Da Ernesto a Elio

Saba e Aciman, da Ernesto a Elio

Sofferto, controverso, incompleto: con una difficile storia editoriale viene pubblicato postumo Ernesto (Einaudi 2015) di Umberto Saba, romanzo così gelosamente custodito dall’autore che fino all’ultimo sembrò avere una certa difficoltà ad abbandonarlo, forse per la sua tormentata componente autobiografica. Con uno dei romanzi maggiormente apprezzato nel primo Novecento italiano l’autore porta con sé un’ondata di incredulità: ogni reticenza sull’omosessualità qui viene meno e Saba, soffocato dal contesto storico dell’immediato dopoguerra, con il suo scritto trasforma quel tabù indicibile in tema affrontabile.

Il romanzo propone in chiave biografica la vicenda del giovane Ernesto alle prese con la sua prima esperienza sessuale vissuta in stretta simbiosi con la ricerca della propria identità nello spaccato industriale del porto e del mare di una Trieste di fine Ottocento. Con tutta l’ingannevole innocenza tipica della sua poetica, Saba dà voce al controverso tema cardine della sessualità, tratteggiando l’omosessualità con toni garbati dal primo sbocciare timido fino alla tempesta emotiva del fragile protagonista.

Il tema della sessualità come chiave di cambiamento e consapevole crescita dell’individuo crea qui un legame con il notissimo Call me by your name (Guanda 2007) di André Aciman, portato alla ribalta dall’omonimo film di Luca Guadagnino (IMDb 2017). Sullo sfondo di una assolata cittadina ligure degli anni Ottanta, ci viene presentato il giovanissimo Elio alle prese con il primo tempestoso amore per Oliver, studente laureando ospite nella casa di famiglia. Aciman segue con maniacale cura i moti interiori del suo protagonista, tipici di un’anima pronta a rivelarsi e mettersi in discussione. Ma cosa accomuna due romanzi distanti per stile, ambientazione e epoca storica?

La scoperta della propria sessualità gioca il ruolo di innesco tanto della fictio letteraria quanto della crescita caratteriale che accomuna Elio a Ernesto: la dimensione primitiva di ragazzi, oppressi e spinti dalla curiosità, che vivranno esperienze che saranno punto di svolta della loro esistenza, con risvolti non sempre positivi. Entrambi si approcciano con leggerezza alla sublimazione dell’esperienza sessuale, inconsapevoli della sua portanza in quanto sorta di spartiacque tra fine della fanciullezza e ingresso nel mondo adulto.

In quest’ottica l’incontro di Elio con Oliver come quello di Ernesto con il bracciante compagno di lavoro, diviene parte integrante di un percorso formativo che i rispettivi romanzi, intendono raccontare: seppur in epoche distanti e con modalità diverse, descrivono senza artifici o stratagemmi l’omosessualità che non è più parafrasata, bensì presentata e eviscerata, a volte crudamente, dai due autori. Oliver e il bracciante sono uomini già adulti, la loro vita ambigua e trasgressiva, costituisce un mistero per i giovani amati che finiscono per esserne attratti, si spendono alla vita con passione nel caso di Elio o come per Ernesto, semplicemente con curiosità, senza maturare un autentico coinvolgimento.

Entrambi i protagonisti infatti partono dalla medesima condizione di fanciulli ancora estranei alle tribolazioni degli adulti. Sono giovani intellettuali in erba versati nelle arti e amanti della cultura: Ernesto coltiva la sua passione per il violino, desidera seguire lezioni di musica, spende i suoi risparmi in biglietti teatrali e concerti, dinamiche che rivelano una profonda contraddizione: il desiderio di crescere si somma a quello di assumere i caratteri identitari del padre che non ha mai conosciuto, ma dimostra allo stesso tempo il bisogno di rimanere bambino libero dalle responsabilità delle proprie scelte. Elio specularmente è in sintonia con il pianoforte, affascinato dalla storia dell’arte e la letteratura classica che, come un liquido amniotico, sembra avvolgere la casa, la campagna, il sole, il tempo e proteggere la sua persona in una rassicurante dimensione bucolica. Decisamente più maturo della sua età, come un adolescente combatte interiormente i moti passionali che animano e gli torturano l’anima.

La prima esperienza sessuale dei protagonisti genera uno sconvolgimento che porrà fine inevitabilmente alla dicotomia che li caratterizza: Ernesto nel trovarsi schiacciato da sensi di colpa inoculati da una società non ancora pronta ad accettare l’omosessualità, frequenta Tanda, la prostituta che lo inizierà all’amore eterosessuale per dimostrare di non essere uno di quei “deviati” che lo zio tanto disprezza. L’innamoramento di Elio per l’esuberante ebreo statunitense invece si manifesta apertamente: l’attrazione pervade il ragazzo divenuto adulto, ma che non lo è del tutto. Entrambi manifestano il malessere dovuto non tanto all’esperienza, bensì al cambiamento che questa porta con sé: Ernesto mentre supera resistenze ed inibizioni, è consapevole della trasformazione e di aver perso la spigliata innocenza propria dell’età adolescenziale ed Elio segnato dalla relazione ormai consumata e conclusa, realizza di essere un adulto con desideri e passioni che potrebbero anche nuocergli.

Attraverso la storia con Oliver e con il bracciante che Saba priva di un nome, il quadro inizia a prendere forma e i due giovani devono venire a patti con una realtà diversa da quella che entrambi si erano raccontati: una comfort zone costituita dalla routine lavorativa di Ernesto e dalla sonnacchiosa vita della campagna cremasca in cui Elio trascorre le vacanze estive. Una immobilità emotiva e psicologica a cui entrambi restano legati prima di acquisire il coraggio di far cadere quelle barriere invisibili che ne ostacolano il rapporto fisico: in questa ovattata cornice avviene la scoperta di loro stessi. Venire a patti con la propria identità genera un senso di calma che permette la sopravvivenza in sintonia con l’esterno, nonostante i logoramenti che la situazione comporta.

Accade così che Elio, sebbene si trovi a dover metabolizzare l’abbandono di Oliver tornato negli States per sposarsi, riesca a trasformare la malinconia verso il passato consumato e concluso in un progetto di vita per il futuro, abbandonandosi finalmente in un pianto liberatorio, manifestazione ultima dell’addio all’infanzia. La sezione finale di Ernesto si arresta sull’amicizia di Ernesto con un violinista adolescente di poco più giovane di lui, dalla cui bellezza il sedicenne triestino rimarrà soggiogato e affascinato: Ilio costituisce a tutti gli effetti il primo vero amore del ragazzo, «il meraviglioso fanciullo, che, non potendo essere, si sarebbe accontentato di avere».

A differenza di Elio permane in Ernesto il desiderio di nascondersi, la necessità di accettarsi ma di non esporsi a giudizi esterni.

La difformità sostanziale nell’epilogo del processo di trasformazione è riconducibile ai diversi contesti sociali in cui i protagonisti agiscono suscitando reazioni diverse tra le persone connesse loro emotivamente: mentre i genitori  di Elio, intellettuali avanguardisti degli anni Ottanta del Novecento, si stringono solidamente attorno al figlio, accettano l’adulto che è diventato e lo incoraggiano a prendere in mano il suo futuro, la nevrotica e scostante madre di Ernesto non orienta l’attenzione sul giovane adulto che ha davanti, piuttosto preferisce assumere un atteggiamento di protettiva negazione, trattandolo come un bambino incapace di contestualizzare i propri comportamenti: così avviene in Ernesto un rigetto dell’individuo adulto che poteva e stava per diventare, avviandosi verso la regressione all’età infantile, cullato dalle improvvise attenzioni materne cui era disabituato.

Due storie sostenute da percorsi dagli esiti simili ma non paragonabili, vicende immaginate e dipinte con raffinatezza stilistica a distanza di cento anni, azzardate da voci narranti provenienti da culture assai diverse: ciò che più stupisce è il percorso parallelo dei protagonisti che culmina con la conoscenza e l’accettazione di sé.  La costante del quadro narrativo e memoriale è la transizione dall’adolescenza umana e poetica allo stato adulto dell’individuo consapevole contro il muro della vita che di spigoli ne ha in abbondanza. Allora Saba e Aciman ci parlano, il primo con la sofferenza vissuta che allusiva riemerge immortale e bizzarra dal Canzoniere (Einaudi 2014) il secondo attraverso una storia di fantasia che a distanza di un secolo vuole essere un auspicio a quello che verrà, trovando così in Elio una degna conclusione di Ernesto.

 

 

Il primo grande album di Keaton Henson

Keaton Henson con Monument riesce a fare quello che non era stato capace di fare quattro anni fa con Kindly Now.  All’epoca ci aveva fatto vedere solo superficialmente ciò che agli esordi ci aveva promesso. Aveva dato segnali di qualcosa che sarebbe potuto esplodere definitivamente da un momento all’altro, ma che ha tentennato. Sia nei suoi lavori canonici, sia in quelli esclusivamente strumentali.  Da “Sweetheart, What Have You Done To Us“, summa della poetica e dell’estetica giovanile di Henson, si era arenato in un giochetto che lasciava presupporre un risvolto quasi ironico attorno alla sua figura.

Henson è comunque sempre Henson. Nonostante questo Henson sia  altro. La malinconia è il motore di  Monument che, a differenza del passato, non sembra volteggiare senza un vero e proprio obiettivo, in una autocommiserazione tristemente comica. La voce sussurrata  alla lunga sembrava attorcigliarsi su sé stessa, stancando: qui riesce a farsi collante necessario per la riuscita totale dell’opera. Monument è il punto di raccordo di quello che l’artista inglese ha sempre avuto come potenziale e che nel 2020 riesce finalmente a modellare. Un lavoro meditativo, razionale,  enciclopedico nella sua sensibilità.

Henson ha la capacità di strutturare un disco che pulsa di vita materiale. Al centro di tutto, la grave malattia del padre, che viene raccontata attraverso undici brani che si legano tra loro con estrema naturalezza. “Ambulance” è l’incipit fondamentale  per entrare in questa odissea:  da qui si scivola in un una tempesta fatta di tristezza, la strada si dirama in un labirinto costellato di ballate minimaliste che si mischiano a brani corali, Jeff Buckley che sembra il nuovo cantante dei Sigur Ros, un Vincent McMorrow migliore che finalmente fa il grande salto di qualità. Folk blues che si lega a orchestrazioni. La sua capacità di maneggiare il silenzio non gli si ritorce contro, ma diventa finalmente funzionale a tutti gli effetti.

L’inglese, che non è solo autore di canzoni, ma anche scultore e poeta, a trentadue anni mette un punto sulla sua carriera: con Monument scompare la sensazione di Henson come cantante autore di ballate furbe, aprendosi verso qualcosa da prendere in davvero in considerazione.

cover trilogia della catastrofe

Effetti di una mala gestione della morte

La raccolta Trilogia della catastrofe, edita nel maggio di quest’anno da effequ, è composta da tre capitoli apparentemente non comunicanti tra loro e scritti da autori diversi – Emmanuela Carbè, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa: «Nessuno dipende dall’altro eppure nessuno, preso da solo, esaurisce il proprio senso», ma in verità esiste un percorso tematico che li riunisce e che ruota intorno al termine “catastrofe”, tale percorso è scandito in tre tempi: Il principio, il durante e la fine.

Quando pensiamo a una catastrofe, subito ci immaginiamo qualcosa di estremamente tragico o quantomeno altamente distruttivo, qualcosa per cui non c’è rimedio. Ma il termine in oggetto non deve indurci necessariamente a pensarlo in modo prettamente negativo. Com’è scritto nella premessa che apre la raccolta infatti, e proseguendo nella lettura, ci accorgiamo che la prospettiva privilegiata per significare una catastrofe, e nondimeno più vicina etimologicamente all’origine del termine, è quella che la interpreta come «qualcosa che era, che accadde e che, ribaltando la situazione, rovesciando i punti di vista, porta a qualcosa che sarà».

Catastrofe, dunque, intesa come rovesciamento di precedenti assetti, come un rivolgimento dello status quo: se ciò avviene in meglio o in peggio, la questione può essere tanto opinabile quanto relativa. Ma circoscrivendo il campo alla situazione storica che stiamo attualmente vivendo, è chiaro che i risvolti ulteriori, gli avvenimenti che ci attendono, sembrano non dare adito a molte speranze di un futuro positivo.

Mi riferisco in primo luogo alla situazione nata dallo scatenarsi della pandemia del Covid-19, che tuttavia va a sommarsi ad altri fattori di rischio già ben noti, come per esempio il surriscaldamento climatico, che da tempo ci preannunciano un futuro tutt’altro che roseo, per noi come per l’intero pianeta.

Proprio in questi giorni mi è capitato di leggere un articolo incentrato su uno studio che prospetta la tutt’altro che remota possibilità che le emissioni di CO2 e il disboscamento nel territorio dell’Amazzonia, porteranno alla trasformazione della famosa foresta pluviale in una savana. Una cosa che solo qualche decennio fa sembrava quasi impensabile, o a ogni modo molto improbabile.

Sembra infatti così strano, oggi, ritrovarsi a pensare a come talvolta il disastro definitivo di questo pianeta si stia svolgendo proprio sotto i nostri occhi, e passare oltre riprendendo il ritmo solito delle nostre vite. Questa serie di considerazioni si riallacciano alle tematiche trattate da Francesco d’Isa nell’ultima parte di questo “saggio ibrido” dal titolo perentoriamente ammiccante.

Non si riesce a capire, o non si vuole capire, come mai, pur avendo sotto gli occhi questa devastazione imminente, si continui indisturbati a perpetrare un sistema sociale dannoso che ci ha portato a questo risultato. Già negli anni sessanta il filosofo tedesco Gϋnter Anders affermava che «l’occupazione della nostra epoca è stornare lo sguardo».

Più che da una colpa morale, tutto ciò è probabile sia causato, suggerisce D’Isa, da una sorta di miopia congenita alla mente umana, e cita il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman il quale afferma : «Il nostro cervello risponde in modo più forte alle cose che sappiamo per certo. Più c’è incertezza, meno siamo in grado di agire».

Tutto ciò, dunque, sembra indurre l’individuo, in modo consapevole o meno, a non modificare in niente la sua condotta e a ignorare i segnali della catastrofe, fino a quando gli effetti di quest’ultima non si impongono alla sua attenzione in tutta la loro evidenza. Basti pensare alla nostra recente e tutt’ora in atto esperienza dell’epidemia del Covid-19: quanto è stato sottovalutato il problema? Quante avvisaglie i nostri governanti avevano ricevuto al fine di prevenire e agire tempestivamente, fino a che il disastro non ci è piombato addosso in tutta la sua violenza cogliendoci totalmente impreparati? «Eravamo sicuri che si sarebbe verificata, ma a quanto pare non riusciamo a reagire a rischi certi ma indeterminati». Sembra allora che sia valso il principio secondo cui «l’unico modo per convalidare una previsione con certezza è aspettare che si avveri».

Stando così le cose, come si può, almeno da un punto di vista filosofico, non essere tentati di farsi trascinare lungo la china di un desolante pessimismo? Questa risposta a una situazione di crisi globale sarebbe fin troppo facile: «Non intendo persuaderti che la vita fa schifo o che ci si debba suicidare in quanto schiavi di un diktat impostoci ancor prima di nascere», nonostante il fatto che le teorie radicalmente catastrofiste insieme alle concezioni altrettanto radicali sull’incontrovertibile corruttibilità e sostanziale negatività dello statuto ontologico dell’esistente abbiano la loro dignità e ragione di esistere, tuttavia qui non si tratta di incaponirsi sulle cause remote, piuttosto cercare di trovare una soluzione o più soluzioni che non siano mere cure palliative, prendendo coscienza del fatto che «la diagnosi è chiara, il mondo ha un tumore. Bisogna capire se è curabile», e tenendo presente inoltre che «le catastrofi non sono tutte uguali e se è possibile mitigare anche di poco l’entità di un disastro, credo che abbiamo il dovere morale di agire in tale direzione – e, anche lasciando perdere la morale, è banalmente la cosa migliore da fare».

Ecco che D’Isa ci fornisce una riflessione tanto semplice quanto disincantata riguardo la nostra situazione: tutto ha origine dalla paura della morte ma soprattutto dalla cattiva gestione di quest’ultima. Se in un primo momento siamo portati a considerare la paura della morte e l’impulso all’autoconservazione come le matrici originarie di ogni comportamento umano e animale teso alla sopravvivenza, è pur vero che questa causa primordiale non esaurisce l’intero spettro dei suoi effetti, essa si limita, afferma D’Isa, solamente a generarli : «È così che la pulsione a evitare la morte ci ha portato a sviluppare effetti variegati e talvolta controproducenti».

Le tante deviazioni dalla sorgente primaria – l’istinto di sopravvivenza e l’evitamento della morte – rinforzate dall’abitudine, hanno permesso l’adozione di condotte distruttive e il formarsi di assetti altamente nocivi per l’uomo e l’ambiente, del tutto incoerenti con le pulsioni di partenza.

I mezzi tecnologici a nostra disposizione ci hanno portato troppo lontano dalla nostra vera natura, fino a raggiungere una situazione limite che copre un ampio quadro di effetti distruttivi che sono sotto i nostri occhi.

Si tratterebbe a questo punto, come suggerisce D’Isa, di affrontare la paura della morte ma soprattutto ammettere che i nostri attuali mezzi hanno superato largamente la nostra capacità di gestirli, il fatto di riconoscere questa nostra inadeguatezza ci porterebbe forse a una visione più sobria su ciò che siamo e dove siamo diretti, contribuendo in maniera maggiore a permetterci di trovare delle soluzioni possibili e, cosa altrettanto importante, alla nostra portata.

 

(Emmanuela Carbè, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa, Trilogia della catastrofe, effequ, 2020, pp. 208, euro 15, articolo di Daniele De Cristofaro)

 

 

 

Copertina di La strada di casa di Haruf

L’ultimo appuntamento con Kent Haruf

Holt non avrà più storie da raccontarci. E nemmeno il suo narratore. Dopo l’uscita dell’ultima traduzione in Italia, La strada di casa, NNEditore ha completato la pubblicazione dell’opera di Kent Haruf. Non pochi appassionati si saranno senz’altro commossi a leggere le ultime righe di un autore che, sebbene molto in ritardo (e soltanto dopo la sua morte), ha suscitato nel nostro paese un evidente successo di pubblico, consacrando l’esordiente casa editrice, che lo ha portato in Italia nel 2014 (anno di scomparsa di Kent Haruf) a eguagliare il colpaccio che fu di Giangiacomo Feltrinelli con la pubblicazione postuma di Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

La strada di casa, secondo romanzo in ordine di scrittura (uscito in America nel 1990), arriva per ultimo nelle nostre librerie, dopo Vincoli, che fu il primo romanzo di Haruf, e Le nostre anime di notte, consacrato al grande schermo nel film omonimo con protagonisti Robert Redford e Jane Fonda. Ma è con la trilogia di Holt, e soprattutto con il primo volume Canto della pianura, che Kent Haruf raggiunse in America (nel 1999, alla veneranda età di 56 anni) quella notorietà che anche in Italia è arrivata (sebbene postuma) quando la NNEditore scoprì un autore straordinario, tradotto sicuramente troppo tardi rispetto a quanto avrebbe meritato.

La sua prosa, paragonata da alcuni a quella di Ernest Hemingway per la sua pulizia, segue (almeno idealmente) quanto iniziato da William Faulkner con la simbolica provincia di Yoknapatawpha: tutti i romanzi di Kent Haruf sono, infatti, ambientati nell’immaginaria contea di Holt, le cui appassionate descrizioni hanno ispirato alla NNEditore una mappa e una riproduzione dei luoghi simbolo (un po’ alla Signore degli anelli, ma senza personaggi fantastici o battaglie epiche).

Al centro di La strada di casa c’è il personaggio brillante che delude, l’uomo seducente che diventa il protagonista di un disinganno, nel quale quello che luccica non è oro. Se Jack Burdette è il narciso che nasconde il malaffare, Pat Arbuckle è il narratore che di soppiatto entra nella vita di Jessie Miller, dimostrando come l’equilibrio e la finta mediocrità possano rappresentare doti fondamentali nel conquistare la fiducia di una donna, abbandonata dal seduttore incallito, ma mai succube del suo potere ammaliatore. «La gente di Holt pensava che a quel punto avrebbe pianto. Immagino fosse quello che volevano. Ma lei non lo fece. Forse aveva oltrepassato il punto in cui le lacrime di un essere umano hanno un senso, difatti girò la testa, chiuse gli occhi e dopo un po’ si addormentò».

In fondo, il romanzo racconta di un triangolo sentimentale: il bello che scappa, l’amico che non delude, la donna che scopre il calore vero di una famiglia. Sullo sfondo il tema della giustizia, quella che arresta gli imbroglioni, e quella che intreccia i sentimenti, facendo dei legami non di sangue una delle fissazioni di Kent Haruf. Non è un caso, infatti, che in tutti i suoi romanzi nascano, e si rafforzino, rapporti costruiti sui sentimenti, e non sui semplici obblighi di parentela. Ci sono persone che si scelgono, e donne che reagiscono ai dolori improvvisi senza mezze misure, come Jessie, che da sola e con due figli riesce in quello che molti nella contea di Holt avrebbero creduto impensabile: non scappare.

«Ancora oggi non so bene perché. Penso che la maggior parte di noi non sarebbe rimasta nemmeno una settimana, se avesse ritenuto di avere un’alternativa qualsiasi. Ma forse era proprio quello il punto: lei era convinta di non avere un altro posto dove andare». Non è un caso, allora, che il titolo originale del romanzo sia Where you once belonged, il luogo al quale una volta appartenevi, che è il luogo dove torna Jack per riprendersi ciò che gli appartiene, ma che è il luogo al quale Jessie sente di essere legata, e probabilmente sarà anche il luogo dove rimane Pat, col fiato sospeso in un finale aperto (cosa mai più accaduta nei romanzi di Haruf).

È strano che, in un mercato editoriale come il nostro nel quale vanno alla grande le saghe in giallo di commissari e detective, un autore come Kent Haruf abbia avuto un tale successo di pubblico. Lui che di misteri non se ne intendeva, tanto che le sue storie sembrano addirittura troppo semplici, e sicuramente poco avvezze al racconto del male violento. I personaggi che abitano Holt, la cittadina immaginaria del Colorado orientale, sono persone semplici, più inclini a quei sentimenti concreti che animano la quotidianità di uno sperduto paesino di provincia: il rapporto con la propria vecchiaia, e quella degli altri; il divario tra giovani e adulti, o tra genitori e figli; il desiderio di creare dei legami che legano, al di là delle parentele di sangue. Sua moglie scrisse: «Kent non aveva paura di osservare gli aspetti più oscuri della natura umana; non giudicava i personaggi, ma ne vedeva le ferite, la lotta contro la loro stessa umanità. Li amava tutti, e il senso delle sue storie emergeva proprio dalle loro interazioni. Le descriveva in maniera semplice e diretta, senza prediche o giustificazioni; credo che questo sia il motivo per cui i suoi libri hanno commosso e commuovono così tante persone».

E nel tentativo, riuscitissimo, di raccontare i sogni (e le paure) di molti americani degli anni Novanta, anche la natura concorre a fare di Holt un luogo di cui sentiremo sicuramente nostalgia, con le sue tinte semplici e chiare, tipiche della scrittura di Haruf. Ad esempio, presi nella lettura di Vincoli (il secondo romanzo dell’autore americano, uscito in Italia lo scorso anno), ci si potrebbe ritrovare addirittura a mungere una mucca, con «la lurida coda che ti frusta di continuo» e tu che «fai i fioretti più impossibili, tutto pur di riuscire a mungerla senza dover sentire il sapore di quella cosa putrida e disgustosa»; quando credi che tutto stia andando per il meglio ecco che «ti arriva una frustata, tutto quanto, sangue e merda e muco e incredibile umiliazione in piena faccia. Ti copre gli occhi, il naso, la bocca. Ne senti persino un po’ che ti cola sulla nuca. Oddio, aiutatemi. Figlia di puttana. A quel punto non ce la fai più: vomiti, ti vomiti addosso, vomiti addosso a quella mucca maledetta, vomiti nel secchio del latte. Vai avanti finché non hai solo dei conati di bile acida, ti fa male lo stomaco e boccheggi».

(Kent Haruf, La strada di casa, trad. di Fabio Cremonesi, NNEditore, 2020, 192 pp., euro 18, articolo di Elisa Scaringi)

 

Copertina di Stretta la foglia larga la via

Luigi Capuana: realismo e fantasia

All’interno del panorama letterario, il genere favolistico costituisce un importante fil rouge dalle differenti declinazioni formali, non di rado fruttuosamente contaminate con altre discipline ‒ si pensi, per citare i casi celebri, alle riflessioni psicanalitiche condotte su questo genere da Freud, all’impianto socio-politico degli apologhi di Sciascia o alle tonalità fortemente satiriche delle favole di Gadda.

Nella storia della letteratura, nondimeno, la favola si affianca a una altrettanto significativa produzione fiabesca: la presenza di alcune componenti comuni (quali soprattutto la presenza di animali e l’impianto morale) spesso responsabili di una sempre maggiore confusione teorica tra i due generi, non supplisce, tuttavia, all’importante numero di differenze strutturali che, relative non solo ai moduli narrativi ma anche alla caratterizzazione dei personaggi e alle coordinate spazio-temporali, sopravvivono anche quando favola e fiaba, accolte nel canone novecentesco, subiscono una serie di interessanti metamorfosi formali, coerenti con gli imperativi di sperimentazione e destrutturazione caratteristici del secolo.

 

Luigi Capuana autore di fiabe

 

Un caso che esemplifica con chiarezza la grande circolazione della forma fiaba è costituito dall’opera di Luigi Capuana, il quale, nonostante il fondamentale contributo apportato al Verismo italiano, ha reinterpretato, in una fase matura della propria formazione intellettuale, la funzione del narratore alla luce di norme ben canonizzate all’interno del panorama fiabesco, adottandone anche quei tratti meravigliosi e fantastici particolarmente vicini alla tradizione folklorica.

L’evidente contraddizione teorica nonché strutturale che oppone alle fiabe presenti in questa porzione della sua produzione i canoni di verisimiglianza alla base dell’ispirazione di stampo verista sembra risolversi, nondimeno, nella puntuale designazione del destinatario ideale cui indirizzare la narrazione fantastica. Già nella Prefazione della prima raccolta, C’era una volta…fiabe (Treves, 1882, pp. 5-8), Capuana medesimo riconosce esplicitamente nella propria opera i connotati tipici della letteratura di infanzia (corsivo mio):

«Queste fiabe son nate così. / Dopo averne scritta una per un caro bimbo che voleva da me, ad ogni costo, una bella fiaba, mi venne, un giorno, l’idea di scriverne qualche altra pei miei nipotini. […] Avevo anche la non meno seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel mio studio, per sapere quando la nuova fiaba sarebbe finita».

Consapevole di questo profondo scarto teorico-formale tra la forma fiaba e il canone realistico («Vissi più settimane soltanto con [quel mondo meraviglioso], ingenuamente, come  non  credevo  potesse  mai  accadere  a  chi  è  già  convinto  che  la  realtà sia il vero regno dell’arte», scrive nella suddetta Prefazione, p. 5), egli vuole dapprima giustificare la propria apparente incursione nel genere fiabesco riconducendone l’occasione a circostanze straordinarie («Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto», p. 8), sulle quali infatti si sofferma diffusamente (p. 5):

«In quel tempo ero triste ed anche un po’ ammalato, con un’inerzia intellettuale che mi faceva rabbia, e i lettori non immagineranno facilmente la gioia da me provata nel vedermi, a un tratto, fiorire nella fantasia quel mondo meraviglioso di fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi, che è stato il primo pascolo artistico delle nostre piccole menti».

Eppure, nell’ultima sequenza della Prefazione, un’allusione all’orizzonte dei possibili lettori sembra sconfessare una totale identificazione tra delle semplici nugellae e la categoria del meraviglioso (p. 8):

«Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d’arte. […] Ben mi stia, se le Fate, per dispetto, abbandoneranno ora il mio libro alla severa giustizia della critica

Tanto più che questa raccolta non costituisce un esperimento isolato. Negli anni successivi, infatti, vengono pubblicate numerose altre edizioni: tra le più famose, ll raccontafiabe (Bemporad, 1894); Il drago, novelle, raccontini e altri scritti per fanciulli (Voghera, 1895); Chi vuol fiabe, chi vuole? (Bemporad, 1908); Si conta e si racconta (Muglia, 1913) e Le ultime fiabe, tuttavia postume (Mondadori, 1919) ‒ i testi sono oggi raccolti nella recente Stretta la foglia, larga la via. Tutte le fiabe, curata da Rosaria Sardo e illustrata da Lucia Scuderi (Donzelli, 2015).

 

Caratteristiche della fiaba tradizionale

 

Tratti tradizionali contraddistinguono la maggior parte delle fiabe di Capuana.

In primo luogo, infatti, creature fantastiche agiscono in un quadro caratterizzato sempre dalla medesima struttura narrativa: l’azione, ora costituita dall’interazione fra un personaggio di modeste origini, ma virtuoso, e un membro della famiglia reale (il Re, la Regina, o il Reuccio e la Reginotta) ora incentrata su una predizione nefasta o sulla minacciosa presenza di un mostro invincibile, si risolve nel successo dell’eroe e nel conseguente lieto fine, spesso garantito dall’intercessione di un essere magico  (Fata o Mago) che premia la magnanimità del protagonista dopo averlo messo alla prova. Si pensi, ad esempio, alla vecchina che, ne L’uovo nero, avendo risolto una serie di quesiti posti dalla corte reale, riesce, grazie all’intervento di Fata Morgana, a trasformare un gallo nel principe del regno.

In secondo luogo, l’indeterminatezza cronotopica che caratterizza lo svolgimento dell’intreccio e che viene solitamente evocata con formule d’esordio ricorrenti in quasi tutte le fiabe («C’era una volta il Re…», «Si racconta che la Reginotta…»), perché utili a legittimare la posizione di potere detenuta dai personaggi protagonisti in virtù del loro sangue reale, colloca l’azione narrativa in generici palazzi nobiliari e in luoghi sconosciuti all’orizzonte umano, come la grotta de La fontana della bellezza o la vallata de L’albero che parla.

Distici dal ritmo di filastrocca, non di rado derivati dalla tradizione popolare e reiterati in fiabe diverse, chiudono la narrazione. La loro ampia circolazione ha spesso agevolato una cristallizzazione in forme proverbiali, la cui originale ascendenza letteraria è andata via via sbiadendosi. Esemplificativa, a questo proposito, la formula «Stretta la foglia, e larga la via / Dite la vostra, ché ho detto la mia», in Senza orecchie, I tre anelli, Il soldo bucato e Il barbiere, ripetuta anche nella variante «Stretta la via, larga la foglia; / Ne dica un’altra, chi n’ha la voglia» de Il gattino di gesso.

L’impianto morale che presiede la fabula, inoltre ‒ complice anche la finalità didattica di ciascun testo ‒ non solo polarizza le categorie etiche di bontà e malvagità in una netta dicotomia, ma costituisce anche una cartina di tornasole utile all’interpretazione generale. La fisionomia polisemica che abbiamo visto sinora contraddistinguere molte favole politiche, infatti, caratterizza anche i moduli fiabeschi, autorizzando delle sovrapposizioni simboliche tra particolari personaggi o situazioni e determinate tipologie morali, emotive o temporali. Ad esempio, la padellina magica che, nell’omonima fiaba, cucina pietanze succulente per la povera contadina tanto magnanima da donare a una mendicante affamata la sola pagnotta in suo possesso, ma frigge cibi più amari del veleno per i lavoratori ingordi, simboleggia la gratitudine; l’indovinello che, imposto al principe come condizione per sposare la figlia di Fata Fiore ne Il buco nell’acqua, prescrive al giovane di perforare la superficie acquea, rappresenta invece il valore della costanza: quando infatti egli, comprendendo l’impossibilità di forare l’acqua allo stato liquido, penetra con un bastone una lastra ghiacciata, asserisce che «spesso noi abbiamo il torto di credere impossibile una cosa che ne ha l’apparenza e non è tale».

Insomma, si tratta di un meccanismo figurale tipico della tradizionale struttura fiabesca, la cui portata nel panorama letterario può essere ben descritta con le parole spese da Calvino nell’Introduzione alle Fiabe italiane (Mondadori, 1956, pp. 6-63):

Le fiabe sono vere. Sono prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita […], sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna […] e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste.

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Nel testo, riproduzioni della prima di copertina originale di L. Capuana, Si conta e si racconta, Muglia, 1913 e di Id., Stretta la foglia, larga la via. Tutte le fiabe, a cura di R. Sardo, Donzelli, 2015, insieme all’illustrazione realizzata da Lucia Scuderi per la fiaba La padellina.

Le difficoltà di Jónsi fuori dai Sigur Rós

Shiver è il suo secondo album. Da Go a quest’ultimo c’è stato un lavoro ambient fatto in insieme a Alex Somers, Lost and Found.  Un altro sotto il nome Dark Morph insieme a Carl Michael von Hausswolff.

La carriera solista di Jónsi è molto lontana dai Sigur Rós, ma è soprattutto poco chiara. Dal suo esordio le cose vanno così e le spinte dell’islandese, quando è in proprio, procedono su questa strada. A ogni suo nuovo capitolo corrisponde un passo verso un labirinto fatto di punti interrogativi sul senso di Jónsi al di fuori dei Sigur Rós.

La questione non è l’abbandonare la sacralità del gruppo islandese, e la cosa non ha bisogno di essere dimostrata – anche se comunque esiste un discorso su un certo parallelismo che può avere come comune denominatore uno smarrimento proprio del cantante. Quanto il fatto che la sua seconda vita artistica somigli più a un vivacchiare, a un lento spegnersi. C’è un obiettivo che quantomeno esteticamente pare esserci, ma non c’è la voglia di raggiungerlo.

Shiver. Che cos’è Shiver? Un album pop con risvolti dance/techno come il suo predecessore. Sicuramente è più cupo e meno festoso di Go. C’è un po’ di idm buttata nel mazzo. Sprazzi di sigurrosate, a essere larghi. Se poteva essere quantomeno interessante in passato – poliedrico Jónsi, che non si ferma sulle sicurezze di ciò che è stato fatto, che sperimenta, si mette in gioco -, più passa il tempo e più è difficile riuscire a riacchiapparlo. Il nuovo gioco è un gioco vecchio.

I falsetti non si muovono in quel magma post rock dei Sigur Rós, ma in un condensato di scelte che non riescono a fare altro che accartocciarsi l’una sull’altra. Suonano come qualcosa che ti aspetti, ma con un vago sentore che  sia un lavoro costruito come si deve, dovuto però al fatto che Jónsi è quella cosa lì, proprio quella cosa lì dei Sigur Rós. È solo suggestione. La canzone che dà nome all’album, in quest’ottica, ne è in qualche modo l’emblema.

Una sensazione strisciante vorrebbe portare a galla un fatto che, legato al suo statuto di pioniere della musica del nuovo millennio, sa un po’ di bestemmia: che i lavori di Jónsi somigliano sinistramente agli Aqua se gli Aqua fossero stati oggi gli Autechre (“Wildeye“?), caratterizzati da questa voce aliena (ma che oramai è diventata casa), una perfetta casa di barbie messa in vetrina in un localetto vintage in una qualche stradina di Reykjavík.

Sembra fatto di plastica quello che esce da Shiver, anche quando l’intento è quello di aggrapparsi a certi echi di un passato glorioso. E forse proprio per questo che risulta così. Ci sono poi delle parentesi anche notevoli (“Grenede“, su tutte), ma sembra più che altro che funzionino per un fortissimo e inevitabile effetto nostalgia: è questo a gettare un’ombra pesante e densa su tutto l’album.

Il leader dei Sigur Rós, in Shiver, è al limite dell’autoparodistico nel suo provare a essere sé stesso e al contempo non esserlo: nell’ascolto si cerca disperatamente Jónsi e si finisce per trovare la sua caricatura, magari uscita bene solo per chi, quella cosa, non l’ha mai vista spendere davvero.

Copertina di Finzioni politiche di Didion

L’effimera ritualità della politica

La politica statunitense è fatta di ombre, di percezioni, più o meno esatte, e di storie, più o meno convincenti. Non ci mise molto Joan Didion a capirlo: il tempo di accettare l’incarico della New York Review of Books e di partire per la campagna presidenziale del 1988. Un fatto insolito per una giornalista che, fino ad allora, non si era interessata alle elezioni: a tenerla lontana non era stata l’arrendevole indifferenza alla cosa pubblica, bensì l’intuizione di trovarsi di fronte a una serie di liturgie ingannevoli e di parole irreparabili. Era davvero così. E per Joan Didion si trattò solo di affinare il suo talento: osservare, indagare e poi indugiare sul confine delle cose.

Finzioni politiche (Il Saggiatore, 2020) è un libro complesso, che appare, come quasi tutte le opere della Didion, falsamente rassicurante: si presenta come una semplice raccolta di saggi, in ordine cronologico, dal 1988 al 2000. C’è una dedica, bella e breve, a suo marito John Gregory Dunne. E  una premessa, asciutta, in cui la Didion spiega tutto ciò che ritiene necessario dire sui suoi incontri con il mondo politico. L’edizione italiana rispetta la scelta minimalista, rinunciando a qualche ancoraggio paratestuale, che aiuterebbe il lettore a orientarsi tra dinamiche macchinose, eventi lontani e personaggi dimenticati o semisconosciuti. Il resto, infatti, è riservato solo alle sue parole, affilate e rigorose: otto capitoli in cui ci si immerge nella politica statunitense. Quella vera, accecata dall’ingannevole logica bipartitica e tenacemente radicata nel territorio; viziata dall’individualismo e dalle storie ben raccontate.

«Forse, tra le narrazioni dalle quali deriva il sistema politico, la più persistente è quella per cui ai cittadini della nazione viene offerta una “scelta” della quale non sembrano capire il valore». La Didion non si accontenta di osservare: rinuncia alla polemica e si allontana dall’analisi politica:  esamina libri, inchieste, articoli e campagne elettorali; intervista membri dello staff, ripercorre gli avvenimenti, decostruisce, svela cosa si nasconde dietro la macchina da presa. Perché la politica condivide con l’illusione cinematografica la capacità di rendere semplici cose difficili.

La giornata da presidente di Ronald Reagan, racconta la Didion, iniziava alle nove, quando sulla scrivania trovava l’orario con gli appuntamenti della giornata: «alle dieci, in assenza di un conflitto urgente era programmata un’ora di pausa» in cui rispondeva ai cittadini e ritagliava giornali. Per ricordare i compleanni dei membri del suo staff aveva un’agenda: non conosceva neppure i nomi di quelle persone, ma il copione esigeva la scena dello scambio dei doni, e del ringraziamento da parte del festeggiato. La metodica ritualità kantiana di Reagan, ricorda che nulla è lasciato al caso: sul grande palcoscenico della politica, sono i ruoli ad avere la meglio, a precedere e spesso capovolgere il destino di un uomo. È il caso di Reagan, la cui narrazione affondava le radici nel mito dell’uomo impegnato, attivo, che aveva costruito da solo il suo mondo, al punto da rinunciare per sempre alle lusinghe di Hollywood. La realtà, spiega Joan Didion, era ben diversa: le giornate scandite e accuratamente preparate, l’immagine di rappresentanza, lo scarso potere decisionale e l’ombra di una carriera cinematografica lontana e fragile.

È il caso di Clinton, il candidato «con diversi vezzi e atteggiamenti regionali, residuo di una cultura che dava ancora grande valore allo sport, all’assunzione di responsabilità, al flirtare con certe donne pur idealizzandone altre». Una mentalità, ci avverte la Didion, «spesso ricercata più che ereditata».  Il candidato Clinton, figlio di un commesso viaggiatore, ricercava i voti dell’«americano medio», l’espressione salvifica in grado di comprimere in due parole un’intera classe sociale e di non spaventare i repubblicani moderati. La classe media fa sempre meno paura dei poveri. Semplificare, usare le parole giuste, richiamare valori e non singole realtà sociali: così Clinton fece breccia nel cuore degli americani. Ma quando la situazione sfuggì di mano, la retorica del buon venditore venne stravolta: entrarono in scena nuovi personaggi, come il procuratore Kenneth Starr «alla ricerca di quella che Melville chiamava la somma verità»; i testimoni che interpretarono a più riprese il ruolo di vittime o di carnefici; la stampa, creatura mitica in cerca di giustizia. Joan Didion in questo caso dà il meglio di sé, svelando anche le debolezze di un giornalismo ossessionato dalla verità e dalla ricerca delle fonti, ma non immune da colpe (come nel caso di Bob Woodward sull’affare Clinton).

In Finzioni politiche, Joan Didion rinuncia all’analisi politica e si affida al potere e al fascino della narrazione per ricordarci che talvolta le scelte sono false scelte.

 

(Joan Didion, Finzioni politiche, trad. di Sara Sullam, Il Saggiatore, 2020, 288 pp., euro 23, articolo di Elisa Carrara)

 

Copertina di Racconti d'inverno di Blixen

Vita e morte come due scrigni serrati

Karen Blixen finisce di scrivere i Racconti d’inverno nel 1942.  Dopo il doloroso fallimento dell’avventura africana, l’autrice si vede costretta a rientrare in Danimarca e si rifugia nella sua casa a Rungsteldung. Sono anni di raccoglimento, nei quali la Blixen si ripiega su se stessa facendo della scrittura il fulcro della sua esistenza. È qui che, nella solitudine della sua stanza, con le finestre rivolte al mare, crea e fa muovere i personaggi dei suoi Racconti d’inverno, osservandoli da lontano come improvvisi luccichii della sua immaginazione.

Sono storie intrise di miti, che hanno il suono di fiabe sognanti, meditazioni fantasiose sul senso dell’esistere, a cui il paesaggio nordico – con i suoi boschi, i suoi ghiacci e i suoi colori delicatamente tratteggiati – fa da sfondo come un dipinto impressionista, che raccoglie umori ed emozioni mai perfettamente decifrabili. Sono racconti in cui l’autrice scopre parte della sua vita, nascondendola e allo stesso tempo sublimandola in storie che fanno perno sulle principali forze che hanno generato conflitti nella sua stessa esistenza: libertà e moralità, immaginazione e realtà, matrimonio e differenza di classe, ancoraggio a fredde regole invariabili e bisogno di prospettive più ampie, scardinate da pregiudizi.

Ogni personaggio ha il proprio aggrovigliato bagaglio emotivo, che conserva sempre qualcosa di strutturalmente inaccessibile, di inafferrabile. Come a volersi allargare in un respiro di individualità, ogni carattere si perde e si definisce attraverso pause meditative che, in alcuni racconti, diventano vere e proprie riflessioni filosofiche sull’esistenza. In «Il campo del dolore», uno dei racconti più toccanti dell’intera raccolta, il giovane Adam – con lo sguardo rivolto verso il maniero di famiglia, incastonato tra i campi e le foreste danesi – discute, insieme allo zio, del delicato rapporto tra virtù e potere, e della tragedia come fenomeno dalle radici tutte umane in antitesi al comico, che è visione sublime, propria del divino.

Pensieri che rimangono quasi sospesi, irresolubili, come fiabe che lasciano una morale aperta, sempre rivedibile e avvolta in un’aura incantata che non trova soluzioni univoche. I conflitti si manifestano soprattutto nell’interiorità dei personaggi stessi, come dissonanze improvvise e inesplicabili, percepibili ma impossibili da padroneggiare. Adam – come la maggior parte dei personaggi di Racconti d’inverno – è combattuto tra il desiderio di libertà e la consapevolezza di essere soggetto alle leggi della necessità, di dover rispondere a un destino già scritto. Forse questo è il riflesso di conflitti interiori dell’autrice stessa, la cui infanzia fu segnata da un’educazione improntata alla severa disciplina, e alla quale lei decise di non arrendersi mai aprendosi sempre nuovi spazi di possibilità attraverso l’immaginazione e la scrittura.

In questi racconti destino gioca un ruolo fondamentale perché «come il canto è tutt’uno con la voce che lo modula, come gli amanti diventano una cosa sola nel loro amplesso, così l’uomo è una cosa sola col proprio destino, e deve amarlo come ama se stesso». La sensazione di una «discordanza», che attraversa tutti i personaggi, si esplica in un disordine che si può solo intuire e mai cogliere nella sua totalità, e sfocia in un conflitto che diventa «concordia» solo passando attraverso l’accettazione del dolore.

Le emozioni – spesso dalle tinte malinconiche, legate a un senso di solitudine, di desolazione e di distacco dal mondo esterno – appaiono indecifrabili, fino a quando il personaggio si arrende al volere della vita e intravede nella dissonanza la possibilità di salvezza. L’«improvvisa concezione dell’universo» passa, quindi, attraverso la presa di coscienza del fatto che il mondo è attraversato dal dolore, e la consapevolezza che esso è la chiave di accesso alla vita. Vita e morte, infatti, «sono due scrigni serrati, ognuno dei quali contiene la chiave dell’altro», così come tutte le forze uguali e contrarie che rappresentano la fibra significante di tutti questi racconti: realtà e immaginazione, scrittore e lettore, onore e vergogna, fedeltà e tradimento, grandezza e inutilità. Coppie dicotomiche che dialogano continuamente, confondendosi l’una con l’altra fino a quando i contorni di entrambe risultano sfumati, perdendo così una delimitazione netta delle rispettive identità.

I personaggi blixeniani sembrano prendere consistenza attraverso l’immaginazione, il sacco culturale ed emotivo di chi li osserva e li guarda muoversi. È solo attraverso l’immaginazione stessa che possono andare al di là del loro statuto ontologico, della loro stessa sostanza personale. Emblematico, in questo senso, è il racconto «Il bambino che sognava», che vede il piccolo Jens aprirsi alla dimensione del sogno e della fantasia per trovare rifugio dalla sua realtà di orfano. È una riflessione su come la fantasia, insinuandosi nella realtà, abbia il potere di confonderla e allo stesso tempo illuminarla, costruendo nuove possibilità di esistenza. È per questo che i personaggi si fanno portatori di altre storie, come se l’atto stesso del narrare avesse il potere di scardinarli, almeno in parte o temporaneamente, dai loro conflitti emotivi, rendendo questi ultimi, forse solo apparentemente, meno offensivi. Lo vediamo, per esempio, nel primo racconto della raccolta, «Il giovanotto col garofano», che vede il giovane scrittore Charlie Despard – disperato per la paura di aver perso il talento della scrittura – raccontare una storia ad alcuni marinai incontrati per caso, e così salvarsi. Charlie, dopo essersi perso, si ritrova, come se l’azione stessa del raccontare avesse avuto un ruolo determinante nel riallineamento delle sue forze interiori.

Un altro elemento che fa da fil rouge di Racconti d’inverno è il continuo dialogo tra le forze della natura e la volontà (o libertà) dell’uomo. È come se tra natura e umana sostanza ci fosse una simpatia nel senso etimologico del termine, un «patire insieme». La natura si esprime attraverso un suo codice, che si fa veicolo ed espressione di sentimenti umani; in risposta, questi ultimi si manifestano per effetto di una quasi fatata interazione.

Karen Blixen, con la sua sottile ironia, uno sguardo delicato e una sensibilità che sa cogliere i respiri delle emozioni umane, ci consegna una raccolta di racconti che ci fa abitare algidi paesaggi nordici dai contorni fiabeschi, facendoci immergere in una dimensione di malinconico incanto, che ci fa perdere il senso di dove finisca il sogno e dove invece inizi la realtà.

 

(Karen Blixen, Racconti d’inverno, trad. di Adriana Motti, Adelphi, 1980, 319 pp., euro 18, articolo di Francesca Gosi)

 

copertina di davide lajolo il vizio assurdo

Cesare Pavese compreso da pochi

A volte occorre solo scegliere le parole giuste, e unirle, quel tanto che basta a renderle inevitabili. Quando Cesare Pavese scrisse i diciannove versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scelse e unì le due parole più autentiche e inesorabili della sua esistenza. E quando Davide Lajolo decise di scriverne la biografia, si affidò proprio a quelle due parole, per distillare in un titolo l’intera vita dello scrittore piemontese. Il «vizio assurdo». Storia di Cesare Pavese è un libro bello e genuino, introvabile fino a poco tempo fa. Tornato in libreria per minimum fax (2020), è corredato da una ricca e interessante postfazione, in cui Lajolo risponde, tra l’altro, a chi lo accusava di aver peccato di sentimentalismo, di aver indugiato troppo a lungo nell’anima di Pavese, al punto da averlo trasformato in un personaggio letterario.

«Ogni vita è quello che doveva essere»: di questo Cesare Pavese era profondamente convinto, tanto da scriverlo a chiare lettere il 31 marzo del 1946, nel suo diario Il mestiere di vivere, in cui insegnò a tutti noi il dolore di essere protagonisti di una storia irreparabile: il destino è già scritto, ed è per questo che i suoi eroi, vinti e inconfessati, non hanno neppure un cognome: si portano dietro solo poche sillabe, a volte un nomignolo, come un segno inesorabile impartito dalla terra. Nell’universo di Pavese, infatti, il luogo in cui si nasce è una corda che non può essere spezzata, un peso che opprime e salva, una figura materna amorevole e sanguigna. La madre di Cesare, scrive Lajolo, è una piemontese dura e severa, «che ha imparato a non spendere molte parole, ma a lavorare sodo, a tener da conto, e a metter corte briglie sulle spalle dei figli». Pavese le ruberà il rigore e i lineamenti aspri; e la vergogna delle lacrime che già da piccolo, feriscono il suo volto. Per nascondere il dolore rafforza i tratti ossessivi, adotta rituali silenziosi e metodici che gli permettono di affrontare il mondo: arrotolarsi i capelli, «piegare e ripiegare le pagine dei quaderni», sistemarsi gli occhiali, scrivere i sinonimi. Tutto, pur di difendersi dagli schiaffi del destino.

Ma il Pavese raccontato da Lajolo è anche il ragazzo spensierato e divertente degli anni universitari, che, per la prima volta, seppur lontano dalla sua amatissima campagna, si sente accolto: l’incontro con Massimo Mila, Leone Ginzburg, così come l’amore per la scrittura, riaccendono in lui il desiderio feroce per la vita. «Cesare sapeva essere allegro, entusiasta, divertente e divertito», racconterà proprio Mila a un meravigliato Lajolo: scriveva versi scanzonati, partecipava alle riunioni politiche e letterarie, andava al cinema a vedere i film americani.

Sarà il confino a segnarlo, piegarlo, ma anche a donargli la capacità di osservare le cose. Il dolore non è un male che offusca la mente e la ragione: la sofferenza, infatti, sa essere straordinariamente razionale al punto che Pavese stesso la racconta, sempre, e in modo impeccabile. Non c’è un suo scritto, pubblico o privato, in cui non indaghi le ragioni del dolore. Un dolore che non lo avvelenava ma, al contrario, lo nutriva giorno dopo giorno, donandogli profondità e talento.

A Brancaleone ci arriva in manette, additato da una bambina alla stazione, come un criminale; e la punizione non poteva essere più crudele: strappato dalle Langhe e da Torino, e costretto a vedere il mare, temuto, odiato e mai capito: «quel perenne giochetto delle onde sulla riva e quel basso orizzonte, odor di pesce». Proprio lui che a Melville e al suo potere evocativo, dedicò notti di traduzione e pagine bellissime: «il mare è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco di analogie, dell’arcana realtà delle cose», come scrisse nell’introduzione di Benito Cereno, breve romanzo dello scrittore americano.

Ritornano in quel periodo il rigore e il senso del dovere, che gli permettono di non spezzarsi, di andare avanti solo con pane e frutta, di sopravvivere all’inferno umido, al vento implacabile, alla presenza acuta e dispettosa degli scarafaggi. «La puntura della solitudine» diventa tagliente e arriva l’amarezza dei ricordi, la nostalgia dell’infelicità passata: «Ripenso a quando mi permettevo di non dormire una notte per un po’ di gelosia – osavo darle questo nome – e non sapevo quale morso da affamato, da squalo, da cancro abbia la lontananza», scrive alla sorella Maria. Poi si guarda allo specchio per capire se l’insanabile condanna alla sofferenza sia davvero toccata a lui, se non sia invece uno scherzo del destino: «mi tocco un neo sulla guancia per convincermi di essere proprio io».

La speranza di rivedere Tina Pizzardo, la donna che ama, si infrange quando scopre che si è sposata il giorno stesso del suo ritorno a Torino dopo il confino. È da quel momento, secondo Lajolo, che le cose precipitano: le idee si trasformano allora in abitudini di cui non riesce a fare a meno. La morte divenne, così, per Pavese una compagna silenziosa e fedele, l’unica a non voltargli mai le spalle.

Il  rapporto con le donne è uno degli elementi essenziali, ma anche uno dei più complessi della sua vita: influenzato dalla letteratura americana, Pavese cerca di emanciparsi dalla figura materna da cui proviene, per rivolgersi a donne indipendenti, spregiudicate, moderne, autosufficienti, «quelle che sanno portare la pelliccia e stare come si conviene nelle case eleganti». Ma proprio perché autonome non subiscono il fascino di un uomo come lui: Pavese assegna loro un ruolo eccessivo rispetto allo spazio che effettivamente occupano nella sua vita, eppure trova mille modi per tenerle a distanza. «Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco»: in loro tende a far confluire passioni e pulsioni diverse, spesso in conflitto. Della Pizzardo («la donna dalla voce rauca») amava il suo essere forte, sportiva, emancipata, impegnata politicamente: proprio lui che della politica aveva una visione del tutto personale.

Le donne di Pavese sono «oggetto di pietà e di vendetta», nei suoi romanzi come nella vita. Perché Pavese non conosce strategie in amore, come spiega Lajolo: «lascerà capire innanzi tutto, di non essere più padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata vale quanto il momento dell’incontro». Ma quando in qualcuna scorgerà un bagliore della stessa sincera devozione, si allontanerà, o si dimostrerà ostile.

Per quietare il dolore Pavese si rifugia nel lavoro, nella ricerca di una scrittura personale e autentica, contaminata dal mito, ma capace di riflettere la ferocia e i tormenti della gente. Nascono Paesi tuoi e Il carcere, ritornano le Langhe, la terra assolata, la trebbiatura, i contadini; le riflessioni silenziose sulla politica, sulla guerra, sulla libertà. Per un po’ cerca di unire sé stesso al mondo, senza indugiare nel dolore, nell’autocommiserazione tenacemente riportata nel suo diario. Ma la vita, ci insegna Lajolo, non è mai lineare: e se talvolta Pavese riesce a far tacere quel «vizio assurdo» che lo tormenta giorno e notte, alla fine torna alle vecchie abitudini. Un nuovo amore, questa volta per una sua ex studentessa Fernanda Pivano, gli restituisce l’idea di un destino che ha l’odore di una condanna. Cinque anni di amore assoluto e devoto, in cui Pavese non prova mai a baciare Fernanda, le dà del lei, le legge poesie di Montale e le chiede di sposarlo ben due volte: due rifiuti che torneranno a pesare quanto quelli della Pizzardo. E quanto peseranno la fuga e l’assenza di Constance Dowling, l’attrice americana che gli spezzerà il cuore, anni dopo.

Arriva il momento, allora, di osservare la solitudine, di dar forma a un suicidio finora solo immaginato, di studiarne i particolari con rigore: quello stesso rigore che gli era stato insegnato dalla madre, dalla vita contadina, dalla città arida, dalla scuola severa, dal lavoro e dalla scrittura.

Il finale amaro si consuma in una camera d’albergo il 27 agosto del 1950.

«Io sono fatto di tante parti, che non si fondono»: disse Pavese a Lajolo in un caldo pomeriggio d’estate a Torino. E basterebbero queste poche parole (riportate scrupolosamente nell’introduzione) per comprendere il senso della sua vita e della sua morte. Pavese sapeva di aver lasciato molte tracce di sé nelle pagine scritte, ma sapeva che il grande conflitto che lo divorava sarebbe stato compreso da pochi; così come quel bisogno, incompiuto, di unire le parti, riconciliare gli opposti e imporre il suo rigore anche sul destino.

La grandezza di Francesco Bianconi

Forever di Francesco Bianconi è un album drammatico, lugubre, complesso. È banalmente un album pesante. È Bianconi nella sua essenza più profonda. Un lavoro che non strizza l’occhio a quello che succede nel mondo della musica.  Non ha a che fare con le mode, con ciò che va o che non va. È volutamente fuori da qualsiasi suggestione del momento. Un lavoro intellettuale, qualcosa che ha bisogno di tempi diversi da quelli attuali per essere metabolizzato e compreso.  È una sfida che lancia a chi lo ascolta.

Ma è contemporaneamente un lavoro emotivo, dove Bianconi sembra fare i conti con il personaggio Bianconi. E, allo stesso tempo, è il personaggio Bianconi a fare i conti con l’essere umano Francesco Bianconi. Le contraddizioni che emergono con ciò che deve rappresentare e come deve mostrarsi. Va a frugare oscenamente nella merda, ci dice senza che ce lo dica esplicitamente. Vergognandosene, vergognandosi del proprio ego, ma non potendo fare altro. Come è volutamente osceno e scabroso nel suo ripetere fica in “Certi uomini“.

Rachele Bastreghi e Claudio Brasini vengono lasciati  da parte. Decide che è arrivato il tempo di provare a scrivere qualcosa da solo. «Perché crescere bisogna controvento nella neve».  Cosa non facile da solo dopo vent’anni in quella che a tutti gli effetti è una bellissima e piacevole  comfort zone.

La sua scelta deriva da ambizioni artistiche. Questo emerge da quello che rappresenta storicamente Bianconi e quello che esce fuori da Forever. Non è un album costruito e pensato per vendere.  Già lo si sapeva prima, ma oggi è tutto più chiaro. Francesco Bianconi è il più grande autore italiano degli ultimi anni. Forever è, ora, la testimonianza che fa di Bianconi davvero l’unico grande autore che può ambire a raggiungere l’olimpo. Sì, i mostri sacri: De Andrè, Tenco, De Gregori, Guccini, Dalla, Battisti. Chiaramente Battiato.

Attorno a Forever sono materiali le suggestioni del cantautore siciliano. Non in maniera superficiale, come può essere successo per esempio ne “Il vangelo di Giovanni“. C’è lo stigma universale dei grandi e c’è sicuramente un approccio riconducibile a  lui.  È l’intenzione, il mondo che si manifesta dietro a questo lavoro, che è riconducibile alla grandezza del Maestro. La volontà di scrivere un album che potesse pensarsi come opera d’arte e che facesse del plurilinguismo il punto cardine.

L’idea principale, nello specifico, è quella di sottrarre. Dopo l’overdose di pop massimalista dei due volumi de L’Amore e la violenza, andare a togliere è sembrata la scelta più complicata e per questo quella da seguire. Pianoforte e archi. Niente di più. Al centro la sua voce (sempre di stampo De Andrè) che si alterna con quella di altri artisti. Da Rufus Weinwright (che si esibisce in un ottimo italiano in “Andante”) a Kazu Makino, passando per Eleanor Friedberger. Fino a  Hindi Zahra, con cui Bianconi duetta in lingua araba – questa è forse la cosa più Battiato che potesse pensare di fare, il suo personale Concerto di Baghdad.

Forever è il fratello maggiore di Fantasma. Ne è l’evoluzione. “Il bene” e “Nessuno”, esempio più  facile, nascono dallo stesso seme. Con i Baustelle, aveva iniziato una ricerca di un certo tipo, che provasse a fare delle sue canzoni un recital con orchestrazioni. Musica classica moderna. Rimanendo, però, sempre ancorato a scelte di derivazione pop (“Gli spietati“, per esempio).  Oggi riesce a compiere, invece, quell’inversione a U e a rendere completo un discorso iniziato sette anni fa e lasciato fermentare con pazienza e cura.

Il risultato di quest’attesa è un lavoro che è un monumento all’intimismo, enorme nella sua sensibilità, necessario in questi tempi.

 

 

 

 

Le-Vite_Parallele_di_Hamsun_e_Céline_Enrico_Picone_Flaneri

Hamsun e Céline, due vite parallele

Esiste una produzione letteraria che irrompe nell’immaginario collettivo occidentale portando con sé una manifestazione artistica e poetica del dolore innovativa e sconcertante, perché ispirata dalla fame, dalla polvere e dal sangue. Va rintracciata a partire dagli anni Novanta del XIX sec., quando Knut Hamsun pubblica il romanzo che per primo gli vale la fama internazionale, e che titolò Sult, ovvero Fame (Adelphi, 1974). Difficile ancora oggi comprendere la caratura titanica di un autore che è spesso relegato editorialmente alla produzione letteraria scandinava, e al quale la letteratura moderna del XX sec. – ravvisa Singer – deve molto più di quanto immagini. È possibile misurare questa eredità, qualora si procedesse a costruire e decostruire somiglianze e divergenze con un autore che ha scardinato la letteratura francese, creando le condizioni per lo scandalo politico e letterario presente ancora oggi in misura più o meno latente: Louis-Ferdinand Céline.

Si intende quindi accostare due figure emblematiche della letteratura che ha sancito il superamento della frontiera letteraria proustiana o dannunziana celebrando la vita non attraverso l’estetica di ville, donne e cavalli, bensì servendosi del potere delle immagini ricercate in una visione cinica di un mondo in cui vagabondaggio, bassifondi e bordelli mettono in ombra i salotti borghesi e le storie più tradizionali. Il parallelismo biografico tra Knut Hamsun e Louis-Ferdinand Céline si sviluppa già dagli anni della giovinezza, miseramente ricca di esperienze che avrebbero trovato una sublime manifestazione letteraria. I numerosi viaggi, la comune esperienza americana e l’avversione per la modernità. Infine, i nuovi venti di guerra, gli scandali politici, le occupazioni naziste di Francia e Norvegia e le accuse di collaborazionismo.

 

La giovinezza

Hamsun nasce nel 1859 a Lom, in Norvegia, trentacinque anni prima di Céline, il quale nasce a nord di Parigi nel 1894. Il padre di Hamsun lavora come sarto prima di trasferirsi con la famiglia in una tenuta a Hamsund. La madre di Cèline è modista presso una bottega sita lungo il Passage Choiseul, descritta come un luogo asfissiante confinato nella penombra. Nelle campagne norvegesi, il giovane Hamsun assiste alla dura vita nei campi condotta dai genitori e dai fratelli, lasciandosi inebriare dai paesaggi rurali che fanno della terra l’elemento centralissimo della sua dimensione spirituale e letteraria. Nelle periferie parigine, Céline cresce in un contesto economico e familiare depresso.

Le figure genitoriali sono descritte come eternamente imprigionate nelle proprie condizioni sociali e psicologiche. Il padre, impiegato presso una compagnia di assicurazioni, è frustrato perché crede di aver tradito la propria vocazione letteraria e accademica. La madre, è spesso afflitta dai tormenti fisici e da una forte e instabile emotività. Le due figure sembrano sovrapporsi a quelle dei contadini dell’Angelus di Millet, che a loro volta si candidano a rappresentare gli anni in cui Hamsun riceve dalla natura una raffigurazione quasi commovente di se stessa. Le interviste all’autore parigino risalenti agli anni cinquanta, quando il Céline antisemita fatica a trascinare il Céline romanziere verso la damnatio memoriae, contengono confessioni preziosissime che contribuiscono non solo a descrivere la miseria sofferta da Céline, ma, date le simili condizioni di vita, anche quella di Hamsun. Nel 1959, Céline ricorda gli anni in cui la madre cucinava esclusivamente tagliatelle perché prive di odore e quindi adatte a non impregnare i tessuti e i merletti. Altro che petite madeleine, da quegli anni Céline ha ereditato la fobia degli odori, «sono cresciuto a pasta e miseria» dice. Nel 1868, all’età di nove anni Hamsun viene adottato da uno zio che garantisce per i suoi studi, al termine dei quali svolge diversi mestieri quali calzolaio, fabbricante di corde, scaricatore di porto.

Tappe analoghe si rintracciano nella biografia di Céline. Nel 1908 è spronato dai genitori a soggiornare all’estero affinché apprenda le lingue straniere. Tuttavia l’esperienza si rivela inconcludente, i genitori gli rimproverano la scarsa attitudine agli studi, in particolar modo il padre insiste affinché si formi adeguatamente per inserirsi nel mondo del commercio.

 

La maturità

Hamsun non rinuncia a dar sfogo alla propria vocazione letteraria. Pubblica infatti alcune opere tra il 1877 e il 1878 che però non gli valgono il riscatto. Nel 1882 si imbarca per gli Stati Uniti, vi rimane fino al 1884 e vi ritorna per un secondo soggiorno dal 1886 al 1888. Le prime esperienze di Céline lo vedono come fattorino prima presso un commerciante di tessuti e poi per conto di un gioielliere. Céline ricorda amaramente nei suoi romanzi ciascuna di queste esperienze, scrivendo di inganni e di torti subiti che generarono in lui un senso di disadattamento sociale che in Hamsun si rintracciano in misura maggiore in Fame e in Un vagabondo suona in sordina (Iperborea, 2005).

Pochi mesi dopo aver conseguito la prima parte della maturità, Céline si arruola volontario nel dodicesimo reggimento corazzieri. Nel 1914, già promosso brigadiere, è inviato a combattere nella Fiandre occidentali. Il ruolo di Céline nel corso della Grande Guerra è storia nota, e ciò lo si deve al successo universale del Voyage (Viaggio al termine della notte, Corbaccio, 2015) che propone una versione romanzata e non meno cruda anche delle esperienze nell’Africa coloniale, negli Stati Uniti e nelle periferie parigine dove lavora come medico. Già, perché a differenza di Hamsun, la vocazione di Céline è tutt’altro che letteraria, ad affascinarlo sono piuttosto gli studi di medicina. La scrittura è ridotta a un gesto inutile e insignificante. In una intervista del 1957, ci lascia in eredità una delle sue più preziose riflessioni sull’essenza dello scrivere: «Ho smesso di essere uno scrittore, nevvero, per diventare un cronista. Ho messo la mia pelle in gioco, perché, non dimenticate una cosa, la grande ispiratrice, è la morte. Se non mettete la vostra pelle sul tavolo, non avete nulla. Uno deve pagare! Quello che è fatto senza pagare, non conta nulla, vale meno del nulla. Allora, avete scrittori gratuiti. Al giorno d’oggi, ci sono solo scrittori gratuiti. E quello che è gratuito, puzza di gratuito».

È evidente che Céline ha sempre condotto un gioco ambiguo, in cui non potendo disfarsi della fama di grande intellettuale si propone di abbattere i canoni della scrittura e le inventive degli scrittori, anche dei più grandi. Ma così facendo, più o meno consapevolmente, eleva la scrittura a vette esplorate da Hamsun prima di lui, dove un panorama sconcertante fatto di fame, viaggi e miseria attendono l’ignaro lettore borghese. Se il dolore diviene la misura dell’arte, lo dobbiamo prima ancora a Hamsun che a Céline. L’impatto destabilizzante della modernità americana era stato raccontato nel 1889 in La vita culturale dell’America moderna (Arianna Editrice, 1999). Oltre che in Fame, Hamsun aveva già messo la pelle in gioco in Pan (Adelphi, 2001), in La regina di Saba (Iperborea, 1999), in Un vagabondo suona in sordina, opere che mescolano alla frizzante aria dei boschi ai rapporti umani che si accartocciano nell’ossessione, nella frustrazione e nella solitudine.

Ossessivo è il rapporto con il sesso, vedi La regina di Saba, frustrante è la ricerca del riscatto, vedi Fame, solitario è il l’intero voyage di Hamsun. Su questo punto va argomentata una divergenza piuttosto che una analogia. Céline ci circonda di personaggi, ci strattona tra un accadimento e l’altro ed è come se ci trovassimo accalcati nella grande e sciagurata fiera della vita. Con Hamsun è diverso, la sua miseria e il suo dolore sono solitari. In confronto, la fiera è deserta e non restiamo che noi a vagare nel gelo tra i rifiuti. Nel 1920, Hamsun è insignito del Premio Nobel per la letteratura. Nel 1943, donerà la medaglia al ministro per la Propaganda, Joseph Goebbels.

 

 

Le accuse di collaborazionismo

Nel 1933, si compiva l’ascesa al potere di Hitler. Hamsun aveva settantaquattro anni, Céline trentanove. Non ci fu alcun carico di novità in seguito alla presa di potere, era stato chiaro fin dal principio che il proposito di trasformazione sociale di Hitler superava ogni limite. Si proponeva ovvero di selezionare, proteggere e creare un’identità genetica, un popolo unito non solo dalla stessa politica ma dallo stesso sangue. Molti intellettuali europei, appartenenti sia alla generazione di Hamsun che a quella di Céline, si erano affermati come scrittori nuovi, in un’epoca in cui il fascismo nella sua forma più esasperata si proponeva di generare l’uomo nuovo, l’ariano, candidato al predominio sulle razze inferiori e contaminanti.

Per Hamsun, Hitler ha continuato a rappresentare fino alla fine della guerra il grande riformatore tradito dal suo tempo. Intendeva il nazismo come il valoroso nemico filo-teutonico della modernità incarnata dall’imperialismo britannico, verso il quale provava da sempre una viscerale avversione politica e ideologica. A partire dagli anni Trenta, Céline si dedica a una produzione letteraria parallela a quella dei suoi romanzi. Pubblica pamphlet che svelano la sua retorica violenta ed esplicitamente antisemita. Nel 1937, l’editore Denoël dà alle stampe Bagatelles pour un massacre, il primo dei pamphlet antisemiti incriminati, più le cosiddette lettere della vergogna inviate tra 1940 e il 1944 a periodici in parte foraggiati dagli occupanti nazisti come “Je suis partout”, “La Gerbe”, “Au Pilori” e “L’Appel” per un ammontare di ventitré lettere, tre inchieste, tre interviste, un manifesto e tre dichiarazioni attribuitegli e passate al vaglio degli inquirenti e che aggraveranno il bilancio della presunta collaborazione, in un processo già gravemente compromesso dal caso Bagatelles. Le copie del pamphlet erano infatti state ritirate dal mercato nel 1939, anno in cui la Francia adotta la legge Marchandeau.

Céline era uno dei fantasmi della Grande Guerra che vagavano per le strade delle città nella forma di giovani veterani mutilati e invalidi, disillusi e afflitti dal dolore esistenziale condiviso da un’intera generazione. Ciò spiega il crollo del tasso di natalità registrato tra il 1914 e il 1919 che si tradusse nel drastico ridimensionamento del contingente di leva militare. Questa era la Francia che si presentava agli occhi di Céline, il quale guardando al futuro della sua nazione e a un eventuale coinvolgimento in nuovo conflitto, prevedeva “la fine della razza”. Nell’aprile del 1940, Francia e Inghilterra assistono inerti all’occupazione nazista di Danimarca e Norvegia. Hasmun guardava con immenso favore all’instaurazione del governo collaborazionista retto da Vidkun Quisling. Pochi mesi più tardi, l’armistizio del 22 giugno 1940 sanciva la fine dei combattimenti e convinceva i francesi della vittoria nazista. Si instaurava il regime di Vichy retto dal maresciallo Philippe Pétaine. I nomi degli intellettuali che durante gli anni della collaborazione si erano avvalsi del sostegno finanziario garantito dall’ambasciata tedesca, o che si erano espressamente schierati a favore, figureranno nel bilancio del processo istituito in Francia e Norvegia.

In seguito allo sbarco alleato in Normandia, Céline fugge nella Danimarca occupata prevedendo di essere perseguitato perché sospettato di collaborazionismo. Ma quando le truppe naziste l’abbandonano, la legazione francese a Copenaghen chiede l’arresto e l’estradizione per collaborazionismo bellico. Sconta quattordici mesi di carcere duro nel penitenziario di Vesterfangsel. Hamsun, ottantaseienne, viene processato e sottoposto a perizia psichiatrica, quindi confinato fino al 1948 in uno ospedale psichiatrico. Céline scrive due memoriali dalla Danimarca, nel 1951 è amnistiato e fa ritorno in Francia. L’anno successivo, a novantatré anni, muore Knut Hamsun, tre anni dopo aver scritto il diario dell’internamento che titolò Per i sentieri dove cresce l’erba (Fazi, 2014).

Tempi e luoghi interessati da curiose convergenze che lasciano pensare come Hamsun e Céline siano stati concepiti come due forme non dissimili, che si sovrappongono armonicamente procedendo lungo i binari del Novecento, attraversando i confini europei, prevedendo fermate presso i luoghi divenuti oggi simboli della memoria attorno ai quali gravitano la sensibilità delle nazioni per gli orrori subiti e le responsabilità per gli orrori commessi. Il genio e l’orgoglio li hanno resi protagonisti di vite curiosamente simili, nonché fautori di una sublime rivoluzione letteraria.

Incubi di due madri, una favola horror
di Samanta Schweblin

Osservato da una certa angolazione, il romanzo di Samanta Schweblin Distanza di sicurezza (Sur, 2020) è un esemplare racconto di fantasmi. Ma di cosa ha bisogno una storia di fantasmi per essere una buona storia di fantasmi? Certamente di una tensione narrativa costante, nutrita da un senso di minaccia che si posi su azioni e pensieri dei personaggi come una patina disturbante o una condanna; ma anche dell’enigma, del non-detto che risiede nascosto tra le righe, e che per sua natura è un segreto immobile, inerte proprio perché tanto spaventoso. Sono la vita – irrequieta, veloce, rumorosa – che vuole mantenere la sua condizione, e la morte – silenziosa, sacrale – che la chiama invece verso di sé. Queste due matrici, l’agitazione vitalistica e il mistero pacato, corrono su un filo sottile, che necessita di un costante riequilibrarsi tra le parti per evitare di sfaldarsi.

Gli spettri di Schweblin non sono fantasmi veri e propri; si configurano più che altro come paure distruttive: quella della perdita, quella della responsabilità, quella della colpa; il rapporto madre-figlia alla base della storia è fantasmatico di per sé, perché fin da subito lo percepiamo come instabile, vicino alla rottura, sospeso drammaticamente tra le due forze della vita e della morte. Il romanzo, già pubblicato da Rizzoli nel 2017, viene riproposto ora da Sur che, dopo aver dato alle stampe Kentuki, l’ultimo libro di Samanta Schweblin, sembra aver scommesso su questa scrittrice argentina poco più che quarantenne. Stiamo parlando d’altronde di una delle narratrici più talentuose del panorama sudamericano, che a una scrittura moderna e fulminante unisce continui rimandi al genere fantastico tipico della letteratura argentina.

Il libro comincia – e prosegue – sulla scia di un dialogo surreale. Siamo in un ospedale; c’è una donna malata, Amanda, che parla con un bambino, David. Tutto è confuso e buio. David non è il figlio di Amanda, ma quello di Carla, la sua vicina. I due parlano, cercano di ricostruire, di comprendere perché lei sia lì, di «capire qual è il momento esatto in cui arrivano i vermi», come spiega David. Quali vermi? E quale momento? Ma soprattutto, dov’è Nina, la figlia di Amanda? Perché non sono insieme? Per scoprirlo non c’è altro da fare che ricordare, riordinare le idee; cos’è successo negli ultimi giorni? Guidata dalle parole enigmatiche di David, Amanda racconta, rievoca e racconta. La donna però è un narratore incerto: la sua storia, imprigionata tra le maglie del ricordo, è sospesa, a tratti disturbata; assomiglia a un sogno lontano nel tempo, a un incubo che si vuole a tutti i costi dimenticare.

Amanda ricorda di essere in giardino, in vacanza, e poi dentro la sua auto parcheggiata: è la scena iniziale di questa vicenda. Vicino a lei c’è Carla, una donna molto bella per la sua età, e al contempo leggermente perturbante. Amanda l’ha conosciuta durante la vacanza, pochi giorni prima: la donna infatti abita nella campagna dove lei ha affittato una casa con la sua famiglia. Nell’auto Carla le racconta di come David, suo figlio, sia rimasto quand’era piccolo intossicato dall’acqua di un ruscello, e di come per salvarlo una donna misteriosa che vive in una casa verde abbia trasferito l’anima del bambino in un altro corpo, facendo in cambio giungere in quello di suo figlio lo spirito di qualcuno – o qualcosa – di sconosciuto.

Proprio a causa di questa confessione folle e terrificante, Amanda si ritroverà invischiata in una spirale di paranoia e controllo maniacale, e il suo tranquillo luogo di vacanza si trasformerà in un attimo in un universo subdolo. Riuscirà a proteggere Nina? Farà sì che non le accada niente di male? I pericoli sono in agguato, sempre e dovunque, ma l’importante è mantenere stabile la distanza di sicurezza – un filo immaginario che collega mamma e figlia, e che, se le due si allontanano troppo, se Amanda perde Nina di vista, rischia di spezzarsi, provocando conseguenza indicibili.

In Distanza di sicurezza si ritrovano molti topoi della letteratura fantastica e dell’orrore, dalla paura di ciò che ci è più vicino a un certo disagio nei confronti dell’infanzia; tra questi è soprattutto il tema del sostituto malvagio, pur sviluppato in maniera inedita, a rendere la lettura del romanzo particolarmente inquieta – si potrebbe paragonare questa storia a un famoso racconto di Julio Cortázar, “Lontana”, dove si parla di doppi, di alter ego, e in cui si percepisce la medesima, alienante, atmosfera. In qualunque momento, nel racconto di Schweblin, pare che sia in arrivo una sciagura, una catastrofe che si riconosce in ogni rigo, in ogni oggetto descritto. Tutti i personaggi tendono così a deformarsi, ad assumere un aspetto contraffatto. Sembra quasi che non ci siano buoni in questa storia; è tutta la campagna – tutto l’universo – a piegarsi in un ghigno malefico e doloroso; è il mondo stesso a essere avvelenato. Nel loro dialogo, David si sofferma spesso con Amanda sull’importanza dei dettagli; è proprio nei dettagli, infatti, nelle cose più piccole, che si cela una minaccia che è troppo impercettibile per spiegarsi del tutto o per esplodere definitivamente.

Samanta Schweblin, inserendosi a pieno titolo nel filone del realismo magico, confeziona in realtà anche una minuziosa radiografia della maternità e delle sue paure. Distanza di sicurezza è in alcuni momenti una favola horror, in altri una parabola al femminile che tocca corde quasi impossibili da affrontare a mente lucida. Con l’andamento del thriller, la scrittrice conduce il lettore in un abisso male illuminato; lo porta, senza che lui neanche se ne renda conto, a porsi delle domande scomode, a proiettarsi delle immagini potenti e antichissime, come quella di una madre che ha il terrore di perdere sua figlia, o di un branco di vermi che strisciano da qualche parte, dentro di noi.

 

(Samanta Schweblin, Distanza di sicurezza, trad. di Roberta Bovaia, Sur, 2020, pp. 143, euro 17, articolo di Claudio Bello)