Matt Berninger non smetterà mai di essere Matt Berninger

Vicino all’aeroporto di Los Angeles c’è un tubo a forma di serpente che si snoda nell’oceano, sopra il quale c’è una specie di gabbia che impedisce alle persone di arrampicarsi in mare. Questa immagine ha ispirato il titolo del primo album solista di Matt Berninger, Serpentine Prison. A pensarci bene, è qualcosa che può avere a che fare con un personaggio del genere.

La prima prova in solitaria del cantante dei The National, comunque, non era così scontata come può sembrare. Si esce da un lavoro piuttosto scialbo per quelli che sono i livelli della band americana. Un colpo al cuore. Ma non di quelli a cui ci aveva abituati. Senza troppi fronzoli, I Am Easy to Find è l’album meno interessante e ispirato della loro carriera. Quindi passare da un mezzo (più che mezzo, forse) passo falso come questo alla prima prova da solista, insomma, poteva essere un rischio.

Non che succeda chissà che cosa oggi. Non scopriamo aspetti di Berninger che non conoscevamo. In Serpentine Prison, Matt Berninger non ha voluto strafare. Non ha fatto più di quello che è palesemente nelle sue corde. È un album di canzoni. Un album di belle canzoni che ci possiamo aspettare da uno come lui, arrangiate in maniera minimale. Che hanno un centro, un’idea da cui trarre ispirazione, a differenza di I Am Easy to Find che sembrava fatto tanto per fare.

Attorno a Berninger non ci sono ghirigori, ma una base solida, chiara. A volte suona come qualcosa di un’altra epoca, tra i ’60 e i ’70. Un respiro diverso da quello a cui simo abituati con i  The National, che si muove attorno a un’architettura funzionale che gli permettere  di emergere, nudo, insieme alle sue angosce.

Un lavoro che gira bene. Che sembra perennemente alla ricerca di fare il salto in avanti, ma che non ci riesce mai. Sembra che provi ad arrivare, canzone dopo canzone, ai livelli di “I Need My Girl”, senza farcela. Adeguandosi un po’ alla volta ai propri limiti, definendosi proprio nei suoi limiti.

Matt Berninger è comunque sempre il solito Matt Berninger e in Serpentine Prison si ritrova come spesso gli capita a fare i conti con situazioni domestiche, la difficoltà di capirsi, di farsi capire e di capire l’altro, da cui sembra cercare riparo attraverso alcune soluzioni surreali che ne fanno delle piccole e assurde vie di fuga. C’è un modo quasi infantile, ingenuo, nel suo affrontare il mondo. Nell’affrontare sé stesso. A cui risulta difficile dire che sia sbagliato.

Pochi sono i momenti corali all’interno dell’album. L’episodio “All for Nothing” è il più riconducibile a qualcosa che abbia a che fare con i The National. In Serpentine Prison si aggirano Nick Cave e Leonard Cohen e non poteva che essere così: è la prima volta che possono farlo con tanto impeto. Matt Berninger ci racconta sé stesso con il suo fare dandy, quasi distaccato, quasi sto parlando di un altro: sappiamo che dentro si sta contorcendo dal dolore.

Serpentine Prison è un bell’album rassicurante. Ci regala quello che pensiamo più o meno di Berninger, viviamo nella sua comfort zone, ci lasciamo volentieri abbindolare dal suo modo di fare. La separazione momentanea dai The National serve oggi a lui e servirà probabilmente a loro in futuro.

Copertina di Le alternative non esistono di Giunta

Non sono fatto per restare

Se di ambiziosi la storia letteraria è sempre stata piena, è soltanto con la società di massa che, un po’ paradossalmente, viene invasa dagli outsider. L’ambizione di questi ultimi era ed è, neanche a farlo apposta, integrarsi. Nel 1997, esordendo in Rai nel varietà dell’anno come coautore ed esperto di memorabilia degli anni Settanta, Tommaso Labranca ce l’aveva fatta proprio un pelo prima che internet «venisse a scombinare le carte».

Aveva saputo coniugare in modo unico una formazione spuria a un fiuto per gli aspetti triviali della cultura, mentre passava da un genere all’altro dello spettro artistico con un eclettismo che ai suoi coetanei, prigionieri di quadri estetici decotti, sembrava incoerenza. Ma a un certo punto, prestissimo, la magia si è interrotta, soffocata da un’intransigenza totale. Non sorprende che la sua opera, e la sua vita, siano al centro di Le alternative non esistono (il Mulino, 2020), perché anche Claudio Giunta è un eclettico e perché gli uomini, anche quelli meno conformisti, malgrado tutto si somigliano parecchio.

Di fronte alla miriade di materiale autoprodotto, disperso, raro e dimenticato il più grande merito di Le alternative non esistono è anzitutto molto concreto: il medievista Giunta ha messo ordine nell’opera di Labranca, l’ha fornita di una cronologia e ha capito che nonostante la promiscuità di generi è una costellazione «compatta, cristallina, facilmente ordinabile in tesi, temi, idee fisse».

Se si eccettuano quelli reperibili in rete i libri di Labranca sono introvabili, cosa che ha due conseguenze: la prima è che il recensore deve arrangiarsi con quello che trova (quasi nulla), la seconda è il paradosso per cui uno scrittore davvero contemporaneo come Labranca è penalizzato da una ricezione quasi medievale; bisogna farsene un’idea per stralci, sulla base di frammenti salvati dalla furia isolazionista con cui lui stesso ha disperso i suoi scritti in misura forse più decisiva dell’indifferenza che a partire da fine anni Novanta lo ha relegato ai margini della vita culturale. Le alternative non esistono è dunque anche una preziosa antologia, oltre che un esempio (ben argomentato, intelligente, umano, chiaro: scegliete voi l’aggettivo che siamo soliti usare con qualunque libro di Giunta) equilibrato e, come dirò poi, innovativo di metodo critico.

In una delle tante interviste con cui amava dare un ritratto di sé, Labranca dice di essere «progressista, autonomo e liberale», e Giunta spiega bene perché autonomo è la parola che lo definisce meglio: al contrario dei «sedicenti avversari dell’establishment che aspirano a farne parte, e che di solito prima o dopo la spuntano», Labranca aveva un profilo culturale troppo anomalo per avvertire tra le sue pagine «quella fastidiosa sensazione di appartenenza a un gruppo, a una setta» che è tipica, secondo Giunta, degli scrittori italiani. Per arricchire la conversazione – e qui rimando agli interventi usciti su La balena bianca –  vorrei soffermarmi sulla parola liberale e sul perché è importante per il taglio che Labranca dà alle cose che sapeva fare meglio e per la delusione che le attraversa.

Nel saggio del 1994 che lo ha fatto conoscere, Andy Warhol era un coatto, Labranca ci invita a risalire la corrente del pregiudizio estetico, quel turbine che ci trascina nella valle del conformismo quando deleghiamo il nostro personale gusto estetico ai produttori del consenso. La libertà di espressione è uno dei cinque pilastri su cui si regge il trash. Nel definire il senso del trash come la differenza tra le intenzioni (grandiose) e il risultato ottenuto (misero), Labranca formalizza non solo l’idea chiave dietro alla sua tecnica di scomposizione della realtà, ma ci fornisce anche la tensione essenziale che attraversa i poli della sua esperienza: l’autenticità e la falsità. Se esercitare la libertà di espressione vuol dire anche esprimere dissenso di fronte alle gerarchie e ai canoni riconosciuti, nella convinzione che l’individuo è troppo stratificato e mescolato per ridurlo all’anonimia, ne consegue che la nostra visione del mondo si aprirà a valori orizzontali e contingenti e sarà più sensibile all’effimero e al nuovo.

È una convinzione schiettamente liberale e accettarla implica la rinuncia allo storicismo e all’idealismo che ancora serpeggiano nelle corporazioni culturali italiane. Come osserva Giunta, la domanda cruciale da porre agli intellettuali italiani «vissuti nella seconda metà del Novecento riguarda la modernizzazione, e in particolare quel volto triviale della modernizzazione che è il consumismo». E gli intellettuali «non hanno gradito», hanno reagito con diffidenza o con viscida complicità. Tra le tante spiegazioni che si possono dare, la più pesante, la più evidente è che le idee ricevute di questa classe intellettuale erano contigue al minestrone di storicismo e idealismo preparato prima della guerra. E questo minestrone è stato allungato, razionato e inscatolato per il discount dell’industria culturale che vede dappertutto affreschi storici e verità universali intercambiabili. La succosa stroncatura dell’Elogio del pomodoro di Citati (in Labrancoteque 8) lo illustra magnificamente demolendo proprio quella immunità che avvolge gli intellettuali italiani più maestosi.

Proviamo a capire che cos’altro ne consegue. Se le gerarchie smettono di legiferare in termini di chi è dentro e chi è fuori, se non riproducono un ordine assoluto, e se il giudizio di valore è relativo a una circoscritta descrizione del mondo, qualcuno potrebbe sostenere che non valga la pena di scaldarsi troppo, che tutto si giustifica per il solo fatto di esserci. Se dobbiamo misurare i prodotti culturali di massa a seconda della loro rilevanza, il successo diventa un parametro affidabile, così come la gloria lo è per le opere dell’alta cultura. Oppure occorre andare più a fondo e considerare intimamente l’ipotesi che entrambi siano futili.

Per una serie di circostanze, Labranca avrebbe potuto essere il primo scrittore italiano pienamente consapevole che nel nostro tempo non importa più restare, essere ricordato presso i posteri. La diffidenza zen nei confronti dell’io, che ha un forte connotato esistenziale, emerge lungo tutto l’arco della sua produzione, non ultimo nella disponibilità a fare da ghostwriter o da biografo. Tuttavia, non è mai bastata a soppiantare davvero il sogno velleitario di diventare un Meridiano, di essere riconosciuto per la sua peculiare intelligenza.

Quando constata la sua assenza nel Catalogo dei viventi, dietro all’autoironia si scorge la paura che lo motivava più di ogni altra cosa, che lo spingeva a cambiare di continuo genere e amici: la paura di diventare la brutta copia di se stesso. In disaccordo con lui, ritengo che rendere giustizia alla sua opera non comporti riconoscerla ufficialmente e ripubblicarla integralmente. La mia modesta proposta è di rendere disponibile online un’antologia delle sue cose migliori.

All’ombra del suo talento, emergono i due limiti più evidenti di Labranca, in primo luogo la riluttanza a staccarsi dalla «media sociologica», dal campione. Perché la misura di Labranca è quella del campione, un aspetto che a mio avviso non viene messo sufficientemente a fuoco da Giunta: da un lato, infatti, afferma che «conta l’habitus, non l’indole, ciò che è comune non ciò che è individuale»; dall’altro, di fronte all’interesse per personaggi che nessuno si era preso la briga di notare, «conta l’individuo, non la specie». L’argomento del campione si può sostenere notando che non appena Labranca incontrava dal vivo Jovanotti, Baglioni, Berti, D’Alessio, era costretto ad ammettere che questi individui erano simpatici e a rivedere il giudizio che aveva espresso sulla base del campione.

L’altro limite è la delusione. Il clima italiano può produrre soltanto la variante disillusa del liberale. L’astio etnografico per l’italianità la caratterizza, ma ancora più forte è un certo gusto per il cedimento, per lo scatafascio, per la indefettibile marcescenza della società umana. Il liberale italiano disilluso non reputa probabile l’apocalisse, ma soltanto perché la vuole attraente e amara, senza alternative. Quando uno scrittore indulge al pessimismo nella consapevolezza che troverà molti animi concordi, sta approfittando di un privilegio culturale. Lo considero un comportamento dannoso.

Torniamo però ai meriti di Le alternative non esistono. Giunta ha saputo coltivare un interesse, senz’altro mimetico, per l’uomo Labranca, fermandosi prima di invaderne la privacy. È una scelta di sostanza e un’indicazione di metodo, che lascia qualche perplessità solo nel tentativo di aromatizzare il racconto all’inizio (il presunto suicidio) e alla fine (l’omosessualità). Se si parte dal presupposto che la letteratura, in questo frangente storico, ha perso la sua rilevanza a vantaggio delle scienze sociali, qualsiasi tentativo di affresco storico o di analisi sociologica si scontrerà con enunciazioni arbitrarie e indimostrabili. Il comportamento degli uomini emerge molto più chiaro, e con cognizione di causa, nei saggi di economia, sociologia, biologia.

Questo non vuol dire che la letteratura sia diventata irrilevante. Non si tratta nemmeno di ripetere, come ormai si fa a comando, che raccontare è un bisogno essenziale dell’uomo. Per chi accetta a pieno la contingenza del momento, si tratta di capire che cosa può fare la letteratura oggi, e una delle possibili risposte è che uno scrittore può descrivere gli individui all’interno di una sfera che le altre discipline non hanno interesse a illuminare. Claudio Giunta mette al servizio di un particolare individuo, Labranca, alcune tecniche di quello studio supremamente contingente che è la filologia. Il sentimento che sta evocando, allora, non è più la venerazione, il timore o anche solo l’ammirazione, ma qualcosa di più terreno: l’affetto.

 

(Claudio Giunta, Le alternative non esistono, il Mulino, 2020, 264 pp., euro 23, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

Le conseguenze di un tradimento

«È difficile soffrire in modo simpatico». Ognuno reagisce come può al proprio malessere. Prendiamo, per esempio, i due protagonisti di Lacci, ultimo film di Daniele Luchetti. Lei viene tradita per un’altra, e la rabbia confluisce sul marito che non vuole rimanere con i figli. Lui tradisce quasi per noia, trovandosi poi a rimpiangere quel legame che ha tentato di strappare via fuggendo. Vanda, la giovane Alba Rohrwacher, caccia di casa il marito, ma ci ripensa subito: lo cerca, lo insegue, lo minaccia. Poi si rassegna alla sua inettitudine, e così lo riconquista. Aldo, il tenebroso Luigi Lo Cascio, confessa quasi per gioco, e sembra non pentirsi: subisce il dolore che ha inflitto con l’assenza. Ma conosce bene i suoi sentimenti; sa capire qual è la differenza tra una passione travolgente e la quotidianità spesso banale: la sicurezza di un legame che può durare anche trent’anni.

Nel gioco di flashback che si intrecciano a svelare i fatti, Daniele Luchetti gioca sui primissimi piani per raccontare i nodi di una famiglia in via di distruzione: due genitori incauti e due figli disorientati, i cui lacci si sciolgono per riannodarsi quasi facilmente, senza troppo badare a raccontarsi vicendevolmente. Aldo e Vanda si scrivono per dirsi le parole più dure, ma è solo di fronte alle macerie della propria casa che vengono fuori in tutta la loro onestà. Vanda diventa l’ironica Laura Morante, che riconosce di aver vissuto una vita non sua, non desiderata e non voluta. Aldo si trasforma nell’istrionico Silvio Orlando, che rimpiange di non essersi mai arrabbiato, e intanto pensa a quelle polaroid scomparse, la prova del peccato a lungo nascosto. Mentre Anna e Sandro sono ormai cresciuti: lei, la grande, che tenta con tutta se stessa di essere diversa (dalla madre e dal padre); lui, il piccolo, che cerca di guardare a quel poco di bello che lega ancora la loro famiglia. Anna è disillusa, piena di rabbia per un futuro che non ha mai visto arrivare, quando guardava il padre passeggiare con Lidia, e li invidiava per la loro giovane spensieratezza. Sandro è, invece, l’opposto: non si è inflitto la solitudine per via di un passato triste; ha deciso di dare spazio alla confusione che li ha contraddistinti fin da piccoli, mettendo al mondo dei figli che poi avrebbe visto poco, proprio come il padre.

Il film Lacci (e l’omonimo libro di Domenico Starnone da cui il film di Daniele Luchetti è tratto) non è più la storia di un tradimento, svelato e poi perdonato, ma la tragicommedia di una famiglia in bilico tra le aspirazioni personali e le responsabilità familiari, divisa fra i dolori subiti e quelli mai comunicati, che prende a collante della propria unione il disastro e l’ignominia. Come confessa Anna al fratello: «Gli unici lacci che per i nostri genitori hanno contato sono quelli con cui si sono torturati reciprocamente per tutta la vita». In fondo, il riassunto di tutta la vicenda potrebbe stare nel gatto di casa: così silenzioso e guardingo, diffidente come i suoi padroni, che vorrebbero trasformargli il nome in «la bestia», e che invece continua a significare «sventura» e «rovina».

(Lacci, di Daniele Luchetti, 2020, drammatico, 100’)

 

La difficoltà di essere Samuele Bersani

Samuele Bersani oramai sapeva di qualcosa di passato. Aveva fatto il suo. Ci eravamo accordati su questo. Un ricordo quasi sfocato,  bello e successo anni fa. Ma che non aveva più molto a che fare con il presente.  Nel 2013 ci aveva provato con  Nuvola numero nove, ma senza grande fascino. Poi esce Cinema Samuele e le cose cambiano. Viene dato credito a quest’album, a livello trasversale. Non solo i fan.

Qui bisogna fare una riflessione sulla percezione di ciò che esce in Italia in questi anni. Quello che lega Cinema Samuele e il panorama musicale di oggi pare più che evidente. Perché il mantra lo conosciamo: la musica italiana fa schifo. Ovviamente non è così, è una semplificazione delle cose e come ogni semplificazione fa comodo e non fa capire nulla. Per cui ogni volta che esce qualcosa di diverso rispetto allo standard, come in questo caso, volendo una boccata d’aria nuova, siamo lì a  sovradimensionare le cose. E per carità, ben vengano gli album come Cinema Samuele.

Il nuovo album di Bersani è un buon album ma, probabilmente, appunto, lo si sta gonfiando perché c’è questo pseudo assioma della musica italiana che fa schifo. In Cinema Bersani non c’è nulla di esplicitamente notevole, solo una costruzione più accurata dei brani rispetto a un più o meno chiaro mainstream. C’è l’ironia come filtro per leggere la vita. Un must di Bersani.  A livello sonoro, poi, niente che non possa essere assimilato in altri contesti, né una sforzo per provare a osare verso soluzioni drastiche. C’è il fatto che può suonare più impegnato rispetto a quello che fa Gazzelle, più poetico rispetto ad Achille Lauro. Ma l’album rimane qualcosa di buono, da “Pixel” a “Distopici (Ti sto vicino)“.

A margine (ma non troppo) di questo, l’idea di un album come una serie di cortometraggi a occhi chiusi è  un’idea che sa  immediatamente di stantio. Basta guardare la copertina  e l’album è subito  appesantito. L’idea romantico-vecchio del cinema come luogo per forza magico. Tutto imbevuto di quel vago sentore di retorica che  ha sempre accompagnato  la  carriera di Bersani (attraverso cui ha scritto grandi pezzi come “Giudizi universali“), ma che alla fine non gli ha permesso di fare quel salto in avanti che fosse riconosciuto non solo dai fan, ancorandolo in un punto non proprio definito del mondo della musica.

Bersani non ha mai esplicitamente tentato di scrivere il singolone facile e questo appare ancora oggi. In un modo o nell’altro il non cercare la soluzione più ammiccante per  il pubblico è sempre un ottimo punto di partenza, ma il livello dell’album rimane costantemente buono per tutto il tempo. Senza mai farti mai saltare dalla sedia.

Cinema Samuele è un album a cui non serve dire più di quello che è.

 

copertina di morte a venezia di mann

Luchino Visconti: la letteratura vista dal cinema

Terra e acqua, Oriente e Occidente, mondo di maschere e duplicità, Venezia è il luogo non-luogo, sfumato e imprevedibile, in cui si incontrano e fondono gli estremi opposti della vita e della morte. Luchino Visconti, da sempre attratto dall’enigmatica natura della città lagunare, traspone su schermo due storie che vi sono ambientate: nel 1954 la novella Senso (1883) di Camillo Boito, autore di spicco della Scapigliatura milanese, e nel 1971 La morte a Venezia (1912) di Thomas Mann, tra i racconti lunghi più significativi della letteratura europea del Novecento. Di fatto gli omonimi film del regista ferrarese, poeta e critico della decadenza, sono entrambi dominati dal tentativo di superare la contraddizione tra malattia – come condizione sommamente umana, direbbe il Naphta de La montagna incantata – e sublimità dell’arte; tra il concetto nietzschiano di “simpatia con la morte” e tensione estrema verso la vita e le sue passioni, che nella multiforme ambiguità di Venezia trovano la loro estrema sintesi.

Rapporto antinomico proprio della personalità stessa del “Conte rosso” che, al contempo aristocratico e comunista, innovatore e conservatore, realista e decadente, con Senso si propone – nell’intenzione di attrarre un pubblico internazionale – di unire i poli apparentemente inconciliabili di estrema spettacolarità e alto livello artistico. Il risultato sarà, come riportò già la rivista Cinema durante la preparazione del film, «il più notevole sforzo finanziario e organizzativo compiuto durante l’anno nel quadro della produzione cinematografica italiana», da una parte diviso tra censure e feroci ostilità della critica, dall’altra da notevole successo di pubblico e incassi.

Il soggetto nacque da un’idea di Suso Cecchi D’Amico, che aveva letto la novella di Boito nella piccola raccolta Il maestro del Setticlavio curata da Giorgio Bassani, il quale parteciperà a una delle complesse fasi di lavorazione della sceneggiatura; accuratissimo lavoro che si avvarrà della consulenza storica di Carlo Alianello, capostipite del revisionismo del Risorgimento, del contributo del drammaturgo e critico teatrale Giorgio Prosperi e della traduzione inglese dei dialoghi a cura di Tennessee Williams. Il film, che sembra alludere al passaggio dell’opera di Visconti dal neorealismo al realismo, nelle elaborazioni dal trattamento alle successive stesure via via supera la dimensione intimista e personale propria alla novella di Boito, per farsi grande affresco storico dell’Italia del Risorgimento come conquista regia e non popolare.

Tuttavia, se attraverso la storia d’amore tra due nemici – la contessa veneta Livia Serpieri e il tenente Franz Mahler dell’esercito austriaco – Visconti intende soprattutto raccontare in ottica marxista il crepuscolo di un’epoca, nello stesso tempo il loro duplice carattere, oscillante tra impulso vitale e autodistruzione, rimanda al tema della passione in forma travolgente e al binomio amore-morte narrati da Boito, a testimonianza di quell’attrazione verso la notte e la rovina, nonché della pervasiva tematica erotica e sessuale, che sono proprie del doppio binario che caratterizza la sua poetica, scissa tra la matrice privata stendhaliana de Il rosso e il nero e la narrazione epico-storica di Guerra e pace.

Le scene degli incontri clandestini nella camera d’affitto, con il moscone che sbatte contro i vetri e il frusciare della tenda, in un’intimità sospesa tra rinuncia e desiderio; la solitudine di Livia nella villa di Aldeno, che le ricorda le convalescenze che seguono le violente malattie dell’infanzia, interrotta dall’irrompere improvviso di Franz che, disertore, le chiede aiuto e protezione: ogni momento della loro vicenda riecheggia di un’aura corrotta e romantica, in una dolorosa dicotomia lacerata tra ragione e sentimento che Visconti riproporrà magistralmente in Morte a Venezia,  dove il pessimismo schopenhaueriano troverà il suo compimento in quell’annientamento della volontà di vita che, spinta da un impulso autodistruttivo, corre verso la fine.

Come nell’omonimo capolavoro di Mann, il professor Von Aschenbach che rincorre languidamente la bellezza efebica del giovane Tadzio – être de fuite che ricorda l’Albertine proustiana – tra le calli di Venezia, in cui imperversa l’epidemia di colera che lo porterà alla morte, non è la rappresentazione di un morboso voyeurismo fine a se stesso, piuttosto conflitto mai risolto tra Sé e Io, arte e vita, Eros e Thanatos. Tuttavia Visconti sceglierà di accentuare la tematica omosessuale latente nel racconto di Mann, maggiormente centrato sul conflitto interiore del protagonista – con questo attirandosi non poche accuse da parte della critica coeva – arricchendo la Bellezza incarnata da un Tadzio lontano e irraggiungibile sullo sfondo del mare, nella cui contemplazione è assorto Aschenbach morente, del segno di una sensualità impossibile e negata, respinta nella solitudine.

Sessualità e perdizione che, in Boito, sono funzionali alla novità rappresentata dalla protagonista Livia, ottocentesca femme fatale la cui consapevolezza e cinismo, al di là di ogni giudizio morale, superano i limiti stereotipati del melodramma romantico, accostando la novella alla cruda forza innovativa del Verismo non meno che alla rappresentazione oggettiva del soggettivo tipica del Simbolismo, al di fuori dunque di consolatori schemi sentimentali, così come al rifiuto della costrittiva morale borghese che è proprio del Decadentismo. Componente sensuale che, a quasi centoventi anni dalla novella del 1883 e a quarantotto dalla trasposizione cinematografica del 1954, nel 2002 sarà presa a pretesto per il film di Tinto Brass Senso’45, schematico cliché di un erotismo patinato privo dell’apporto di alcun contributo degno di nota.

Non solo protagonista della Scapigliatura ma anche accademico, critico d’arte e architetto, Boito rende la sua novella particolarmente significativa anche grazie alla qualità iconica delle descrizioni di ambienti e personaggi, ciascuno reso attraverso impressioni cromatiche e plastiche che ricordano i modelli scultorei dell’antichità greca, nonché della pittura dei grandi veneziani come Tiziano e Veronese. Elemento che, se in parte ignorato o valutato negativamente dalla critica letteraria, sarà largamente compreso e condiviso da Visconti il quale, soprattutto dalla svolta post-neorealista, realizzerà film in cui ogni inquadratura verrà studiata per ricreare la composizione armonica di un quadro pittorico: Senso e Morte a Venezia saranno tra questi.

Fusione tra arte figurativa e scrittura che ritroviamo, come in un gioco di specchi, in Boito e Visconti non meno che in Mann dove, tra il tono alto e paludato di una prosa che ha il sapore della cronaca e le dettagliate introspezioni psicologiche, colpiscono le immagini fortemente iconografiche dei suoi paesaggi interiori: «…una palude tropicale sotto un cielo greve di vapori, umida, lussureggiante e mostruosa, una specie di groviglio primordiale di isole, lagune, bracci di fiumi melmosi, di rigogliosi viluppi di felci, di intricati ammassi di piante turgide, grasse e fantasticamente fiorite, ecc.»; la forza pittorica, spettrale e trasognata di Venezia, rappresentata con la minuziosità di una veduta del Canaletto fin nei dettagli delle gondole, con i loro divanetti laccati di nero funereo e la morbidezza invitante dei cuscini dei sedili; ma, soprattutto, la potenza visiva del «fascino unico e personale» della «bellezza perfetta» di Tadzio, che ricordava «le sculture greche dei tempi più nobili».

Incontro tra arte plastico-pittorica e letteratura che dà vita, nelle due trasposizioni cinematografiche di Visconti, a una qualità figurativa eccezionale e mai fine a se stessa, sempre nella direzione di documentazioni storiche realistiche e accurate che ricreino il più fedelmente possibile, anche da un punto di vista prettamente visivo, l’intero mondo dell’epoca. Attraverso la precisione di costumi, oggetti, linee, volumi e colori – dalla complessa ricostruzione della battaglia di Custoza, con i movimenti di soldati e cannoni, ai particolari dei bottoni della divisa di Franz o i lacci del corsetto di Livia, come ritroviamo in Senso, all’abbigliamento da spiaggia dei bagnanti o le cesellature delle posate d’argento dell’albergo del Lido, in Morte a Venezia Visconti dà corpo e sostanza alla contraddizione tra passione e ragione, pulsioni inconsce e doveri sociali, amore e morte, prospettiva storica e racconto privato. Congiunzione degli opposti che, mai vuoto o superfluo estetismo, con la concretezza della sua fisicità ci ricorda che essere uomo significa essere malato, poiché la devianza, la caduta, è condizione sommamente umana; ci parla cioè della necessità – o piuttosto dell’inevitabilità – di quel connubio con la malattia che è il vero compito dell’arte.

Copertina di La società della stanchezza di Han

Stanchezze generazionali

New York, 1960. C.C. Baxter lavora al diciannovesimo piano di un grattacielo, precisamente all’ufficio polizze scadute di una grande compagnia assicurativa. Timbra il cartellino alle 8:50 e abbandona l’ufficio alle 17:20, con un certo modesto rancore. A volte si trattiene oltre l’orario di lavoro per motivi che poco (o forse molto) hanno a che fare con la carriera, come raccontò magistralmente Billy Wilder nel film L’appartamento (1960). Se non fosse per questo dettaglio, infatti, C.C. Baxter sarebbe solo un grigio impiegato, indistinguibile dalla massa neghittosa che ogni giorno prende posto tra le scrivanie ordinate.

Ma il personaggio interpretato da Jack Lemmon, in realtà, non è solo un impiegato, bensì il simbolo dell’«animal laborans»: in lui la vita activa nobilitata da Hannah Arendt si trasforma nella degenerazione lavorativa, nell’indifferenza umana, nella malattia mortale. Eppure, come ci ricorda Byung-Chul Han nel suo libro La società della stanchezza (nottetempo, 2020 nuova edizione), «ogni epoca ha le sue malattie»: secondo il filosofo di origine coreana, infatti, la teoria arendtiana non sopravvive alla prova del tempo. Oggi Baxter sarebbe un uomo vittima non del lavoro ma della prestazione: non si lascerebbe travolgere dagli eventi, sarebbe «iperattivo e ipernevrotico», e lavorerebbe ovunque e in qualunque momento. Il suo tempo non sarebbe più scandito dal suono abulico della timbratura del cartellino, bensì dal bisogno ingannevole di realizzarsi.

L’individuo tardo moderno descritto da Han non conosce il concetto di alienazione, perché è un lavoratore apparentemente libero e incapace di sacrificare «la propria individualità o il proprio ego per annullarsi». Anzi, vive nell’illusione di rafforzare l’identità attraverso i social network, ottenendo risultati opposti (illuminante a questo proposito l’appendice dedicata a Facebook, Carl Schmitt e il burnout).

La «società disciplinare», descritta, tra gli altri, da Foucault e Goffmann, è perciò sostituita dalla ben più complessa «società della prestazione»: in essa il potere non è più imposto dall’alto, ma assume la forma di una falsa scelta: quanti mostri, allora, si celano dietro le possibilità, e con quanta premura l’umanità contemporanea forgia le catene con cui rendersi schiava.

Il conflitto non esiste più al di fuori dell’individuo, ma assume le sembianze di una lotta interiore in cui siamo vittime e carnefici allo stesso tempo. La stanchezza evocata da Han è, perciò, ben diversa da quella che si respira nelle fabbriche o negli uffici di una compagnia assicurativa degli anni Sessanta: l’autosfruttamento, l’ingannevole bisogno di realizzarsi attraverso il lavoro, la frustrazione causata dal non raggiungimento degli obiettivi, e la debilitante necessità di sovrapporre l’Io alla singola prestazione, producono individui stanchi e depressi.

La cura, allora, si nasconderebbe proprio nella malattia del nostro tempo: la stanchezza, precisa Han, può diventare salvifica, laddove si riesca a trasformarla in riposo, in contemplazione, in rifiuto dell’azione faustiana, in vita activa nella sua accezione più alta e nobile).

Byung-Chul Han continua la sua precisa opera di decostruzione della contemporaneità e di svelamento degli inganni del mondo: e lo fa attraverso la forma asciutta e sintetica che caratterizza, talvolta, la certezza del pensiero. Ebbene, se questo brevissimo, ma immenso saggio, ha delle colpe, esse sono nascoste nel numero esiguo delle pagine (poco più di cento) e nell’aver deliberatamente trascurato tutto ciò che continua ad accadere al di fuori del conflitto interiore: i disagi dell’animal laborans, le istituzioni totali, il potere oppressivo del lavoro; e i C.C. Baxter che ogni giorno, ancora, timbrano il cartellino e provano sulla loro pelle cosa sia l’alienazione.

 

(Byung-Chul Han, La società della stanchezza, trad. di Federica Buongiorno, nottetempo, 2020, 132 pp., euro 14, articolo di Elisa Carrara)

 

Copertina di La ragazza della palude di Owens

Non è solo questione di titoli

Da qualche anno in libreria è tempo di ragazze. La letteratura ha plasmato esempi orgogliosi, stabili abitanti di scaffale come La Ragazza di Marsiglia di Maria Attanasio, La ragazza di carta di Guillame Musso, fino alla pluridecorata Ragazza di Bube. 

Ma nell’ultima decade editoriale, oltre a queste creature stanziali, di ragazze ne sono grandinate a centinaia. La prima a catalizzare curiosità e vendite fu La ragazza del treno di Paula Hawkins, thriller intagliato a dovere proprio per essere un best seller; il seguito è stato quasi uno sciame cosmico, più o meno di successo. Che sia fatta di neve, di polvere, di stelle o d’inchiostro, che sbuchi da Varsavia, da Berlino o da un plotone di lupi, il corpo di una giovane donna sembra condensare in sé tutto il gorgo scoppiante di primavera che ci si possa augurare da una storia. Spesso non baciata da ottimi finali.

Questa volta è l’ecosistema che fa la differenza. E Delia Owens, naturalista al suo esordio, ha ritagliato un perimetro ideale per La ragazza della palude (Solferino, 2019, traduzione di Lucia Fochi). La vicenda ci sprofonda negli anni Cinquanta, in un istmo d’America misero e infangato, una terra degli ultimi, semisolida, tremula, oscillante di passi disperati. Delle vite diseredate e sghembe che la scelgono, come rifugio o cattedrale della resa.

«Le rare proprietà non erano mai state regolarmente accatastate, ma solo segnate da confini naturali – il corso di un torrente qui, una quercia morta là – da fuorilegge. Uno non si costruisce un capanno di palme nane in un acquitrino a meno che non stia fuggendo da qualcuno o sia arrivato alla fine della sua strada».

In questo habitat per soli esclusi, nasce Kya, bimba sbocciata dentro una capanna affollata di altri figli. Sua madre la incanta con l’afrore di frittelle, che annebbiano e graziano tutto il marciume. Ma un giorno decide di andar via. Decide di sentirsi troppo livida per restare in quella gabbia. Indossa i suoi tacchi, le sue spalle migliori e non si volta più.

Kya si aspetta che torni. Kya aspetta, ancorata alla veranda, ma sua madre è già profumo. La cordata di fratelli si scioglie in pochi caldi. La abbandonano tutti. Tutti vogliono ritrarsi, dalle botte, dalla fame, dalle croste di sole scambiate per regali.

Kye rimane sola, con l’artefice di tutte le fughe, con un padre stanco e ubriaco, che ammacca i suoi giorni di bische e bicchieri. E ben presto impara la lingua di questa solitudine, impara a contornarsi dei soli elementi che la lasciano indenne, che sanno parlare al suo cuore incustodito.

La sua famiglia sono conchiglie, gabbiani, correnti, lische e cortecce. Vive di gusci raccolti e nel suo nessuno si affaccia. Fino a quando non si avventura al largo, fino a quando la barca sfugge al controllo e incappa in un incontro che saprà governare ancora meno.
Quello con Tate, figlio di un pescatore che saprà scucirle il pantano di dosso e leggerla al vento come se fosse preghiera. Ma questo non basta. Come la storia di molti uomini insegna, Tate ha paura e la lascia andare.

Per la comunità benpensante di tutto il villaggio, avvinghiata alla speranza di perpetuarsi identica, Kya resta un mistero e quindi un pericolo. Una figura selvatica e ineffabile da tenere alle corde, da non far avvicinare. Succede che sia bella, succede che calamiti gli occhi e le attenzioni di Chase, promessa del football e orgoglio cittadino. Il classico maschio geneticamente immolato al successo.

E succede che quando Chase frana di notte da una torre antincendio, è quasi un istinto additarla, proclamarla colpevole ancor prima di un processo. Ma il giallo intorno alla sua morte ha solo il ruolo di irrobustire la trama e la figura di Kya, che sposando la palude ne diventa amante e guardiana, esperta e protettrice, testimone dei miracoli di fioritura e appassimento, del respiro del canneto e dei sogni delle fronde.

Scrive tre libri dedicati alle creature della sua palude, riesce ad affrancarsi dalla cifra limacciosa che il destino sembrava averle inferto e il romanzo segue la parabola della sua esistenza, raccontandoci un bioma torbido che «inghiotte la luce», un coacervo di esemplari accordati come orchestra e la favola pura del suo riscatto.

Le pagine migliori sono quelle che incorniciano i luoghi, di cui si avverte conoscenza e rispetto, amore e segretezza. In sintonia narrativa con altri romanzi di pessime infanzie, tra cui lo straordinario Il cielo è dei  violenti di Flannery O’Connor (rispetto a cui Delia Owens non detiene la stessa potenza espressiva) o Correndo con le forbici in mano di Augusten Burroughs, La ragazza della palude si rivela una formula efficace e coinvolgente, il fluido ritratto di una creatura di raccordo tra la terra e l’acqua. Tra la sconfitta e la sfida.

Come Kya, come chiunque si ritrovi intrappolato tra condanne di stagno e strappi a fatica per sé un lembo di realtà. Lasciando comunque che qualcosa resti. D’imprendibile e sospeso. Di sottratto al dicibile. Di scritto sulla schiuma.

 

(Delia Owens, La ragazza della palude, trad. di Lucia Fochi, Solferino, 2019, 414 pp., euro 15, articolo di Cristiana Saporito)

 

the social dilemma poster flanker

Il capitalismo al tempo dei social network

Sta sollevando numerose polemiche negli Stati Uniti The Social Dilemma, documentario disponibile su Netflix che indaga i meccanismi dei social network. Non si tratta del solito castello di accuse generico ma di un’attenta raccolta di testimonianze di ex pezzi grossi di Google, Facebook, Twitter e altri colossi. La tesi di fondo è che questi siti di aggregazione e condivisione si sono sviluppati nel tempo verso un sistema privo di qualsiasi etica, in cui al centro non c’è più l’interazione ma la finanza. In questa borsa del clic, gli individui e le loro mosse – il “mi piace”, il messaggio, la condivisione, l’acquisto online – sono le azioni su cui puntare.

Il regista di The Social Dilemma, Jeff Orlowski, ha intervistato vari fuoriusciti dai grandi gruppi della Silicon Valley, insieme a professori universitari ed esperti di economia e informatica. Quello che è importante sottolineare del documentario è che il messaggio finale non è “abbasso i social, abbasso internet”, ma un appello a un uso più consapevole dei mezzi a nostra disposizione e a un maggiore intervento da parte di chi li controlla per evitare una deriva che appare sempre più vicina.

The Social Dilemma riesce molto bene a spiegare la presa che influencer di diverso livello, e con diverse intenzioni riescono ad avere sul pubblico. Finché si tratta di ragazzine che consigliano come truccarsi, i danni sono insignificanti, ma che succede quando la fiducia del pubblico viene usata per spargere informazioni false? Orlowski si concentra sulle elezioni statunitensi del 2016 e sul ruolo dei famigerati hacker russi nel risultato finale. Ha tentato anche un aggiornamento all’ultimo minuto del suo ultimo film per includere la pandemia da Sars-Covid19 e il ruolo che hanno le notizie false negli Stati Uniti, ma non è quello il focus.

Ciò che conta è che la ricostruzione di The Social Dilemma rivela un mondo ormai vittima di se stesso. I social network – e in questo discorso includiamo Google che si basa sullo stesso meccanismo di inserzioni pubblicitarie – sono la massima espressione del capitalismo. Hanno generato nella loro ancora breve vita un giro di denaro che già non può essere paragonato a quello di nessun’altra industria.

I testimoni intervistati da Orlowski difendono con orgoglio le intenzioni originarie di tutti i progetti. Uno degli intervistati, Tristan Harris, era responsabile dello sviluppo etico di Gmail, cioè era a capo delle decisioni per non creare frustrazioni e dipendenze negli utenti della mail Google. C’era, o c’è ancora, una nobiltà di fondo nelle intenzioni della Silicon Valley, ma a dominare adesso è solo il profitto.

Come qualsiasi altra macchina capitalistica, ma moltiplicata all’ennesima potenza, il sistema social non può fermarsi. Un solo giorno di pausa farebbe perdere migliaia di miliardi di dollari, metterebbe a rischio posti di lavoro e come al solito finirebbero per pagare i più piccoli: gli esercizi locali che spendono poche centinaia di euro in pubblicità per farsi vedere, i semplici dipendenti, gli ultimi.

È vero: i vertici delle aziende digitali stanno cercando di conquistarsi una nuova credibilità con sistemi di verifica delle informazioni e approcci più etici e consapevoli delle derive nazi-fasciste in atto nella politica mondiale. Il grande problema rimane il meccanismo di dipendenza e inadeguatezza che i social creano negli utenti. Una radicalizzazione delle interazioni umane senza il filtro della presenza. Per quello c’è bisogno, soprattutto, di una maggiore consapevolezza individuale.

The Social Dilemma riesce molto bene a spiegare la logica da gioco d’azzardo che c’è dietro gli aggiornamenti (scrollare non è un gesto molto diverso da tirare la leva della slot machine) e come ognuno possa crearsi una bolla di realtà relativa e distorta sui propri schermi. Le interviste forniscono un quadro inquietante e, apparentemente, autentico delle (il)logiche aziendali. Peccato che per allentare il carico narrativo Orlowski ha deciso di inserire la vicenda fiction di un ragazzino alle prese con il suo smartphone. Un trionfo di retorica di cui potevamo francamente fare a meno.

(The Social Dilemma, di Jeff Orlowski, 2020, documentario, 89’)

Sufjan Stevens, ovvero come essere sé stessi senza esserlo mai

Elio e Oliver si stanno rincorrendo in quella che è la loro unica vera grande fuga d’amore. Cascate del Serio. A fare da sottofondo, l’arpeggio di chitarra e la voce di Sufjan Stevens. “Mistery of Love”. Luca Guadagnino sapeva che non avrebbe sbagliato con il cantautore americano per Chiamami col tuo nome. Il film e il musicista sono fatti apposta uno per l’altro, questa scena e Sufjan Stevens sono fatti apposta per stare insieme. A tre anni da quel momento, The Ascension, il suo nuovo lavoro.

Sufjan Stevens sbaglia raramente: Michigan, Sevens Swans, Illinois, Carrie & Lowell. Quest’ultimo in particolare deve aver convinto il regista italiano a puntare su di lui. Qui, infatti, troviamo la massima espressione di Stevens come autore intimista. E il film di Guadagnino aveva bisogno di qualcuno che potesse rendere esponenziale il dolore dell’amore. Quello inconciliabile con le variabili della vita. Della morale. Musicalmente un ritorno al folk di Seven Swans e al centro il rapporto, il non rapporto con sua madre e il suo patrigno. Il rapporto che li ha legati, o che non li ha legati. Carrie, bipolare, schizofrenica e con problemi di alcol e droghe, è morta nel 2012 per un cancro allo stomaco. Ha abbandonato Steven quando aveva un anno, per poi ritornare e per poi riandarsene, per poi ritornare e poi riandarsene. Con Lowell, sempre quest’anno, in piena crisi da Covid-19, ha scritto il buon album ambient Aporia.

La sensibilità di Stevens emerge anche oggi. Nonostante il cambiamento deciso. Lo abbiamo visto mutare, rinnovare, sperimentare. Essere massimalista e minimalista. Ampolloso e misurato. Ma il quid che accomuna tutta la sua carriera artistica appare sempre come per magia.

Dall’interno all’esterno. Il passaggio di questi cinque anni può essere riassunto, semplificando, in questo modo. Se in Carrie & Lowell tutto lo sguardo era rivolto verso le viscere della propria esperienza personale, “non è un album musicale, è la mia vita”, qui Stevens cerca di dare un giudizio sul mondo. The Ascension ci riporta ai tempi di The Age of Adz. L’impressione è che Stevens stia cercando un modo suo di leggere il pop. Un pop complesso, ma allo stesso tempo semplice e decifrabile.

Via le chitarre, via gli arpeggi. La voce di Stevens si muove in universo fatto di drum machine, suoni robotici, synth. Per quanto sia eterogeneo, potenzialmente difficile da domare, non si incaglia su sé stesso. Un lavoro cerebrale nella sua struttura, ma che funziona, che procede – nonostante la lunghezza (1 ora e 20 minuti) – in un continuo alternarsi di stati d’animo. La grandezza di Stevens, in poche parole.

The Ascension si apre con un pezzo che potrebbe essere di Thom Yorke solista o di Apparat, “Make Me An Offer I Cannot Refuse“,  per poi piegarsi verso soluzioni smaccatamente mainstream come “Video Game”. Il suo essere intrinsecamente dissimile a sé gli permette di mutare costantemente al suo interno (come ad esempio “Die Happy”), virare verso suoni quasi horror, per poi tornare ad aprirsi come fosse la cosa più naturale del mondo. Le sperimentazioni di “America” e “The Ascension” regalano all’album un’aura di mistero e una cifra stilistica di grande impatto.

Stevens è sempre Stevens pur non essendolo mai. The Ascension è l’ennesima riprova di quanto sia un autore fondamentale. Anche se oggi non arriva ai livelli del suo predecessore – e sappiamo quanto è e sarà complesso poterlo fare -, quest’ultimo lavoro è emblema della ricerca di Stevens. Si apre un discorso, di nuovo, su quello che potrà essere la sua musica in futuro. Ma sappiamo che sono solo speculazioni: il prossimo album partirà dall’ennesimo reset e saremo di nuovo spiazzati.

 

copertina di Darsi del tu

Dare del tu al linguaggio

La narrazione è il punto di arrivo dell’esperienza. Potrà suonare come una sentenza d’accademia, tanto più che una simile asserzione ne implica un’altra, e cioè che tutto è narrazione. Siamo però soliti considerare che una vicenda accade due volte: nel presente, che è il tempo in cui si consuma, e nella memoria, che è il “luogo” atta a conservarla e a rievocarla. Essendo tuttavia la memoria soggetta a modifiche e cedimenti, ne consegue che il processo di rievocazione è innanzitutto – o forse soltanto – un processo di traduzione da un’immagine a un’altra, e poi dalle immagini alle parole. Vi è quindi un distinguo più sottile, che è quello tra narrazione e narrativa – il processo che si fa genere, il genere che si fa arte: il punto di arrivo dell’esperienza, per l’artista, è l’arte. Non si tratta, come potrà sembrare, di un’introduzione un po’ scolastica, quanto di una premessa a un ragionamento quasi sillogistico. La letteratura è l’arte che trasforma le “cose” in parole – è l’arte che non può spostarsi dal campo delle parole ed è in esso limitato. Il narratore, dunque, opera in un campo che non solo è più circoscritto di altri – alle arti figurative, per esempio, è concesso poggiarsi su più elementi, come lo spazio e la sua distribuzione, le forme, i colori – ma soprattutto è lo stesso in cui si muovono i lettori – ogni lettore traduce a parole la propria esperienza; e perfino, all’estremo, l’esperienza letteraria, che è già un’esperienza di parole.

A proposito del rapporto tra narratore e lettore, c’è una frase di Edina Szvoren – dal racconto “Viviamo così” incluso nella raccolta Darsi del tu (Mimesis, 2020) – che riesce a illuminarlo: «C’è qualcosa che noi non conosciamo, ma che comunque esiste». Ogni esperienza, infatti, appartiene in modo esclusivo a chi l’ha vissuta; gli altri – i lettori, gli ascoltatori, gli amici, gli amati – la ignorano. Nondimeno questa esperienza esiste, e viene condivisa – e rievocata – a parole. Tutto ciò che non sappiamo trasformare in parole, e che pure esiste per noi, sfugge agli altri – e i limiti del nostro linguaggio diventano la misura della nostra solitudine.

La poetica della Szvoren non si smuove da questo punto: io sono le cose che vedo e che sento – e gli altri, che vedono e che sentono cose diverse, lo sanno chi sono io? Tale desiderio di identificazione – di sé e degli altri e delle cose – è il desiderio, spesso frustrato e talvolta taciuto, dei personaggi che compongono questo universo narrativo, in un difficile processo di comprensione reciproca che si fa speculare, nel testo, a quello tra narratore e lettore, complicato dalla stessa autrice, abile a sfruttare l’esattezza e i limiti della propria lingua. L’ungherese, per esempio, non possiede il genere grammaticale, e infatti di frequente ignoriamo il sesso dei personaggi; così come rari sono i nomi propri, e quasi tutti sono riconosciuti soltanto attraverso la parte che ricoprono nella storia (“il più grande”, “il più piccolo”, “la madre”, “il poliziotto in abiti civili”, e così via).

Questa ambiguità viene portata all’estremo nel racconto “Le notti brevi dell’affittacamere”, narrato da una prima persona a cui non importa precisare quale ruolo della coppia ricopra e che parla con una sorta di duale che non concede precisazioni anche quando le azioni sono distinte («uno di noi» / «l’altro»), salvo poi assumere una voce unica che simboleggia – più di ogni cosa – non solo la rottura, ma anche la (ri)scoperta della propria identità – come se nella comprensione raggiunta dall’amore svanisse il bisogno di dire agli altri chi siamo, essendo la nostra identità percepita e protetta dalla persona che amiamo. Il personaggio-narratore che torna a dire “io sono”, è un personaggio che ha perduto l’amore e che ha ripreso a cercarlo. E questo disvelamento produce anche un effetto retrospettivo alla lettura, perché il lettore arriva dunque a cogliere quale dei due faceva o diceva una certa cosa, e questo assume un ruolo nella lettura del rapporto che si è spezzato – e, più in largo, dell’amore e delle sue espressioni particolari.

Questa traduzione del mondo a parole è una convenzione umana da cui non è più possibile tornare indietro. Il paradosso delle lingue è che esse mirano all’esattezza e proprio per questo motivo rendono la comunicazione più frustrante. «Quasi saltava dal grembo per toccare l’animale. Parlava a quell’orrore, e pareva che almeno loro si capissero».

La precisione delle parole rappresenta per l’uomo un vincolo insopportabile, essenzialmente per due ragioni: in primo luogo, diminuisce il livello di suggestione; in secondo, accresce lo stimolo a un’elaborazione complessa – complessa, sì, ma nitida. «Desideravamo contorni nitidi e inequivocabili.» Possiamo osservare un quadro e restarne estasiati pur non avendo i mezzi necessari a comprendere le intenzioni dell’autore, proprio perché un’immagine – così come un suono – suggestiona il proprio fruitore a un grado che la parola esatta non può più raggiungere. Ascoltiamo i notturni di Chopin e ci facciamo malinconici, e ciò ci basta a riflettere la nostra personale malinconia: attraverso questa suggestione noi abbiamo creato un legame tra la nostra storia e quella di Chopin, e ci sembra così ingenuamente facile sentirci vicini a lui. Ma i contorni della parola – di quella che rappresenta il mezzo della Letteratura, s’intende – sono troppo definiti, vogliono significare una cosa e quella soltanto.

«La caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare e toccare» – scriveva Flannery O’Connor, che, se solo avesse potuto, avrebbe probabilmente apprezzato i racconti di Edina Szvoren, così sensoriali come sono. È facile rendersene conto fin dalla prima pagina, nella quale ogni azione è innanzitutto percepita – ed è questa percezione a dare ritmo alla storia. E, ancora una volta, è come se fosse detto: esistono i sensi; non necessariamente la loro traduzione in parole. Le sequenze narrative, attraverso la modulazione della punteggiatura, risultano simili a una giustapposizione di immagini, e la loro precisione stilistica ha esattamente il peso che dovrebbe avere. Non c’è approssimazione, ma nemmeno indugio, e tanto per i personaggi delle storie quanto per noi, il riconoscimento del mondo dipende da una funzione attiva volta a percepirlo – o a metterlo in moto. All’autrice è toccata la premura del dettaglio; al lettore la responsabilità di prendersene cura – e, in questa compartecipazione, «attribuire alle circostanze accessorie – odori e colori – un significato accresciuto». Dal momento che ogni interprete del mondo riversa in esso una parte di sé, proprio perché il significato esatto è irraggiungibile, non resta che l’obiettivo di un significato che è accresciuto – cioè, il mio più il tuo: non faremo parte dello stesso mondo, ma faremo parte di due mondi simili, e questo è il meglio che si possa sperare.

La scrittura della Szvoren – grazie all’egregio lavoro di traduzione di Claudia Tatasciore – possiede la precisione, e appunto l’esattezza, che è propria dei grandi autori. È una prosa che nella calibrazione degli elementi linguistici trova l’armonia della lingua – una lingua che la scrittrice ungherese padroneggia con classe ed esibisce in una moltitudine di soluzioni brillantissime e sempre molto significative. Il racconto che dà il titolo al libro, Darsi del tu, usa l’imperativo come unico tempo verbale, ed è una scelta che sta a rappresentare tante cose.

L’autrice pare dirigere i personaggi come un capocomico dirige gli attori a teatro, e la narrazione cessa di essere storia e mostra la potenza – in senso fisico e in senso più romantico – della letteratura, che in questo modo sembra quasi riuscire a prendersi quella rivincita sulle altre arti: non ci sono impedimenti, ci sono solo le parole, e possono essere tutte quelle che vogliamo – proprio quelle che vogliamo – e allora «che la luce scivoli sulla fila di aghi montati sul davanzale» e soprattutto che «si offrano alla mente associazioni inconsuete». In una costruzione simile, in cui nulla è davvero, ma tutto deve essere, la traduzione del mondo può perdere anche l’esattezza delle parole – e per lo scrittore non esiste libertà più grande.

(E. Szvoren, Darsi del tu, trad. di Claudia Tatasciore, Mimesis, 2020, pp. 238, euro 18, articolo di Giuseppe Del Core)
copertina di L'attesa di Davide Franchetto

La fiaba anomala di
Davide Franchetto

La perdita della fanciullezza e della sua capacità immaginifica fanno sì che molti degli adulti tendano a guardare a quell’età come a un “Eden perduto”. Anche Davide Franchetto tratta velatamente tale tematica nel racconto lungo L’attesa (Autori Riuniti, 2020), che assume i contorni di una (inconsueta) fiaba dai contorni decisamente indefiniti: i luoghi dell’ambientazione sono boschi, campagne, cascine e case abbandonate di un luogo imprecisato come accade in tante altre fiabe, gli spazi temporali non vengono determinati, i protagonisti sono due ragazzi che si imbattono in svariate peripezie, alcune delle quali si rivelano allusioni metaletterarie indispensabili da riconoscere al fine di pervenire alla comprensione della vicenda.

Poche altre le similitudini con uno dei generi più amati dai bambini. La vicenda si apre in medias res, giacché nulla è dato conoscere sui due protagonisti, denominati semplicemente mediante i pronomi personali di terza persona Lui e Lei; come avviene nei romanzi verghiani, il lettore imparerà a conoscerli gradatamente, attraverso i pochi indizi che di loro trapelano dal racconto. Anche le motivazioni del loro agire risultano alquanto misteriose: cercano qualcosa, che deve passare (verbo che sovente ricorre).

La ricerca, l’attesa si rivela il filo conduttore che guiderà i protagonisti e, al contempo, farà interrogare e appassionare i fruitori del libro. Il mistero riguarda inoltre l’atteggiamento, ai limiti della ferinità, di Lui e di Lei, nonché le motivazioni per cui i due abbiano una evidente predisposizione per la natura, aspetto che si pone in palese contrasto con la diffidenza nei confronti dei vari esseri umani incontrati, dai quali rifuggono.

Ad accrescere l’enigma del racconto si aggiungono gli altri personaggi, privi di un nome proprio, apparentemente in preda a un delirio collettivo oppure strampalati e imperscrutabili, e le continue ellissi narrative, sapientemente adoperate dallo scrittore.

In questa sede, non daremo la chiave interpretativa del mistero, la cui risoluzione sarà nondimeno agevole per il lettore attento, attraverso gli “indizi” disseminati durante la lettura. Si può semplicemente annunciare che la divergenza di opinioni tra Lui e Lei, il cui rapporto diventa sempre più problematico durante il racconto, lascia trapelare, presumibilmente, la tensione nell’animo dell’uomo di ogni luogo e di ogni tempo che vorrebbe rivivere i tempi spensierati della giovinezza, pur sapendo bene che essi sono destinati a non fare ritorno; a tal fine, la forma narrativa della fiaba si rivela decisamente appropriata grazie ai suoi contorni spazio-temporali indefiniti.

Anche la scelta narrativa di adoperare un lessico semplice e una sintassi paratattica, come si addice al ragionamento e all’eloquio caratteristici dei ragazzi, si configura come un tentativo riuscito di permettere l’immedesimazione del lettore nei panni di Lui e Lei.

La scelta di Autori Riuniti di dare una pubblicazione autonoma al racconto lungo di Franchetto denota una scelta coraggiosa nonché, possibilmente, lungimirante: non era semplice scrivere una “fiaba anomala” tale da convincere e far riflettere anche gli adulti.

(Davide Franchetto, L’attesa, Autori Riuniti, 2020, pp. 49, euro 6, articolo di Luigi Buttiglieri)
Copertina di Taccuino delle piccole occupazioni di Graziani

Catalogo minimo delle nostre imperfezioni

Dopo Atlante delle micronazioni e Catalogo delle religioni nuovissime, Graziano Graziani torna con un romanzo dall’evocativo titolo Taccuino delle piccole occupazioni (Tunué, 2020).

Girolamo Girolimoni – l’assonanza con il nome dell’autore è sì dichiarata ma non per questo scontata – è il protagonista, suo malgrado, di una storia che non è una storia. In Taccuino sono registrati, divisi in cinquantacinque brevi capitoli, i rapporti di Girolamo con il mondo e con le cose, con i sentimenti e con le persone, in una ricerca frammentata di tutti i possibili sé.

Girolamo e l’inflazione, Girolamo e la superstizione, Girolamo e la vertigine, Girolamo e l’entusiasmo, Girolamo e la resa, ma anche l’arredamento degli interni, l’agenda del telefono, il pane: cinquantacinque piccole finestre dove affacciarsi per scorgere di volta in volta una porzione differente dell’universo di quest’uomo decisamente sui generis che, andando dal piccolo al grande, dall’astratto al concreto e viceversa, percorre il flusso narrativo vestendo i panni del bambino, del giovane, dell’adulto e dell’anziano, ma non propriamente in quest’ordine, perché «il tempo, così come ce lo figuriamo, non esiste».

A legare, metaforicamente, questo catalogo minimo dei tanti Girolamo il racconto-confessione, in prima persona e affidato all’amico orologiaio che ascolta senza controbattere, della ricerca lenta ma spasmodica del proprio doppio, che non è un doppelgänger ma è qualcuno che ci permette di «ficcare lo sguardo “dentro” sé stesso, più che “su” sé stesso».

Nato il 29 febbraio, «un giorno che c’è solo ogni quattro anni, e per di più in un anno bisestile, e quindi sfortunato per antonomasia», Girolamo sembra destinato a una vita sempre al confine con qualcos’altro, sempre lì lì per rompersi, o scivolare verso territori ancora inesplorati.

Non è un caso, quindi, che Taccuino delle piccole occupazioni si apra con il rapporto tra Girolamo e il sonno. Girolamo è narcolettico e il sonno lo avviluppa in momenti precisi della sua vita, quando si trova di fronte a una scelta, grande o piccola che sia. La sua narcolessia appare come un meccanismo di difesa, per proteggere ‒ o meglio preservare ‒ la fragilità del proprio io, il quale davanti a un mondo che riconosce sempre meno e che lo paralizza con la sua indifferenza e disuguaglianza sceglie quasi coscientemente di cadere addormentato, anestetizzato come la novella eroina di Ottessa Moshfegh in Il mio anno di riposo e oblio.

Taccuino si delinea come la raccolta di tasselli sparsi di un mosaico, collocati nello spazio non in modo cronologico. Perché Girolamo, oltre ad avere un particolare rapporto con il sonno, lo ha anche con il tempo, con la memoria e con i ricordi che si mischiano tra di loro non permettendogli di districarsi tra passato e presente. «Non riesco a dare un ordine ai frammenti della mia vita». Questo il cruccio di Girolamo, a cui il suo dottore risponde con un altro quesito, ovvero se la catalogazione che sta cercando di compiere è di ordine o di senso. E Girolamo non lo sa, in realtà non sa neppure se c’è differenza.

Forse tutto questo è frutto della smarrita capacità di avere una visione integra del mondo, persa insieme all’infanzia, la capacità quindi di vedere l’invisibile, «le trame nascoste, quelle griglie strampalate e anche un po’ reazionarie che ci siamo costruiti nei secoli come specie umana, che sorreggono miracolosamente il tutto». O forse è colpa di quel Dio di quando era bambino, quell’omone alto, dal camice bianchissimo e dai capelli impomatati, che indossava le vesti terrene del macellaio della macelleria equina.

Ma, in fondo, «la vita [è] un tempismo imperfetto, e mancarsi non è meno nobile di prendersi», proprio come Girolamo dice a Viola ‒ una Viola in cui riecheggia Calvino ‒, quell’amore che ha danzato con lui un ballo fatto di presenze e di mancanze e che ha potuto godere della dimensione dell’eterno proprio grazie a questa impossibilità del protagonista di discernere tra passato e presente.

Il mondo cambia continuamente volto, la città da familiare diventa un non-luogo, e l’uomo per resistere deve trovare una nuova religione, che assume i connotati «di una vocazione all’imperfezione, di una fascinazione per l’oggetto rotto, che pur inservibile resta sempre più luminoso dell’oggetto sano, immerso nella sua ottusità».

L’impresa che compie Graziano Graziani con Taccuino delle piccole occupazioni è quella di illuminare per lampi, come piccoli squarci nell’ipotetico buio della nostra esistenza, tutte quelle questioni escatologiche e non che si parano davanti a noi. E con la formula del catalogo, di cui Graziani è maestro, seguiamo Girolamo tra dubbi, idiosincrasie e imperfezioni che poi, in fin dei conti, sono anche i nostri.

 

(Graziano Graziano, Taccuino delle piccole occupazioni, Tunué, 2020, 228 pp., euro 14,50, articolo di Giulia Eusebi)