Copertina di Il grande me

Ci conosciamo davvero?

«Ci conosciamo davvero papà?» È intorno a questa domanda che si impernia il nuovo romanzo di Anna Giurickovic Dato, Il grande me (Fazi Editore, 2020). È una storia che si iscrive di diritto nel genere dell’autofiction con escursioni nel memoir. Racconta la vicenda di Simone, un uomo poco più che sessantenne, ormai agli ultimi giorni di vita a causa di un tumore al pancreas. Per quegli ultimi momenti che gli restano da vivere, viene raggiunto dai figli a Milano. Mario, Carla e Laura infatti abitano a Roma, hanno vissuto a lungo lontano da lui: dal giorno della separazione di Simone dalla madre dei tre.

Il romanzo è narrato in prima persona da Carla, la secondogenita, ed è attraverso di lei che seguiamo l’evolversi della vicenda, è lei a porsi l’interrogativo citato all’inizio.

Carla sa poco e niente di suo padre, se ne rende conto in quegli ultimi drammatici giorni. Lo vede dimagrire, consumarsi e tenta un disperato recupero identitario e di memoria. Appena riesce fa raccontare a Simone alcuni istanti di vita di cui lei non sa, o sa poco. Ed è nel ricordo di lui bambino, che scopriamo un cortocircuito tra Carla, suo padre e sua nonna. È un amore a cascata e di ritorno. Come Carla ama suo padre, così lui ama sua madre e viceversa. Rimane indelebile questo rapporto fino alla fine, quando Simone si preoccupa – nel delirio finale della malattia – che sua madre, seppur ormai morta, non si preoccupi di quel che gli sta succedendo. È interessante questo caleidoscopio frammentato di amori filiali incondizionati, che esulano appunto da una reale conoscenza reciproca in profondità dei caratteri. È un passaggio di testimone che Carla si impegna a ricevere.

Da qui prende piede «il grande me» che diventa il titolo del romanzo. Infatti è questo passaggio di consegne di padre in figlia, e prima di madre in figlio, a determinare la grandezza di qualsiasi storia familiare; la fiaccola della memoria che prosegue e persegue la vita di ciascuno. Non solo. Il titolo per forza di cose riecheggia a Il grande Gatsby, e qualcosa di Gatsby in Simone c’è. Il suo essere affascinante, la sua teatralità, un certo egotismo, uno sbrilluccichio di un passato non troppo remoto e un segreto che vorrebbe confessare.

Il segreto diventa il motore per spostare, anzi alternare strutturalmente il romanzo da autofiction a memoir. Scavare nel passato del padre permette a Carla (e all’autrice) di indagare e fargli raccontare gli anni della giovinezza, quelli del matrimonio e poi della vita milanese successiva al divorzio. Qui rintracciamo un punto debole del romanzo, l’indagine infatti è sospesa, non è approfondita, alcuni passaggi interessanti della Catania anni Settanta o della Milano anni Novanta, quando Simone viene eletto al Senato in una lista di centrosinistra, restano in superficie così da mancare una più forte caratterizzazione dell’evoluzione di quel padre, monolite indistruttibile che invece nel presente si sta disfacendo.

«Assisto, ogni giorno, a una mutazione rapida e disorganica dove il certo trasloca nell’incerto, un riarrangiamento cromosomico di tutto ciò che c’è in lui di immateriale risponde, come per ribellione, alla disgregazione della sua materia», scrive l’autrice a pagina 84. È la caduta dal certo all’incerto che paralizza Carla, nonostante lei tenti di accudire suo padre, di rendersi utile, ma poi si accorge che niente può salvarlo, che l’ineluttabilità della malattia e della morte devono spingerla a un diverso atteggiamento – di accettazione. L’accettazione passa anche attraverso una breve ma intensa ribellione di una sera, quando suo padre si addormenta e lei cerca di riappropriarsi di sé, della sua femminilità e esce, tirata a festa, e va a trovare un amico del padre. Per fare bene cosa non sa, magari proprio appropriarsi del passato sconosciuto.

Lingua e stile di Anna Giurickovic Dato sono ben calibrate, adatte alla narrazione, un misto di periodi lunghi, che riflettono gli interrogativi e i timori della protagonista, alternati a dialoghi serrati tra figli e padre. La caratterizzazione dei personaggi passa molto bene attraverso le loro voci dialogate, visto che in narrazione indiretta essi passano attraverso gli occhi di Carla, e il lettore rischierebbe di non avere un punto di vista neutro. Così cresce il dolore della sempre più vicina perdita combinato alla presa di coscienza. Anche Simone alla fine, dopo avere tentato di aggrapparsi a inesplicabili speranze e a quel senso istintivo di sopravvivenza che ci caratterizza, sembra accettare la morte, nell’ultimo toccante dialogo che ha con la figlia.

Il grande me è un romanzo ben delineato e compatto, in cui però la realtà dei fatti talvolta sovrasta la verità autoriale, forse questo è un suo difetto, come in parte si accennava prima. Strutturalmente si sarebbe potuto osare di più senza perdere aderenza, alcuni momenti restano semplici assaggi narrativi; uno su tutti il divorzio dei genitori di Carla, lasciato a poche battute in fondo a pagina 112, eppure l’attacco del capitolo 16, in cui la protagonista svela un ricordo della famiglia unita in viaggio in macchina, in cui la felicità risuonerà come «una parola a cui non diamo nessuna importanza […], non sappiamo ancora che non tornerà», avrebbe meritato più spazio a scapito anche di frantumare la rigida struttura temporale.

Resta in ogni caso un romanzo che merita di essere letto, che merita di posarsi parola per parola, nel tentativo di dare una risposta al quesito iniziale, e che caratterizza chiunque, non solo la protagonista: «Ma noi ci conosciamo davvero?».

(Anna Giurickovic Dato, Il grande me, Fazi Editore, 2020, pp. 230, euro 18, articolo di Fernando Coratelli)
Copertina di Grand Hotel Europa di Pfeijffer

Fake Hotel Europa

All’origine di Grand Hotel Europa (Nutrimenti, 2020) c’è l’intenzione di pararsi le spalle e di farsi sussidiare. Il protagonista, che porta l’«improbabile» nome di I.L. Pfeijffer, è uno scrittore olandese che come altri illustri compatrioti prima di lui ha abbandonato i Paesi Bassi per sfuggire a un senso opprimente di informalità. A differenza loro è stato il primo a stabilirsi in Italia e a trovare in questo paese euforicamente in declino, dove la gerarchia sociale ha conservato intatta l’elegante trama dell’ingiustizia, il palcoscenico ideale per allestire un nuova fase all’insegna dell’engagement.

Qui ha trovato anche l’amore della sua vita, la storica dell’arte Clio, che in una geremiade contro le nefandezze dell’accademia italiana ci ricorda che «la metà del patrimonio artistico mondiale si trova in questo paese». L’Italia è schiava del passato e «fa parte nel Dna degli italiani il non aspettarsi aiuto dallo Stato e considerare il potere centrale più un nemico che un amico». Con un non sequitur illuminante, quando un team di cineasti importuna lo scrittore con la vaga prospettiva di girare un documentario sulla sua vaga vita, questa musa eccellente gli suggerisce che «il progetto potrebbe essere quello di farli filmare la ricerca per il tuo nuovo libro sul turismo. […] Il vantaggio per te sarebbe che con le loro sovvenzioni rendono possibile la tua ricerca».

L’idea non è peregrina, tanto più che lo scrittore, sensibile al dilemma di essere un migrante di lusso nell’epoca degli sbarchi, non deve pensare troppo agli argomenti per convincere il team a sposare il suo progetto: «I turisti sono sempre gli altri. […] Il turismo forma un contrasto scomodo con l’altra forma di migrazione che è la conseguenza della globalizzazione e che consideriamo senza riserve problematica […]  Il turismo tocca temi da cui sono sempre stato affascinato e di cui in un certo senso parlano tutti i miei libri, e qui alludo soprattutto alla linea di separazione nebulosa e sempre più imprecisa fra vero e falso, dato di fatto e finzione, realtà e fantasia, verità e invenzioni». Sembra una vera richiesta di sovvenzione, no? Ed è esattamente così, come apprendiamo da una lettera spedita al fondo olandese per la letteratura e raccolta in Brieven uit Genua (Lettere genovesi).

Gran parte delle seicento pagine spese a ridicolizzare i turisti si basa sul dilemma del prigioniero: a parità di informazioni, a chi conviene rinunciare per primo al turismo di massa? Troppo preoccupato a mantenersi in equilibrio sulla diga che separa i dati di fatto (imprecisi) e le invenzioni (nebulose), il romanziere dimentica che una delle virtualità di una narrazione sta anche nell’infrangere il frame dominante e proporre visioni sperimentali della realtà. Ed ecco che invece il turismo di massa è il figlio della «religione mondiale del neoliberalismo», il cui unico dio è l’io.

È soprattutto per riflettere sull’accusa di egoismo rivoltagli da Clio che lo scrittore si ritira in un albergo delabré in un punto del suolo europeo così indefinito che non può che essere in Mitteleuropa, giusto in tempo per seguire gli ammodernamenti disposti dal nuovo capitale cinese in direzione di uno stile neo-europeo. Protetto da questo rudimentale escamotage allegorico, che farebbe intenerire Steve Bannon, lo scrittore discetta affabilmente con il signor Patelski, vetusta incarnazione dello spirito europeo, che come tutti gli altri personaggi è un bricolage tra gli incravattati editoriali e le abissali falle nella corteccia prefrontale dell’autore Pfeijffer.

Quando non sono impegnati a complimentarsi a vicenda, i due intellettuali stiracchiano con audacia il destino veneziano a un’Europa ontologicamente sommersa dal passato e incapace di resistere agli assalti barbarici del turismo, in particolare quello asiatico. I due però non si crogiolano nella nostalgia e sanno bene che siffatte teorie sono molto diffuse nell’estrema destra («Le fa onore questa preoccupazione circa l’origine delle vendite dei suoi scritti»). Dopo aver tracciato un repellente parallelo tra l’invasione dei turisti e il respingimento dei migranti, il pragmatico Patelski sostanzia da un punto di vista filosofico-realista la policy dell’accogliamoli tutti, dimostrando di sapere nulla sull’argomento e ancora meno su un approccio pragmatico alla crisi migratoria. Nel generale tono denigratorio riservato ai ‘cinesi’, il dotto Patelski dà adito a pure speculazioni, come quando afferma che le spedizioni marittime guidate dall’ammiraglio Zheng He a inizio Quattrocento puntassero anche a Venezia.

Ma si sa, mescolare realtà e finzione è da sempre la specialità dell’autore. A tal fine ha anche restaurato l’effetto Droste del romanziere che sta scrivendo un romanzo che somiglia al romanzo che stiamo leggendo. Il risultato però non è un labirinto epistemologico, ma la prima lezione di contorsionismo ombelicale. Stranamente, il primo incontro Patelski verte su un aspetto meno ludico: «Dopo un paio di domande informative sulla mia poesia e i miei romanzi portò la conversazione sulla nozione di empatia, che secondo lui costituiva l’aspetto più pregevole della letteratura. A questo proposito ero incline a schierarmi in tutta modestia dalla sua parte e ritenni di poter aggiungere che quella nozione nella nostra società complessa ed estremamente frammentata, caratterizzata in misura sempre maggiore da individualismo e assolutizzazione del proprio interesse, è più rara e più pregevole che mai». Tralasciando il fatto che l’empatia non è quella cosa che credono loro, l’opera di Pfeijffer è l’esempio più lampante che essa è più rara che mai.

In un libro dove lo sghignazzo e il cinismo regnano egemoni, dove i personaggi sono avversari su misura, dove lo scrittore espone una poetica kitsch-artigianale che si autoavvera, dove l’unica cosa memorabile deve essere il décor e l’unico schema mentale consiste in confidence tricks per adescare il lettore e infliggergli pseudo-becere fantasie sessuali, la verità tanto agognata dallo scrittore perisce in un vortice di nulla.

Non basta chiedere con tono pietoso al facchino Abdul, emblema senza nazionalità del profugo, di raccontargli la storia della sua fuga. Pfeijffer (l’autore? Il personaggio? No: lo stratega) gli suggerisce le parole che servono a giustificare un riuso letterario («Lei mi utilizza come materiale per il suo romanzo. Ma non è grave. Dovrei esserne onorato. E so che ciò non rende il suo interesse meno sincero»). Inoltre imbastisce un motivo poliziesco al fine di svelare l’intertestualità del racconto: Abdul, infatti, ha riscontrato molti punti di contatto tra la sua fuga e quella di Enea, e intarsiando la sua testimonianza di allusioni all’inclito antenato «ci ricorda che la sua storia è una storia senza tempo, e utilizzando una tecnica letteraria europea vecchia di secoli, dimostra di essere meglio integrato nella cultura europea di moltissimi altri che in Europa ci sono nati». E tanti saluti al pragmatismo.

Per lo scrittore esistono solo i temi, e l’immigrazione ha il vantaggio di essere attuale, controversa e piccante. L’esperienza con i fondi letterari gli ha insegnato che tematizzare la realtà, incluso l’uso strumentale della scrittura, paga. Non ci sarebbe nulla di male, se almeno lo scrittore facesse seriamente il suo lavoro. Come ormai sarà chiaro, le tesi principali di questo romanzo sono però triviali – tranne una: esiste un ampio consenso attorno al dato che il settore turistico produca scarso valore aggiunto. Lo scrittore, poi, è un modello perfetto di quello che Marchesini ha descritto come l’io romantico. Ma a parte i temi, la trama, i personaggi, le intenzioni e i dati, lo scrittore saprà almeno persuaderci con la forza del suo stile? Sappiamo già qual è la risposta che darebbe lui. Molti lettori l’hanno condivisa. Missione compiuta.

Grand Hotel Europa è un romanzo vacuo e mistificatore, che celebra tutte le ambizioni più ingenue della letteratura odierna e offre al lettore proprio ciò che più aborrisce: una realtà comodamente parcellizzata in temi usa e getta e in opinioni fast food, venduta in una confezione che ostenta letterarietà e impegno civile ma che delimita un territorio in cui allo scrittore è permesso dare libero sfogo a deliri di onnipotenza e al lettore regredire, evadere, sgranocchiare. E applaudire, ci mancherebbe.

 

(Ilja Leonard Pfeijffer, Grand Hotel Europa, trad. di Claudia Cozzi, Nutrimenti, 2020, 608 pp., euro 22, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

Poster Rebecca

Buon compleanno Rebecca

Ottant’anni fa usciva nelle sale Rebecca – La prima moglie di Alfred Hitchcock. Oggi, che la pandemia ha fatto chiudere i cinema, e le piattaforme on demand sono di gran moda, Netflix celebra questo compleanno con una nuova versione (firmata da Ben Wheatley) del celebre film. Per essere più precisi, Rebecca è in realtà un rifacimento moderno dell’omonimo romanzo firmato da Daphne du Maurier nel 1938, da cui Orson Welles trasse nello stesso anno un adattamento radiofonico per il programma Mercury Theatre On the Air in onda sull’emittente CBS. Un libro, dunque, particolarmente adatto a essere trasposto in una sceneggiatura: dopo Hitchcock il soggetto venne ripreso dalla televisione, che ne produsse due pellicole (una statunitense del 1962 e una trasmessa dalla BBC nel 1979), uno sceneggiato italiano (1969) e due miniserie (una versione inglese del 1997 e una italiana nel 2008).

In questa sua nuova veste firmata Netflix, la storia si rilegge in una chiave più calda rispetto al bianco e nero di Hitchcock, che ne amplificò la resa un po’ gotica di cui era (in parte) intriso il romanzo. La Rebecca del 2020 riprende infatti le tinte rosa del libro, narrando la storia d’amore di due protagonisti belli e liberi che riescono a rimanere uniti nonostante i segreti legati a un precedente matrimonio. Per questo, le due parti del film sono perfettamente equilibrate, diversamente da come fu nella prima trasposizione cinematografica.

Hitchcock accennò molti elementi (come l’incontro e il matrimonio fra i due a Monte Carlo), preferendo sottolineare l’assenza di una figura, Rebecca, che poi dà il nome al film. Perché la storia, in verità, sta tutta nel vuoto lasciato dalla prima moglie, Rebecca appunto, che continua a padroneggiare con le mille iniziali di cui ha riempito Manderley, la grande casa padronale. Non è un caso che Hitchcock abbia lasciato quell’appellativo nel titolo del film, La prima moglie: rinunciarvi, infatti, potrebbe condurre a una rischiosa confusione di campi, spingendoci a far coincidere (almeno nella prima parte del film di Wheatley) il nome “Rebecca” con l’attrice protagonista. In realtà, lei un nome non ce l’ha perché non deve essere il centro della storia. È Rebecca, invece, pur essendo senza corpo e senza volto, a incombere sulla storia con forza e prepotenza. In Hitchcock tutto questo è evidentissimo, fin dall’inizio del film: Rebecca (e Manderley che ne rappresenta la creatura perfetta) stanno al centro; la seconda moglie è soltanto la narratrice secondaria di una storia che si scioglie davanti ai suoi occhi. 

La nuova trasposizione proposta da Ben Wheatley è dunque tutt’altro film: una storia, ben equilibrata nella narrazione, di due amanti che si scelgono per amore, e di una donna che, pur essendo la seconda moglie in ordine cronologico, riesce a superare la prima in onestà e dedizione verso il marito. Lei è la vera protagonista, non la Rebecca di Alfred Hitchcock, che qui è soltanto una presenza lontana negli incubi della notte. Due figure femminili, quindi, rese in maniera completamente diversa dalla macchina da presa: se ottant’anni fa Rebecca era prepotente anche da morta, ora si trasforma in una presenza alquanto labile e lontana, incapace di spuntarla contro la donna che ha preso il suo posto. Ecco allora che, pur mantenendo l’originale caratterizzazione dei personaggi, attraverso una differente andatura della narrazione filmica, una storia come quella di Rebecca – La prima moglie può farci notare le mille sfumature che possono nascondersi dietro una storia.

(Rebecca, di Ben Wheatley, 2020, thriller, 121’)

 

copertina di Il mestiere di vivere di Cesare Pavese

Cesare Pavese, i luoghi di una vita in “Il mestiere di vivere”

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (La luna e i falò, Einaudi, 1950).

Questo passo, tra i più belli e chiari (e anche noti) del Novecento letterario sull’appartenenza, sulle radici, è rimasto nei miei pensieri sin dagli anni del liceo, quando vivevo ancora nella mia piccola cittadina di provincia. Allora, quando “il gusto di andarsene via” era una ragione valida e sufficiente, credevo che il legame con i miei paesi si sarebbe affievolito nel tempo. Questo non è mai accaduto, anzi è per me diventato sempre più forte. Neppure Pavese ha lasciato andare quella parte di sé, quella che “quando non ci sei resta ad aspettarti”, e gran parte del suo lavoro ha ruotato intorno all’infanzia e al luogo, a come il poeta non debba cercare le proprie immagini nella vita adulta, bensì nel momento in cui non era ancora poeta e si meravigliava di ciò che vedeva per la prima volta. Molto ha scritto Pavese sui suoi “luoghi unici” o “sacri”, su Santo Stefano Belbo e le Langhe, contraltare della città, di Torino. Pavese torinese, incantato dalla vita della città, spaventato dalla solitudine, non ha potuto fare a meno di vivere questo dualismo, quest’antinomia, tra infanzia in campagna ed età adulta cittadina. Da giovane l’ha temuta e sognata, la città, e poi, come molti, non l’abbandonata più, tanto da diventarne un simbolo, e nonostante questo, per tutta la vita ha ricercato le proprie radici lontano da lì, proprio come l’Anguilla protagonista del suo ultimo romanzo.

Alla ricerca di questo leitmotiv ho scandagliato Il mestiere di vivere, la vera miniera dove il concetto viene estratto e lavorato, metodicamente per oltre quindici anni. Questo “Secretum Professionale” o “giornale” – come chiamava Pavese Il mestiere di vivere – è un diario e un quaderno di riflessioni poetico-letterarie, un journal de l’oeuvre e un journal intime. Racchiude gli appunti di una vita, da quando l’autore aveva 27 anni ed era al confino a Brancaleone, in Calabria, fino a pochi giorni prima della sua morte.

Si costituisce come un corpus unico del pensiero pavesiano, «un diario costruito a blocchi, i quali però si elevano come un tutt’uno”, come afferma Guglielminetti, curatore insieme a Laura Nay del libro. Un testo condotto organicamente dove «il tempo della vita ed il tempo della scrittura progressivamente coincidono, per non interrompersi se non naturalmente, con la morte di chi gestisce entrambi». Il mestiere di vivere continua a rappresentare una fonte infinta di analisi, una finestra aperta sulla vita dell’autore. Sia che si tratti della prospettiva psicologica, quella che indaga il Pavese misogino tentato dal “vizio assurdo” del suicidio, innamorato, disperato e solo, sia di quella filologica, del Pavese che allontana la realtà oggettiva per tuffarsi nella ricerca della verità sulla poesia, sulla letteratura e il senso dell’arte, questo libro è una continua scoperta. Ho letto il Il mestiere di vivere nell’edizione Einaudi realizzata per il settantesimo anniversario dalla nascita dello scrittore. Tutte le opere di Pavese sono state ristampate in questa occasione da Einaudi con una nuova veste grafica e nuove introduzioni, quella di Il mestiere di vivere è a firma di Domenico Starnone.

Il diario comincia nell’ottobre del ’35, e Pavese appunta dal confino le prime annotazioni, mentre sta per concludere la stesura di alcune poesie che confluiranno a breve in Lavorare stanca.

«Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un’immagine e dar loro un significato».

A distanza di qualche mese, a pubblicazione avvenuta, torna a pensare a quello che ha scritto e alle sue terre.

«Il caso mi ha fatto cominciare e finire Lavorare Stanca con poesie su Torino – più precisamente, su Torino come luogo da cui si torna, e su Torino luogo dove si tornerà. Si direbbe il libro l’allargamento e la conquista di S. Stefano Belbo su Torino. Tra le molte spiegazioni del “poema” questa è una. Il paese diventa città, la natura diventa la vita umana, il ragazzo diventa uomo».

Il 15 marzo dello stesso anno finisce il suo esilio e chiude questo periodo della vita, senza aver ambientato nulla nelle terre calabre, annotando semplicemente: «Finito confino». È qualche anno più tardi, già nei primi mesi del ’42 che Pavese riorganizza questi primi pensieri nel tentativo di elaborare una più compiuta teoria del ricordo d’infanzia.

«Davanti al mare della Pineta, basso e notturno, passando in treno, hai visto i focherelli lontani e pensato che per quanto questa scena, questa realtà, ti riempia di velleità “di dire”, t’inquieti come un ricordo d’infanzia, essa non è però per te né un ricordo né una costante fantastica, e ti suggestiona per frivole ragioni letterarie o analogiche ma non contiene, come una vigna o una tua collina, gli stampi della tua conoscenza del mondo».

Pavese ritiene che non esistano che «paesaggi che abbiamo già ammirato» e che è per lui difficile aggiungere nuove ambientazioni oltre quelle legate al tempo in cui «si formarono i nostri stampi immaginativi».

«La noia indicibile che ti danno nei diari le pagine di viaggio. Gli ambienti nuovi, esotici, che hanno sorpreso l’autore. Nasce senza dubbio dalla mancanza di radici che queste impressioni avevano, dal loro esser sorte come dal nulla, dal mondo esterno, e non essere cariche di un passato. All’autore piacquero come stupore, ma lo stupore vero è fatto di memoria, non di novità».

È nel ’44 che inizia a considerare alcuni aspetti di sé stesso in relazione a questo concetto, come se cominciasse finalmente a vedersi per quello che è: un cittadino che vive nel ricordo mitizzato del suo paese d’elezione.

«Il luogo della tua persona è certo il viale torinese signorile e modesto, primaverile e estivo, calmo, discreto e vasto, dove s’è fatta la tua poesia. La materia veniva da molte parti, ma qui trovava forma. Questo viale, e il caffeuccio sul viale, fu la tua camera, la finestra sulle cose. Quando ti torna l’istinto di poetare cerchi di questi luoghi».

Ma nonostante questa consapevolezza, quel posto gli provoca sempre lo stesso turbamento.

«Perché a ogni sussulto mitico ti ritornano in mente i tronchi e il fiume e la collina con dietro la luna e la strada e l’odore di prato e di campo, del tuo paese?»

L’incanto che gli danno le colline, il paese, le vigne, in una parola le Langhe, non finisce mai, è una fonte esauribile dove tutto nasce e dove tutto esiste per lui soltanto, quasi inspiegabilmente, e nonostante senta una razionale spinta verso una maturità personale (più che formale), non può fare a meno di tornare bambino a ogni frammento del suo Piemonte.

«Oggi vedevi la grossa collina a conche, il ciuffo d’alberi, il bruno e il celeste, le case e dicevi: è come è. Come deve essere. Ti basta questo. È un terreno perenne. Si può cercar altro? Passi su queste cose e le avvolgi e le vivi, come l’aria, come una bava di nuvole. Nessuno sa che è tutto qui».

È tra il ’47 e il ’50, quindi fino a qualche mese prima di morire, che approda a quel concetto più “maturo” e forse più distaccato. Arriva a ritenere il ricordo parte del processo di elaborazione del passato che l’uomo compie nell’età matura, e che non riguarda solo l’infanzia, ma si allarga ad altri momenti “infantili” mitizzabili, e perciò materia d’arte.

«Comincia ad apparirti come infanzia (adolescenza) anche l’età dei trent’anni. Puoi fare racconto – cioè – anche della cultura. La virilità si può intuire («favoleggiare») quando appaia come un’infanzia. Aver digerito un’esperienza, avere il distacco vuol dire vederla come un’ingenuità infantile. La grande poesia è ironica».

A leggere Il Mestiere di vivere, e a farlo magari come ho fatto io alla ricerca di una prospettiva soltanto, si prova la strana sensazione di aver cominciato un discorso con qualcuno e di essere stati bruscamente interrotti. Resto lì a chiedermi cosa avrebbe pensato più avanti, come avrebbe chiosato, se l’avrebbe mai fatto, e se sarei stato d’accordo con lui. Vorrei ancora leggere della sua infanzia, di quei posti, di come tutto sia lì ad aspettarci. Ma pochi giorni prima del suicidio quel suo “giornale” delle idee non riesce a tenerlo abbastanza lontano dalla realtà, dalle sue manie, così, con poche nette parole, Pavese interrompe i suoi pensieri, il suo dialogo con sé stesso, con il mondo, con me.

«Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più».

 

 

 

10 Songs e i limiti dei Travis

Quanto tempo è passato da “Sing“? Troppo. O troppo poco. Sono comunque diciannove anni. Nel video i Travis erano a un pranzo iper formale finito malamente con lancio di cibo stile Peter Pan. Era il 2001, un paio d’anni dopo il loro capolavoro The Man Who. Successivamente un periodo più o meno florido (“Closer” il punto più alto) e oggi escono con un nuovo album, 10 Songs.

Per quanto adesso i Travis vivacchiano in una sorta di stato di semi-coscienza artistica, aggirandosi nel contemporaneo come spettro di un passato glorioso, si confermano autori importanti di canzoni pop. 10 Songs non brilla  per nessun aspetto nello specifico, ma tutto quello che è stato scritto è perfetto. Può sembrare un paradosso, sì. Una perfezione straniante, quella dei Travis del 2020. Una casa arredata benissimo ma in cui non ti senti mai veramente a tuo agio.

Quando ascolti “Valentine” ti viene in mente “Politik” dei Coldplay. Quanto devono i Coldplay (ma anche i Keane) ai Travis. Da loro hanno attinto quel sentimentalismo che ha reso Parachutes un mix di The Bends e Ok Computer sottovuoto. Ma poi i Coldplay si sono presi la scena mondiale e sono stati i Travis a inseguire (senza derive posticce c’è da dire) la band inglese.  La ricerca della ballata impeccabile, l’inquietudine in fin dei conti sopportabile. Quegli “uhhhhh” di Chris Martin sono anche di Healy. L’ascolto di 10 Songs è un continuo confondersi.

Abbiamo di fronte, quindi, un album di ballate come potresti aspettarti dai Travis oggi, dieci anni fa o nel 2030. C’è qualche leggero graffio, i brani sono potenzialmente tutti dei singoli perché la band scozzese ce l’ha nel sangue la capacità di scrivere un certo tipo di canzoni, ma nessuno riesce ad esserlo. Ci sono i classici riferimenti ai Beatles (Nina’s Song), delle inaspettate riletture dei Sigur Ros (“No Love Lost“). Nulla di pienamente convincente.  Comunque una ripresa rispetto  all’ultimo decennio.

La flessione è stata più che evidente da parte dei Travis. Quasi fisiologica, per un gruppo che ha perso smalto e che non ha avuto il coraggio di mettersi profondamente in discussione. Ancorati a un suono malinconico e forse eccessivamente colmo di miele, non sapendosi stravolgere o quantomeno adeguarsi, hanno vissuto di luce riflessa di quello che è stato.

Bisogna comunque ricordare cosa sono stati i Travis nella fine degli anni ’90 e i primi del 2000. Durante le registrazioni di Kid A (a cavallo tra la fine e l’inizio del nuovo millennio), quando i Radiohead non sapevano cosa fare del materiale che avevano e che poi si sarebbe tradotto nell’album di svolta della loro carriera, Ed O’Brien era il più scettico di tutti sulla direzione che stavano prendendo. Fondamentalmente tutta quella roba sperimentale che stava uscendo non lo convinceva, era meglio fare qualcosa di più canonico, fare quello che i Radiohead sapevano fare meglio: canzoni. Farlo come lo stavano facendo i Travis.

Un album dei Travis oggi, però, non si sa che tipo di senso abbia, se non quello di ricordarci, appunto, cosa sono stati e quanto siano meccanicamente bravi a scrivere canzoni pop.  Una finestra temporale di un’altra epoca in cui siamo stati risucchiati. I loro ascolti sono sempre piacevoli, ma anche con 10 Songs nulla di più.

Copertina di L'architettrice di Melania G. Mazzucco

Il progetto dell’eternità: Roma e la sua prima architettrice

L’architettrice è uscito nel 2019 con Einaudi ma Melania G. Mazzucco ha impiegato vent’anni per raccogliere gli indizi e trasformare la storia sconosciuta della prima architettrice, minuta ma universale, in un racconto che risuona tra il XVII e il XIX secolo. «Devono essercene centinaia, migliaia – sotto ogni casa. Un’antologia di epigrafi che non vedranno mai la luce finché Roma esisterà».

Opera di dissotterramento della memoria, questo romanzo sembra un manoscritto saltato fuori dallo scavo di fondazione dove Plautilla Briccia ha gettato il suo amuleto di ossidiana per propiziare l’unico cantiere che ha diretto. L’edificio sorge nella Roma papalina, pensata e costruita come capitale del mondo e patria della fede dai pontefici urbanisti del Rinascimento e del Barocco, e viene distrutto nelle guerre civili dei repubblicani del 1849, che provano a ri-costruire e ri-pensare la città eterna come capitale contemporanea, patria democratica di un’Italia nascente.

Cosa rimarrà della villa del Vascello e dei segreti che ha custodito? La famiglia di Plautilla, nipote di un materassaro e figlia del Briccio, uomo curioso e artista di poca fama, vive nella Roma del Seicento tra San Pantaleo, via del Corso e Santo Spirito, nell’indigenza ma con una relativa fortuna, «tanto le sedie servono solo a poggiarci il buco dell’allegria, e i letti per farci dei bei sogni, e non vale la pena sprecare soldi per roba destinata a sfasciarsi. La cultura che uno si mette nella capoccia leggendo, invece, dura per sempre».

Il lettore precipita nel laboratorio del Briccio, al tempo in cui la stampa e l’architettura, come mezzi di persuasione, inglobano, senza sostituire, la pittura. Il libro ha anche delle figure ma le parole bastano per far apparire una Roma incredibile, superstiziosa, a caccia di committenze, reliquie e novità, immobile ma brulicante di faide ed ebbrezze, strade dove chiunque può sparire per nulla, rapito dalla febbre, da una catacomba o dalla profezia di una zingara.

In uno sforzo perpetuo, Plautilla si costruisce come il grande cantiere urbano dove cresce. Non ha un unico precettore, impara dall’esperienza. La voce narrante vira spesso dalle sue parole a quelle di chi incontra: dai grandi pittori del barocco a comuni comparse in una società piena di contrasti. Melania Mazzucco tiene insieme molti registri e generi: saga familiare, saggio, romanzo storico, romanzo di formazione. Alcuni brani sembrano la prima letteratura femminista, Jane Austen o le piccole donne di Louisa May Alcott, ma non è solo una donna a riscattarsi.

Il patto tra il Briccio e la sua bambina si sigilla con il dente di una balena. Lui non ha molto successo come pittore, ma illustra e scrive libri, ha «il dono di evocare le cose con le parole, come un mago» e Plautilla non sta nella pelle quando ascolta il racconto del cetaceo che si è arenato sulla spiaggia di Santa Severa, fenomeno rarissimo nel Mare Tirreno. Vuole vedere la creatura ma arriverà tardi, dopo un estenuante viaggio, in tempo per trovare solo lo scheletro. La delusione, incarnata dalla struttura vuota di un essere vivente che è essenza dell’architettura, sarà il segno di un destino straordinario: quello di un’anima destinata a domandarsi come si fa a far apparire qualcosa che ancora non esiste e a lasciarne la traccia più autentica nel mondo, anche se non può appartenerci per sempre. «Nessuno sa di me. Il mio nome giace tre palmi dentro la terra vergine, confitto nel cuore del colle che chiamano Monte Giano. È il dio della soglia, il genio di questa città».

L’avventura dell’architettrice, rara come un dente di balena fino a pochi decenni fa (in Italia aspetteremo fino agli anni ’50 del Novecento per superare i pregiudizi), è un racconto di iniziazione. Il padre la guida ma la inganna di continuo, non si sa se ha fiducia in lei o se è costretto a insegnarle il mestiere solo per farla lavorare al suo posto. «Avevo dieci padri o nessuno?», si domanda da adolescente.

Nella teatralità, lei impara a prendere le distanze dai ruoli che le sono assegnati. Plautilla non si sposa ma mette al mondo bambini non suoi aiutando e meravigliando gli altri. E intanto scopre il desiderio di progettare e padroneggiare la materia e il disegno. Dirigerà il cantiere di una villa al Gianicolo, «capricciosa e strana» come lei, governando quell’architettura a forma di vascello così come l’aveva immaginata e disegnata, dal basamento che sembra uno scoglio ai dettagli piramidali delle guglie.

Nel disegno originale della Villa Benedetta (stampato nella guardia e controguardia del libro) sono affacciate due figure dietro ai balaustrini. Sono amanti? Padre e figlia? Due sorelle? L’architettrice si rammarica di non poter abitare la “sua” villa ma comprende che la sua emancipazione non è individuale ma collettiva. Nell’affrancarsi non trova la salvezza e nemmeno il riconoscimento, anzi mette in guardia dal fallimento di ogni impresa eroica. La vocazione autentica non conquista il successo ma permette di affidare la propria vita alle relazioni affettive (anche conflittuali) e di destinare il proprio messaggio all’eternità. Qualunque esso sia ci sarà qualcuno in grado di trovarlo e custodirlo come un amuleto, riconoscendo la preziosità di un dente di balena.

 

(Melania G. Mazzucco, L’architettrice, Einaudi, 2019, pp. 568, euro 22, articolo di Martina Pietropaoli)

 

Copertina di La cassa refrigerata di Recami

Enigma da camera

La cassa refrigerata (Sellerio, 2020) è il quarto capitolo della serie antologica Commedie nere, cominciata nel 2017 dal fiorentino Francesco Recami con Commedia nera n. 1 e parallela alla più longeva La casa di ringhiera. Il ciclo è incentrato sui più gretti incubi piccoloborghesi, posizionati di volta in volta un diverso ecosistema di cui l’autore mette in scena vizi (soprattutto) e (poche) virtù.

La cassa refrigerata ricorda nel titolo una commedia italiana uscita nelle sale cinematografiche nel 2018, che consigliava di “mettere la nonna in freezer”. Posta la totale indipendenza del libro dal film, la bara-ghiacciaia lussuosamente rifinita che domina la scena madre della narrazione di Recami assomiglia più a un freezer che a un feretro.  E, in un certo senso, l’impostazione è filmica anche in questo breve noir.

Descrizioni ridotte all’osso, capitoli aboliti in favore di brevi scene dialogiche dal ritmo serrato ne fanno quasi una sceneggiatura teatrale: senza difficoltà si immagina, leggendo, una trasposizione sul grande schermo. Gli scambi di battute tra le sagome – più che i personaggi – che affollano il libro colpiscono come i fulmini del nubifragio che si abbatte sull’insapore costruzione della villetta monofamiliare di Zenson del Piave, paesino del Veneto rurale in cui ha luogo l’azione.

O meglio, l’inazione di ventuno grigi personaggi di provincia – volontariamente sigillatisi nell’appartamento della defunta arpia Maria Carrer, una sorta di zia Scrooge del trevigiano, ufficialmente per presenziare alle esequie, ufficiosamente per rovistare ogni angolo in cerca del tesoretto che si vocifera la vecchia abbia riscosso dal deposito in banca e nascosto in casa pochi giorni prima di morire.

Ci sono tutte le pedine per un completo diorama da gretta cittadina di provincia: il falegname, l’insegnante, il parroco, la segretaria, il pensionato, la neomamma, il becchino, la colf, l’ex colonnello. Ventuno personaggi, miseri ed egoisti, claustrofobicamente riuniti in uno scimmiottamento del giallo classico all’inglese che, però, fa uso di uno humor tutt’altro che britannico. Dissacrante a volte fino al grottesco e allo sguaiato, Recami ci mostra accapigliamenti tra signore ingioiellate, duelli verbali di coniugi ai ferri corti, risse, votazioni per alzata di mano, segreti imbarazzanti, mani morte e amori platonici, e attinge a piene mani dal teatro boulevardier per una commedia che, dall’essere degli equivoci, passa rapidamente alla tragedia.

In calce alla pagina di ogni nuova scena, uno spietato contatore ci aggiorna sul numero dei partecipanti al funerale, vertiginosamente in calo quando, complice la bufera, si consuma nella schifata indifferenza generale una serie di omicidi misteriosi, destinati a rimanere irrisolti. La confusione, generata dal terrore di uno spietato assassino mimetizzato nel drappello di rapaci parenti, viene sfruttata a vantaggio dei superstiti per portarsi avanti e scalzare i concorrenti nella disperata caccia al tesoro. Tutto si svolge alla monumentale presenza della cassa Body Freeze, ultimo ritrovato tecnologico nel campo delle onoranze funebri, che fa la sua bella mostra in soggiorno e all’interno della quale un microclima di quattro gradi centigradi assicura alla signora Maria una perfetta conservazione. Per godersi lo spettacolo.

Malgrado la piccola comunità cerchi di organizzarsi gerarchicamente in servizi d’ordine, consulte e giunte straordinarie, senza indizi, né colpevoli o investigatori che siano capaci di ritrovare il bandolo della matassa, la prospettiva del mistero naufraga in un pericoloso quanto paradossale poliziesco, sconfinando verso la fine in punte da kidnapping thriller.

È allo stesso modo con un naufragio, stavolta letterale, che muore annegata ogni illusione di ricchezza su un gommone sgonfio portato via dai torrenti di acqua piovana e rigagnoli esondati, mentre sboccia un timido amore a lieto fine.

 

(Francesco Recami, La cassa refrigerata, Sellerio, 2020, pp. 192, euro 13, articolo di Valentina Cela)
Copertina di Imago Lux

Imago Lux

Stamattina, appena sveglia, per l’ennesima volta ho ammirato lo spettacolo che si apriva dalle finestre del salotto: l’oceano azzurro, la sabbia adamantina coi bagnanti distesi al sole, i gabbiani che volavano, l’odore di salsedine, la brezza che ogni tanto smuoveva le tende bianche e la tovaglia pastello a coprire il tavolo della terrazza con la colazione già pronta. Un colpo d’occhio stupendo, direbbero in molti.
Sulla spiaggia, una mamma col cappello di paglia apriva la merendina al bambino in piedi accanto al lettino. Poco più in là, mamma gabbiano aveva appena squartato un pesciolino, in bocca un brandello deforme; chissà se per lei o per il suo piccolo. La sopravvivenza, in questa che chiamano vita, ha regole e dinamiche diverse. E io non riesco più a sopportarle senza scorgervi un orrore di fondo. Un relativismo assassino. La bellezza e la mostruosità che convivono fianco a fianco, simultanee.

Mi chiamo Eva Roscioli. Sono nata a Roma il 15 settembre del 1950. Sono cresciuta in una famiglia agiata. Mio padre un notaio importante, mia madre casalinga, figlia di un generale dell’esercito. Una vita, la mia, totalmente irrilevante fino ai diciotto anni. Sono stata sempre ben vestita, ben educata, ben trattata. Sono stata bravissima, secondo me, a sviluppare un forte senso di sicurezza in me stessa. Non ho mai cambiato idea in maniera drastica. Ho sempre accettato il mio aspetto fisico. Oggi, a settant’anni, sono una donna ancora piacente, magra, elegante. Porto i capelli con un leggero caschetto tinto di nero. Sposata, due figlie e quattro nipoti. Vivo nella stessa agiatezza di allora. Eppure, gli occhi… sono gli occhi che hanno fatto il lavoro più ostico. Hanno ampliato lo sguardo interiore, come in un’apertura d’obiettivo che allo stesso tempo dilatasse l’immagine e l’arricchisse di particolari, di nuove prospettive, di quinte e livelli sovrapposti.

Non so davvero perché ho deciso di raccontare questa storia. Probabilmente per non impazzire. E forse perché ho bisogno di mettere ordine. Nella mia testa, ma anche in quella cosa che oggi tutti negano di avere: l’anima. La mia anima ha bisogno di ordine. Non si può più accettare di vivere nel caos. Il grande tiranno è chi ci ha fatto credere di non avere un’anima. È lo stesso tiranno che ha convinto il mondo della sua inesistenza. Di essere soltanto frutto della fantasia di sacerdoti amanuensi. Lo hanno chiamato in vari modi, nei secoli, nei millenni. Ma è sempre e solo lui. Il Grande Parassita. Il Divoratore di Anime. Le divora in segreto e le nega in pubblico. Non userò, per indicarlo, gli appellativi che sono stati utilizzati fin qui; dalle religioni, dai maghi che lo hanno evocato, dalle società segrete che ha ispirato, dagli adepti d’ogni sorta. Fino a coloro che lo combattono, o dicono di farlo. Capirete poi, o forse già lo fate, di chi sto parlando. Ogni cosa ha un suo Kairos, il suo momento opportuno, dicevano i greci. E, come in ogni storia che si rispetti, va stabilito un punto di partenza. Nel mio caso, l’origine della discesa nelle tenebre: il 3 settembre del 1968, la mia festa di diciotto anni.

 

Questo passo è tratto da Imago Lux, il nuovo romanzo di Adriano Angelini Sut, in uscita lunedì 23 novembre 2020, nella nuova collana di narrativa “Solstizio” di Edizioni Ensemble.

Adriano Angelini Sut è nato a Roma nel 1968.  Traduttore e scrittore, ha collaborato con il Foglio e Radio Radicale. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi L’ultimo singolo di Lucio Battisti (selezionato al Premio Strega) e Jackie, e il saggio Mary Shelley e la maledizione del lago.

Imago Lux: Eva Roscioli è una stimata psichiatra romana. Era giovanissima negli anni Settanta, quando sua sorella Liliana era stata fagocitata da una Comune dedita ad antichi riti esoterici. Queste oscure cerimonie si svolgevano in una dimenticata catacomba etrusca cui si accedeva dal Palazzo di Luc Apofi, un ricco pittore francese il cui miglior quadro si chiamava Imago Lux – la rappresentazione della luce, l’oscuro simulacro della Luce Vera.
Quando Liliana scompare, Eva si mette sulle sue tracce, ritrovandola, trasfigurata, nel sud della Francia, in Occitania, una regione attraversata da forti tensioni spirituali, in cui, nel Medioevo, la Chiesa di Roma aveva combattuto l’eresia catara.
Cinquant’anni dopo, Eva si è ormai fatta una famiglia ed è una scrittrice affermata, ma l’Imago Lux continua a perseguitarla, tormentando adesso sua nipote in una Roma ormai decaduta,
dove un Papa, curvo e solitario, officia urbi et orbi da una desolata terra di mezzo.

 

Leggi le altre Estrazioni.

Copertina di Nel groviglio degli anni ottanta

Alla fine dell’illusione

Inauguriamo oggi una nuova sezione di LIBRI dedicata alla saggistica, curata da Paolo Ortelli. Che si tratti di economia o filosofia, di storia o scienza, di costume o di grandi temi contemporanei come ambiente e lavoro, la scelta delle recensioni si concentrerà su quei testi che ci sembreranno in grado di raccontare a un pubblico ampio e non specialistico la complessità del nostro tempo.  Gli articoli avranno cadenza quindicinale, precisamente ogni primo e terzo giovedì del mese. 

 

 

Nel suo ultimo libro, Nel groviglio degli anni Ottanta (Einaudi, 2020), Adolfo Scotto di Luzio, oscillando tra riflessione autobiografica e saggio storico, rilegge gli anni della formazione di una generazione di giovani italiani «nati troppo tardi» per poter vivere l’estasi rivoluzionaria che travolse i loro più fortunati fratelli maggiori sessantottini, all’ombra della cui epopea si sono trovati loro malgrado a crescere, fra il rimpianto per un’occasione sfuggita d’un soffio e il peso della degnazione riservatagli dal mondo degli adulti. Lo avevano già sperimentato altre generazioni (su tutti, gli esclusi per ragioni d’anagrafe dal primo conflitto mondiale, il cui mito degli eroici reduci influenzerà non poco la storia e la letteratura postbelliche, come tinteggiato in maniera tutt’altro che banale nella serie-culto Peaky Blinders). Quando tutto è stato già mandato per aria, resta ben poco da fare a chi si trova a crescere nell’immediato aldiquà di una grande frattura storica, in questo caso quella scavata dagli avvenimenti che, spesso in maniera un po’ corriva, finiscono sotto l’etichetta onnicomprensiva del ’68.

Al tramonto degli Anni di piombo, dalle macerie della storia si intravede la fine del grande scontro fra ideologie contrapposte e delle battaglie politiche e sociali che hanno animato il lungo dopoguerra italiano, consegnando poi lo scettro del vincitore a un capitalismo tecnocratico che rivendicherà la propria missione di guida e indirizzo politico dei sistemi liberal-democratici occidentali, screditati e considerati ormai irriformabili (il “cambio di paradigma” invocato da Confindustria in tempi recenti è solo uno degli ultimi atti di una tendenza ormai di lungo periodo). A chi possono rivolgersi allora i giovani degli anni Ottanta per orientarsi in questo scenario dai tratti postapocalittici? Ai padri, no di certo. Il parricidio e la rottura col passato si erano già irrimediabilmente consumati nel ’68. Ai fratelli maggiori, i sessantottini, appunto? Nemmeno a parlarne. Troppo grande è il senso di inadeguatezza per l’incapacità (o l’impossibilità?) di replicare un’impresa tanto gloriosa, per di più in un momento in cui questa non è ancora oggetto di approfonditi esami storici e sociologici, e anzi è divulgata (e lo sarà ancora a lungo) esclusivamente attraverso la memorialistica agiografica dei suoi stessi protagonisti. E nemmeno alle storiche forme di organizzazione politica portatrici di ideologie capaci di leggere e decodificare la contemporaneità, che pure nel ’68 avevano retto, ma che furono successivamente spazzate via dalla furia iconoclasta dei movimenti del ’77.

Orfani «di una cometa da seguire, un maestro d’ascoltare», come cantava Niccolò Fabi in una canzone che sembra scritta apposta per loro, non più protetti da istituzioni che avrebbero dovuto accompagnarne la crescita, ma che in quel momento iniziano a essere bersaglio di un livoroso e implacabile processo di discredito, i giovani degli anni Ottanta sperimentano il famoso “riflusso” nel privato. Il passepartout interpretativo preferito fra coloro che si sono presi la briga di analizzare questo periodo storico, segnando una contrapposizione coi giovani del decennio precedente, la cui partecipazione politica viene spesso eccessivamente sovrastimata. Ma bisognerebbe aggiungere che questo riflusso non è una semplice e naturale conseguenza del mutamento di un certo quadro storico, ma anche, in una certa misura, l’esito o il fine strategicamente perseguito da un movimento di reazione “dall’alto” alla lunga lotta di classe italiana “dal basso” del secondo dopoguerra, come rivelano i temi imposti alla pubblica opinione dalla linea dettata dai grandi gruppi editoriali del paese (sul tema, Dancing days di Paolo Morando, pubblicato da Laterza nel 2009, offre diversi spunti illuminanti).

Ma se anche quella del ’68, al pari di ogni rivoluzione, è una rivoluzione tradita – come riporta l’autore in una bella citazione di Marcuse – ed è quindi destinata a essere rimpianta, cosa resta ai giovani degli anni Ottanta? Uno sconfinato e inconsolabile sentimento di nostalgia e perdita, prima di tutto. Certo per l’occasione mancata, lo abbiamo già detto. Ancora, una perdita dell’entusiasmo, della speranza che, seppure fra mille contraddizioni, avevano accompagnato la ricostruzione e il processo di modernizzazione del paese. Ma soprattutto, e questo è il punto centrale dell’argomentazione di Scotto di Luzio, una perdita della capacità di costruire appartenenze e affiliazioni, terribile eredità del crollo e della delegittimazione di strutture e ideologie validamente funzionanti a questo scopo. Privati di strumenti critici che potessero almeno suggerire direzioni trasformative di una realtà a vario titolo considerata deludente, e non più protetti, come i loro padri e i loro fratelli maggiori, dai quei diaframmi, da quei “corpi intermedi” fra loro e un più o meno oscuro Potere da combattere, i giovani degli anni Ottanta sperimentano per primi la caduta degli argini discriminatori del vero dal falso. Il che spiana la strada all’uso della comunicazione spettacolarizzata come arma di propaganda e manipolazione: in una formula, a quella postverità di cui oggi si fa un gran parlare.

Non che siano mancati del tutto i momenti in cui i ragazzi degli anni Ottanta sono saliti alla ribalta della scena pubblica dando vita a grandi movimenti collettivi. Ciò avviene in particolare, nel 1985 e poi sul finire del decennio, con la Pantera. Ma la distanza fra questi movimenti e quelli che li hanno preceduti è tanto lampante da lasciare disarmati. L’aspirazione a una radicale trasformazione della società, legata per forza di cose alla credibilità di ideologie e apparati politici, è irrevocabilmente perduta, e con essa la capacità di far tremare il Potere (sfidandolo anche sul piano della violenza), il quale non avrà difficoltà ad assecondare, compiaciuto e paternale, i balbettanti vagiti dei manifestanti su questioni di portata tutto sommato limitata. Non a caso, i due movimenti degli anni Ottanta nascono, e inevitabilmente muoiono, nel perimetro limitato del sistema educativo (il primo nelle scuole superiori del Nord e il secondo nelle università del Sud), ossia in un recinto, la “cattività” dei giovani degli anni Ottanta, unico e ristretto orizzonte rimasto nel quale esprimere una rudimentale forma di partecipazione politica.

Di questo e di molto altro ancora parla il ponderoso testo di Scotto di Luzio. Sono numerose le incursioni nel campo del costume di quegli anni, la cui funzione si rivela alle volte più aneddotica che argomentativa; così come l’autore insiste in dettagli di taglio pedagogico (del resto più che giustificati, per un docente di Storia della pedagogia) che talvolta rischiano di pregiudicare l’equilibrio tra riflessione autobiografica e saggio accademico che sta alla base del libro. Tuttavia, il lascito di Nel groviglio degli anni Ottanta è più che mai prezioso. E forse ancor più dell’analisi su quel decennio, nella mente del lettore resta un ricco bagaglio di strumenti per interpretare l’evoluzione dei fenomeni sociali che dominano la contemporaneità, e che proprio allora iniziavano a fare capolino: dalla delegittimazione delle istituzioni al discredito della politica, dalla sovversione dei rapporti di forza fra stato e mercato all’uso criminoso dei mezzi di comunicazione, e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo. Sarebbe interessante scoprire se questa fosse una precisa intenzione dell’autore, o un piacevole effetto perverso scaturito nel farsi della scrittura.

 

(Adolfo Scotto di Luzio, Nel groviglio degli anni Ottanta. Politica e illusioni di una generazione nata troppo tardi, Einaudi, 2020, pp. 312, euro 30, articolo di Pasquale Di Padova).

Il desiderio di vivere come gli altri

Alex Infascelli decide di fare con Mi chiamo Francesco Totti un docu-film su Francesco Totti. Un personaggio che dagli anni Novanta, a Roma, ha surclassato re, imperatori, papi. Attori e cantanti. Che ha reso Giulio Cesare un poveraccio, Romolo e Remo due sbandati. Alberto Sordi un attorucolo e Venditti uno strimpellatore. Per parlare di Totti a Roma bisogna essere coraggiosi.

Un essere umano che si è trasformato in entità che si respira ancora oggi tanto accanto al Colosseo, quanto nei vicoli delle periferie, tanto nel riflesso di Castel Sant’Angelo dentro il Tevere, quanto lungo i corridoi della metro B. Totti è andato a fondersi con la città in cui è nato e dove ha vissuto, dove continua a vivere e dove non potrà che continuare a esistere. Mi chiamo Francesco Totti, alla fine, era talmente facile da realizzare che sbagliare sarebbe stata la cosa più ovvia da aspettarsi.

L’espediente più furbo possibile sarebbe potuto essere quello dell’esaltazione del giocatore e dell’essere umano al limite della beatificazione. Estremo, ma in fin dei conti condivisibile. Il talento spropositato di Totti nel calcio avrebbe giustificato qualsiasi cosa, sapendo poi che Totti non è un personaggio cannibale come, per esempio, può esserlo Michael Jordan. In più, la romanità che gronda in ogni istante della sua vita sarebbe stata il collante perfetto per fare un ritratto della bellezza del suo calcio e quella di Roma, tanto romantica quanto decadente. Ma il risultato sarebbe stato, probabilmente, mediocre e stucchevole. Infascelli riesce, invece, a narrare una storia senza impantanarsi in certe logiche, riuscendo per quanto possibile a staccarsi da criteri di santità, andando a scavare nella contraddizione esistenziale stessa di Totti.

L’unica voce che poteva narrare Totti nella storia di Totti, quindi, non poteva essere che quella di Totti. Infascelli lo capisce e decide di declinare il racconto attorno ai suoi tic verbali, alle sue pause, al suo tentennare e alla sua strafottenza bonaria.

Mi chiamo Francesco Totti è, quindi, un lavoro di pancia. È un lavoro di pancia, ma pensato. Perché Infascelli riesce a evitare le trappole della gloria cieca, il prostrarsi di fronte alla divinità. Quello che fa è accompagnare quest’esperienza eccezionale di Roma da quel 28 marzo 1993 fino al ritiro del 28 maggio 2017. Ci sono i filmini di famiglia e le imprese con la Roma, il rapporto con Ilary Blasi e la vittoria dei Mondiali del 2006, intervallati da un Totti del presente che si muove in uno stadio Olimpico onirico, che ha i contorni dell’incubo, vuoto e senza luci.

Ciò che esce fuori nelle quasi due ore di docu-film è l’ossessione del pallone di Totti, che però non sembra diretta nei confronti del calcio in sé, ma figlia della paura dell’ipotetica non esistenza stessa del calcio. Come se avesse vissuto con il terrore che tutto potesse prima o poi manifestarsi come una gigantesca allucinazione. Il che, da un certo unto di vista, avrebbe avuto le fattezze di una libertà quasi mai sperimentata. Quando racconta che vorrebbe vedere Roma senza essere riconosciuto, c’è un grosso snodo del conflitto. A lui è preclusa Roma. Ma lui non poteva essere senza calcio. Totti vive, in fin dei conti, una sua Roma mentale.

Per quanto nella sua formazione Totti abbia avuto come idolo Giannini, il paragone non può funzionare. Mai. Il grande rimpianto di Totti sembra essere proprio il fatto di non esser stato uno qualsiasi (un romano qualsiasi) che abbia potuto ammirare Francesco Totti. Ma non necessariamente uno qualsiasi. Semplicemente qualcuno che non fosse Francesco Totti per vivere l’esperienza di milioni di tifosi che hanno potuto assorbirlo per più di vent’anni di carriera. Essere Francesco Totti gli ha precluso la più grande gioia di un tifoso romanista, al pari del tifare la Roma: poter godere di Francesco Totti. Infascelli è bravo a captare e a far emergere quest’aspetto.

La vita di Totti è sempre stata scissa tra queste due condizioni, una terrena e l’altra divina.  Ha avuto la fortuna e la sfortuna di eccellere in un mestiere in cui il corpo era fondamentale come estensione del suo genio calcistico, ma anche il primo grande ostacolo. Deteriorandosi, lo avrebbe abbandonato a qualcosa a cui non sarebbe mai potuto essere pronto. Ora si trova a essere Francesco Totti non potendo più esserlo su un campo di calcio. Non potendo, allo stesso tempo, essere un romano qualsiasi.

Il racconto vive sulle corde dell’ironia. Un’ironia ingenua. Ed è grazie a questo espediente retorico, infatti, che Totti sembra poter sopravvivere a tutto quello che gli è accaduto. In realtà non ho finito di giocare, ragazzi, è tutta uno scherzo, prima o poi tornerò in campo.

È su quel filo invisibile che ha cercato di districarsi nel magma densissimo della sua carriera, probabilmente anche per cercare di colmare il silenzio assordante di certi episodi (lo sputo a Poulsen, il calcio a Balotelli). Totti da calciatore era un istintivo, sia nel leggere i tempi di gioco, sia nell’affrontare i momenti in cui le cose non giravano come avrebbe voluto lui. Ma di base, come dice quando ripensa a certi fatti, è un buono.

Totti è qualcosa che senti appiccicato addosso alle persone a Roma, lo annusi, riesci a vederlo. Ancora oggi, a tre anni dal suo ritiro. Infascelli è stato bravo a mettersi a disposizione di una storia del genere, riuscendo a calibrare in maniera equilibrata l’enorme mole di emozioni che si porta appresso.

(Mi chiamo Francesco Totti, di Alex Infascelli, 2020, documentario, 101’)

 

copertina di akuaba

L’Africa come non l’abbiamo mai considerata

«Non è semplice spiegare il mistero degli eventi, non tutto può essere detto. Ci sono segreti che non si possono svelare, azioni da compiere».

Akuaba (D editore, 2020), il romanzo di esordio di Francesco Staffa, racconta le conseguenze di un neocolonialismo spietato, intrecciandolo alle vicende umane dei suoi protagonisti, intrisi di passioni, ambizioni e sensi di colpa. Sul filo biunivoco delle azioni, il romanzo infatti ha il manto del noir e al contempo tira fuori ciò che si cela nel profondo.

In una Nigeria devastata dalla presa del potere del generale Buhari, dopo il boom finanziario e petrolifero del paese e dopo la bancarotta, tre coppie si muovono con i loro destini liquidi, in cerca di salvezza, espiazione, affermazione.

«Forse un giorno avrà la mente libera. Pacificata. Si sarà scrollata di dosso la colpa. Quando le onde e il cielo stellato inghiottiranno la casa e la sabbia sottile si stenderà paziente a coprire ogni cosa. Quando solo il lamento incessante dei gabbiani echeggerà sopra gli altri suoni. Forse quel giorno, anche il ricordo si estinguerà e il rimorso cesserà di bruciare».

Affrancarsi dal dolore e pacificare il cuore rappresentano i punti nevralgici delle tre coppie protagoniste, Ada e Guido, Fabiénne e Franco, Amma e Adebisi: sei personaggi differenti per struttura e percorsi, ma soprattutto per desideri.

Nel romanzo i loro desideri e le loro pulsioni si intrecciano alla Storia in un plot narrativo coinvolgente e illuminante: ogni volta che un piano temporale cede il passo a un altro, si apre una traccia narrativa nuova, che svela come tutti i pezzi combaciano.

Franco e Fabiénne vivono una relazione tormentata, Guido e Ada li raggiungeranno – loro, una diade apparentemente più onesti e con una vita meno “corrotta” rispetto a quella dell’altra coppia, invischiata nelle dinamiche delle compagnie petrolifere. «Partirono entrambi, lui e Ada. Un diversivo dalla solita routine e un modo speciale per brindare al nuovo anno. Franco viveva in Nigeria da più di dieci anni. Dopo la sanguinosa guerra che si era conclusa nel 1970 approdò nel paese in un momento florido, in cui il prezzo del petrolio era in crescita». Amma e Adebisi invece sono divisi dagli avvenimenti ma avranno un ruolo importante e centrale fino alle ultime pagine del libro.

L’intreccio si nota subito: la Storia si lega alle ambizioni di coloro che, per assecondare i propri voleri, sono disposti a qualsiasi cosa.

L’articolo uscito su l’Unità il 27 gennaio 1983 conferisce al romanzo un taglio cronachistico: il lettore pensa istintivamente che sia tutto successo sul serio, che l’autore narra una storia che è parte della Storia: la fine del mito del petrolio in Nigeria, con l’aeroporto di Lagos paralizzato e le sedi delle ambasciate intasate. «Sullo sfondo due milioni e mezzo di disperati in cerca di un posto dove sopravvivere»: ed è appunto per cercare di sopravvivere che Amma diverrà una delle schiave sessuali, costrette a dare i propri figli come merce.

Il tema della maternità sfruttata, desiderata, intrecciata alla ritualità africana è un contraltare profondo; la foresta di Osogbo è un luogo primitivo e magico, dove chi non riesce ad avere figli si affida alla vecchia sciamana, la babalawa. Una maternità che scandirà il tempo del romanzo, intervallando l’atmosfera rituale e magica, a quella dura della cospirazione: un equilibrio sottile tra l’odore della placenta e quello del petrolio, dei documenti falsi.

Akuaba è un romanzo mosaico formato da una serie di tasselli che insieme prendono una forma sempre più decisa, via via che la narrazione prosegue, per il lessico diretto e tagliente, e per l’analisi dei protagonisti che lo abitano, con i loro intrighi, le loro debolezze.

La novità narrativa di Akuaba è nella descrizione di una realtà tremenda, fatta di compromessi, affari, desideri privati, nella cornice africana che non serve meramente da set esotico e linguistico, come spesso succede, ma è appunto il teatro degli avvenimenti.

«L’Africa, più familiare degli altri continenti, solo perché immediatamente situata sotto l’Europa, ovvero ciò che ci hanno insegnato a considerare il centro del mondo, metro da cui misurare la distanza con le altre terre».

L’autore ha scelto di raccontarla in questo modo, scavalcando la retorica e affidandosi a una chiave alternativa che trasmettesse le contraddizioni del neocolonialismo e mettesse in luce il modo in cui noi occidentali viviamo il fenomeno dell’immigrazione, come un affronto. Akuaba accende i riflettori su un razzismo più edulcorato e nascosto, più istintivo e meno elaborato, che viene dal non aver riflettuto su certi aspetti.

Un’elaborazione che gran parte degli intellettuali italiani sta facendo solo ora, con i flussi migratori, il mondo sempre più connesso eppure slegato, ad anni di distanza da Ennio Flaiano, il solo che già nel dopoguerra si interrogava sui crimini degli “italiani brava gente”. O potremmo dire adesso degli “europei brava gente”.

 

(Francesco Staffa, Akuaba, D editore, 2020, pp.234, 15,90 euro, articolo di Antonella De Biasi)
Copertina di Helgoland di Rovelli

Rovelli e la bellezza della grammatica nascosta

C’è stato un tempo in cui pensavamo che il mondo fosse semplice. Che ci fosse un ordine nascosto ma determinato in cui ogni cosa aveva il suo posto. Negli anni in cui Dante scriveva la Divina Commedia, potevamo dire con certezza che una cosa esisteva e che quel particolare modo in cui si manifestava a noi era uno e uno solo, e per una ragione ben precisa. Vedevamo tutti le stesse cose.

Poi, con il passare dei secoli, la scienza ci ha aiutato a scoprire le «grammatiche nascoste» del mondo, a scomporre la materia in pezzettini sempre più piccoli e a vedere intorno a noi campi fatti di forze. Grazie a Faraday e Maxwell abbiamo scoperto il campo elettromagnetico e la ragione per la quale i corpi si influenzano l’uno con l’altro pur essendo lontani. Poi è arrivato Einstein con la sua descrizione della gravità e noi, aggiungendo un altro pezzo a ciò che sapevamo grazie a Newton, abbiamo capito che lo spazio e il tempo non sono due dimensioni slegate tra loro ma un tutt’uno, i fili di una rete che tiene insieme tutto: lo spazio-tempo.

Con il trascorrere dei decenni la complessità è cresciuta e mentre la letteratura raccontava che siamo Uno, nessuno e centomila e nell’arte si affermava la visione scomposta del Cubismo, un gruppo di ragazzi nel pieno del fervore intellettuale iniziava a farsi domande inconcepibili fino a poco tempo prima e a costruire strumenti matematici e filosofici nuovi per risolvere lo straordinario rebus messo sul tavolo da Einstein con i primi quanti, i fotoni.

Anche solo capire cosa c’è dentro la straordinaria rivoluzione scientifica innescata dalla teoria della meccanica quantistica non è un’operazione semplice. Carlo Rovelli lo sa bene e con il suo Helgoland (Adelphi, 2020) mette in piedi una coraggiosa operazione di divulgazione. Riavvolge il nastro del tempo e rievoca i protagonisti e le vicende che portarono a quella storica svolta di cui, ancora oggi, non sono chiare tutte le implicazioni.

La storia inizia su un’isola del Mare del Nord, Helgoland appunto, con un ragazzo di ventitré anni che ha l’intuizione che cambierà per sempre il corso della fisica. «Erano le tre del mattino quando il risultato finale dei miei conti fu davanti a me. Mi sentivo profondamente scosso…». Werner Heisenberg, questo il suo nome, sa di aver trovato qualcosa ma non ha ancora capito bene cosa. Comprende, però, di avere tra le mani un metodo per rispondere alla sfida postagli dal grande Niels Bohr che lo aveva chiamato a Copenaghen insieme ad altri giovani e brillanti fisici con un obiettivo ben preciso: trovare il pezzo mancante, cioè calcolare qualcosa che giustificasse i risultati delle equazioni che lui stesso aveva inventato.

Come spiega Rovelli, Niels Bohr aveva scritto delle formule strane che riuscivano a prevedere le proprietà degli elementi chimici prima ancora di misurarle. Prevedevano, ad esempio, la frequenza della luce che emettono gli elementi scaldati (il colore che prendono), ma non permettevano di calcolarne l’intensità. Come se non fosse abbastanza, le equazioni assumevano senza motivo che gli elettroni negli atomi orbitassero intorno al nucleo solo su certe precise orbite, a certe precise distanze dal nucleo e con certe energie, e che saltassero da un’orbita all’altra. Per qualche inspiegabile motivo funzionavano.

Compito di Heisenberg nel 1925 è scoprire perché. Qual è la forza che guida gli elettroni nelle loro orbite e negli strani salti di Bohr? Che cos’è che fotografano esattamente quelle equazioni? Servono idee radicali per rispondere e Werner sceglie di fare una cosa che a noi sembra scontata: descrive solo ciò che può osservare dall’esterno. Con questa filosofia, partendo da frequenza e intensità, ricalcola l’energia dell’elettrone e, sostituendo variabili con tabelle, riesce a ritrovare Bohr.

Già qui i fili iniziano a ingarbugliarsi. Eppure, pur nella difficoltà dell’argomento, Rovelli costruisce l’avvincente racconto dei tentativi di cogliere la grammatica nascosta per eccellenza. Idea dopo idea, intuizione dopo intuizione, formula dopo formula, fallimento dopo fallimento. Parte fondamentale del libro, infatti, è proprio il modo con cui si arriva a formulare la teoria della meccanica quantistica. Molto del fascino dell’impresa, fascino che è evidente anche a chi non mastica fisica, sta proprio nel coraggio di Heisenberg, Bohr, Born, Pauli, Dirac, Jordan, Broglie e Schrödinger. Il coraggio di mettere sempre tutto in discussione, di costruire edifici per poi rifarli da capo.

La costruzione della teoria dei quanti, in effetti, fu prima di tutto un gioco di squadra. Un gioco di menti che vissero in un momento storico ricco di stimoli, facendo tesoro di quanto altre menti e altre discipline avevano già prodotto. La scienza, ci tiene a sottolineare Rovelli qua e là lungo la narrazione, unisce i puntini ed è ciò che è anche perché alcuni uomini e alcune donne applicano al loro campo e ai loro problemi modelli e strumenti con approccio multidisciplinare, sperimentando, nutrendosi dei contributi altrui. La scienza è sfida, è pensiero in movimento e quindi richiede di ragionare fuori dagli schemi, di imparare a costruire con materiali di provenienza di volta in volta diversa.

Anche i geni, del resto, come ci ha insegnato il Rinascimento, non vengono dal nulla. Sono il prodotto della loro epoca e del contesto in cui si trovano ad agire. Non arrivano per caso. Heisenberg fu incoraggiato dal suo professore Max Born, che si dimostrò abile nel valorizzare il lavoro del suo studente, e fu aiutato dall’amico Pauli che perfezionò i suoi calcoli. Stesso discorso vale per le ipotesi di Schrödinger (quello del paradosso del gatto nella scatola), figlie della Vienna di inizio secolo dove pensiero orientale e Schopenhauer (mondo come volontà di rappresentazione…) si mescolavano senza conflitto.

Si spiegano così le lunghe digressioni di Rovelli nella filosofia passata e presente, occidentale e orientale. Tornano alla luce gli influssi di alcune figure chiave nella storia del pensiero. In primis Ernst Mach, fondamentale per la nascita degli studi scientifici sulle percezioni, ma anche Bogdanov, intellettuale straordinario e ingiustamente sconosciuto al grande pubblico (tra le altre cose fu medico, economista, filosofo, scienziato naturale, scrittore di fantascienza, poeta, insegnante, politico, pioniere della cibernetica e delle trasfusioni di sangue).

Insomma, non c’è solo fisica e matematica in Helgoland. La storia dei quanti, ci dice Rovelli, va oltre l’oggetto stesso dalla ricerca e può farci un grande regalo. Letta con mente aperta e curiosità, è un viaggio nel modo stesso in cui pensiamo e scopriamo. Coglierne solo una parte vuol dire perdersi molto. Fermarsi alla difficoltà delle formule e lasciare il campo agli scienziati è un peccato. La scienza non dovrebbe essere un edificio pieno di barriere all’ingresso, ma una casa che offre a tutti un’opportunità per interrogarsi sul grande mistero che è il mondo. È contaminazione tra discipline, esperienze e prospettive.

La scienza è «un’esplorazione di nuovi modi per pensare il mondo. È la capacità che abbiamo di rimettere costantemente in discussione i nostri concetti. È la forza visionaria di un pensiero ribelle e critico capace di modificare le sue stesse basi concettuali, capace di ridisegnare il mondo da zero».

Vogliamo davvero, domanda Carlo Rovelli, perderci tutto questo?

Forse vale la pena recuperare il grande insegnamento della scienza e collaborare insieme per riscrivere con una nuova grammatica il modo in cui vogliamo vivere. Le sfide per metterci alla prova non mancano e il mondo, ancora prima che di oggetti, è fatto di relazioni.

 

(Carlo Rovelli, Helgoland, Adelphi, 2020, 227 pp., euro 15, articolo di Gaia Mutone)