La musica del caso di Tagliapietra

Gioco e libertà

La musica del caso, volume di Andrea Tagliapietra che inaugura la collana Atlante delle idee da lui diretta per Mimesis, affronta una delle questioni più lungamente ignorate dalla tradizione filosofica occidentale: quale ruolo ricoprono il gioco, l’azzardo e, più in generale, l’esposizione al caso nella vita umana?

Gioco, azzardo e caso, come Tagliapietra mostra attraverso una disamina storico-filosofica che va dalla preistoria all’età moderna, sono idee strettamente legate tra loro. Nel gioco, a differenza di quanto accade nei nostri quotidiani «commerci col mondo», ricerchiamo attivamente l’esposizione al rischio e all’ignoto. Chi sceglierebbe infatti di giocare se sapesse in anticipo il risultato a cui va incontro? L’accettazione stessa delle procedure previste da ogni gioco è finalizzata a stimolare l’incontro col caso, incontro che tuttavia non esclude la creatività e la libera iniziativa. Ed è in questa coesistenza di autonomia e gusto dell’imprevedibile che l’autore rileva «la differenza fondamentale fra le infinite casualità della vita quotidiana, a cui siamo sottoposti e che capitano senza che noi possiamo farci nulla, e quell’evento del caso che avviene solo nel gioco a cui liberamente si è deciso di partecipare […]. Qui la libertà non è più l’ordinaria possibilità di scelta, pur sempre determinata, ma la vertigine, la gioia culminante del giocatore finalmente libero di tutto».

L’autentico giocatore non gioca infatti per vincere ma per giocare, per vivere cioè quell’istante sospeso, vertiginoso, assolutamente libero da ogni rimpianto, obbligo e preoccupazione, che precede il taglio del traguardo, il responso della fortuna, l’entrata del pallone in rete. Non vi è dunque antitesi tra caso e libertà, come vuole un antico pregiudizio alimentato dal pensiero filosofico e religioso. Da Aristotele a Hegel, la linea maestra della filosofia occidentale ha confinato il caso e l’accidentale dalla parte dell’ignoranza e dell’errore. Allo stesso modo, il pensiero religioso ha considerato il caso come uno dei peggiori nemici della libertà e della dignità dell’uomo. Per Tagliapietra, al contrario, proprio nel caso, «ossia in questo spazio di non sapere che resiste alla pretesa di spiegazione della ragione, sta una riserva attiva che impedisce lo scivolamento dell’agire umano nel determinismo delle spiegazioni e della macchina ben oliata della necessità. Se siamo liberi, forse, lo siamo per caso».

Se è vero che di fronte al caso siamo esposti e indifesi non meno che davanti a ciò che è inesorabile e non può essere altrimenti, tra la passività della necessità e quella del caso corre una differenza sostanziale: la prima non lascia spazio che alla semplice accettazione, la seconda, al contrario, «ci capita e non si configura come inevitabile. Di conseguenza essa stimola la nostra capacità di reazione». Lo rivela appunto il gioco, e in particolare il gioco d’azzardo, dove «pur presi dal caso cerchiamo comunque di volgerlo a nostro favore». Il giocatore d’azzardo, infatti, coltiva sempre, anche quando perde, l’illusione di sconfiggere la sorte, e in questo atto di libertà estrema sperimenta la concezione di caso più radicale tra quelle che Tagliapietra trova codificate nella tradizione occidentale: quella che intende il caso non come un mero aspetto del mondo (il caso come sorte che ci capita, come coincidenza fra due serie di avvenimenti indipendenti fra loro, come contingenza…), ma lo identifica con la totalità del mondo stesso; con quell’«azzardo originario» ben descritto in un frammento di Eraclito in cui l’eterno (aion) è detto, appunto, un fanciullo gioca ai dadi.

Proprio perché non esclude l’iniziativa del singolo ma addirittura la incoraggia, anche nelle circostanze più avverse, il gioco iscrive la realtà nel registro della libera casualità, spogliandola, seppur per brevi e irripetibili istanti, della sua indiscutibilità e, quindi, serietà. Per questo il gioco è stato a lungo considerato un argomento di scarso interesse filosofico: perché il caso spaventa, inquieta, destabilizza, vanifica la deduzione degli effetti dalle cause ponendosi così al di fuori del dominio della prevedibilità e, dunque, di ciò su cui possiamo fare affidamento. Da qui le due strategie che Tagliapietra individua al cuore di ogni sistema culturale: la «razionalizzazione a posteriori» del caso, per cui il caso viene retrospettivamente imputato all’ignoranza delle condizioni, e la sua «ritualizzazione a priori», ossia l’inserimento del caso in procedure istituzionalizzate che fungono in qualche modo da dispositivo rassicurante, riducendo l’angoscia nei confronti del nuovo. Di queste due strategie la filosofia – intesa come quella «super-spiegazione del tutto» che consente di interpretare il divenire dei fenomeni come mosso da una forza unitaria – non rappresenta che una specificazione, per quanto raffinata e complessa: lo prova la posizione marginale che storicamente è stata attribuita al pensiero del caso, variamente affiorato nei frammenti della sofistica, dalla poesia di Lucrezio, dalle pagine di Montaigne, Pascal, Hume e Nietzsche.

Lo sviluppo delle culture umane verso la complessità è definibile in termini di incremento delle procedure di calcolo e di razionalizzazione del caso, ma la cultura è, ricorda Tagliapietra riprendendo una definizione di Northrop Frye, «un organico complesso di ipotesi immaginative all’interno di una società e delle sue tradizioni», prima ancora che un sistema di riferimenti che predeterminano l’incontro dell’individuo con il suo ambiente. Così, nelle culture umane le strategie di addomesticamento e razionalizzazione del caso hanno sempre convissuto con un altro modo di fronteggiare l’ambiguità della reale, quello del simbolo. Nel simbolo il limite del non-senso del mondo è trattato non come un problema da risolvere con una risposta universale, valida per ognuno, ma come un «enigma» che mette ciascuno alla prova singolarmente. Alla conoscenza simbolica non si arriva infatti tramite deduzioni, analogie e inferenze, bensì con pratiche, manufatti, narrazioni che portano il singolo a immedesimarsi nell’altro da sé e ad ampliare così il suo orizzonte di azione e percezione, attraverso un coinvolgimento profondo che richiama la presenza e la costellazione motoria, dativa e sensoriale dell’esperienza.

Quella simbolica è, dunque, una conoscenza drammatica, che nasce dall’esperienza e culmina nell’esperienza, e rende possibile il dischiudersi di un’impensabile dimensione di senso. Nel simbolo, infatti, il senso non è affidato, come nella vecchia metafisica, «alla triade repressiva di necessità, utilità e serietà», ma si disvela, in forme di volta in volta uniche e singolari, nell’azione, nella reciprocità, nel riconoscimento della propria vulnerabilità e della propria esposizione agli eventi che, puntualizza Tagliapietra, si distinguono dai fatti proprio perché «capitano a “x”, e non sono a prescindere dal loro esser accaduti in una situazione, in un determinato contesto». Nella prospettiva del simbolo, quindi, il mondo è «una continua matrice di eventi ed evento esso stesso, divenire che si differenzia». Il simbolo, infatti, «a differenza del concetto, non cerca di anticipare il possibile esito letale dell’evento nel rassicurante schermo intellettuale e cognitivo che isola e neutralizza l’oggetto dalla variabilità della vita e ne fa mero spettacolo, ma piuttosto disegnando figure di azioni e reazioni possibili, cioè generando trame di vita».

Ed è proprio in questa unione indecidibile di partecipazione attiva, immedesimazione cosciente e temporanea nell’altro da sé e accoglimento delle circostanze nella loro irripetibile singolarità, che Tagliapietra rileva l’appartenenza del gioco al mo(n)do del simbolo, appartenenza che è approfondita nel libro attraverso un serrato confronto tra le forme più rilevanti di gioco e di sapere filosofico e scientifico, nonché sottolineando la prossimità della sfera ludica a dimensioni-limite del linguaggio e del sapere note fin dall’antichità, come il nonsenso, l’ossimoro e appunto l’enigma.

È sulla base di tale appartenenza che l’autore invita a ravvisare nell’intreccio di azzardo, gioco e caso non un semplice «rumore» di fondo rispetto alle questioni e ai temi rilevanti e degni di nota, ma, per citare il titolo del romanzo di Paul Auster che è stato scelto per raccogliere le ricerche contenute nel volume, una «musica», ossia «una forma liminare del senso». Perché se è vero che giocare significa fare finta che – immaginare e muoversi all’interno di mondi possibili tenendo ferma la consapevolezza del loro carattere finzionale – non per questo il gioco è privo di ricadute nel mondo “reale”. Nel gioco, argomenta infatti Tagliapietra, si tratta da un lato di possibilizzare la realtà, di rinunciare al primato del reale, alla sua imponenza, alla sua indiscutibilità; dall’altro di realizzare la possibilità, di togliere alla possibilità la sua vaghezza, per farne apparire l’ibridazione con la realtà. L’esistenza di questa dialettica è provata dal fatto che i rapporti tra sfera ludica e vita politica (nell’accezione più ampia del termine) si sono modificati nel corso del tempo; l’una ha influenzato l’altra e viceversa, come si evince dall’excursus storico affrontato nel volume.

Attraverso un percorso che intreccia filosofia, storia delle idee e cultura materiale, Tagliapietra comincia infatti col prendere in esame le radici rituali del gioco per arrivare, nell’ultimo saggio intitolato emblematicamente «Fra gioco e lavoro. L’ambiguità dello sport», a indagare la funzione che lo sport ricopre nella società contemporanea. L’excursus trova quindi una traduzione visiva nell’apparato iconografico curato da Alessandro Rossi, che raccoglie e mette in relazione alcune tra le più significative rappresentazioni artistiche del gioco dall’antichità sino al XX secolo.

Il volume si chiude con un saggio di Erminio Maglione nel quale i dati sul gioco d’azzardo in Italia vengono letti alla luce delle tesi dei principali teorici del gioco del secolo scorso (Huizinga, Fink e Callois), con l’obiettivo di arrivare a una comprensione del senso del gioco d’alea lontana dalle prese di posizione dal sapore moralistico che da tempo infiammano il dibattito pubblico.

Ravvisando nel gioco una vera e propria “palestra di vita”, proprio per la sua capacità di tenere insieme elementi contraddittori e di abituarci perciò a sopportare ciò che nella vita è spaesante e inaspettato, Maglione suggerisce un modello teorico utile a identificare il giocatore «virtuoso», e mettere così al riparo da derive patologiche una dimensione tanto connaturata al fare umano. Il giocatore «virtuoso» è il giocatore «responsabile», quello che rivendica il peso della propria autonomia senza affidarsi ciecamente al caso. Se infatti il gioco implica immedesimazione cosciente e temporanea in un ruolo, ed esercita il suo potere trasformativo in virtù della sua natura strutturalmente “anfibia”, tra realtà e finzione, controllo e abbandono, libera iniziativa e accoglimento del caso, nel cosiddetto “disturbo del gioco d’azzardo” (DGA) la capacità del giocatore di sopportare e modulare il non-senso degli accadimenti per convertirli a proprio vantaggio è ridotta al minimo. Il gioco diventa così una dimensione univoca e totalizzante, perdendo quella funzione «liminare» che lo ha reso – e al netto dei pregiudizi continua a renderlo – una delle modalità precipue con cui quegli esseri simbolici che siamo continuano a riscrivere i confini tra possibile e reale, dando vita al palcoscenico cangiante della storia.

 

(Andrea Tagliapietra, La musica del caso. Ricerche sull’azzardo e il senso del gioco, a cura di E. Maglione, Mimesis, 198 pp., euro 16,00. Articolo di Giordano Ghirelli)

 

Poster di Triangle of Sadness

A ognuno secondo i suoi bisogni

Quando un film suscita reazioni contrastanti significa che ha raggiunto l’obiettivo: non lasciare indifferenti. Triangle of Sadness, vincitore della Palma d’oro a Cannes, potrà apparire eccessivo e scontato, troppo lungo e banale. Lo stile dello svedese Ruben Östlund, però, non può tradire sé stesso. Dopo la vittoria di The Square sempre a Cannes, il regista veste bene i panni dell’artista sicuro del suo genere, che non ha paura di prendersela con i ricchi. Il film non è altro che una lunga invettiva contro i milionari figli del capitalismo, «venditori di merda» e «distributori di Rolex», incapaci di fare altro se non accumulare sempre più denaro.

Il riferimento al titolo, il cosiddetto “triangolo della tristezza”, può essere letto apparentemente come la ruga che compare tra le sopracciglia del giovane Carl, e che ne decreta l’allontanamento dalla moda per evidente vecchiaia. I piani sono però diversi, e si intrecciano l’uno con l’altro. Tranne Carl e la sua Yaya, influencer dal portfolio importante, tutti gli altri personaggi sono uomini e donne adulti, il cui triangolo sul volto si è ormai arreso al trascorrere degli anni. Quella che per la chirurgia estetica è la “v” che caratterizza la giovinezza ha lasciato il passo a una piramide di rughe e pelle cadente. Eppure il capitalismo non conosce età: quando la barca affonda, anche il denaro si perde nell’acqua del mare, mandando letteralmente in fumo le convenzioni sociali degli ultimi due secoli, che hanno marcato il solco tra poche decine di ricchissimi e milioni di poverissimi. Ma un triangolo sta anche al centro dell’ultima parte del film, quando sempre Carl diventa il prostituto di Abigail, la responsabile delle pulizie sullo yacht per milionari, che dopo il naufragio si autoproclama il capo di una tribù incapace di sopravvivere più di un giorno senza servitù. Yaya diventa, così, la terza incomoda di un triangolo amoroso fondato non sui sentimenti, ma sull’opportunismo istintivo di chi desidera voracemente un pacchetto di Pretzel Stick.

Il triangolo unisce, infine, i punti cardinali del film, rappresentati dai tre capitoli: i soldi, l’ostentazione della ricchezza, il potere. Insomma, una visione sul fallimento del capitalismo. Nel primo, intitolato “Carl e Yaya”, la questione fondamentale sta nel fastidio che può creare, a un uomo, guadagnare meno di una donna e dover comunque provvedere anche a lei. Un bancomat si trasforma nel capro espiatorio di una situazione imbarazzante, nella quale Carl ci tiene a sottolineare la mancanza di scrupolo mostrata da Yaya nei confronti del denaro. Per lui, che è stato appena rifiutato come modello per via dei quel “triangolo della tristezza” apparso sul volto, rappresenta quasi un atto di responsabilità avere uno sguardo oculato sulle proprie spese. Per Yaya, invece, il sovvertimento della piramide uomo-donna non è un inconveniente; anzi, definisce la normalità di un mondo che può essere diverso.

Il secondo capitolo, “Lo Yacht”, alza l’asticella del disagio collettivo accennato da Carl all’inizio del film. Si ritrova in una crociera per super ricchi, omaggio alla sua Yaya per le prestazioni da influencer, circondato da milionari che si vantano di aver fatto soldi con la vendita del letame o delle bombe a mano, le stesse che poi decreteranno la fine della vacanza di lusso. Questi uomini e donne sono teatranti senza coscienza, alle prese con una cena di gala che si trasforma in una commedia del vomito; e nonostante tutto continuano a bere Champagne. Dietro le quinte c’è la servitù imbarazzata e sbigottita, impossibilitata a dire “no” e incatenata alle mance di una massa di ricconi indifferenti. A fare da registi di un ironico naufragio si improvvisano il capitano, un americano marxista, e Dimitrij, un russo capitalista, rimpallandosi al microfono di bordo altissime citazioni politiche e filosofiche sul modo di concepire il mondo e le categorie socio-economiche.

L’ultima parte, dedicata a “L’isola”, non è altro che un ritorno al primitivo, con la pesca quale unica fonte di sostentamento, il fuoco che deve essere alimentato, le pitture rupestri che esorcizzano la paura di un asino che nitrisce di notte, il baratto del sesso per mangiare un cibo tipicamente capitalista. Su una spiaggia deserta dove il denaro non esiste, è l’inserviente Abigail a prendere le redini della situazione, imponendosi fin da subito come il capitano di naufraghi incapaci di sopravvivere. E così, il suprematismo su quei ricconi che fino a poco prima l’hanno usata diventa un’arma per vendicarsi, anche se i ricchi, pur dovendo sottostare a una donna senza arte né parte, non hanno alcun problema a seguire il capo di turno. Quasi un esperimento allegorico alle basi del socialismo: dopo una crociera nella quale il capitalismo la fa da padrone, sull’isola diventa vitale distribuire le risorse, attenuando così le disuguaglianze sociali. Un nero e un’orientale, un americano e un russo, un vecchio e una giovane, un capitalista e una disabile: nonostante la convivenza forzata, pochi giorni su un’isola quasi deserta non possono cancellare la vita precedente. L’oligarca non mostrerà alcun disagio a riappropriarsi dei gioielli di un cadavere; per Carl sarà naturale dipendere da una donna per avere un riparo notturno; Abigail non avrà remore a usare un sasso per difendere la posizione conquistata.

In Triangle of Sadness il capitalismo deve morire, come una nave che affonda con i soldi e le armi, ma il socialismo non sarebbe altro che un ritorno al passato. Ruben Östlund non offre una soluzione politica al suo pubblico: mettere in scena una satira amara sulla punta della piramide che sovrasta oggi il mondo economico può bastare.

(Triangle of Sadness, di Ruben Östlund, 2022, grottesco, 142’)

illustrazione Proust icona pop

Proust icona pop

L’avorio pallidissimo del viso interrotto dal nero corvino dei capelli, i baffi alla moda, gli occhi un po’ bovini dallo sguardo sognante, mite, assente, la mano spesso a sorreggere il mento in pose quiete dall’eleganza trattenuta, tra il pensoso e l’annoiato, l’immagine di Proust campeggia oggi in innumerevoli gadget del consumo di massa. Effigiata sulle tazze per la colazione – preferibilmente da destinarsi agli infusi di tè o di tiglio in cui inzuppare le madeleine – sopra francobolli e carta da lettere, reiterata in stampe serigrafiche alla Andy Warhol dai colori sgargianti, su cover di tablet e telefonini, in medaglioni o confezioni di fiammiferi, al pari di una rock star l’icona proustiana è consacrata serialmente su magliette, nonché celebrata in bambole da collezione dipinte e cucite a mano in edizione limitata.

L’enorme successo de La Recherche si è espanso al di fuori delle sue oltre tremila pagine, riverberandosi attraverso le rare fotografie o dipinti del suo autore, al contempo assurto a emblema culturale quanto a icona pop. L’apparente ossimoro sembra segnare la piena rivincita di quel sentimento del sé tipico dello Zeitgeist odierno, caratterizzato com’è da frustrazione e forte spirito di rivalsa. Quell’uomo «molto giovanile: snello ma non magro, con una pelle bellissima e denti straordinariamente candidi», che «a causa del suo aspetto aggraziato alcuni immaginano (…) fosse piuttosto piccolo e invece era alto come me, e io non sono piccola, visto che misuro più di un metro e settantadue», descritto dalla fedele domestica Céleste Albaret in Monsieur Proust (SE, 2004), è quel medesimo «sciocchino del Ritz» a proposito del quale Gide, credendo fosse solo «un farfallone mondano appassito», affermò aver scartato Dalla parte di Swann in quanto giudicato di poco valore – salvo pentirsene amaramente in seguito – ma di cui in realtà pare non avesse letto una sola pagina, a quanto si dice perché il nodo che legava il pacco non era mai stato sciolto.

L’immagine di raffinato dandy dell’alta borghesia e frequentatore di circoli aristocratici è infatti stata pagata a caro prezzo da Proust, inizialmente bersaglio di sferzanti lodi come quella del pittore tedesco Max Unold, che lo definì capace di «rendere interessanti storie da portinaie». E ancora: «Pensi un po’, signor lettore, ieri inzuppo un biscotto nel tè e mi viene in mente che da bambino andavo in campagna – e per raccontarlo impiega ottanta pagine che sono così estasianti che ci si dimentica di essere solo ascoltatori e si crede piuttosto di essere i soggetti di quella fantasia». Incarnazione dell’apparenza che inganna e dell’ambiguità duplice e contraddittoria della realtà, la fisicità di Proust colpisce per la curiosa sorta di ritegno che emana, una sensazione inquieta di desiderio e malinconia da cui, nascostamente, traspare una qual certa candida complicità con i vizi segreti dei suoi personaggi.

Nel famoso ritratto di Jacques-Émile Blanche del 1892, eseguito sulla base di un disegno a matita fatto la primavera precedente a Trouville, un Proust ventenne sfoggia un curioso fiore all’occhiello, al cui riguardo sono state formulate varie ipotesi. A causa dell’asma che lo affliggeva si tende a pensare fosse una camelia, cioè un fiore inodore, del resto indossato comunemente dai gentiluomini dell’epoca. Secondo il celebre francesista Giovanni Macchia, invece, si tratta di un’orchidea, fiore sempre senza profumo ma anche estremamente significativo per la sua poetica. Supposizione certamente appropriata, in quanto le orchidacee sono piante complesse e dalla natura sessuale polimorfa. Se dunque nella sua indeterminatezza Blanche si dimostra volutamente ambiguo, stabilendo una coincidenza simbolica sottile, tuttavia precisa e non casuale, tra essere umano e sua rappresentazione, oggi possiamo aggiungervi l’identità di artista e scrittore. Tutto in Proust stabilisce il segno del segreto e della doppiezza dell’esistenza: la sua opera, la sua vita personale e perfino il suo aspetto fisico.

 

 

Quel «gran signore (…) vestito semplicemente, un paio di pantaloni con la giacca da casa sulla camicia bianca» e col «ciuffetto sulla fronte», che colpì subito la cameriera Céleste la prima volta che lo vide, secondo Cocteau è reso unico e grande proprio da quella disfatta, quella cruda verità che emerge dalla ricerca del cuore umano, da tutti quei vizi misteriosi che lui stesso aveva e che sono al fondo di ogni suo personaggio, come osserva in Jean Cocteau secondo Jean Cocteau (Castelvecchi, 2013). Basti citare la vera Albertine, sbagliata dopo il primo istante, di cui il Narratore apprenderà da Andrée, in seguito alla morte, le relazioni erotiche con una signora in grigio e una lavandaia, non meno che il perverso legame con Morel, il quale seduceva ragazze che, per non perderlo, accettavano di avere rapporti con Albertine o anche a tre. Oppure il doppio fondo del barone di Charlus, affascinante, ambiguo, imprevedibile. «Fin dalla sua prima apparizione, lo strano sguardo, gli occhi di Charlus sono descritti come quelli di una spia, di un ladro, di un mercante, di un poliziotto, o di un folle» scrive Gilles Deleuze in Marcel Proust e i segni (Einaudi, 1986). Così come Gilberte, che attraverso il racconto dei giochi proibiti, al buio, tra le rovine della torre di Roussainville, alla matinée Guermantes svela infine la sua vera natura.

Quel lato oscuro che giace nel profondo di noi stessi e degli altri, scoperto sempre troppo tardi, è forse visibile negli «occhi sporgenti, le ciglia lunghe e lucide, il collo sottile» del «giovanotto pallido e bruno» che siede rispettosamente silenzioso accanto allo scrittore e critico d’arte Ugo Ojetti, che rimasto folgorato dalla sua personalità ne parlerà in Cose viste (Mondadori, 1940). Ojetti, pur attraverso la «marsina con le spalle troppo larghe e con le maniche troppo lunghe che non sembrava la sua, la cravatta bianca un poco pesta e di traverso, lo sparato a onde» o chissà, proprio grazie a ciò e al tacere «immobile in quel suo atteggiamento cascante» del giovane Marcel, che «mutava solo la posizione della testa, ora piegandola sulla spalla sinistra ora sulla destra, come fanno gli uccelli», deve aver intravisto quello specchio della realtà seconda che costituirà l’universo immaginifico dell’opera proustiana.

Gérard Genette, in Figure III (Einaudi, 1986), osserva che nel comporre la coerenza di un luogo, l’unità di un clima, l’armonia di un’ora, ne La Recherche vi sono alcuni punti di concentrazione più intensa, come focolai d’irradiazione estetica. Certi personaggi traggono il loro tema personale dalla cornice della loro prima apparizione, come Albertine e il gruppo in controluce delle fanciulle in fiore davanti al mare, Saint-Loup nella biondezza del sole moltiplicata dai bagliori del monocolo; Gilberte, per sempre legata alla siepe di biancospini e alle passeggiate «dalla parte di Swann». Alla pari dei suoi personaggi, la dominante estetica della figura di Proust che è giunta fino a noi – le pose statiche, di gruppo o singole, nel bianco-nero o nel seppia delle fotografie, stagliate su fondali neutri che ricordano la dorata astrazione delle icone bizantine – suscita l’immagine di una dimensione coerente. Il doppio fondo che anima La Recherche vive nell’ambigua fascinazione dei ritratti del suo autore, e viceversa.

«Lo snob», «il mondano dilettante» descritto da Gide, con i suoi cappelli a cilindro, le sue pagliette, il bastone da passeggio dal manico d’argento e il cappotto foderato di pelliccia, che tuttavia non disdegnava di accogliere ospiti in casa presentandosi in négligé e spettinato, era molto più vicino alle contraddizioni della contemporaneità di quanto all’epoca si potesse supporre. «Non appena si smette di desiderare una cosa la si ottiene. Mi sono accorto che è proprio un assioma», dice Andy Warhol in La filosofia di Andy Warhol (Costa e Nolan, 1975), interpretando il disincanto e la confusione dell’America post Kennedy, pop e consumistica, opulenta e aggressiva, quella che aveva “perduto l’innocenza”. Eppure, circa ottant’anni prima, nel Jean Santeuil Proust aveva espresso, in netto anticipo sui tempi, un’analoga distanza tra l’essere e il mondo, tra il desiderio e il suo soddisfacimento: «Le cose che vogliamo, un giorno ci apparterranno senz’altro. Sì, ma quando non le desidereremo più».

Peccato che non potremo mai sapere com’era la sua voce, che il contemporaneo Ramon Fernandez riferisce come «miracolosa, prudente, discreta, astratta, punteggiata, ovattata», e che sembrava formarsi non dalla gola ma «nelle regioni stesse dell’intelligenza». Di quel «giovanotto (…) avvolto in sciarpe di lana» conosciamo in compenso le abitudini, come ricorda Daudet vedendolo entrare al circolo di artisti e scrittori del ristorante Weber nella Rue Royale, verso le sette e mezza di sera: « Si faceva portare un grappolo d’uva, un bicchiere d’acqua, spiegava che si era alzato allora, aveva un’influenza, si sarebbe rimesso a letto, il rumore gli dava fastidio; gettava sguardi inquieti e ironici intorno a sé, poi finalmente scoppiava in un riso estasiato; e restava. In un tono esitante e pur frettoloso gli venivano alle labbra riflessioni di sorprendente novità e di diabolica finezza». (Ernst Robert Curtius, Marcel Proust Il Mulino, 1985).

Lo spaesamento, il disagio, l’amarezza, il dolore legati alla capacità di mettere a nudo le profondità di noi stessi e degli altri non sono il limite di uno scrittore decadente e malato. Molto più che l’espressione tipica della sua epoca, e ben oltre ogni prospettiva ideologica o socio-politica, il soggettivismo di Proust racconta la genesi di una visione del mondo. Il dispiegarsi di quella verità nascosta, dura e contraddittoria che intuiamo e dalla quale siamo attratti ma che, alla fine, non vorremmo mai conoscere. Oltre alla sua opera, da cento anni le sue abitudini, la sua vita, il suo aspetto fisico, in una parola la sua immagine, testimoniano della complessità della realtà e ci attirano irresistibilmente.

Copertina di Il Continente bianco di Tarabbia

L’odore del sangue in un continente alla deriva

Per quanto ben raccontate, ci sono storie che non possono esaurirsi in un solo libro. Ho sempre pensato che L’odore del sangue fosse una di queste. Scritto di getto nell’estate del 1979 da un Parise appena scampato a un infarto, e pubblicato postumo nel 1997 (Rizzoli) con pochissimi interventi redazionali, questo mirabile romanzo imperfetto continua, ancora oggi, a interrogarci sulla sua natura, a tratti ridondante, eccedente, per niente rifinita.

Nelle sue molteplici ripetizioni, nel suo tornare costantemente alla radice del problema, questa vicenda editoriale ci pone un irrisolvibile dilemma: L’odore del sangue è la storia di un’incompiuta o è la storia di un’ossessione? O forse, trattandosi senza dubbio di entrambe le cose, sarebbe più corretto chiedersi quanto l’assenza di revisioni al testo abbia reso L’odore del sangue un’incompiuta, e quanto la sua idea di fondo, basata sull’attorcigliarsi dei protagonisti sugli stessi pensieri, lo renda un romanzo ossessivo.

Ciò che è certo è che in questa trama minima sono sempre rimbalzate possibilità infinite, ed è piuttosto curioso che a quarantatré anni di distanza il premio Campiello Andrea Tarabbia abbia deciso di farsi carico, con Il Continente bianco (Bollati Boringhieri), di una riscrittura che è forse più corretto definire variazione su tema.

«Potrei dire che si tratta di un libro che avrei voluto scrivere, ma ovviamente non avrebbe molto senso: è già stato scritto, può soltanto essere riletto».

Ma che cos’è L’odore del sangue? Certamente è la storia di due borghesi romani – Filippo, psicanalista, e Silvia, moglie trascurata – del loro matrimonio “aperto” funestato dalla relazione di lei con un giovane fascistello che spodesta il marito dal suo ruolo di “padrone di casa”, fino al tragico epilogo. Ma è anche il disperato tentativo da parte di due persone che hanno da poco superato la mezza età di sopravviversi, di scampare alla morte rispecchiandosi nella gioventù altrui. Una vicenda all’apparenza semplice, in parte ispirata da un fatto di cronaca avvenuto a Bologna, e in altra (grande) parte dall’amore tormentato tra Parise e Giosetta Fioroni, come rivelato poco tempo fa dalla pittrice.

Più che cercare parole nuove per la stessa storia, Tarabbia sembra voler effettuare un cambio di prospettiva, raccontando i fatti, attualizzandoli, dal punto di vista del giovane amante (Marcello Croce) e del Continente bianco, il gruppo eversivo di cui egli è parte. E questa è già una novità piuttosto  rilevante: il dottor Filippo P*** (Parise?) e Silvia, i loro tradimenti reciproci e autorizzati, scivolano in secondo piano, per dar voce a un personaggio che in L’odore del sangue (da qui in poi ODS) resta soltanto immaginato, evocato, conteso. Diversa è persino la sua descrizione: presupposta, in Parise, esplicita, in Tarabbia.

In Parise, il ragazzo senza nome viene indovinato dallo psicanalista come «bello», «mediterraneo, mezzo arabo o indio», appartenente a Ordine Nuovo e a «quella borghesia romana detta generone, fascista e papalina, che produce figli nullafacenti, debolissimi, fragilissimi, così deboli e fragili nonostante gli atteggiamenti politici, le palestre, il virilume». Indossa «un paio di blue jeans e scarpe da ginnastica, una catena d’oro al collo con una croce».

Silvia lo descrive come «un ragazzo di 25 anni», «di ottima famiglia», «muscoloso», «antipatico», «solitario», «ispido», «ignorantissimo», «impresentabile», con i capelli «ricci e fitti, un groviglio in cui il pettine non riesce a passare» e «il mito della forza fisica, della virilità», un passato di epilettico e di autolesionista.

Copertina Odore del Sangue di Parise

Tarabbia, privando lo psicanalista dello status di voce narrante, arricchisce e moltiplica la figura di Marcello Croce, oltre a battezzarlo. Da un lato abbiamo il Filippo di Il Continente bianco (da qui in poi CB), che asseconda la sua versione parisiana nell’ostinarsi a vedere il suo rivale come un giovanotto senza arte né parte, ignorante e brutale: «È un fascista, fa parte di una di quelle mezze bande che occupano abusivamente. […] Ha fatto un anno di Sociologia e l’ha abbandonata, ha tentato di fare l’attore ma non ci era tagliato. Quella è gente che gira con un tirapugni nei pantaloni, che maneggia coltelli e armi da fuoco».

Dall’altro lato, invece, abbiamo la descrizione della voce narrante: «È  un individuo delicato, fragile all’apparenza. Sembra uno di quei Cristi disegnati nei libriccini del catechismo per bambini: biondi, buoni, puliti e calmi anche nel mezzo di una tormenta di sabbia o di un incendio che sembra dirti che non ci saranno problemi, se lo seguirai. […] C’è una patina di levità, nel suo volto, di dolcezza perfino. […] Ma allo stesso tempo c’è qualcos’altro, qualcosa che si muove sotto questa patina e la fa tremare. Un dolore, forse. O una rabbia». Marcello, nella descrizione di chi lo conosce da vicino, acquisisce una bellezza angelica e, soprattutto, i crismi di un leader assai consapevole del proprio credo politico, specializzato nell’arte della manipolazione.

L’altro grande elemento di novità, come detto, è l’inserimento di un narratore alter ego dello scrittore Andrea Tarabbia, che entra in scena da paziente del dottor Filippo per poi diventare protagonista di un romanzo di fatto sprovvisto di attori principali. Qui incontriamo il primo bivio: Il Continente bianco abbandona presto la strada del ménage à trois per introdurre una riflessione sulla difficoltà della scrittura, sulla legittimità di autodesignarsi narratori di una storia, sulla distanza di sicurezza, o, al contrario, la vicinanza, che dovrebbe assumere chi si fa carico di raccontarla.

«Scrivere vuol dire anche sopportare il dolore degli altri, e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio».

Chi è l’Andrea Tarabbia del romanzo? Un infiltrato che vuole scoperchiare il rigurgito neofascista della Roma sotterranea o un inconsapevole biografo di un movimento nero in fase di addestramento?

La sua, quella di un individuo che si definisce «mite, ai limiti dell’ordinario», sembra essere una continua lotta interiore tra istinto e logos, natura e cultura, spirito primordiale di conservazione e civiltà («Io credo che tu voglia distruggere il mondo tanto quanto lo voglio io»), è il tentativo di domare il Male che ci spaventa di più, il Male inestirpabile che serpeggia dentro ognuno di noi.

L’odore del sangue di cui parla Parise è «l’odore più profondo essenziale ed unico della vita» – il sesso, la gelosia, la gioventù –, quello di Tarabbia ha più a che fare con la morte, un profumo funebre pronto a essere infiammato.

«Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere».

Differente è anche il personaggio di Filippo. In ODS è un uomo che cerca di apparire sempre controllato, solido, la sua vita si divide tra Roma e il Nord Italia, dove trascorre la maggior parte del tempo in compagnia della giovane amante. Il suo spirito libertino maschera in fondo una indole moralista e annoiata, la preoccupazione per Silvia è in realtà paura di non essere più amato, l’interpretazione analitica dei comportamenti della compagna è un vano tentativo di comprendere l’improvvisa fuoriuscita dallo schema della moglie.

«Io avevo bisogno di essere amato più che di amare, e Silvia di amare più che di essere amata».
«Non potevo stare solo, non potevo stare senza una madre […] La sola madre che avevo avuto durante la mia vita era Silvia».

Al pari del Marcello di CB, Filippo mostra altresì una certa abilità nella manipolazione. La strategia per essere amato da Silvia è sempre la fuga, l’abbandono, così come quella per riconquistarla è il plagio («Noi possiamo salvare solo chi possiamo controllare», afferma Marcello in un passaggio).

Il dottor P***  in CB si mostra invece arreso in partenza, sconfitto dal suo giovane rivale ancor prima di essere cacciato da casa. Lo troviamo per la maggior parte del tempo spaparanzato su una poltrona di un bar a mangiucchiare stuzzichini e a sorseggiare aperitivi, leccando le proprie ferite nella consapevolezza di aver perso la sua collocazione nel mondo, sia in senso sociale che abitativo (Marcello lo definisce «asessuato», «asettico»).

Destituito dalla moglie, sconfitto da un ragazzo, il Filippo di CB sembra inabissarsi con eleganza nel suo stato di maschio in crisi, al contrario del suo omologo di ODS, che lotta furiosamente contro ciò che percepisce come una sorte malevola, ma che è egli stesso ad alimentare.

E proprio il destino è un elemento che in entrambi i romanzi viene spesso evocato, sebbene da personaggi differenti. In ODS è Filippo ad avvertire una destino sventurato, un destino «interamente previsto» perché in fondo da egli stesso fomentato, spinto alle estreme conseguenze attraverso una morbosa ricerca di motivazioni e di conferme.

«Si direbbe che lo voglia provocare tu questo destino orribile, si direbbe che tu non ami affatto Silvia, come dici, ma la odi e la vuoi punire. Insomma, si direbbe che la vuoi uccidere perché si è innamorata di un altro.  Ma non con passione, Filippo, con la forza cieca della passione, bensì con l’intenzione scientifica di provocarle un brutto destino».

In CB è soprattutto il personaggio Tarabbia a chiamare in causa  «i cattivi presagi» e un destino inevitabile riferendosi alla storia di Silvia e Filippo, ma ammiccando in realtà a un’altra vicenda personale legata a una donna moldava (Anna) che lo scrittore cerca di dimenticare accettando di seguire il Continente bianco. In questa storia sfuggente, che affiora con ritrosia tra le pagine, emerge una delle grandi questioni dello scrivere: un autore può raccontare un soggetto letterario e al tempo stesso proteggerlo? Un epilogo drammatico non è più interessante di un finale lieto, e per questo auspicabile?

Se si protegge qualcuno di cui si vuole scrivere si altera il mondo, lo si piega alle proprie voglie e perfino al proprio senso di giustizia, e un mondo piegato a tutto questo è un mondo giusto, senza scandalo né orrore, ma non è un mondo che può entrare in un libro. Un po’ come il Filippo di ODS, il personaggio Tarabbia sembra attanagliato dal dubbio di aver in qualche modo provocato il destino funesto del suo personaggio, anziché di aver lottato per evitarlo.

Abbastanza presto i due romanzi si biforcano prendendo direzioni diverse: ODS scava nelle ossessioni della coppia borghese, mentre CB affronta tematiche a noi molto vicine come la rabbia sociale, il fanatismo, il rischio di un ritorno eversivo orientato a destra; una destra estrema d’azione e teoria che arruola, attraverso i suoi nuovi ideologi, soldati semplici dalle fasce popolari con la connivenza della classe politica.

Storie complementari, ma mai sovrapponibili, perché probabilmente raccontare la stessa storia due volte non è possibile, «forse uno racconta la storia di qualcuno perché è un modo come un altro per raccontare la sua».

 

(Goffredo Parise, L’odore del sangue, Rizzoli, 1997; Andrea Tarabbia, Il Continente bianco, Bollati Boringhieri, 252 pp., euro 16; articolo di Martin Hofer)
Copertina di Trust di Hernan Diaz

«Piegare e allineare la realtà»

Nel suo pamphlet Il realismo è l’impossibile (nottetempo, 2013) Walter Siti scrive che «la narrazione fittizia ci offre un cosmo e non un caos, una realtà controllabile e finita» che risulta essere sempre «il frutto di una selezione». La narrazione è secondo Siti un gioco in bilico tra verità e menzogna in cui si vuole dimostrare che «quello che sto narrando è vero e posso provarlo – o perché l’ho vissuto io personalmente, o perché ho documenti che lo certificano». Lo scrittore è consapevole di coinvolgere il lettore in un esercizio di fiducia in cui ciò che è scritto può essere preso per vero o meno. È su questa premessa che si basa Trust (Feltrinelli, 2022), secondo romanzo di Hernan Diaz, autore già noto in Italia per Il falco (Neri Pozza, 2018), con cui arrivò in finale al Pulitzer.

Trust è incentrato sul personaggio di Andrew Bevel, un uomo che grazie al suo fiuto per gli affari è riuscito a costruire il più grande impero finanziario di New York. La sua storia viene inizialmente raccontata in Fortune, un romanzo nel romanzo scritto da Harold Vanner negli anni Cinquanta; questo libro, però, sembra mettere in cattiva luce la vita di Bevel, il quale decide di assumere Ida Partenza, figlia di un tipografo e anarchico italiano, per farle scrivere la sua autobiografia. Anni dopo, Partenza, ormai anziana e scrittrice affermata, torna alla casa di Bevel in 87th Street fra Madison e Fifth Avenue, ora diventata un museo, per intraprendere una ricerca sull’uomo e sua moglie Mildred. Quello che scopre è che molto probabilmente Bevel le ha raccontato una sua personale versione della verità, e che forse l’artefice del suo successo è proprio quella moglie che ha cercato di ridimensionare nel racconto della sua storia.

Hernan Diaz ci presenta, dunque, un vero e proprio gioco di prospettive che ricorda Esercizi di fiducia (Sur, 2021) di Susan Choi, dove la stessa storia viene raccontata da diversi punti di vista che si contraddicono tra loro. Nel romanzo di Choi a essere narrato era un abuso sessuale, qui si tratta invece di raccontare la verità attorno al successo di un uomo e alla sua relazione con la moglie, ma in entrambi i testi è centrale il rapporto fra narrazione, realtà e potere.

La natura del romanzo di Diaz si può comprendere già dal titolo. “Trust”, infatti, non solo è un fondo fiduciario, ovvero una parte di patrimonio che il beneficiario affida a un gestore, ma anche il verbo inglese che significa “fidarsi”. Considerando questi due aspetti, Diaz frammenta la verità attorno alle vite di Andrew e Mildred Bevel e le affida a vari narratori – Harold Vanner, Ida, e gli stessi Andrew e Mildred – e ai lettori, che gestiscono queste schegge di vita facendole proprie, cercando di raggiungere un’autenticità che sarà sempre incompleta, poiché essa è il risultato della volontà di chi narra e legge di «piegare e allineare la realtà».

Il primo che cerca di controllare la realtà è, appunto, Harold Vanner, uno scrittore che si scoprirà essere in un certo senso legato a Mildred e alla sua attività filantropica. Mosso molto probabilmente dall’invidia e dall’insuccesso, Vanner scrive con Fortune un roman â clef in cui nei personaggi di Benjamin e Helen Rask si riconoscono Andrew e Mildred Bevel, che vengono descritti attraverso le categorie del destino e della provvidenza:

«Quasi tutti preferiamo credere di essere i soggetti attivi delle nostre vittorie, ma solo gli oggetti passivi delle nostre sconfitte. Trionfiamo, ma in realtà non siamo noi a fallire – ci rovinano forze che sfuggono al nostro controllo».

Secondo Vanner, se Benjamin/Andrew ha avuto successo come finanziere è stato per una serie di coincidenze e intuizioni avvenute al momento giusto, e non per un talento innato per gli affari. Per lui, inoltre, Benjamin Rask si è arricchito soprattutto speculando sul fallimento finanziario dei suoi concorrenti, dimostrandosi, dunque, un abile truffatore. L’amore per Helen risulta essere il frutto di un incontro fortuito fra due solitudini che ha in un certo modo accresciuto il potere e l’influenza di Rask. Benjamin viene insomma visto da Vanner come una sorta di individuo cosmico-storico di hegeliana memoria, una pedina del destino che una volta assolto il suo compito viene abbandonato a sé stesso. Vanner, infatti, scrive che con la morte di Helen «la sua [di Benjamin] aura mistica era svanita. Il genio che aveva trovato il profitto dove tutti gli altri avevano trovato la rovina era scomparso. Il tempo di Benjamin Rask, si diceva, era finito».

Una narrazione provvidenziale, ovviamente, non può che urtare una persona come Andrew Bevel, che rimarca a Ida l’invidia di Vanner per via del suo mancato successo come scrittore:

«Dopo alcuni romanzi di moderato successo, circa dieci anni fa è caduto in disgrazia. I suoi libri non hanno venduto. Beveva. Dipsomania, pare. La solita storia squallida. E poi, poco dopo la morte di mia moglie, ha iniziato a scrivere questa cosa. L’aveva incontrata, Mildred, qualche volta. In società. In maniera superficiale. Come tante altre persone. Credo che in una di quelle occasioni abbia conosciuto anche me».

Con la sua autobiografia Bevel vuole dimostrare non solo quanto sia un abile uomo d’affari – e dunque non un truffatore –, ma anche quanto sia stato un marito amorevole nei confronti di Mildred, cosa che in Fortune non traspare, anzi: il libro sembra associare la presunta malattia mentale di Helen al sempre maggiore allontanamento di Benjamin e alla sua ossessione per il denaro. Andrew ci tiene invece a raccontare come Mildred non sia morta per una malattia mentale causata dal suo egoismo, ma per via di un cancro, e quanto lui sia oltretutto stato premuroso con lei, anche nel permetterle di coltivare le sue attività filantropiche a sostegno di scrittori e musicisti.

Andrew dà indicazioni a Ida su cosa scrivere e cosa omettere, rimarcando dunque l’idea di voler piegare la realtà a sua immagine e somiglianza. «Qualunque cosa», sostiene Bevel, «il passato ci abbia trasmesso, spetta a ciascuno di noi cesellare il proprio presente dal blocco informe del futuro». Per scrivere l’autobiografia dell’uomo, poi, Ida deve rimaneggiare frasi e dettagli allo scopo di rendere la sua vita il più possibile accessibile al lettore medio. Quello che farà non sarà consegnare un racconto autentico, ma «la voce che lui desiderava avere, la voce che voleva sentire». La donna contribuisce così a creare un’immagine falsa di Bevel e di sua moglie.

La chiave di tutto, però, sembra essere il personaggio di Mildred. Questa aveva raccontato la sua vita in alcuni diari che Ida, ormai diventata un’anziana scrittrice di successo, ritrova nella casa-museo di Bevel, che va a visitare molti anni dopo aver scritto e ultimato la biografia del misterioso finanziere. Leggendo i diari, Ida capisce quanto l’immagine che sia Andrew che Vanner hanno dato della donna sia infantile, paternalistica e annacquata, il prodotto di una visione maschilistica della realtà dove la donna viene vista come comprimaria, «proprio come le mogli nelle autobiografie degli uomini celebri che leggevo in quel periodo per mettere a punto la voce di Bevel».

Ciò che nota Ida leggendo i diari di Mildred è che la sua grafia risulta difficile da decifrare. Con le sue annotazioni piene di abbreviazioni e simboli molto probabilmente frutto di una certa stanchezza causata dalla malattia, questa aggiunge in realtà degli elementi importanti attraverso cui Ida può comprendere al meglio la storia attorno al personaggio di Mildred. La donna racconta come lei e Andrew fossero complementari, e che «lui ha capito che senza il mio aiuto non sarebbe mai stato capace di reggere il mito che si creava attorno a lui». Andrew, quindi, appare come un pupazzo che parla e agisce attraverso il ventriloquo Mildred, che si intesta le intuizioni finanziarie che hanno portato il marito al successo.

Mildred, inoltre, racconta come i due non si amassero veramente, e come fossero uniti soltanto in materia di affari. La donna, però, sembra smascherarsi da sola nel momento in cui afferma che «un diarista è un mostro: la mano che scrive e l’occhio che legge appartengono a corpi diversi». Mildred più volte tradisce la sua incapacità di essere autonoma a causa della malattia e della morfina che riceve durante il suo ricovero in Svizzera. Anche la verità di Mildred, dunque, è frutto di una manipolazione e di una volontà di controllo della realtà, e rende ancora più misteriosa e incompleta l’intera storia.

Con Trust, inserito nella longlist del Booker Prize 2022, Hernan Diaz ha creato un intricato gioco metanarrativo, che ci illustra come più sembra vero ciò che narriamo più probabilità ci sono che sia falso; in parallelo, più qualcosa suona falso più si dimostra paradossalmente vero. Narrare qualcosa di sé e degli altri significa mettere in gioco logiche di potere, sentimenti di rivalsa e rancore volti a piegare la realtà, che contribuiscono a rendere più labile il confine fra autenticità e menzogna.

 

(Hernan Diaz, Trust, trad. di Ada Arduini, Feltrinelli, 2022, 384 pp., euro 19, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
Recensione di Le buone stelle

Grazie di essere venuto al mondo 

Il giapponese Hirokazu Kore’eda è indubbiamente l’autore delle relazioni autentiche, quelle che arrivano a salvare solitudini in cerca di riscatto. Il suo cinema parla di legami che non nascono dal sangue: intorno c’è il contesto sociale che incide sulla vita e sulle scelte, mentre al centro stanno le immagini che realizzano il miracolo dell’affetto che sboccia, si moltiplica e poi si riconosce in un’idea di famiglia allargata e alternativa.

Le buone stelle – Broker parla proprio di questo, senza la stanchezza di chi ha raccontato l’argomento sotto varie angolature, cominciando da Un affare di famiglia, Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2018. Stavolta l’ambientazione è sudcoreana e la pioggia iniziale sembra proprio un omaggio al Parasite di Bong Joon-ho (Palma d’Oro 2019 e quattro premi Oscar vinti). Hirokazu Kore’eda, però, rimane se stesso, col suo tocco poetico che rende anche questo film un piccolo gioiello difficile da dimenticare.

Un road movie che costruisce i sentimenti intorno a un evento discutibile come la compravendita di neonati, incentrando l’intreccio non tanto su soprusi e violenze, quanto piuttosto sull’unico desiderio comune a tutti i personaggi: trovare un genitore o esserlo per qualcun altro. Qui la maternità e la paternità non sono più categorie anagrafiche, ma sentimenti urgenti a cui è necessario dare una risposta per riuscire a superare i propri traumi. Non c’è nessun giudizio per chi abbandona il proprio figlio e poi cerca di venderlo, o per chi si allontana dalla famiglia per darsi alla vendita dei figli altrui. Si tratta sempre di donne e uomini dal passato difficile, che riescono comunque a interrogarsi sui propri sentimenti e sulla scelte sbagliate che li condizionano.

Sang-hyeon (interpretato da Song Kang-ho, già protagonista di Parasite e qui vincitore a Cannes del premio per la migliore interpretazione maschile) cerca di essere un buon padre per la ciurma che si ritrova a guidare col suo furgoncino blu, quasi a riscattare quell’assenza imposta alla moglie e alla figlia, ormai lontane nella nuova vita di Seul. Il giovane complice Dong-soo, abbandonato e cresciuto in un orfanotrofio, non si allontana mai dalla sua infanzia di bambino deluso dalla vita e dalla mamma: continuando a lavorare con gli orfani, pensa di poter curare le ferite e spera ancora di ritrovare i genitori mai conosciuti. Anche lui scopre il sentimento della paternità, mettendo da parte i risentimenti che interiormente cova contro le relazioni umane. Se per Sang-hyeon il viaggio diventa l’occasione per riprovare di nuovo a essere padre, Dong-soo incarna la meraviglia di un’urgenza che nasce col tempo e alla quale non riesce più a rinunciare. So-young, pur avendo messo al mondo il bambino concepito da una relazione extraconiugale, sembra non provare, almeno all’inizio, quel trasporto che nasce con la vita nuova. Per lei, che appare fredda e distaccata, la maternità cresce con la fiducia che matura per se stessa e per i due uomini con i quali decide di vivere un’avventura. L’amore per il suo Woo-sung si trasforma in una promessa per il futuro, certa di aver trovato, insieme con il figlio, anche un compagno, custode delle reciproche ferite, e un padre, vigile a salvaguardare il legame che hanno stretto.

A osservare la storia c’è Soo-jin, la detective tutta d’un pezzo che prende su di sé la responsabilità di guidare gli eventi sulla strada delle relazioni vere e autentiche, quelle nate dalla benevolenza. Infine, il simpaticissimo Hae-jin, con la sua gioia di vivere che nasconde dolori troppo grandi, decide che i tre malfattori e il piccolo Woo-sung saranno la famiglia che desiderava. Si intrufola nel progetto illegale che si va compiendo per trasformare la vita degli adulti che lo accolgono. Grazie alla sua innocenza, e al grandissimo desiderio di affetto, i cuori si riscaldano e le mani si intrecciano.

Le buone stelle – Broker è un film sincero, umano e commovente: nella mano che si allunga verso la pioggia e risveglia l’infanzia; nella stessa mano, maschile, che svela agli occhi chiusi il futuro; nel buio della stanza condivisa che non fa più paura, ma crea legami veri nel ringraziamento. I suoi protagonisti sono umanissimi, calati nella vita vera di chi deve sopravvivere alla condizione nella quale ci si trova immersi con la nascita, ma non si arrende allo stato delle cose: continua a sperare e immaginare un futuro migliore, dove si può non essere più soli, ma insieme.

(Le buone stelle, di Hirokazu Kore’eda, 2022, drammatico-commedia, 129’)

immagine per orto e giardino in letteratura

Pia Pera e Federico Falco fra orti e giardini

L’insegnamento più prezioso del romanzo per ragazzi Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett è forse quello che disvela il potere salvifico derivante dall’atto di prendersi cura di un piccolo angolo di terra. Come scrive pure Pia Pera nel suo Al giardino ancora non l’ho detto (Ponte alle Grazie, 2016): «Ma in un senso più profondo, non sono mai stata io sola a prendermi cura del giardino: anche il giardino si prendeva cura di me quando, in apparenza, mi davo tanto da fare». L’orto (qui ci si riferirà all’orto e al giardino indistintamente), oltre a essere luogo in cui si compiono atti di cura, è anche un posto dove è possibile perseguire bellezza, conoscenza, contemplazione, comprensione. Nota è l’etimologia della parola cultura che viene dal latino cultura, derivata da colĕre «coltivare»: e ciò che si vuole esporre qui, guidati dalle riflessioni di Pia Pera e Federico Falco, scrittori che si sono dilettati nell’arte dell’orto, è proprio come coltivando un giardino – in quanto luogo di osservazione e conoscenza – si coltivi anche sé stessi, attraverso un percorso che conduce, forse pure, alla saggezza.

«Era uno spazio dove potevo trovare me stesso. Era uno spazio dove potevo leggermi» (Federico Falco, Le pianure, Edizioni SUR, 2022)

Curare un orto richiede innanzitutto sforzo fisico ed è risaputo che spesso con l’azione cessa il ruminare della mente: «L’orto stanca. Viene la notte e mi addormento subito. Non ho energie per pensare a niente. Non c’è spazio per l’ansia né per la sofferenza. La stanchezza intontisce, la terra scarica», scrive Falco, e ancora: «Quello che mi piace dell’orto è che non serve pensare. Si tratta solo di fare e fare. Piantare la vanga, rivoltare la terra, rastrellare, strappare le erbacce, seminare, sporcarsi di fango, potare, andare, venire. Fare e fare e fare. Il corpo si stanca. La mente si svuota». Compiere lavori nell’orto aiuta a ritornare al proprio corpo e alla concretezza della terra per immergersi nella realtà, per allontanarsi dalla mente e dalla sua pretesa di centralità nell’esistenza e anche per non soccombere alla comune tendenza verso l’astrazione. Un po’ come accade a Lèvin in Anna Karenina nella bellissima scena della falciatura quando riesce ad arrivare a uno stato in cui si sente leggero, ovvero quando i movimenti del corpo si fanno automatici e la mente non pensa a quel che sta facendo: questi erano gli attimi più beati, scrive il narratore.

Federico Falco nell’incipit del suo libro Le pianure scrive che «in città perdiamo la nozione delle ore del giorno, dello scorrere del tempo. In campagna è impossibile». Infatti, prendendosi cura di un giardino, il tempo viene scandito dal ritmo delle stagioni che mutano il paesaggio. In campagna esiste un tempo per ogni cosa: c’è quello della semina, dell’attesa e quello del raccolto. In questa visione il tempo si aspetta e non si rincorre, si ravviva e non si uccide, come invece accade spesso nella vita urbana: «Nella quiete, nella lentezza di gesti ripetuti, affiatando la mente ai tempi di crescita delle piante, imparando la pazienza e il senso dell’attesa […]» (Pia Pera, La virtù dell’orto, Ponte alle Grazie, 2016). La diversa concezione del tempo è la prima grande differenza tra campagna e città – ormai oggi concepiti come due opposti –, tra mondo contadino e società industriale: il tempo è circolare nel primo caso, lineare nel secondo. La prima concezione del tempo si fonda sul costante avvicendarsi delle cose, la seconda, invece, su una linea retta la cui rotta idealmente combacia con il progresso. Ma ciò che nella concezione ciclica del tempo sembrerebbe un vuoto e sempre uguale ripetersi delle cose, invece è trasformazione, qualità intrinseca della vita e di tutto ciò che vivo, mentre «negli oggetti, indifferenti alle stagioni, il mutamento si esprime solo come usura, deterioramento, mai come metamorfosi. Confinati tra materiali artificiali, chissà quale ansia di morte ci prenderebbe! Perché nulla avremmo vicino capace di suggerire che nulla muore, tutto si trasforma. Tutto è vivo, in natura» (La virtù dell’orto).

Ovviamente rifugiarsi in un orto per opporsi alla dilagante mentalità del mondo contemporaneo e ritrovare libertà e pace vale soprattutto se non si obbedisce più alle leggi dell’utile e del guadagno che maggiormente caratterizzano la società: «L’orto non va visto con spirito solo produttivistico, per il sostentamento» (La virtù dell’orto), altrimenti diventa anch’esso luogo di alienazione, tra azioni puramente meccanizzate volte solo al massimo rendimento della terra che portano inevitabilmente da una parte all’inaridimento di quel terreno su cui poggiano i propri piedi e dall’altra di quell’altro dell’interiorità umana. Occorre «occuparsi della terra con uno spirito che, anziché sull’obiettivo di produrre, sia concentrato nella gioia di vivere qui e ora» (La virtù dell’orto). Tuttavia, ancora, quello che sembra un tempo vuoto e improduttivo in campagna – per esempio i lunghi inverni –, in realtà non è che una paziente preparazione a tempi più floridi (non necessariamente, ovvio, in termini puramente materialistici): «Tempo di letargo. Tempo per starsene immobili a non fare niente, a lasciare che la crescita sia sotterranea, come per le radici di un albero, verso l’interno» (Le pianure).

 

 

Dunque, in campagna momenti di fatica si alternano a momenti di riposo – che siano brevi attimi durante l’affaccendarsi nell’orto o stagioni intere. Come accade con l’humus nella terra, tutto il vissuto umano sedimenta nell’interiorità e può renderla più forte e capace di proteggersi dall’erosione e dall’esperienza dell’umana esistenza. I periodi – brevi o lunghi che siano – di stasi possono essere occasione di osservazione («La vita in campagna consiste nell’osservare» (Le pianure)) e riflessione e favoriscono la contemplazione: «L’eremita si sottrae alla vanitas nella sua forma più vigorosa, talmente veloce e dirompente da non potere venire contemplata, si rifugia in luoghi dove il tempo scorra più lento, dove prevalga il ritmo ciclico delle stagioni, quella dimensione che permette al ripetente di guardare ancora una volta, se non proprio lo stesso spettacolo – mai la stessa acqua scorre nel fiume – quanto meno qualcosa di simile. Il ritmo più lento facilita la contemplazione» (Al giardino ancora non l’ho detto).

L’orto, oltre a esigere e insegnare l’attesa e la pazienza, ammette anche l’eventualità di inciampo a differenza della mentalità capitalistica odierna la quale sempre meno accetta la noia, l’ozio, il fallimento, cieca com’è nel perseguimento incessante del progresso e del rendimento in termini meramente economici.

«Come nell’orto, le cose richiedono tempo, crescono a poco a poco, e in qualunque momento tutto può riuscire male, possono venire le formiche, o il vento, può cadere la grandine, può arrivare un’infestazione di parassiti, le piante possono andare in semenza, non crescere, non dare frutti, andare in malora» (Le pianure)

Stando dietro a un giardino viene meno la pretesa di poter controllare tutto: si impara che c’è sempre un residuo che non si può governare. Si impara ad accettare anche l’incertezza, altra qualità intrinseca dell’esistenza: «Mondo fluttuante, il giardino vive in perenne mutamento» (La virtù dell’orto). Un po’ come accade con chi scrive e la scrittura. Lo scrittore/giardiniere/orticoltore ha la pretesa di controllare tutto, crede di poter realizzare e imporre la propria aspirazione ordinatrice – che altro non è che un tentativo per non soccombere al vuoto. Ma sia la scrittura – in quanto atto creativo, che mentre prende forma si crea da sé – sia l’orto – dove, per esempio, le erbacce possono prendere il sopravvento – a un certo punto sfuggono al suo controllo.

«Un orto non lo si può controllare e questo a volte mi esaspera. L’orto non cresce dal mio desiderio, ma dalla sua stessa potenza, la potenza del seme, e viene fuori in mezzo a incidenti d’ogni tipo.

Con la scrittura è più o meno lo stesso: a volte, scrivendo, mi illudevo di avere il controllo sul testo, mentre in realtà tutto accadeva quasi escludendomi […]» (Le pianure)

Quello che si vorrebbe imporre – alla natura così come alla scrittura – è un «ordine artificioso», mentre invece bisogna dare spazio alle «iniziative spontanee della vita, dettate da un ordine invisibile e infinitamente più vario e complesso» (La virtù dell’orto). Falco giungerà alla constatazione che scrivere e fare un orto per lui sono un tentativo per legarsi, come si può, a qualcosa che abbia radici così da non smarrirsi e per riempire il grande tempo vuoto senza narrazione, senza storia.

Pia Pera fa notare, invece, come sia un «luogo perfetto, il giardino, per praticare di buon grado l’autolimitazione come atto d’amore per l’intero creato, gesto di protezione verso la fragile bellezza del mondo. […] Per scoprire, diremo laicamente, il senso di pienezza ispirato dal prenderci cura del mondo, superando ogni egoismo di specie, fino a comprendere il comandamento di tutela dell’ambiente, di custodia del giardino planetario». Grazie all’esperienza in giardino e dell’arte dell’orticoltura ci si abitua a ragionare in termini di comunità, di sentirsi parte del tutto; si matura una visione ecologica: ci si rende conto che il giardino è un ecosistema in cui tutti gli elementi sono interconnessi e interdipendenti, essere umano compreso («Tra le piante, prendendosi cura di loro, si intrecciano fili invisibili che permettono di sentirsi connessi alla rete della vita» (La virtù dell’orto)). Da questa presa di consapevolezza verrebbe da auspicarsi che venga meno la nostra visione antropocentrica del mondo «per l’affetto che non può non nascere nel prendersi cura di qualcosa che sentiamo nostro, di cui avvertiamo forza e fragilità a un tempo. Ed ecco sbocciare, nell’empatia, la comprensione» (La virtù dell’orto) e forse anche amore per quell’altro grande giardino planetario – e tutti gli esseri viventi che assieme a noi vi abitano – in cui viviamo e di cui facciamo indissolubilmente e intrinsecamente parte e che chiamiamo, per l’appunto, Terra.

 

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[In copertina: Claude Monet, Il giardino di Monet a Vétheuil, 1881, National Gallery of Art, Washington]

macchina da scrivere - Unsplash

Esiste ancora una “prosa letteraria”?

Il primo a chiederselo è Luca Serianni. È il 1993. Ed è da allora che la critica letteraria si pone la domanda. Se mai c’è stato un tempo in cui la letteratura ha preso parte all’evoluzione della lingua, quel tempo, sostiene quella parte della critica, è oramai finito. La letteratura ha iniziato, a un certo momento, a inseguire la lingua d’uso, e non viceversa. Questo momento ha coinciso con gli anni Novanta quando, secondo Tommaso Pomilio, la narrativa, alla ricerca di nuove forme di interazione con la cultura mediale, ha iniziato a cannibalizzare, «magari alla rinfusa, codici, linguaggi, materie sempre più distanti dalla determinante alta, o soggetti a degrado (televisione, musica, pubblicità, fumetto, cronaca, videogame, paraletterature, cinema e letteratura di genere». Linguaggi tra loro diversi vengono smontati e rimontati insieme: questo è l’aspetto che caratterizza le scritture di quegli anni, con il rischio – sottolinea Filippo La Porta – che «per voler essere troppe cose […] alla fine non sia più nulla e si dissolva in un’ingegnosa sommatoria».

L’obiettivo è: scelte linguistiche e testuali sempre più estreme, fatte per farsi notare, con la conseguenza che da una lingua media, propria della narrativa degli anni Ottanta, si è arrivati a una “lingua ipermedia”, una lingua, per così dire, dell’oltre (confermato proprio da quel prefissoide iper-). Ad accorgersi per primo del cambiamento in atto è Giuseppe Antonelli, che nel 2005 conia il termine e che a sua volta richiama tre accezioni, coincidenti con tre diversi aspetti del fenomeno.

Innanzitutto, Antonelli fa riferimento a una «lingua più media di quella media»; vale a dire una lingua che da decenni, per simulare il parlato, infrange le regole della grammatica tradizionale e costruisce una «grammatica del parlato», priva di un’esigenza espressiva. Non sono perciò rari usi come il “che relativo indeclinato”, oppure “l’a me mi” o l’anacoluto, per elencarne alcuni. La lingua – artificiale, se non addirittura, artificiosa – è portata fino al suo estremo, esasperata fino al parossismo e alla caricatura, come accade in Paolo Nori, oppure al contrario fino all’iperrealismo, come invece succede in Aldo Nove. Un italiano «piucchepparlato, assolutamente non verosimigliante, che esaspera la cosiddetta funzione Gadda».

Ma per “lingua ipermedia” Antonelli intende anche una «lingua oltre la lingua media», fatta di «creatività lessicale, di figure di suono, di analogie e similitudini inattese»; un esempio su tutti: Tiziano Scarpa e il suo virtuosismo stilistico.

E, infine, Antonelli allude a una lingua influenzata dai nuovi media, anzi una «lingua in concorrenza coi nuovi media». Il testo si fa multimediale: tecniche letterarie si mescolano a quelle cinematografiche. Ne è un esempio la prosa di Carlo Lucarelli o di Nicola Lagioia, fatta di inquadrature in soggettiva e leitmotiv. La narrativa italiana fagocita, emulandole, forme di racconto provenienti dal cinema, dalla tv, dal fumetto, dalle canzoni, ma anche dai social e dal mondo di internet in generale. Da tempo la critica si chiede se abbia un senso che la letteratura emuli queste diverse forme di racconto con cui non può competere, rischiando così anzi l’appiattimento espressivo. Soprattutto se si considera che il linguaggio di queste forme di racconto (in particolare di quello televisivo e pubblicitario) è eccessivo, fatto di superlativi ed enfasi aggettivale; o al contrario (com’è nel caso del linguaggio della telefonia e di internet – l’italiano digitale o “e-italiano”) ridotto spesso alla non-parola: un linguaggio che ha visto comunicazione alfabetica e comunicazione ideografica fondersi, tanto che nel 2015 l’Oxford Dictionary ha proclamato parola dell’anno non una parola in senso stretto, ma un emoji.

Anche l’italiano usato in ambito giornalistico, e che a sua volta influenza quello letterario, ha subito una contrazione. Secondo Ilaria Bonomi, i periodi sono più brevi ma più densi di elementi nominali o di forme verbali implicite come i participi e i gerundi, e danno una sensazione di rapidità e concentrazione. Si tratta tuttavia di una densità che non ha molto peso, perché non è accompagnata in genere da una scelta lessicale ricercata: si privilegiano i valori semantici alle strutture logiche, attraverso l’impiego «di costrutti e usi sintattici che sviluppano il periodo in “orizzontale”, accumulando piuttosto che strutturando».

A questo punto si potrebbe rispondere alla domanda sull’esistenza di una prosa letteraria, sostenendo che questa, sì, esiste ed è rinvenibile in una prosa che si avvale di una lingua ipermedia, per dirla con Antonelli; una lingua che ha un rapporto di ambivalenza con la lingua media, talvolta negandola talaltra alternandola. Tuttavia, a ben guardare, la lingua ipermedia si è consumata nel momento stesso in cui è stata individuata. A confermarlo è lo stesso Antonelli, che già nel 2005, nel prologo del suo libro Lingua ipermedia: la parola di scrittore oggi in Italia, afferma che il tempo della lingua ipermedia si sta avviando alla sua fine, rimpiazzata questa da un altro tipo di letteratura, quella consolatoria, “perbene”, di bon ton linguistico. Per cui, la narrativa degli ultimi anni si muoverebbe su questi due estremi; si prefigurerebbe un panorama letterario in cui le scelte espressive e l’italiano letterario sarebbero appiattiti da questa polarizzazione. Ma è davvero così? È possibile, invece, che ci sia dell’altro?

Sì, per altra parte della critica letteraria. È il caso di Luigi Matt, secondo cui (lo spiega in L’estremo contemporaneo. Letteratura italiana 2000-2020, da cui sono tratte le citazioni successive) è opportuno sfatare l’idea di una «presunta uniformità linguistica e stilistica degli autori di oggi, che scriverebbero tutti nello stesso modo, vale a dire in un italiano piatto e incolore. In realtà, la narrativa contemporanea è caratterizzata da un’estrema varietà formale. Quello che porta, anche comprensibilmente, a falsare la percezione è il fatto innegabile che molti romanzi di successo appaiono indistinguibili tra di loro per quanto riguarda la scrittura, certamente anche a causa di un lavoro di omogeneizzazione perpetrato da molti editor. Nelle classifiche di vendita tende a emergere così un romanzo di tono medio, o più precisamente mediocre, in cui la lingua non presenta alcun elemento che la distingua significativamente da quella adoperata in quotidiani e rotocalchi». Sono perciò diverse le tendenze stilistiche individuabili: lo stile semplice, innanzitutto, usato perlopiù da quei narratori che si occupano di rappresentare le dinamiche complesse dei rapporti umani, come «Caterina Bonvicini, Andrea Canobbio, Diego De Silva, Claudio Piersanti, Alessandra Sarchi (soprattutto in L’amore normale, 2014); ma [lo stile semplice] si presta perfettamente anche alla prosa di quei romanzi che introducono elementi di natura saggistica, come si vede in buona parte della produzione di Walter Siti, o in uno dei libri più notevoli degli ultimi anni: Ipotesi di una sconfitta (2017) di Giorgio Falco».

Vi è poi quella parte della narrativa che si rifà alla tradizione, attraverso l’uso di termini desueti per innalzare il registro, ma restando comunque nell’ambito della lingua d’uso. «Il motivo principale di questa rimodulazione degli stili tradizionalisti va quasi certamente individuato nella percezione che il lettore di oggi sia mediamente meno attrezzato dal punto di vista linguistico, per cui un vocabolo o un giro di frase fortemente connotato come obsoleto potrebbe compromettere la leggibilità». Si tratta del filone narrativo odierno che si rifà allo stile di Elsa Morante: ne riprende le soluzioni narrative e tuttavia le modernizza e le semplifica. «Lo si vede bene nella più importante esponente odierna (almeno dal punto di vista della fortuna) della “funzione Morante”: Elena Ferrante». Si abbandonano gli arcaismi, presenti soltanto in quelle opere che si rifanno a forme di plurilinguismo o che usano la lingua anticheggiante in modo volutamente artificiale.

Sul fronte opposto si trova la narrazione antitradizionale, tra le cui fila vanno annoverati gli ultimi eredi degli scrittori cannibali. Resta vivo, oltretutto, il filone delle narrazioni «basate sulla riproduzione (ma sarebbe più corretto dire reinvenzione) dell’oralità, il cui modello fondamentale è costituito dai primi libri di Gianni Celati». Tra questi si annoverano il già citato Paolo Nori, ma anche Rossana Campo, Ugo Cornia, Paolo Colagrande, per dirne alcuni.

Da segnalare è pure l’espressivismo, un filone stilistico minoritario, che si avvale di tecniche ereditate dalla tradizione plurilinguista novecentesca e che ha in Gadda il suo nume tutelare. Contributi in tal senso arrivano da scrittrici come Rosa Matteucci e Silvana Grasso, e in particolare Laura Pariani, «che adotta certamente una prosa plurilinguista […] piegandola però, in modo non canonico, alle esigenze di una vena narrativa che non sembra mai accusare stanchezza».

Sopravvivono, infine, le opere definibili manieriste, «demonizzate dalla gran parte della critica sulla base di argomentazioni inconsistenti (si pensi alle categorie di necessità e urgenza, che inopinatamente emergono spessissimo come fattori che dovrebbero assicurare, chissà perché, la qualità della scrittura). Il principale artefice di macchine manieriste dei nostri giorni è certamente Michele Mari, degno erede (ma tutt’altro che pigro epigono) di Landolfi e Manganelli».

L’idea di una globalizzazione della narrativa è smentita anche dal ruolo nei romanzi italiani del dialetto, oggi in modo particolare, presente anzi in alcuni romanzi di successo. Si pensi, per esempio, ad Andrea Camilleri che ha avuto e ha «un ruolo trainante per la neodialettizzazione in atto nel romanzo».

In conclusione e alla luce di un panorama letterario tanto «frastagliato», così come definito anche nel quinto numero di «Cartaditalia», un dato è certo: tutto è in divenire.

Pertanto: «esiste ancora una “prosa letteraria?”»; è una domanda che Serianni continuerebbe a porsi, se fosse tuttora qui.

Fonte immagine: Florian Klauer su Unsplash.

Principi per affrontare il nuovo ordine mondiale Dalio

Il ciclo di Dalio sui tornanti della storia

«Che la forza dell’evoluzione sia con voi»: così Ray Dalio scrive nella prefazione, dedicata ai nipoti, della sua fatica I principi per affrontare il nuovo ordine mondiale. Dal trionfo alla caduta delle nazioni, uscito in edizione italiana per i tipi della Hoepli. Se non si fosse tacciabili di blasfemia, leggendone le 530 pagine verrebbe spontaneo rispondere: «E con il tuo spirito». Scherzi a parte, l’opera di Dalio si candida a essere il saggio economico del 2022.

Si ha l’impressione che I principi per affrontare il nuovo ordine mondiale possa essere, o in effetti sarà, interpretato come la risposta dell’establishment al best seller di Thomas Piketty Il capitale nel XXI secolo, che alla sua uscita parve dare nuova linfa, e munizioni, a chi si opponeva al mainstream economico. Non a caso il libro di Dalio, uno degli uomini più ricchi del mondo, considerato il re degli hedge fund, è accompagnato da un’osservazione di Bill Gates.

Con la sua opera, l’autore fa lotta di classe. Marx è citato fra le letture necessarie assieme ai filosofi greci e orientali, e da parte sua Dalio difende il capitalismo ma allo stesso tempo evita le trappole del moralismo e dell’autocompiacimento. Impossibile non rimanere ammirati dalla sua capacità di condensare secoli di storia economica, dati, fatti e osservazioni in un solo volume. Anche il lettore digiuno dei temi trattati troverà illuminanti, per esempio, le pagine sull’ascesa e la caduta dell’Olanda nel Settecento, e apprezzerà lo sforzo che l’autore profonde per stendere un filo rosso attraverso il magmatico contenuto del manuale. Tuttavia, lo scotto da pagare, soprattutto nelle pagine centrali, è il tono a tratti messianico di Dalio: non saremmo sorpresi di leggere da un momento all’altro un «In verità vi dico» o un «Va’ e non peccare più».

Ray Dalio ha appena ceduto il controllo di Bridgewater associati, una delle più importanti società di gestione di portafogli privati del mondo, da lui fondata. E il suo libro è un curioso ibrido: trattato di storia economica, manifesto politico, libro di memorie (le primissime pagine, in assoluto le più felici) e “sussidiario” per chi volesse sapere dove investire i propri risparmi. Già, perché Dalio invita i lettori a “fare i compiti”, offrendo loro la sua esperienza e un metodo di analisi. Dopo decenni consacrati alla più esasperata specializzazione accademica, qui gli economisti e gli analisti finanziari sono esortati ad alzare lo sguardo. Trovarsi nel bel mezzo di processi storici senza capirlo è secondo l’autore un peccato mortale, oltre che un pessimo servizio reso a un cliente che ha affidato loro i propri risparmi. Dalio incoraggia gli operatori economici a interessarsi di geografia, di storia, di antropologia, di filosofia e sociologia, ammettendo di aver avuto il privilegio di ricevere informazioni di prima mano da parte di capi di stato, ministri, banchieri; ma allo stesso tempo rivendica la capacità di averle sapute calare all’interno di una lettura complessa e di lungo periodo degli eventi.

Dal punto di vista accademico l’invito di Dalio dovrebbe essere preso al volo soprattutto nel nostro paese. La patria di Becattini, Napoleoni e Sylos Labini, economisti che avevano le caratteristiche menzionate da Dalio, da anni vede i dipartimenti e le facoltà di economia progressivamente monopolizzate da una visione aziendalista gretta e di corto respiro.

L’approccio di Dalio alla storia e all’economia è semplice: entrambe sono cicli. Se si impara il meccanismo interpretativo si può capire a che punto del ciclo siamo e intraprendere le misure opportune per i nostri risparmi e i nostri investimenti. Se per Vico la storia era fatta di corsi e ricorsi guidati dalla divina provvidenza, per Dalio a guidarla è il debito. Per dimostrarlo analizza le vicende storico-economiche dei grandi imperi del passato e del presente, concentrandosi sull’ascesa, la crescita, il consolidamento e la decadenza. Con un’osservazione sinottica Dalio estrapola i 18 fattori determinanti. Conscio della confusione che questa terminologia potrebbe ingenerare nel lettore, specifica la differenza fra il fattore, inteso come elemento, e il ciclo, insieme di fattori che si autoalimentano; tuttavia Dalio precisa anche che il ciclo è “in sé” un fattore determinante. Con la caratteristica di ripetersi nel tempo. Proprio la capacità di scorgere i fattori permette di capire a che punto del ciclo ci troviamo. Alla loro accurata descrizione è dedicata un’ampia sezione del volume, in cui l’apparente esattezza della formulazione lascia trasparire qua e là punte di determinismo.

Un aspetto meritorio dell’opera è quello di non lasciare cadere i singoli argomenti ma riprenderli e svilupparli, dando al lettore la possibilità di adoperarli per cambiare il punto di vista. Ad esempio, inquadrando il ciclo all’interno di una vicenda nazionale, possiamo capire se il paese in cui viviamo è in ascesa, in stasi o in decadenza.

Non è un’idea originale quella dei cicli. Senza scomodare Vico, troviamo, nel corso dei decenni, altre teorizzazioni economiche. Proprio dal punto di vista economico tale visione non si limita alla sola ortodossia capitalistica alla quale Dalio appartiene. Una rigorosa teorizzazione dei cicli economici, che subito viene alla mente scorrendo queste pagine, è quella esposta da Kondrat’ev, economista sovietico, nei primi anni Venti. Il sospetto che Dalio lo abbia letto almeno in parte è forte.

Kondrat’ev, che pur avendo aderito alla rivoluzione di Ottobre non fu mai un marxista in senso stretto, coniò il termine «onde lunghe», più suggestivo di «cicli», con il quale, tramite modelli statistici e matematici, cercava di interpretare le dinamiche di lungo periodo dell’economia capitalista, uscendo da una stretta lettura della dialettica della lotta di classe. Questo “formalismo”, accusa polisemica e terribile nell’Urss d’anteguerra, gli venne rimproverato da Trockij con articoli polemici oltre che, più tragicamente, nell’epoca staliniana. Kondrat’ev scomparve infatti durante le purghe degli anni Trenta.

La lettura “classica” delle fasi di sviluppo e recessione svolta nello stesso periodo da Schumpeter è arricchita da Kondrat’ev con l’idea che tali fasi, nell’economia capitalistica, non siano legate a semplici fluttuazioni dovute a contingenze di breve periodo, ma tendano invece a ripetersi nel corso dei secoli e che siano connaturate al capitalismo stesso.

Kondrat’ev si spingeva anche più in là di Dalio, quando affermava che i cicli “normali” di espansione hanno una durata compresa fra i sette e gli undici anni, ma che ne esistano altri, più lunghi, che possono arrivare fino ai 50 anni. Se proprio questo determinismo gli venne rimproverato da Trockij, alcuni elementi di Kondrat’ev sono stati recuperati da economisti non marxisti né eterodossi per illustrare le Trente Glorieuses francesi, o l’espansione economica italiana, giapponese e tedesca del secondo dopoguerra.

Se il piatto forte di Dalio è il ciclo economico, altri capitoli del libro sono consacrati a una teorizzazione politica del pensiero economico dell’autore. Ed è forse la parte più debole. Non solo perché chi scrive non ne condivide la visione, ma perché l’osservazione, che si vorrebbe rigorosa, è invece palesemente influenzata dall’ideologia dell’autore. Dalio è scettico sull’interventismo statale, crede che la funzione principale della spesa pubblica sia finanziare generosamente il sistema educativo, le infrastrutture e la ricerca scientifica, in un’ottica di lungo periodo. In questo, peraltro, traspare un’ammirazione per la Cina, che pur avendo un sistema politico che l’autore non sembra condividere, o paradossalmente proprio per questo, è capace di programmare oltre le scadenze elettorali e la volatilità dell’opinione pubblica. Per Dalio l’emergere dei “populismi”, in cui disinvoltamente accomuna destra e sinistra, è sintomo di una crisi più ampia della società e dell’economia. L’autore ne inquadra le ragioni di fondo sempre nell’ottica dei cicli, ma tralascia i rapporti di forza degli attori in campo. E gli interessi che essi difendono.

Più lucida è la parte in cui si sostiene che più un sistema è in crisi più sarà tentato di esportare la sua crisi attraverso un conflitto. Questo vale anche per difendere un’egemonia declinante. Se Dalio aveva in mente un confronto fra Cina e Usa, con questi ultimi in fase discendente, la vicenda ucraina ha poi reso ancora più attuale la sua osservazione.

La parte finale del libro è una lettura delle prospettive economiche dei grandi paesi, condotta attraverso i diciotto fattori: Dalio “fa i tarocchi”. È significativo notare che fra i grandi paesi mette la Spagna ma non l’Italia, citata di sfuggita nel libro e sempre come comparsa, spesso negativa, di cicli altrui. Alla luce della sua visione dell’economia e dei cicli, l’autore probabilmente non ci considera più un “grande paese”. Ed è francamente difficile dargli torto.

Chi condivide le idee di Dalio troverà una preziosa scatola degli attrezzi per replicare a narrazioni della crisi che non condivide. Chi non le condivide è costretto però a ragionare sulla sua lunghezza d’onda e a interrogarsi su punti di vista originali. In definitiva, è certamente un libro da leggere, anche se non gli si può non muovere un appunto: l’assenza di una bibliografia. Un’opera così rilevante dovrebbe averne una. E anche cospicua.

 

(Ray Dalio, I principi per affrontare il nuovo ordine mondiale. Dal trionfo alla caduta delle nazioni, trad. di Ilaria Katerinov, Hoepli, Milano 2022, 538 pp., euro 24,90. Articolo di Diego Vanni Macaluso)

 

Copertina di Melma rosa di Fernanda Trías

Il rosso e il nero sulla Rambla

Ci sono pagine che si scrivono sul lato B della letteratura, quella che dà voce al piccolo racchiuso nello sguardo individuale. Ne è un esempio Melma rosa, scritto da Fernanda Trías nel 2019 – poco prima che iniziasse la pandemia – e da poco edito da Sur nella traduzione di Massimiliano Bonatto. A narrare è una giovane donna che osserva la propria città – che presumiamo essere Montevideo da una serie di riferimenti topografici – fermarsi e trasfigurarsi a seguito di una misteriosa pestilenza che arriva dal mare e forse dalle responsabilità umane. Tutto viene avvolto dal rosso, il colore della morte come in La maschera della morte rossa di Poe, tutto parte da alghe untrici che, grazie a un vento implacabile, diffondono le proprie spore sulla costa costringendo gli abitanti a fuggire verso l’interno o a barricarsi in casa. Intanto domina il silenzio rotto soltanto dai rumori inquietanti delle sirene di allarme, dalle ambulanze e dalle sgommate dei tassisti diventati con l’epidemia traghettatori di anime verso gli ospedali. In mezzo a questo scenario apocalittico, l’occhio della protagonista cade sull’insegna al neon dell’Hotel Palacio, a cui mancano un paio di lettere perché bruciate, che trasmette il senso di incuria e di sospensione che la città sta vivendo.

La voce narrante è molto diversa dal Principe Prospero del racconto di Poe, che si stordisce in mille distrazioni ed esorcizza quanto accade fuori. Decide invece di rimanere a Montevideo perché non riesce a pensarsi altrove e, pur indifferente alle facce che incontra, incapaci di contenere la paura, decide di indagare il senso dei propri precari legami affettivi che si sono oramai tinti di nero: non tanto il colore del lutto quanto l’assenza stessa di colore che ci rende irriconoscibili agli occhi del mondo. A questo senso di indeterminatezza la voce narrante si ribella con l’urgenza di chi vuole mettere ordine nella propria vita e capire quali sono i rapporti autentici su cui poter contare, e il suo grido di rivolta si unisce a quello di una Natura defraudata, rivelando una sensibilità ecologista che Trías condivide con altri scrittori sudamericani.

Il romanzo è apparso per molti versi profetico ed è stato frettolosamente rubricato nella letteratura sulla pandemia, un po’ come accaduto a Cecità di Saramago e altri scritti, anche per le vistose assonanze con situazioni che abbiamo tutti vissuto, tra lockdown e mascherine, ospedali intasati e complottisti. Tuttavia l’evento straordinario è solo una cornice all’interno della quale la voce narrante ripensa a sé stessa e al suo rapporto con le figure “nere” della propria vita. Si pensi al non detto che allunga le distanze tra le persone, rappresentato dal personaggio della madre, o a chi è stato un faro destinato a spegnersi come l’ex marito. Accanto a queste ci sono altre figure indeterminate: il bambino oscurato dall’etichetta della malattia a cui fa da tata e la sua stessa tata che sbiadisce nel ricordo. Tutte figure che interrogano la protagonista e i lettori riguardo a ciò che siamo disposti a dare di noi e a prendere dagli altri. Perché forse, ci suggerisce Trías, proprio quando tutto diventa scuro e non riconosciamo chi ci sta accanto, è il momento di fermarsi per fare chiarezza sul “noi e loro”, pungolati da un reale bisogno di autenticità per potersi pensare domani. Perché la pandemia, certo, passerà, ma se non agiamo prima rimarrà il dubbio su coloro con i quali abbiamo realmente a che fare ogni giorno.

Gli incontri tra madre e figlia sono di circostanza, probabilmente favoriti dall’emergenza in corso, caratterizzati da un tira e molla estenuante tra chi giudica e chi si sente giudicata, benché nessuna delle due parti intenda mollare la presa del proprio capo della fune. Una madre solo all’anagrafe che è diventata, o forse è sempre stata, un grande luogo comune, una figura estranea, alla quale ci si rivolge con frasi fatte.

C’è poi l’ex marito Max, che ha contratto il virus in una forma lieve ed è sotto osservazione da parte della scienza medica, e vive in una sorta di limbo tra guarigione e morte. Anche con lui le visite avvengono più per senso del dovere che per reale affetto, perché ormai la lingua di Max è inesorabilmente sintonizzata su stereo, mentre quella della protagonista su mono.

Le pagine dedicate al personaggio di Mauro sono tra le più riuscite del romanzo per lo scandaglio psicologico e il tentativo di superamento non solo del “rosso” ma anche del “nero”. Mauro è un bambino affetto da una rara sindrome, che presumiamo di Prader-Willi, che genitori facoltosi affidano come un pacco postale alla protagonista affinché gli tenga compagnia e lo distragga da una fame onnivora. Tuttavia lei non lo considera un malato, quanto un corpo di cui si è impossessato un impostore che si può ridimensionare sviluppando nel piccolo l’autostima e l’indipendenza. In altre parole: Mauro non è ciò che appare. Con lui la protagonista, lasciandosi alle spalle anni di diffidenza, entra nel territorio del possibile e della fantasia ipotizzando un futuro migliore. Mauro è un simbolo: più che nutrirsi sente il bisogno di predare cibo, una compulsione che è necessità di riempire un vuoto affettivo e diventa metafora di una società dal consumo sfrenato che, non trovando mai sazietà, alla fine si autodistrugge.

Infine c’è Delfa, la governante, una seconda madre, con le sue mani che avevano, nei ricordi della voce narrante, tutti i profumi del mondo, e che sapevano accarezzare la sua testa in un modo unico. Figura, quest’ultima, con cui l’autrice affronta il tema della memoria, e in cui spesso sottrae parte dei ricordi costringendoci a scavare per rimetterli insieme. Non pare un caso che la protagonista diventi lei stessa una tata. Trías non ha pertanto timore a dirci in queste pagine che chi ci sta accanto o è assente o non è come pensiamo, e chi è assente lo vorremmo vicino.

La prosa avvolgente e a tratti sinistra di Melma rosa si nutre di fasi temporali diverse che si sovrappongono: il presente della narrazione, nel momento della pandemia, con una scrittura immediata, a volte aspra, che ha fretta di registrare con lucidità e fastidio ciò che la circonda, e i ricordi del passato, tasselli in frantumi che si guardano con gli occhi della maturità e il cuore di una ragazza, il non tempo della memoria che si contrappone a un tempo oramai diventato poroso. Nel romanzo si fa anche un ampio uso del non detto, anche relativamente alle vicende passate e presenti dei protagonisti, che si traduce in un dover leggere tra le righe e nella possibilità per il lettore di darsi in autonomia delle risposte utilizzando il proprio intuito o la fantasia.

Va osservato che la Montevideo apocalittica che ci viene raccontata non è quella del 2019, ma quella ricostruita dall’autrice nella sua memoria negli anni Ottanta, quando era bambina e c’era la dittatura. Ne consegue che quello di Trías è un esercizio di nostalgia, poiché molti dei suoi ricordi sono stati prestati alla narratrice. La claustrofobia di cui è spesso vittima la popolazione rimanda a un’atmosfera opprimente, nell’inconscio collettivo, di cui non si parlava in famiglia ma che era ben presente ed è forse all’origine dell’allontanamento dell’autrice dalla sua città natale. E la figura della madre, con la quale la protagonista non riesce a parlare, potrebbe rappresentare la patria, con cui il dialogo è difficile e con la quale si stendono i silenzi. È una figura autoritaria da cui si dipende perché nutre, ma che allo stesso tempo si odia perché il prodotto che restituisce è scadente.

Come è scadente quella melma rosa che dà il titolo al libro, una sorta di carne in scatola, prodotta da carcasse animali dalla più importante industria statale, fiore all’occhiello del paese, l’unico cibo reperibile durante la pandemia. Emerge un tema decisivo per Trías, già rintracciabile nella figura di Mauro, quello del nutrimento nella sua duplice accezione: non solo cosa mangiamo o cosa siamo disposti a mangiare, senza interrogarci troppo sulla provenienza del prodotto, ma anche di cosa ci nutriamo nei rapporti interpersonali e se siamo sazi di quello che offriamo. C’è bisogno di una pandemia per capire quali sono le relazioni autentiche su cui investire tempo, energie ed entusiasmo, e che ci permettono di salvarci da un tempo pirata e non più corsaro?

 

(Fernanda Trías, Melma rosa, trad. di Massimiliano Bonatto, Sur, 2022, 240 pp., euro 17, articolo di Claudio Musso)
Gli orsi non esistono poster

Iran: un film contro la paura

Un gesto concreto per mostrare vicinanza alle manifestazioni iraniane potrebbe essere andare a vedere Gli orsi non esistono di Jafar Panahi. Si dovrebbe distribuirlo in tutti i cinema e farlo girare nelle scuole, proprio per suscitare la consapevolezza intorno alla difficile condizione che si trovano a vivere tante persone in Iran. Il messaggio forte e chiaro che ne esce è uno solo: da quella nazione non si esce e di ciò che accade in quel paese non si deve parlare.

L’arte di Panahi indaga il confine tra realtà e finzione, giocando con le potenzialità del cinema quale mezzo per rifiutare l’autocensura. Già a partire dal suo terzo film, Il cerchio, le vicissitudini personali si raccontano con maggiore evidenza al fianco delle donne iraniane, delle diseguaglianze sociali e della mancanza di libertà degli artisti.

Gli orsi non esistono è una meta-narrazione intorno alla propria condizione di condannato e carcerato. Mentre progetta un film da remoto, come è solito fare dopo la condanna del 2010 che gli vieta di girare pellicole, il regista vive quasi recluso nella stanza che ha preso in affitto in un piccolo villaggio di confine per seguire più da vicino le riprese della storia vera che ha deciso di raccontare: una coppia iraniana in esilio in Turchia che tenta con ostinazione un modo per lasciare il paese. Prendendo a pretesto la foto (inesistente) che gli uomini del villaggio gli vanno reclamando, Panahi mette a confronto la vita rurale di una cittadina iraniana, quella che sta dietro alla macchina da presa, con l’amara esistenza di chi è esiliato nell’altra cittadina, quella turca al di là del limite, che sta davanti alla telecamera. Se Panahi viene coinvolto nelle diatribe di uomini semplici, legati a usanze antiche e quasi tribali, i protagonisti del suo film in lavorazione sono in trattativa con i contrabbandieri per tentare di raggiungere l’Europa. Da un lato ci sono le torce per vedere di notte e le dicerie su orsi che in realtà non esistono, dall’altro la vivacità di una cittadina dove circolano molte macchine e le donne non indossano il velo.

Il senso di paura e repressione rimane però lo stesso: Panahi che si trova a disagio a dover testimoniare davanti al Corano, preferendogli la macchina da presa quale mezzo che attraverso le immagini inchioda la verità, e i due in fuga che sono intrappolati in uno stallo di disperazione dal quale non si torna indietro, perché a rischio di nuove torture, e dal quale non si va nemmeno avanti, perché i passaporti sono introvabili. In un crescendo di ansia e nodi alla gola, la disperazione di un popolo oppresso non lascia spazio al lieto fine. Ma nonostante tutto, la speranza che la parola e le immagini possano essere salvifiche è la pietra angolare e il manifesto del cinema di Panahi. Non a caso, pur avendo l’occasione di attraversare il confine, l’istinto lo riporta indietro, forte della sua militanza vissuta nel cuore di un paese vessato e tormentato dai suoi stessi vertici.

Se la presenza degli orsi è soltanto una montatura per deviare pensieri e azioni, la metafora ci racconta di un regime che costruisce la propaganda intorno al terrore e che manipola il linguaggio per reprimere. Il film diventa così il manifesto pacifista di un intero popolo, quello forte che resiste e quello sofferente che fugge: tutti in cerca di redenzione per una patria che dovrà pur rinascere libera, un giorno.

(Gli orsi non esistono, di Jafar Panahi, 2022, drammatico, 107’)

copertina di Proust di Beckett

Epigoni di Proust nel teatro

Proust è uno scrittore talmente unico, e il suo apporto alla letteratura del Ventesimo secolo così prorompente e decisivo, che nella maggioranza dei casi il tentativo di rintracciarne epigoni appare forzato. Tuttavia, proprio là dove meno ce lo si aspetterebbe, ecco che si rivelano al meglio le coordinate della sua eredità, come osserva Margherita S. Frankel nel saggio Beckett e Proust: il trionfo della parola (SE, 2004): «Si è molto parlato di una derivazione joyciana per l’opera di Beckett, ma l’affinità con Proust appare molto più sorprendente, anche se è allo stesso tempo più sottile e latente». Difatti, per quanto a prima vista il maestoso dispiegarsi delle complesse metafore proustiane sembri non avere nulla in comune con lo stile scarno del Premio Nobel irlandese, quest’ultimo «si presenta a noi quasi come una [sua] continuazione, come un Proust che sarebbe vissuto trent’anni più tardi, in un mondo apocalittico che non ha più niente in comune con il mondo che precedette la Prima guerra mondiale».

Beckett, suo fervente ammiratore – tanto da arrivare a paragonarlo a Dostoevskij – nel 1931 a soli venticinque anni pubblicò Proust (Sugarco, 1994), un originale testo di critica letteraria che, come il poemetto Oroscopata dell’anno precedente (Utet, 1973), può soprattutto leggersi quale sorta di canovaccio poetico e filosofico della sua intera opera futura. Caratterizzati dalla prosa contemporaneamente erudita e impertinente, se non al limite del demenziale, tipica di questa prima fase della sua attività letteraria, entrambi presentano già i principali temi proustiani dell’abitudine, della memoria e del tempo. Oroscopata, in particolare, che vinse il primo premio del concorso per inediti della casa editrice Hours Press, organizzato dal romanziere Aldington e dalla poetessa Cunard, esigeva come regola il non dover superare i cento versi e l’avere come tema, per l’appunto, proprio il tempo. Beckett accettò la sfida scrivendo velocissimamente, nel giro di una sola nottata, un componimento volutamente ambiguo – infarcito tanto di citazioni nascoste e arcani accademismi quanto di uno sbeffeggiante turpiloquio – nel quale, seppure la critica ha giustamente riconosciuto l’influenza della scrittura sperimentale e profondamente innovativa di Joyce, sono nondimeno presenti notevoli attinenze con i concetti dell’anti-accademismo, del contro intellettualismo e della critica al naturalismo che costituiscono le fondamenta stesse della Recherche.

Infatti, lontano dall’essere «un’arguta e superficiale esibizione di cultura esoterica», come lo definirà la saggista americana Deirdre Bair in Samuel Beckett. Una biografia (Garzanti, 1990), che nel 1981 le valse il National Book Award, Oroscopata è piuttosto una prova audace e dissacrante che prende spunto da un aneddoto contenuto in Vita di Cartesio del teologo seicentesco Adrien Baillet (Adelphi, 1996), che il giovane Beckett stava leggendo in quel periodo. Scoprendo infatti che Cartesio fosse restio a dichiarare la propria data di nascita, temendo che qualche astrologo ne riuscisse a predire quella di morte, Beckett vi trova lo smitizzante aggancio con l’argomento del concorso poetico sullo scorrere del tempo, cui darà seguito con l’acuta trovata dell’uovo. Il poemetto si apre con Cartesio che dà un uovo al suo servitore Gillot, affinché glielo cucini. Però è troppo fresco, così lo scienziato si raccomanda a Gillot affinché aspetti che sia abbastanza guasto e vecchio prima di prepararglielo. Scorrono versi in cui Cartesio domanda a che punto è l’uovo, alternati ad altri in cui si lascia andare a criptiche ma dottissime dissertazioni. Sul finire dell’elaborato poetico, finalmente l’uovo raggiunge il giusto grado di deterioramento affinché possa essere cotto e mangiato.

Ma al di là della concordanza dei contenuti, e sebbene in Oroscopata le caratteristiche sopra le righe dello stile e della lingua siano piuttosto distanti da quelle di Proust, per contro non va trascurata la sottile vena di umorismo e ironia che sottende a molte pagine della Recherche, aspetto spesso sottovalutato se non addirittura ignorato dalla critica. Peraltro, anziché scemare nei lavori successivi, la sua ascendenza si fa perfino più chiara in quelli della maturità, raggiungendo il suo apice in Aspettando Godot, la cui prima rappresentazione avvenne a Parigi nel 1953. Scritto in francese come la maggior parte delle proprie opere – il titolo originale è infatti En attendant Godot – in questo che è senza dubbio il suo capolavoro, nonché una pietra miliare del teatro del Novecento, non poche sono le analogie con gli aspetti più salienti della Recherche. Nella stessa vicenda dei due vagabondi Valdimiro ed Estragone, seduti da soli sotto un albero spoglio in una deserta strada di campagna, ad aspettare un certo Godot che ha dato loro appuntamento ma non arriva, Beckett riprende e sottolinea lo sguardo lucidamente impietoso che Proust riserva ai rapporti umani, dall’amore all’amicizia, come quando ne Il tempo ritrovato arriva a far esplicitamente pronunciare al Narratore: «l’artista che rinunci a un’ora di lavoro per un’ora di chiacchiere con un amico sa di sacrificare una realtà per qualcosa che non esiste (gli amici essendo tali solo in quella dolce follia che ci prende nel corso della vita, alla quale ci prestiamo, ma che in fondo alla nostra coscienza reputiamo essere l’errore di un pazzo il quale credesse che i mobili vivano e parlasse con loro)».

 

 

Crudezza proustiana, ci dice Sergio Moravia nella prefazione all’edizione Sugarco (1978) del citato saggio su Proust, nata dall’esigenza del drammaturgo irlandese di contrastare certa critica che stava prendendo piede in quegli anni, superficialmente volta a edulcorare le reminiscenze infantili del Narratore e il suo appassionato amore per la mamma e la nonna, così come ristretta nell’ottica di una consolatoria lettura da lieto fine del complesso impianto filosofico riguardo la vita, la letteratura e l’arte. La grandezza di Aspettando Godot, per Moravia, consiste dunque nell’aver riconosciuto, compreso e valorizzato quel sentimento di vacuità di ogni affetto umano già espresso nella Recherche, rinnovandolo nel pessimismo e nella solitudine di una tragicommedia costruita intorno alla condizione dell’attesa. Stato esistenziale, avverso a ogni moralismo, che trova aspetti di contiguità anche con la capacità istintiva e innata propria a ogni essere vivente, vale a dire quell’abilità di nascondersi, di preservare il proprio isolamento, che i filosofi materialisti del Settecento chiamavano gravitation sur soi – e così di frequente tacciata di asocialità, egoismo, alienazione – di cui ci parla Proust a proposito del piacere di leggere (Il piacere della lettura, Feltrinelli, 2016), dal quale gli altri tendono continuamente a sottrarci per richiamarci a loro.

Se infatti, per Proust, quella gravitazione su se stessi equivocata e minacciata è un istinto fondamentale e un diritto, la cui rivendicazione è la condizione della propria felicità, Vladimiro ed Estragone non possono o non vogliono uscire dalle circostanze del proprio ombelicale estraniamento, persuasi come sono che l’essere fuori da tutto, cristallizzati in un eterno presente che tornerà a scorrere solo quando arriverà Godot – per quanto non sappiano neanche esattamente chi sia o che aspetto abbia, né conoscano con certezza luogo e orario dell’appuntamento che hanno con lui – rappresenti per loro circostanza irrinunciabile e unica possibile via di salvezza. Tempo immobile, dunque, nel quale rifugiarsi rifiutando ogni opportunità di azione o cambiamento, tanto da far credere che il vero protagonista della storia sia in realtà assente. Come nella Recherche, dove il personaggio principale non è esattamente il Narratore quanto piuttosto il Tempo, all’interno del cui flusso lui e le altre figure si parcellizzano, dissolvono e ricompattano in continuazione nell’insieme cangiante di un molteplice Io, qui Valdimiro ed Estragone sono due memorie volontarie che dimenticano tutto, impenetrabili, incomprensibili e inafferrabili alla pari degli altri tre attori della pièce – Pozzo, il proprietario terriero che tiene al guinzaglio il suo servitore Lucky e l’anonimo giovane messaggero di Godot – come loro presenze fluttuanti disperse in un mondo senza ieri né domani.

Nell’astrattezza del Godot, o più esattamente nella sua totale apertura di significato, attraversata dalla reiterazione a più riprese della stessa frase: «quel che si deve fare è passare il tempo», tanto quanto nell’identico ripetersi delle medesime scene e dialoghi sia nel primo che nel secondo atto, tranne che per un paio di cambiamenti senza nessuna incidenza – Pozzo nel frattempo è diventato cieco e sull’albero è spuntata qualche fogliolina –, unitamente all’abolizione sia dell’azione che della trama, può leggersi in trasparenza il debito nei confronti della mutevole indefinitezza dell’universo proustiano, con la sua impalpabile successione di eventi al di là di ogni trattazione logico-consequenziale, senza vera e propria concatenazione né scioglimento, agenti nel segno dell’unico nesso di una labile traccia di stati d’animo, sentimenti ed emozioni prigionieri del tempo.

E, così come l’immenso edificio della Recherche è soprattutto il racconto di una vocazione alla scoperta di sé, l’instancabile costruzione da parte del Narratore, a ritroso, del significato della propria esistenza, Vladimiro ed Estragone ne rovesciano e ricreano la domanda, nell’attesa che nella loro dimensione senza memoria e priva di passato si manifesti un fondamento di senso che la giustifichi. Ricerca di un’identità cui Beckett, come noto, si è sempre rifiutato di fornire spiegazioni, arrivando a pronunciare la celebre frase: «se avessi saputo chi è Godot l’avrei scritto nel copione», ma che tuttavia continua a rivelarsi incessantemente, animata come l’ansia d’indagine che muove il Narratore, punto d’incrocio tra noto e ignoto, tra ciò che è e ciò che da noi viene percepito, esplorato e analizzato.