi sì, il tempo, almeno qui, esiste. E, poiché esiste, ne abbiamo paura – come tutte le cose che esistono e che non possiamo controllare, come la morte e come la guerra, l’una l’espressione peggiore dell’altra.

Nella constatazione della sua esistenza, nel terrore di quello che ci sfugge, lo misuriamo tra i ricordi e sulle lancette degli orologi (praticamente onnipresenti, come un ammonimento costante, tra le pagine di questi racconti).

Al di là di questa vita, poi, esiste forse un tempo che non ha le regole di quello che conosciamo, un tempo eterno che non possiamo figurare, in cui non esistono i concetti di “presto” e “tardi” – un tempo, se questo è il nome che vogliamo conservare, in cui tutto è fisso o tutto muta, in cui forse anche la nostra coscienza si sfuma.

Questo tempo è ciò che intuiamo nei sogni, o che restituiamo, col filtraggio della nostra esperienza, attraverso l’opera d’arte compiuta. È questo un tempo – un terzo, dunque, dopo quello terreno e quello ultra-terreno – in cui creazione e memoria si fondono, in cui l’esperienza personale si “collettivizza”. È in fondo il tempo delle storie di Racconti a orologeria (Mimesis), talvolta quasi al confine fra testimonianza e distopia, realismo e fantascienza. E se in questo mondo il tempo è un elemento che si può solo tentare di esprimere, senza riuscire ad afferrarlo mai, resta la concretezza degli altri elementi del mondo, e su tutti quella del corpo degli uomini. È l’evidenza del corpo che scatena il desiderio – e il desiderio distrae il tempo, così come il suo appagamento lo dilata, e nell’orgasmo «per un istante ci eclissiamo dentro un secondo infinito, il tempo si incurva come la luce in un buco nero». È una rassicurazione transitoria. La consolazione maggiore all’amore che manca – quando l’amore manca.

Sopravvissuto alla guerra, Šehić ha riportato i traumi, più o meno evidenti, di tutti i veterani. «Quella energia la metto in quello che scrivo», ha raccontato. E ha capito che la felicità si trova fuori dalla Storia («Se non ne fai parte, sei felice») – e che, come il tempo, anche se si può descrivere solo approssimativamente, esiste.

 

(Racconti a orologeria, F. Šehić, trad. di Elvira Mujcic, Mimesis Edizioni, 2020, € 12, pp. 124, articolo di Giuseppe Del Core)
Copertina di La Salamandra di Sorrentino

Srebrenica privata

È passato un quarto di secolo da quei giorni di luglio in cui i soldati di Ratko Mladić presero Srebrenica, separarono donne e uomini, e massacrarono migliaia di bosniaci che si credevano al sicuro sotto la protezione delle Nazioni Unite. Fu il primo genocidio dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le vittime, ben 8372, sono ricordate nel memoriale di Potočari. Le notizie filtravano confuse, allora, e per mesi, malgrado la denuncia dei familiari delle persone scomparse, la comunità internazionale esitava a prenderne atto. Da un pezzo ormai sappiamo come sono andate le cose, chi erano le vittime e chi i carnefici, ma l’elaborazione del crimine e della tragedia è tuttora in corso.

La Salamandra (Ensemble, 2020) il romanzo di Carmine Sorrentino, regista, attore e scrittore di origine napoletana, è un contributo ingegnoso per fare i conti con la Storia: la protagonista è figlia di una cubana e di un militare serbo, discendente da una stirpe di cultrici della Santeria cubana, e sofferente di una rara malattia della pelle che in qualche modo è collegata alle sue capacità percettive. È lei, Marisol Stračeviċ, la Salamandra, il ponte fra coloro che diventeranno vittime e carnefici, testimone prima titubante, stupefatta, poi preoccupata, infine proattiva per contrastare il clima d’odio etnico.

L’opera di Sorrentino, che al di là dell’impianto narrativo è anche un preciso ma non pedissequo resoconto dei fatti storici, si avvicina piano alla strage di Srebrenica ma non entra mai nel vivo. Le gira intorno, la circoscrive, ma lascia all’immaginazione del lettore i particolari della mattanza. Preferisce accendere i riflettori su una tragica storia individuale che parte molti anni prima da Cuba, dove nasce l’unione dei genitori di Marisol. La madre è una ragazza senza futuro, una dei tanti giovani cubani condannati alla miseria, lui è un addetto militare serbo di mezz’età che per lei rappresenta un grande salto di qualità. Lui la sceglie, lei lo trova conveniente e accettabile, e rinuncia alla sua isola fatta di mare e di sole per Srebrenica nel montuoso entroterra jugoslavo.

Nasce Marisol, una curiosa combinazione di realtà balcanica, di fantasia, e di percezione extrasensoriale caraibica. «Marisol Starčeviċ si era sentita protetta nel suo Paese. Ne amava ogni pietra e soprattutto l’area montuosa che lo circondava come una corona. Le piaceva l’operosità della gente, la saggezza degli anziani, la gentilezza rude degli uomini e la goffa civetteria delle donne che si struggevano dietro le melodie languide dei canti popolari. Ciò che però la emozionava sopra ogni altra cosa era assistere alla tradizionale danza kolo, un ballo di gruppo di grande energia».

Sorrentino crea una serie di intrecci poetici, intessuti di magia e allo stesso tempo realistici, che vedono la famiglia di Marisol legata con più fili alla famiglia bosniaca dirimpettaia. La politica, la disgregazione e i conflitti etnici iniziano ad avere il sopravvento sulle storie individuali fino a travolgerle completamente. Il lettore segue passo passo la radicalizzazione delle posizioni, è testimone di come uomini comuni non dediti all’odio nei confronti dell’altro possano diventarlo apparentemente senza ragione. Come la bellicosità, la violenza prima verbale poi fisica si possono trasformare nel fine ultimo dell’esistenza umana.

Ci sono due capitoli che sembrano vivere vite autonome nel romanzo e toccano le corde anche del lettore non incline al sentimentalismo: il rapporto fra madre e figlia che da un certo momento in poi diventa epistolare, e la storia d’amore di Marisol. Ingentiliscono e rendono molto umana la trama altrimenti dura e senza speranza. Nell’economia del romanzo risulta invece forse sbilanciato lo spazio narrativo dedicato alla magia, alla Santeria, seppure il tema è affascinante e trascinante.

Nell’insieme La Salamandra è un’opera letteraria di indubbio valore: lo stile, la scrittura, veicolano senza inciampi la trama, riflettono bene l’atmosfera, il clima di quei tempi e di quei luoghi. Il prodotto finale è una lettura interessante, una storia non facilmente dimenticabile. Un apporto alla conoscenza di una storia tragica, presentata con argomenti e mezzi insoliti, e in una forma qualitativamente alta. Di solito non se ne fa menzione, invece si dovrebbe: i libri sono opere collettive, la bravura dell’autore non è sufficiente, ci vuole un buon lavoro redazionale, e La Salamandra è il buon risultato anche di chi in redazione l’ha revisionato.

 

(Carmine Sorrentino, La Salamandra, Ensemble, 2020, 250 pp., euro 16, articolo di Andrea Rényi)

 

Che fine hanno fatto gli hillbilly?

Il nuovo film di Ron Howard (uscito solo nelle sale cinematografiche statunitensi, e distribuito globalmente sulla piattaforma Netflix), delude la critica. Elegia americana non riesce a essere originale: nonostante un uso molto scorrevole del flashback, la trama procede senza troppi colpi di scena. Fin dalle prime battute, la storia non aggiunge nulla a quanto già fatto in altri prodotti, soprattutto televisivi: il sogno americano può essere a portata di tutti. Eppure, il libro da cui Ron Howard ha preso ispirazione (James David Vance, Elegia americana, pubblicato in Italia da Garzanti) non è passato inosservato negli USA, raggiungendo la vetta dei best seller per ben due anni consecutivi (2016-2017). 

Scritta quando aveva trent’anni, e stampata inizialmente con una tiratura limitata, la confessione autobiografica di Vance ha suscitato scalpore e interesse per via di quegli hillbilly (relitti bianchi del Midwest, tra cui i nonni dell’autore), che nella trama del film sono per lo più assenti. Tranne una scena in cui il protagonista esplicita chiaramente le sue origini, Elegia americana mette al centro un trio di personaggi che non lascia spazio ad altro: una nonna, una madre e un figlio.

Anche il titolo italiano dato al film (che traduce “hillbilly” con il più generico “americana”) sottolinea questo scostamento della pellicola rispetto al libro: non si tratta più di una confessione coinvolgente intorno alla vita e ai drammi umani dei monti Appalachi (dove Vance è nato e cresciuto), ma di una retorica esibizione del sogno americano.

In Elegia americana manca totalmente quella sfumatura di discriminazione che ancora oggi subiscono gli abitanti di questa zona (nel nord-est degli Stati Uniti), visti da molti connazionali come ignoranti e poco raffinati, soprannominati “hillbilly”, “redneck”, “white trash”. Le montagne compaiono solo nei primi minuti, relegate a fare da introduzione estiva a una storia personale che dimentica il contesto: un proletariato diventato “spazzatura bianca”. Si tratta di film diversi, ma manca completamente la potenza di titoli come Un sogno chiamato Florida, o Louisiana – The Other Side.

Anche la tematica della tossicodipendenza (con numeri in costante aumento tra i bianchi americani che vivono ai margini), sembra quasi un ostacolo facilmente superabile. Laddove avrebbe dovuto avere maggior spazio la caratterizzazione dei bianchi hillbilly, ciò che predomina invece nel film è il sentimento di riscatto del protagonista, che lotta inconsciamente contro una madre troppo instabile. 

Sicuramente le due attrici protagoniste tirano su la pellicola (Amy Adams e Glenn Close), nascondendo totalmente la mano di un Ron Howard troppo debole, che punta sul sicuro, senza rischiare con le sfumature di una storia vera, che avrebbero potuto suscitare critiche dal mondo politico. Anche se nel libro non compaiono né Trump né i democratici, è indubbia l’allusione a una campagna elettorale (quella del 2016, anno di uscita del romanzo) che ha portato molti voti hillbilly nelle tasche dei repubblicani, contro una Hillary Clinton vista come una donna troppo snob e troppo liberal.

Elegia americana è allora un buon film televisivo, ma nulla di più. Avrebbe potuto diventare un ottimo prodotto di denuncia sociale, contro un’America ancora troppo divisa e diseguale, dove anche gli stessi bianchi vengono discriminati come spazzatura.

(Elegia americana, di Ron Howard, 2020, drammatico, 117’)

 

Copertina di Mad in Italy di Ferraresi

In trash we trust

La parola “trash” è vaga, si potrebbe dire, come le stelle dell’Orsa. «Ci sono» diceva il grande Tommaso Labranca, autore di Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (Castelvecchi, 1994) «le giornaliste chic che considerano trash (o peggio kitsch) tutto quanto non serve a nobilitarle o tutto quanto abbia un vago riscontro popolare. Per cui Sanremo è trash e il festival della pizzica no […], i ragazzetti poco più che ventenni che fanno rimare trash con tutto quanto esistente prima della loro venuta al mondo. Penso a certi piccoli dj che inseriscono nelle loro serate il momento trash e suonano Califano. O certi cretinetti che esibiscono con orgoglio le magliette con Oronzo Canà, Fantozzi e Abatantuono. Poi c’è un comparto tipico dell’universo gay giovanile secondo cui è trash tutto quanto gli americani (e anche Arbasino) chiamerebbero camp: vecchie cantanti, elementi di moda eccessiva del passato, atteggiamenti sopra le righe. Ma nulla di tutto ciò è trash».

Ci ha pensato Gabriele Ferraresi, proprio il giornalista a cui Labranca aveva rilasciato questa dichiarazione in un’intervista nel 2006, a sistematizzare e aggiornare l’equazione secondo la quale il trash non è nient’altro che una forma di emulazione fallita: quando l’intenzione, insomma, non riesce a raggiungere il risultato, come nel caso del presentatore di una tv locale che vorrebbe imitare Pippo Baudo ma invece di Madonna può invitare al massimo Mario Tessuto, o come il Tg4 di Emilio Fede che vorrebbe imitare la CNN ma ha fra i suoi collaboratori Paolo Brosio.

Nasce così Mad in Italy. Manuale del trash italiano dal 1980 al 2020, uscito nel maggio 2020 per il Saggiatore. Si tratta di un’arma impropria in mano a chiunque sia attratto morbosamente da programmi come Blob e Stracult, ma anche per chi non abbia mai dimenticato i video di Laura Scimone e l’Uomo Gatto a Sarabanda, Tullio Solenghi e Gene Gnocchi in versione Striscia la berisha e il costumino di Sabrina Salerno in Boys Boys Boys, gli scazzi al Processo di Biscardi e il malore di Andreotti in diretta nel programma di Paola Perego. Un’antologia da divorare rigorosamente con YouTube sottomano, continuamente sospesi fra il ricordo divertito e il «ma davvero?».

Come qualcuno ha già ricordato, l’altro modello a cui si ispira Ferraresi è infatti Patria di Enrico Deaglio (pubblicato appunto dal Saggiatore), che in questo tipo di ricognizione capace di unire elementi della cultura popolare alla storia politica e sociale d’Italia ha fatto scuola.

Gli ingredienti sono di prima qualità e il piatto, infatti, non delude. Per ciascun anno dal 1980 al 2019 – il 2020 è ancora troppo “fresco” ma anche un anno spartiacque, di cui in piena emergenza pandemica si fa fatica a sorridere – l’autore fornisce un piccolo preambolo di inquadramento storico e un focus su alcuni principali episodi.

Ad esempio, per il 1984 abbiamo: Mike Bongiorno e la bigamia di Daniela Zuccoli, La Piovra, il pretore e le reti di Berlusconi, l’arresto di Vasco Rossi e il matrimonio tra Jerry Calà e Mara Venier. Oppure 2014: Emily Ratajkowski ed #Escile, The Lady di Lory del Santo, Paolo Ruffini e Sophia Loren ai David di Donatello.

Un manuale, dunque, che non può mancare sugli scaffali dei cultori della materia, ma molto utile anche per chi si fosse perso qualcosa, o per chi, novello adepto o forse solo anagraficamente più giovane, volesse accostarsi con zelo alla scoperta di splendori e miserie dell’Italietta nello specchio della sua rappresentazione.

Unica pecca, la mancanza di un indice finale che renda più facile rintracciare nel testo la miriade di personaggi citati, rendendolo uno strumento di consultazione ancor più definitivo.

Mad in Italy è un viaggio irresistibile, una sorta di amarcord festoso ma anche amaro (il gioco di parole è trash?): la televisione – o meglio, un certo tipo di televisione – ci ha resi peggiori o ha soltanto ritratto un inevitabile, inarrestabile decadimento?

Forse il nostro è sempre stato «un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte» – ovviamente non manca il capitolo dedicato a Boris, metaserie che ha fotografato in modo geniale il lavoro nell’industria culturale italiana e che dalla sua uscita nel 2007 è diventata, giustamente, di culto (diffidate da chi non l’ha visto come da quelli che sostengono di non aver mai guardato la tv!).

Forse prima tendevamo ad accorgercene meno, o non eravamo arrivati alla postironia, ai meme, a un orizzonte condiviso e comune che spopola sui social network, in pagine amene e gruppi come Sapore di male o Socialisti gaudenti.

Siamo nani sulle spalle di altri nani (quelli di Herzog), e sulle spalle delle reti commerciali, su tutte quelle Fininvest, che hanno accelerato, a partire dagli anni Ottanta, un processo già annunciato come inevitabile.

Nel 1963 Pier Paolo Pasolini, in un’intervista ad Arbasino, discutendo della tv (e dunque della Rai che – come ci ricorda Ferraresi nella prefazione – intervistava Fritz Lang e Le Corbusier, non esattamente Er Brasiliano e Pamela Prati) parlava già di tv spazzatura e dell’Italia come «un tugurio in cui i proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione».

E Corrado Mantoni, indimenticabile conduttore della Corrida, nel 1997 risponde così a chi vuole sapere quale sia l’ingrediente segreto del successo inossidabile del suo varietà: «cambia continuamente ma in realtà non cambia mai». Una frase che riecheggia Tomasi di Lampedusa e Il gattopardo: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».

Eppure non c’è tristezza, non c’è amarezza in Mad in Italy, c’è invece una forma elettrizzante di «locura» (ancora una volta, citazione da Boris): da un lato Ferraresi, nel solco di Labranca, e noi con lui, scusa il trash perché espressione tutto sommato genuina e quindi positiva dell’italico spirto, dall’altra lo assolve con formula piena, data la non sussistenza dei fatti. L’Italia è una Repubblica fondata sul trash. Questi siamo noi, la Storia siamo noi, nessuno si senta offeso. E neanche escluso.

Perché nonostante qualcuno, come dicevamo, sostenga ancora, per snobismo, di non guardarla, è la televisione che, da sempre, guarda dentro di noi, soprattutto nei lati più oscuri. David Foster Wallace docet.

 

(Gabriele Ferraresi, Mad in Italy. Manuale del trash italiano dal 1980 al 2020, il Saggiatore, Milano, 2020, pp. 467, euro 20, articolo di Giulia Marziali)

 

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Gli Smashing Pumpkins e i synth

Paragonare Cyr al passato degli Smashing Pumpkins è un gioco a perdere. Non staremo qui a parlare di quanto fosse sbalorditivo  Mellon Collie o quanto  Siamese Dream sapesse puntarti diritto al cuore. Non ha senso. Neanche nell’anno in cui Billy Corgan rimette insieme i pezzi, aggiungendo Jeff Schroeder a James Iha e Jimmy Chamberlin.

Quindi proviamo a prendere  Cyr senza prendercela troppo con le scelte di Corgan, la sua egomania, i suoi progetti solisti. Prendiamo Cyr come quello che è: qualcosa di innocuo, un album che avrebbero potuto fare in tanti, ma che quantomeno non ci fa reagire ai suoi lavori come abbiamo fatto ultimamente, lasciando perdere l’ascolto per fare altro.

La trovata di base non è di certo originale: synth pop/rock con rimandi più o meno evidenti agli anni ’80. La retromania arriva come l’immagine di Corgan che se ne sta lì a raschiare nel fondo del barile della sua vocazione artistica.  Non sono i primi e non saranno gli ultimi a fare così. Lasciamogliela passare.

Qui non si vuole cercare di essere faziosamente clementi nei loro confronti, e in particolare con Corgan. Ma gli anni 2000 degli Smashing Pumpkins sono stati davvero troppo brutti per essere veri. Ma purtroppo sono sono stati reali e  Zeitgeist e Oceania lo testimoniano senza troppe questioni. E quindi per questo Cyr arriva in modo inaspettato, nonostante tutti i suoi difetti.

Cyr non è un capolavoro, non è un grande album, non è un ottimo album. Ma ha quantomeno un’idea e, se non un’idea, almeno le canzoni prese singolarmente sono state impacchettate per bene, pur somigliandosi tutte un po’ troppo tra di loro (tranne “Wyttch“, quasi stile Gish). C’è da dire, inoltre, che  Corgan non sembra rantolare come ci ha abituati ultimamente. E questo è una boccata d’aria, più o meno fresca. Appare centrato nell’universo dell’album e gli regala profondità.

C’è  però una questione legata alla lunghezza di Cyr, che  è anche uno dei leitmotiv che ha accompagna gli Smashing da sempre. Ma se negli anni ’90 veniva compensata con un’ispirazione artistica enorme, nel momento in cui questa è scemata sono usciti fuori tutti i loro limiti.

Il tempo per Billy Corgan e la sua relazione con la musica, quindi. In mezzo a questi due fuochi, a guardare bene, non è mai riuscito a districarsi. La magniloquenza, l’esagerazione, la mole enciclopedica. Come a voler espandere il proprio ego in maniera esasperata attraverso i suoi dischi. Anche in Cyr emerge il più grande difetto di Corgan: l’incapacità di sfoltire il troppo. Che è anche la sua incapacità di calibrare il proprio ego.

Magari senza arrivare a Hemingway e al suo iceberg, ma nascondere per far vedere di più probabilmente avrebbe permesso a lui e ai suoi Smashing di raccontare e di raccontarci un’altra storia.