Kid A, un esercizio mentale

Esseri umani stilizzati che fluttuano in mondi in fiamme, strani orsi che vagano in universi alieni: i blips, di fatto l’unica pubblicità che promuoveva il quarto album dei Radiohead. Nessun videoclip. Solo una serie di video brevissimi pensati da Stanley Donwood. Una manciata di secondi. Il senso di smarrimento che si prova guardandoli, adesso come allora, è lo stesso di cui è pieno Kid A. E Kid A compie vent’anni: se fosse uscito oggi, non sarebbe cambiato nulla. La grandezza intrinseca di un album che ha segnato il 2000 è il suo sguardo perenne verso ciò che ancora non c’è. E che forse non ci sarà.

I Radiohead tre anni prima avevano fatto uscire Ok Computer e il peso specifico di quest’album sugli anni novanta lo conosciamo ora, ma lo conoscevamo anche a fine millennio. Lì veniva materialmente scardinata l’idea di pop rock e trasformata in qualcosa che non era  ancora stato sperimentato. La responsabilità che i Radiohead si erano messi addosso era enorme, e trovare la chiave per il successore che potesse confermare la mole di idee di Ok Computer era una prova che probabilmente, in quegli anni, solo i Radiohead potevano provare ad affrontare.

Poteva succedere qualsiasi cosa: immaginare un passo indietro dei Radiohead verso certi spunti alla The Bends, oppure un calco di Ok Computer, probabilmente meno ispirato. Quello che sarebbe successo dopo non è così scontato come poi è stato scritto. Il 2000 sarebbe potuto essere un momento di normalizzazione di un gruppo che aveva già dato moltissimo.

I Radiohead optano per una sorta di tabula rasa su cui ricostruire qualcosa di completamente nuovo. Guardando quello che succedeva quell’anno, i Coldplay uscivano a luglio con Parachutes. Il suono  va daI brit pop a Ok Computer. I Coldplay, prima della sterzata verso un abisso da cui stanno uscendo piano piano solo ora, sono stati più o meno ufficialmente eredi dei Radiohead. Parachutes gira in questo modo perché è esistito Ok Computer. Questo era il segno di quanto quanto fosse forte la mano di Yorke su quello che sarebbe accaduto. Mentre Chris Martin si prodigava a scrivere un lavoro che suonasse perfettamente per l’inizio del nuovo millennio, i Radiohead avevano già tracciato una direzione verso un futuro che era già diverso da quello di Ok Computer. Erano già altro da loro stessi.

Il 2 ottobre di venti anni fa. L’album elettronico dei Radiohead, si è sempre detto. La svolta elettronica. Fino a un certo punto. Perché semplificare Kid A a elettronica non rende l’idea di quello che è quest’album. Ci sono Aphex Twin e gli Auterche, ma anche il krautrock, dai Can ai Neu!. Ma anche il free-jazz, l’ambient.

Il piano sghembo e una cassa ritta che se ne sta sullo sfondo, su cui ruota la voce di Yorke con cui si diverte a giocare Johnny Greenwood con il suo Kaos Pad, è l’inizio di Kid A. “Everything in Its Right Place“, brano figlio del burnout post Ok Computer: non ci sarebbe potuto essere miglior incipit per dare vita a un album tanto sospeso tra il materiale e l’immateriale. Segue “Kid A“, forse una delle canzoni meno intellegibili della carriera dei Radiohead: Yorke non canta, ma parla ed è di nuovo Johnny Greenwood a modificare la voce, filtrandola con il vocoder e scrivendo la melodia con le Onde Martenot.

A questo punto ci siamo resi conto che i Radiohead non sono più quello che pensavamo fossero. Siamo in un’ altra zona, Kid A è un enorme incubo che si insinua nella psiche, un suono che proviene da non si sa dove.

Qui c’è una prima svolta, e il passaggio al brano successivo è una martellata, ma rientra in una logica su cui si basa tutta l’architettura dell’album. “The National Anthem” è un pezzo influenzato da Charlie Mingus. Il testo è ridotto all’osso, frenetico. A sorreggere tutto, il basso distorto di Colin Greenwood che si porta sulle spalle tutti i quasi sei minuti della canzone. La chiusa è un jazz caotico, una tempesta che ci prepara alla calma. Entriamo forse nel momento più alto dei Radiohead. “How to Disappear Completely“. La genesi della canzone è più che risaputa: tutto nasce da un consiglio di Michael Stipe per reggere la pressione dei tour. Qui Yorke scrive uno dei suoi testi più intimi di sempre e regala uno dei climax più struggenti e riusciti. La chiusa finale con i lamenti di Yorke che si fanno carico dell’enorme tasso emotivo prodotto dalle parole, dalle Onde Martenot, dal basso che sembra disegnato, è Radiohead nel suo significato più profondo.

Treefingers” è ambient e serve per spezzare. Entriamo nell’altra sezione dell’album che ci presenta due brani che sembrano fuori fuoco rispetto a tutto il resto, ma che in realtà sono esempi dello smarrimento profuso lungo tutto in Kid A. Hanno solo una forma diversa. Forse più “Optimistic” , con la sua struttura più lineare rispetto  a “In Limbo“, un brano che aleggia nell’album come un fantasma.  Un binomio che getta le basi per quello che sta per accadere.

Idioteque“. La sua genesi sembra uno scarica barile di Johnny Greenwood a Yorke. Il chitarrista infatti, dopo aver prodotto una cinquantina di minuti con la drum machine, va da Yorke e sostanzialmente gli dice: vedi cosa riesci a tirarci fuori.  Yorke da quel materiale sente 40 secondi che trova geniali. Da lì viene costruito uno dei brani più famosi dei Radiohead. “Idioteque” è un mosaico di immagini tra ansia e postmoderno. “Ice age coming”. È la catastrofe.

Meglio la versione “Morning Bell” di Kid A o dell’album che sarebbe uscito sei mesi dopo, Amnesiac? Quella del primo dei due album gemelli ha Phil Selway in primissimo piano, con una ritmica insistente che va a incastrarsi al piano suonato da Yorke. “Morning Bell” suona come la conseguenza  di “Idioteque”, una marcia, un vero e proprio esercito di zombi che avanza verso la fine del mondo.
Chiude l’album “Motion Picture Soundtrack“, che allenta la tensione tirata fuori dalle ultime due canzoni. Un brano composto prima di “Creep“, a cui i Radiohead hanno saputo che veste dare solo una decina di anni dopo: quello della colonna di un un film Disney anni ’50 scritto in un futuro senza futuro.

Per quello che può valere, Kid A è stato uno dei pochissimi album a cui la rivista americana Pitchfork ha dato 10 su 10. Il fatto è comunque emblematico per capire quest’album e l’importanza che ha avuto e che continua ad avere. Kid A è un esercizio mentale. Il 2 ottobre del 2040 staremo ancora qui a parlarne come un album del futuro.

Il diavolo ovunque, per tutto il tempo

Che l’indagine sull’esistenza, la persistenza e la forma del Male nel cuore degli uomini sia uno dei temi più frequentati dalle narrazioni popolari contemporanee, lo dimostrano gli ultimi (almeno) vent’anni di cinema e serie TV, americane e non solo: cosa tiene insieme Mystic River (2003) di Eastwood, e gli Oscar a Non è un paese per vecchi (2007) dei Coen? E cosa lega il successo planetario di serie come Breaking Bad (2008-2013) o della prima stagione di True Detective (2014)? Si tratta, per l’appunto, di storie che hanno come obiettivo l’esplorazione delle varie fisionomie che il Male può assumere nei nostri tempi, a seconda degli animi e dei contesti in cui risiede. A queste si sono sovrapposte, nel tempo, altre esperienze, da Peaky Blinders (2013-in corso) a Lawless (2012) di John Hillcoat: ecco che si passa allo studio delle forme del Male nel corso del tempo, piuttosto che nella nostra contemporaneità.

A questo punto abbiamo già fornito quasi tutti i supporti teorici per comprendere l’operazione che Netflix ha intrapreso con la produzione di Le strade del male. Un’operazione, si può dire, con cui il colosso dello streaming cascherà comunque in piedi – e forse è proprio per questo che ha deciso di affidare la regia del film a una relativa new-entry come l’italo-brasiliano Antonio Campos –, proprio in virtù del sicuro e collaudato appeal di queste atmosfere narrative.

Per parlare di Le strade del male, però, è necessario fare riferimento all’universo della letteratura, ancor più che a quello del cinema. Il film, infatti, è la trasposizione cinematografica del romanzo The Devil All the Time (2011) dell’autore americano Donald Ray Pollock. Non solo: è lo stesso Pollock, infatti, a costituire la voce narrante del film. Alle sue parole, che raccontino o descrivano, è demandata la nostra discesa nell’atmosfera gotica, cupa e inquietante di questo intreccio di storie.

La voce narrante dell’autore è in effetti utile, perché Le strade del male si estendono in lungo e largo, occupando uno spazio e un tempo narrativo molto ampi. Le origini di questo Male, che ci accompagnerà fino alla fine e probabilmente oltre, stanno nella guerra: la seconda guerra mondiale, da cui è reduce il marine Willard Russell (Bill Skarsgard). Willard ritorna a casa con il corpo ma non con la mente, essendo rimasto traumatizzato dalla vista di un suo commilitone crocifisso dai giapponesi: il compagno agonizzava, lui ha dovuto dargli il colpo di grazia, macchiandosi di un’oscurità che non riuscirà più a scrollarsi di dosso. Da qui in avanti, il film funziona come la prova narrativa del fatto che esiste un’alternativa macabra al noto motto biblico: anche le vie del Male, oltre a quelle del Signore, sono infinite. Pollock e Campos si coalizzano, fondono cinema e letteratura per dirci, eccole qui.

Così, le vicende di Willard e della famiglia Russell si intrecciano a quelle della coppia di serial killer Carl e Sandy Henderson, che si conoscono nello stesso luogo e nello stesso momento in cui Willard conosce la sua futura moglie, la barista Charlotte. Tra i due nascerà un amore che si trasformerà presto in matrimonio, osteggiato dalla madre di Willard, che aveva promesso a Dio che, se il figlio fosse tornato dalla guerra, lo avrebbe fatto sposare con la pia Helen.

Il germe del diavolo si annida, così, anche (e forse soprattutto) nelle unioni amorose, che a ben vedere danno origine a ogni evento successivo. Willard non rispetterà il volere della madre (e dunque di Dio), e dalla sua unione con Charlotte nascerà Arvin (un Tom Holland che riesce bene nel tentativo di svestire i panni patinati e disneyani di Spiderman), secondo e più importante protagonista di Le strade del male. D’altro canto, Helen si è sposata con un uomo devoto quanto lei, il predicatore Roy, ossessionato dalla presenza di Satana nel mondo terreno e dalla possibilità di resuscitare i morti.

Né Dio né il Diavolo in questo film giocano a dadi: non ci sono coincidenze, solo strade già scritte per ognuno dei personaggi, che sono spesso così sciocchi da pensare di possedere ancora una cosa come il libero arbitrio. Il destino non risparmia nessuno: sarà proprio il predicatore Roy a uccidere sua moglie Helen (convinto di poterla riportare in vita), e sarà un cancro a portare via Charlotte a Willard e Arvin. La voce narrante tace, forse per pudore, ma è come se dicesse, «ecco che cosa succede a non seguire il percorso che Dio ha stabilito per voi». E questo è solo l’inizio.

Arvin, a questo punto, è il trait d’union tra tutti i fili, spaziali e temporali, della storia: il suo incontro con il Male è precoce e scatena una spirale di eventi a cui noi spettatori assistiamo impotenti. La morte compare in sordina, perché in realtà è sempre stata lì, e questo è il grande pregio di Le strade del male. Campos e Pollock sono abilissimi, attraverso la scrittura e la fotografia, a permeare tutto il film di un’atmosfera opprimente, irrespirabile e terribilmente affascinante. Il male è lì, lo sappiamo, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo: ci attira, perché pensiamo sempre – esattamente come Arvin.

Il film, del resto, è anche la storia della sua formazione – di poterlo controllare, sfruttare a nostro vantaggio, usare “a fin di bene”. La verità, però, è che il Male è come il gioco del Domino: basta colpire la prima tessera, apparentemente insignificante, per sapere già che anche l’ultima cadrà.

Questa pare essere la logica narrativa su cui Le strade del male si regge: la regia di Campos lascia spazio al racconto della voce fuori campo di Pollock, fa un passo indietro e dunque appare non particolarmente degna di nota. Più la trama s’infittisce, più le storie dei personaggi si complicano e s’intrecciano, più si ha la sensazione di trovarsi di fronte a un romanzo per immagini, sì, ma pur sempre a una storia raccontata con le parole, più che con gli strumenti specifici del linguaggio cinematografico. Così, la voce narrante in terza persona – un narratore onnisciente d’altri tempi – diventa croce e delizia del film, costituendo la sua grande peculiarità, ma al contempo rappresentando un ostacolo per il suo completo sviluppo.

Lo spettatore-ascoltatore è preso per mano e portato nei meandri della storia, senza però che il montaggio gli sia di grande aiuto. I tagli danno troppo spesso l’impressione, anzi, di rispondere alla volontà di una giustapposizione visiva e narrativa che si fa fatica a seguire. Forse troppa fretta, forse c’era troppo da raccontare.

Rapiti da quest’atmosfera magica e inquietante, troppo spesso tuttavia ci ritroviamo a chiederci: da dove è arrivato il nuovo, enigmatico predicatore (un Robert Pattinson eccellente che continua a crescere quanto a varietà di registro)? Perché dare così tanto spazio a un personaggio come lo sceriffo Bodecker (Sebastian Stan), che non si risolve se non in rapporto con i protagonisti? Cosa lega la famiglia Russell ai due serial killer che imperversano per le strade uccidendo autostoppisti in modo creativo e macabro per trarne fotografie “artistiche”?

Questi interrogativi, tipici dei racconti neri o gotici, non trovano risposta se non alla fine, e non tutti trovano una risposta soddisfacente: viene da pensare che, per Campos e Pollock, l’atmosfera fosse molto più importante del mero susseguirsi delle vicende. Un’ombra affascinante si deposita su tutto il film – a volte anche sulla sua coerenza interna –, innalzandolo e compromettendolo parzialmente. La storia e i personaggi – nel caso di alcuni, dotati di un background troppo scarso per risultare credibile – sfumano, resta solo l’aria intorno, un’aria brutta, carica di dolore e di rabbia che tengono insieme ogni cosa, come un filo rosso.
E il filo rosso è evidente: il Male, che riesce sempre a trovare le sue Strade.

(Le strade del male, di Antonio Campos, 2020, thriller, 138’)

 

copertina di Memorie Postume di Bras Cubas

Machado de Assis: la memoria è il minore dei mali

«Al verme che per primo ha corroso le fredde carni del mio cadavere dedico come caro ricordo queste Memorie Postume» recita la dedica dell’autore di questo romanzo (Machado de Assis, Memorie Postume di Brás Cubas, Fazi, 2020). Un libro ironico, divertente ma tutt’altro che leggero, pur non richiedendo al lettore alcuna fatica. Pubblicato nel 1880, è un grande classico di una letteratura e di un autore ingiustamente poco noti.

L’espediente originale di scrivere le proprie memorie post mortem offre una doppia funzione: essere l’io narrante e allo stesso tempo mantenere quella distanza da sé e dagli avvenimenti narrati da risultare distaccato e giudice scanzonato. Le poco più di trecento pagine ariose si suddividono in centosessanta capitoli a volte pugnaci, altre volte riflessivi o amarognoli, o persino sardonici, ma mai incattiviti, e raccontano la vita di un esponente dell’alta borghesia brasiliana di fine Ottocento, destinato a una brillante carriera per doti naturali e grazie a impegnativi studi in Europa, a un buon matrimonio grazie alla frequentazione dell’élite, a diventare persino ministro grazie all’ambiente che lo circonda. Eppure Brás Cubas non approderà a nulla per carattere, indolenza e scelta. Anche le sue storie d’amore si risolvono nel nulla, perché si innamora della persona sbagliata o perché non è in grado di assumere le sue responsabilità, di decidersi. Tuttavia non è una persona amareggiata né mal disposta, le sue risorse, la sua preparazione e cultura gli fanno attraversare la vita a passi levigati e gli donano serenità e saggezza. In particolare lo sostiene la filosofia dell’umanitismo, cui dedica pagine importanti che collegano anche a un’altra opera fondamentale del meticcio Machado de Assis, Quincas Borba.

Molto apprezzato da Saramago, Woody Allen, Susan Sontag e Dave Eggers, questo romanzo può essere accostato ad altri grandi classici in altre lingue. Difatti, analogie sono state sollevate con Tristram Shandy di Laurence Sterne, per fare un esempio, e viene in mente, anche con una certa insistenza, La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Si può anche affermare senza timore di smentita che esso anticipa alcuni temi che saranno affrontati solo decenni dopo in altre aeree letterarie.

È sempre approssimativo l’approccio a un’opera di una letteratura poco conosciuta, al lettore mancano parecchi elementi per inquadrarla bene, con il rischio di poterla apprezzare meno, e soprattutto di non comprenderla bene. Può essere d’aiuto il traduttore, solitamente un esperto di quella letteratura, dell’autore, ed è anche il lettore più attento dell’opera. Perché, come dice Claudio Magris, «è difficile imbrogliare quel sosia che è il traduttore». Daniele Petruccioli, il traduttore delle Memorie Postume di Brás Cubas, traduce da molti anni e con ottimi risultati dall’inglese, dal francese e dal portoghese, è anche docente universitario di Teoria della traduzione e di Traduzione editoriale, ed è autore di importanti saggi. Gli abbiamo chiesto lumi su questo romanzo e sulla letteratura brasiliana, e dopo la lettura delle sue risposte esaustive, chiarificatrici e molto interessanti, con ogni probabilità il lettore avrà un rapporto più maturo e molto più stretto con Machado de Assis e con la letteratura brasiliana.

 

Durante la pandemia ho ascoltato su la tua traduzione di un brano di Os sertões, il romanzo di Euclides da Cunha, in un video che avevi girato per il Dopolavoro Stadera. Mi ha molto incuriosita e ho raccolto qualche informazione sul romanzo e sull’autore, e al contempo mi sono resa conto di non sapere praticamente nulla della letteratura di un paese immenso come il Brasile. Sfortunatamente l’edizione italiana di Os sertões si fa ancora attendere, ma poco dopo ho scoperto che usciva invece un altro classico brasiliano sempre tradotto da te, che si presentava altrettanto interessante. Memorie Postume di Brás Cubas di Machado de Assis è stato per me una grande scoperta, credevo ingenuamente che la letteratura brasiliana indispensabile si esaurisse con il Grande Sertão di João Guimarães Rosa, e con i romanzi di Jorge Amado. Puoi raccontarci in che modo o perché ti sei avvicinato alla letteratura brasiliana?

Da adolescente, mi sono interessato alla letteratura brasiliana come tutti, leggendo i grandissimi autori pubblicati dalle grandi case editrici – Jorge Amado, Clarice Lispector, Guimarães Rosa… – ma senza nemmeno rendermi conto che erano brasiliani: li leggevo come leggevo gli altri grandi sudamericani, Borges, García Márquez, Vargas Llosa, Isabel Allende… Soltanto all’università, quando ho deciso di studiare portoghese e tedesco (perché il francese e l’inglese li parlavo già bene e non volevo “barare”, né, soprattutto, studiare cose che sapevo già), mi sono avvicinato in modo più sistematico alle letterature di lingua portoghese. Non solo Brasile, ma appunto anche Portogallo, Africa, Asia. E ho scoperto, come sempre avviene quando si va a guardare le cose un po’ più da vicino, una miniera d’oro e di pietre preziose. Inoltre, il Brasile mi affascinava a livello linguistico perché il portoghese che si parla lì è una variante con una storia particolare ma ricchissima, oltre al fatto di rappresentare il numero di parlanti più grande del mondo. Infine, leggendo questi romanzi non solo in originale ma anche in traduzione, ho scoperto una storia di traduzioni variegata, complessa, sperimentale, modernissima già dagli anni Settanta, con traduzioni storiche come quelle di Edoardo Bizzarri di Grande Sertão per Feltrinelli o di Giuliana Segre Giorgi di Macunaíma del modernista Mário de Andrade per Adelphi. Questo mi ha entusiasmato tanto da spingermi a fare carte false pur di laurearmi – in tempi in cui una laurea in traduzione era ancora guardata con un certo sospetto – proprio su di esse. Ma la loro fortuna era talmente povera in Italia che la mia correlatrice (una comparatista, sia detto a sua discolpa) in sede di discussione mi rimproverò di non aver citato le traduzioni di Ungaretti, cosa che la commissione giudicò non tanto scandalosa da togliermi la lode ma abbastanza grave da non concedermi la dignità di pubblicazione. Non ebbi il cuore, o la presenza di spirito, in quella sede, di spiegare che Ungaretti aveva tradotto Oswald de Andrade, un quasi omonimo di uno dei miei oggetti di studio ma pur sempre un altro autore, e non lo avevo quindi citato a buon diritto… Da allora, dopo avere intrapreso la mia carriera come traduttore, il Brasile è stato – per una serie di casi un po’ paradossali, ma la vita è così – molto più presente nella mia vita del Portogallo stesso. Ho avuto modo di andarci, per motivi di studio e non solo, più spesso di quanto mi sarei aspettato, imparando a conoscerne meglio la letteratura e soprattutto gli scrittori, soprattutto giovani. Così, quando dopo i normali inizi più eclettici ho deciso di specializzare la mia attività di scout editoriale, è stato quasi naturale andare a leggere e a cercare le novità di laggiù. Attraverso questa parte del mio lavoro ho avviato e consolidato rapporti – oltre che con gli scrittori – con traduttori, editor, agenzie letterarie, e piano piano mi sono ritrovato al centro di una piccola rete che mi permette di essere abbastanza al corrente (per quanto possibile in un Paese che assomiglia più che altro a un continente) sulle novità editoriali brasiliane e le tendenze letterarie di quello sconfinato territorio dell’anima che nel frattempo è diventato, per me, il Brasile.

 

 

 

Potresti aiutarci a capire qualcosa dell’evoluzione linguistica, credo si trattasse addirittura di una sorta di rivoluzione, che ha generato il portoghese brasiliano? Se non sbaglio ha a che fare proprio con il romanzo di Euclides da Cunha. In questo contesto linguistico Machado de Assis dove si colloca?

In realtà non proprio una rivoluzione. O quanto meno non unica nel suo genere. Si tratta della normale evoluzione di una lingua veicolare quando attraversa un oceano. La particolarità sta più nelle ripercussioni che un simile distanziamento ha avuto nei rapporti politico-culturali tra il Brasile e l’ex madrepatria coloniale portoghese, tema di cui mi sono occupato per la rivista tradurre. Quanto a Euclides Da Cunha, il suo, invece, è proprio un caso particolarissimo: non essendo un romanziere né in fondo un saggista, ma fondamentalmente un ingegnere prestato al giornalismo, il suo capolavoro Os sertões, nonostante moltissime pagine dallo stile maestoso (di una maestà alla Mahler, oserei dire), ha un taglio tutto sommato molto giornalistico e fattuale, addirittura tecnico, per certi versi alla Melville se vogliamo, o comunque molto affine al giornalismo storico anglosassone e soprattutto americano. Proprio per questo ha finito per avere, secondo me (ma la questione critica resta molto aperta), un’influenza enorme sulla prosa novecentesca brasiliana, forse ancor più di Machado. Ciò non toglie che Machado de Assis, per ragioni storiche, personali e di talento oltreché di mole dell’opera, resti direi incontestabilmente il punto più alto della letteratura brasiliana ottocentesca, riconosciuto unanimemente tale anche in patria. E se Euclides è forse un modello più seguito, pur senza nulla togliere alla sua particolare grandezza, ritengo che la ragione sia nel fatto che il suo stile è più facile rispetto a quello di Machado. Non tanto da leggere (Machado è di una naturalezza, di una facilità stupefacenti) quanto da rifare. L’immediatezza di Machado, infatti, la sua cultura sconfinata, la sua capacità di leggere tra le righe della storia contemporanea in modo sottilissimo e soprattutto la sua ironia, la sua incredibile capacità di essere un vero sornione metaletterario, per così dire, non è così facilmente imitabile. Non sorprende che praticamente nessuno ci abbia ancora provato.

 

Sarebbe possibile saperne di più di Machado de Assis e della sua fortuna italiana? Dalle pagine di questo suo romanzo straordinario emerge un letterato fortemente impregnato di cultura europea, cita persino il nome di Klopstock.

Machado de Assis, formatosi da autodidatta perché troppo povero per studiare (proveniva da una famiglia meticcia di origini portoghesi, poco più che operaia), era culturalmente un onnivoro vorace. Non solo dal punto di vista letterario ma anche storico, politico, sociale, di costume. La sua cultura sull’Europa, benché sia senz’altro al di sopra della media anche rispetto a un europeo, non deve sorprendere, considerando il senso di inferiorità storico (per quanto senz’altro forzosamente inculcato) delle ex colonie nei confronti dell’ex metropoli. Era naturale, per l’uomo colto, sapere tutto quanto possibile sull’Europa. Quello che è già modernissimo in lui è piuttosto la capacità di destrutturare queste sue conoscenze con un’ironia coltissima e sottile. E soprattutto il fatto che non le mettesse mai al di sopra dei fatti culturali, sociali e letterari brasiliani, di cui pure la sua opera è costellata senza nessun senso di inferiorità. Da questo punto di vista, mi sarebbe piaciuto poter inserire qualche nota in più (proprio perché Machado è più colto del lettore italiano contemporaneo – e forse di qualsiasi lettore) ma alla fine con l’editore ci siamo accordati di spiegare solo le caratteristiche tipicamente brasiliane del testo, lasciando quelle europee alla buona volontà di chi legge. Un po’ mi dispiace, perché certe ironie davvero non si colgono senza conoscere le dispute politiche in Francia all’epoca di Luigi Filippo, ma va bene così. Oggi abbiamo tutti un cellulare in tasca, è tutto più facile.

Quanto alla fortuna italiana di Machado, come ha spiegato bene Roberto Mulinacci, è relativamente ampia ma molto discontinua. A parte le traduzioni degli anni Venti e Trenta, soprattutto di Giuseppe Alpi, il primo tentativo di una traduzione non diciamo sistematica ma almeno dei capolavori cosiddetti “realistici” del suo cosiddetto secondo periodo (Memórias póstumas de Brás Cubas, Dom Casmurro, Quincas Borba – che rappresentano comunque una parte infinitesimale del grande corpus machadiano, ancora in gran parte non tradotto da noi) è di Laura Marchiori, che traduce la trilogia per Rizzoli. Ma anche qui, dal suo primo Memorie dall’aldilà (Brás Cubas: 1953) a Quincas Borba (1967) passano ben quattordici anni. Questi tre romanzi sono stati poi variamente tradotti negli anni, soprattutto da case editrici come Fazi e Lindau ma anche da case editrici più piccole, che spesso nel frattempo hanno chiuso, o ancora di stampo accademico e quindi di scarsa o nulla distribuzione. Esistono poi, tra gli anni Ottanta e Novanta con qualche punta nei primi del Duemila, le traduzioni di Rita Desti, Amina di Munno e Liliana Segre Giorgi non solo di questi e altri romanzi e novelle come Memoriale di Aires o L’alienista ma anche diverse raccolte di racconti, che sono bellissimi, per case editrici più grandi come l’UTET o Einaudi. Ma sono tutte iniziative isolate. Manca non dico un’opera omnia, ma almeno un progetto editoriale delle opere più importanti curate da uno stesso traduttore, o almeno da un gruppo affiatato che lavori insieme partendo da una visione comune. Speriamo che questo mio Brás Cubas, che segue il Don Casmurro di Gianluca Manzi e Léa Nachbin uscito nel ’97 per lo stesso editore, possa segnare l’inizio di un rinnovato interesse che preluda a un’operazione di questo genere.

 

Una richiesta di consigli di lettura: quali sono le opere indispensabili e disponibili in italiano per un lettore intento a farsi una buona conoscenza della letteratura brasiliana?

La letteratura brasiliana nasce nel Seicento con il grande prosatore gesuita (nato a Lisbona ma morto a Salvador de Bahia) Antônio Vieira e finisce… no, scusa, ovviamente non è ancora finita… allora diciamo che ricomincia con gli scrittori delle favelas e le scrittrici nere. È anche vero che se si vuole andare in libreria qui in Italia si trova pochissimo. Comunque, senza velleità esaustive che non mi competono e andando per macroperiodi, comincerei – visto che è stato da poco ritradotto da Virgilio Zanolla per Nulla die – con Iracema del grande autore romantico nonché amico e patrono di Machado (che scrisse benissimo proprio di questo romanzo) José de Alencar. Poi Machado de Assis, naturalmente, cominciando dalle Memorie postume per continuare, volendo, con gli altri due libri della trilogia ancora reperibili, ma senza lasciarsi scappare i racconti (dovrebbero essere ancora in catalogo almeno quelli nella traduzione di Amina di Munno per Einaudi: La cartomante e altri racconti). Secondo me imprescindibile, come una roccia calcarea tra i graniti, Os sertões di Euclides da Cunha, del 1902, che era stato tradotto da Cornelio Bisello per la Sperling&Kupfer nel 1953 con il titolo Brasile ignoto. L’assedio di Canudos, ma è ormai fuori catalogo da lunga pezza e chi vuol leggerlo senza recarsi in biblioteca dovrà aspettare l’uscita della mia traduzione per Adelphi. Passando al modernismo e attenendosi all’essenziale (del resto, ancor meno dell’essenziale è stato tradotto), resta imprescindibile Macunaíma di Mário de Andrade. Salto i famosi (Guimarães Rosa, Lispector – recentemente ritradotta da Roberto Francavilla per Adelphi e Feltrinelli –, Amado, anche Chico Buarque), comunque fondamentali; sono costretto a saltare la cosiddetta literatura marginal (scrittori da e sulle favelas) perché il poco che è stato tradotto secondo me non è abbastanza valido né rappresentativo; salto i poeti (ma uno sguardo almeno a Mário Quintana e soprattutto a Carlos Drummond de Andrade – di cui qualcosina è ancora in catalogo – lo darei) e arriviamo ai contemporanei. Faccio alcuni nomi da sud a nord: Moacyr Scliar, tradotto da Guia Boni per Voland (imprescindibili secondo me almeno I leopardi di Kafka e La donna che scrisse la Bibbia, ma sono tutti bellissimi), Carol Bensimon (Biliardo sott’acqua è uscito da poco per Tunué nella mia traduzione) e soprattutto Daniel Galera (di cui Sur ha pubblicato di recente Barba intrisa di sangue nella traduzione di Patrizia di Malta) che è forse il più promettente di tutti ma secondo me deve ancora scrivere il suo grande romanzo. A Rio e San Paolo c’è molto altro, ma il meglio non è stato tradotto (peccato). Forse il più grande di tutti oggi è però il mineiro Luiz Ruffato, tradotto da Roberto Francavilla per La Nuova Frontiera – purtroppo però non è stato ancora tradotto il suo capolavoro Inferno provisório, una geniale pentalogia di uno sperimentalismo linguistico pirotecnico. Infine un classico moderno: Il pane del patriarca (Lavoura arcaica), capolavoro del 1975 di Raduan Nassar, tradotto da Amina di Munno per Sur. È poco. È vago. È disperso. Bisogna cercare di più, seguire di più, tradurre di più. Il Brasile letterario è la caverna dei Quaranta Ladroni, il tesoro di Smaug, l’harem di Harun al-Rashid: chi ci entra non esce più dalla gioia.

 

La tua traduzione di Memorie Postume di Brás Cubas appaga magnificamente il doppio bisogno che il lettore avverte quando legge un romanzo scritto in epoca lontana: il gusto del testo d’antan e il volerlo sentire vicino. Qual è il segreto?

Intanto grazie per il complimento. Ma non ho molto merito. Me lo sono fatto dire da Machado… Lui usa uno stile altissimo con grandi inserti colloquiali, a volte quasi popolari. La sua prosa è intrisa di ironia, giudica e svela se stessa a ogni passo, si commenta, si prende in giro. Per giocare al suo gioco ho scelto una sintassi abbastanza elaborata cercando di spolverarla di parole e locuzioni modernissime (non tanto quanto alla loro apparizione nel nostro lessico – sono tutti termini già vivi nell’Ottocento, salvo pochissime eccezioni – quanto nell’uso: sono parole e locuzioni ben vive e in salute ancora nel Duemila). Nelle ritraduzioni, secondo me, è un errore farsi guidare da un apriorismo rammodernante o anticante, oppure – per usare una altra coppia oppositiva oggi alla moda – straniante o addomesticante (stare cioè più attenti a far sentire al lettore “lo straniero” o, viceversa, a farlo sentire linguisticamente “a casa” – come peraltro se “straniero” e “a casa” fossero concetti facili da definire e su cui siamo tutti d’accordo). Per tradurre non c’è un segreto univoco. Ogni libro ha il suo, o meglio una serie di caratteristiche che lo contraddistinguono. Basta saper ascoltare.

 

 

 

Un sentito ringraziamento a Daniele Petruccioli per questa intervista che si è trasformata in lezione, una fonte di idee e informazioni che torneranno molto utili anche nel tempo.

Copertina di Trappole e imboscate di Stanisic

Parola di bugiardo: i racconti “inaffidabili” di Saša Stanišić

Raccapezzarsi nel crocevia che è questo Trappole e imboscate (L’Orma editore, 2020) non è operazione semplice. Come promesso dal titolo, i racconti di Stanišić – padre serbo, madre bosniaca, lingua adottiva tedesca – sono disseminati di esche e illusioni, giochi di specchi e false piste già a partire dall’impalcatura instabile della raccolta, che prevede la costruzione di situazioni autoconclusive, personaggi ricorrenti (le avventure di una donna senza nome e del suo amico kosovaro Mo), racconti a puntate (lo scambio di persona in tre atti che vede coinvolto il manager Georg Horvath) e perfino di un romanzo breve suddiviso in ancor più brevi capitoli (“Trappole”, la vicenda di un tenditrappole “pifferaio” di animali che ricorda, in versione più spensierata, il Satantango di Krasznahorkai).

Operazione non semplice, si diceva, perché non semplice è stare al passo di Stanišić, da parte sua assai poco interessato ad assecondare il lettore e anzi, probabilmente intrigato dall’idea di farlo girare su se stesso a ritmi vorticosi.

Le voci narranti di questi dodici racconti (ma sono davvero dodici?) si rivelano nella maggior parte dei casi inaffidabili, se non addirittura truffaldine. Qual è il loro nome? Chi sono veramente? Che cosa ci nascondono? Inutile stare troppo a rimuginarci, le informazioni non saranno mai sufficienti a dare risposte che l’autore, candidamente, ci vuole negare. Come in una geometria escheriana non resta che accogliere il paradosso, accettare l’incongruenza, la parzialità, e persino l’assurdo.

Nella sorprendente versatilità della scrittura di Stanišić convivono (o forse si azzuffano?) le stratificazioni culturali e identitarie del suo vissuto, al punto che, come unico legame, i racconti di Trappole e imboscate sembrano avere quello dello sconfinamento, geografico (Germania, Bosnia, Brasile, Svezia, Francia), stilistico (in “Georg Horvath è di malumore” risuona il jet-lag esistenziale dei racconti di David Szalay, in “Trappole” gli stilemi della leggenda popolare centro-europea, nel poetico “In queste acque affonda ogni cosa” un realismo magico che guarisce dal trauma con l’incanto), strutturale (storie che danno origine ad altre storie, vicende “a vasi comunicanti”, personaggi che escono di scena in un finale per rientrare da un altro incipit).

Tra un cinghiale che fa la spesa al supermercato e una tortora a bordo di una Peugeot si aprono di tanto in tanto alcuni spazi per il “drammaticamente reale” – la guerra nei Balcani e in Siria, i rifugiati – con risultati a dir poco grotteschi. L’immigrazione, in particolare, viene più volte osservata tramite due punti di vista contrastanti: dall’alto il tentativo di integrazione posticcia, dal basso il disprezzo nei confronti dello straniero.

«E poiché i rifugiati non dovevano solo starsene seduti in casa, ma anche integrarsi, l’Associazione per la preservazione della Storia li scarrozzò al campo per fargli potare gli arbusti e liberare i sentieri. Ci misero un istante, e subito dopo l’Associazione per la preservazione della Storia tenne una conferenza su sedie da campeggio accanto alla gabbietta per le taccole. Argomento: “Le relazioni con gli stranieri nel corso dei secoli”».

«A Bad Belzig era stata appena picchiata una somala incinta, e ci si chiedeva in che modo la donna potesse aver provocato le percosse».

Quando nel 2019 Stanišić si aggiudicò il Deutscher Buchpreis con il romanzo Herkunft, la giuria sottolineò giustamente nelle motivazioni la capacità dell’autore di sollecitare «i lettori, liberandoli dalle convenzioni della cronologia, del realismo e dell’univocità formale», anche se, a onor del vero, il gusto per la divagazione e l’insistente ricerca di uno humour strampalato non consentono, a tratti, di entrare dentro questi racconti, è come se si rimanesse sempre sulla soglia, indecisi se partecipare a uno spettacolo al quale non si è sicuri di essere stati invitati.

Un’incertezza che non combacia certo con l’indifferenza, perché impossibile è rimanere indifferenti di fronte alla destrezza di un narratore impegnato in un continuo processo di reinvenzione e ridefinizione della sua realtà. Come dice uno dei suoi personaggi: «Se è buono, anche un bugiardo merita rispetto».

 

(Saša Stanišić, Trappole e imboscate, trad. di Giovanna Agabio, L’orma editore, 2020, 256 pp., euro 18, articolo di Martin Hofer)

 

Poster del documentario Notturno

Ora tocca a noi

Gianfranco Rosi torna al cinema con un nuovo documentario, Notturno, il cui titolo rappresenta un’ambientazione (esterna), e lo specchio di stati d’animo (interiori) tutt’altro che luminosi. Quanti significati, infatti, possiamo attribuire alle parole “notte” e “confine”? Al di là delle definizioni prettamente fisiche e geografiche, esistono: le notti dell’anima e gli spiriti notturni, i confini morali e quelli sociali, i nottambuli e gli uomini senza limiti, i tipi che hanno paura di tutto, anche della notte e dei confini. 

Poi, se abbiniamo queste due parole a varie zone del mondo, ne possiamo ottenere un’altra, molto meglio definibile: guerra. Allora, la notte e i confini diventano terreni accidentati, nei quali già muoversi (figuriamoci viverci) è assai pericoloso. Soprattutto per le popolazioni che nulla hanno a che spartire con le lotte di potere: donne, bambini e malati. La vita, che continua a scorrere con gli stessi tempi di un’esistenza normale, non vede le stesse notti e non attraversa gli stessi confini.

Gianfranco Rosi, nel suo Notturno, racconta appunto del tempo scuro vissuto dai civili tra i confini del Medio Oriente, laddove la notte e il giorno non trovano alcuna distinzione, se non nell’alternanza di buio e luce, perché il sole non splende mai nel film: il cielo è sempre una coltre color antracite, che definisce il paesaggio con i toni della tristezza interiore. La quotidianità di un ragazzo che va a pescare col buio, o di un bambino costretto a cercare lavoro ogni giorno sotto nuvoloni grigi e minacciosi, si intreccia con la normalità di uomini e donne che, pur abbracciando un fucile o guidando un carro armato, temono il freddo e soffrono il mal di schiena. Quello che interessa a Rosi non è raccontare la guerra delle battaglie e delle uccisioni, ma cogliere la vita di chi, ogni giorno, si perde con lo sguardo nel notturno dei confini che lo circondano. Non ci sono giudizi ufficiali sugli oppressori o sui vinti, come non esiste uno schieramento evidente a Occidente oppure verso Oriente; i cattivi sono tutti, indistintamente: i dittatori del posto e quelli venuti da fuori, gli americani che colonizzano e l’Isis che tortura i bambini. 

In Notturno Gianfranco Rosi torna a raccontare gli innocenti, che stavolta sono i bambini che lavorano per sfamare i fratelli e i giovani che si ingegnano per trovare da mangiare; i bambini che portano le cicatrici della guerra sulla pelle e i giovani che muoiono lasciando le madri da sole; i bambini che decidono di non tacere le violenze subite e i giovani che intraprendono la fatica di una vita da soldati. 

A tessere le fila della storia di Rosi ci sono i malati di mente, che, sullo sfondo, mettono in scena la tragedia dei confini violati, dei dittatori sostituiti da tiranni peggiori, delle monarchie e delle repubbliche svuotate di senso. In questa recita corale si può scorgere il senso vero di Notturno: altro che America o Medio Oriente, ora “tocca a noi”, civili innocenti, dire la nostra, raccontando al mondo che siamo uomini come tutti gli altri, né migliori né peggiori, solo più dannati perché ingabbiati nei confini dove la notte sembra ancora troppo lunga. E da troppo tempo.

(Notturno, di Gianfranco Rosi, 2020, documentario, 100’)

 

Funghi Bertora racconto

Funghi

Irene tira fuori una pila di piatti fondi e li sistema accanto a un’enorme ciotola, dentro cui quel che resta di una lepre sta marinando in un bagno di Barbera e bacche di ginepro.
«Ora vai a preparare la sala», le dice la madre, senza alzare gli occhi dal soffritto di cipolle bionde, sedano e carote.
È sabato mattina, il sole ancora caldo di fine settembre promette almeno quaranta coperti. Non sono ancora le nove e il vecchio ristorante odora già di aceto e brodo di carne. Irene odia svegliarsi con la stanza invasa dai vapori dei fagiolini messi nella pentola a lessare prima delle sette.
I libri restano chiusi nello zaino: non c’è tempo per studiare filosofia in un fine settimana di bel tempo. Bisogna scendere in fretta dal letto, persino un po’ prima dei giorni di scuola, come se ci fosse da prendere il bus che passa alle sei e cinquanta, con l’autista arrabbiato con la vita che non aspetta nessuno.
Da quando sono rimaste solo lei e sua mamma, giù al ristorante deve darsi da fare il doppio, e Anassimene di Mileto può aspettare. La filosofia a scuola l’hanno appena cominciata, ma Irene ha già capito che le piace. A Irene piace la gente che cerca risposte a domande gigantesche. Invece detesta chi vede il sole al mattino e carica sulla macchina valige e bambini per fare trecentocinquanta chilometri e mettersi a mollo in mare per mezza giornata. Mentre dispone i piatti sui tavoli, vede il traffico già aumentato sulla statale attraverso le tende di velo color pesca della sala. Macchine familiari stipate di canzoni per bambini e battibecchi di adulti sfrecciano in quel tratto di paesi di poche anime e campi di fagioli. Sono diretti a ponente e, per risparmiare un po’ di euro e di coda in autostrada, passano per il colle e ancor prima di qui. I più ritardatari saranno da queste parti tra qualche ora e, buttando l’occhio in giro, decideranno di fermarsi a pranzare lungo la strada. Qualcuno mangerà nel loro ristorante. Le donne non si toglieranno gli occhiali da sole, entrando guarderanno con un leggero disgusto le sedie scelte da sua nonna nel mobilificio di Garessio. Le ha pagate ventimila lire l’una, nel 1972. Hanno la seduta morbida di pelle scura, non se n’è tagliata nemmeno una. Ogni tanto Irene sfoglia il sito dell’IKEA, dove non è mai stata, sogna di comprare nuove sedie di legno chiarissimo, di coprire le pareti di stucco veneziano con un bianco svedese, di riempire la sala di quadri con pietre e getti di bambù, anziché le vecchie foto dei bisnonni che raccolgono castagne.
Le donne si siederanno, chiederanno per sé un’insalatina leggera e apprenderanno con una smorfia che di contorno hanno solo fagiolini al burro o crauti. Opteranno per i fagiolini e del petto di pollo ai ferri. Se ne andranno e non torneranno più. Prima di andarsene porteranno via una confezione di fagioli secchi coltivati dietro al ristorante da suo zio, quelli che tengono in bella vista vicino alla cassa. Un sabato di maggio, una donna di passaggio con gli occhialoni da sole e una coda di cavallo stretta dietro alla testa è tornata e si è portata via suo padre, senza nemmeno comprarsi i fagioli.
«Che stronzo», dice scrollando la testa, mentre posa i tovaglioli di fiandra ai lati di ciascun piatto.
Gli avventori uomini, insieme alle donne anziane, sono più curiosi, vogliono sentire l’intero menù. Si lasciano tentare dagli antipasti sott’olio, osano con gli agnolotti e il civet. Chiedono: «E i funghi ci sono?» in qualsiasi stagione. Vogliono i funghi a luglio, ad agosto, a gennaio. È proprio quando pronunciano quella domanda: «E i funghi ci sono?» che lei realizza di disprezzarli. Come forma di protesta silenziosa per quelle invasioni del sabato mattina, Irene ha preso a rispondere sorridendo: «No, mi spiace, non ci sono». A volte è vero, a volte no. Nei giorni in cui suo zio ne ha trovati e sua madre li ha fritti, lei entra coi vassoi pieni in sala, ma li serve solo agli avventori del posto, in porzioni generose. Poi riporta i vassoi vuoti in cucina e la madre non si accorge di quella piccola forma di resistenza. Quanto ai vacanzieri di passaggio, la maggior parte non fa osservazioni. A quelli che avanzano pretese, lei risponde alzando le spalle con aria innocente e pregandoli di prenotare, la volta successiva. Ma tanto non tornano mica.
Solo una volta una famiglia di Fossano ha chiamato un venerdì per prenotare i funghi. Ha risposto suo padre, così l’ha scoperta. Si è arrabbiato, l’ha minacciata di non farla andare più a scuola. Non è che avesse molto altro da toglierle. A sua madre non l’ha detto, anche quella è rimasta un’intimidazione, che si è smaterializzata insieme a lui sul lato passeggeri di un Lancia Ypsilon viola melanzana, un sabato di maggio che persino pioveva.
Irene torna in cucina con un piccolo vassoio a ruote per prendere ottanta bicchieri, due per ogni coperto, stessa foggia taglie diverse. Sua madre, i capelli nascosti sotto una cuffietta bianca, piange mentre governa l’arrosto. Piange piano, non fa rumore. Irene glielo vede fare spesso da quando suo padre è andato a vivere a Mondovì con quella signora e i suoi due figli adolescenti, ma non sa bene che cosa dirle. Allora finge di non accorgersene.
«Ma’, va bene se oggi metto solo un bicchiere, così finiamo prima di lavare?»
«No, tesoro, mettine due, che poi la gente se ne va scontenta», dice, tirando su col naso, «poi non torna, dobbiamo chiudere e io non so fare nient’altro».
«Che palle, Ma’», dice secca, ed esce subito dalla cucina.
Sente che sua madre sta per cominciare uno di quei discorsi in cui usa un sacco di Oh bambina mia e ripete che non c’è motivo di essere arrabbiati con la gente di città che se ne va al mare, che ognuno ha un posto che è casa e un modo per vivere, che questo è il loro ed è un bel posto ed è un bel modo. Irene non vuole starsene di nuovo lì zitta ad ascoltarla senza poterle dire che no, non è per niente d’accordo. Non vuole contrariarla, non vuole vederla piangere più di così, ha paura che l’acqua le esca tutta e poi le cellule collassino e lei non sia più capace di alzarsi in piedi. Morta di pianto. Non se la sente di essere orfana.
Irene non pensa affatto che il loro sia un bel posto e un bel modo, ma non lo dice a sua madre. Quello che fa per manifestarlo senza dirlo è negare i funghi agli avventori. Irene vorrebbe andare al mare il sabato mattina, vorrebbe svegliarsi sentendo il profumo del cuscino o della colazione, non del pranzo di qualcun altro. A Irene, oggi, basterebbe che Daniele si fermasse a pranzo al ristorante.
È da questa primavera che ci pensa. Sul diario scriveva: 23 aprile, forse ho capito com’è quando ci si sente folgorati. Scrive al massimo un paio di frasi ogni giorno. Non lo fa la sera, ma ogni mattina dopo averci dormito su. Non usa mai parole scontate, non le piacciono. Quando ha scritto folgorati intendeva innamorati, ma è una di quelle parole che ritiene che una come lei non debba usare.

Sul diario ha scritto: 30 maggio, so come si chiama, lo spio sui social senza contattarlo, sono un’idiota.
«Affetta il pane», le ordina la madre, che sta preparando la pastella con cui friggerà i funghi, «poi vieni qui, oggi li friggi tu».
«Ma’, che dici? Non li so fare», protesta Irene, sorpresa.
«Sì che li sai fare, li facevi con nonna Zina».
«Avevo sette anni».
«Dai, su, non ho tempo di discutere, sbrigati».
Irene si stringe dentro alla felpa granata un po’ deformata, infila la testa dentro al cappuccio, esce sul retro a recuperare i sacchi di pane. Dà un’occhiata al cellulare, sa da un social che Daniele oggi andrà nella casa al mare dei suoi nonni. Spera si fermi, ma odia che lui la veda di nuovo lì a servire ai tavoli, odia sapere che di lei sentirà odore di funghi fritti. Odia che lui non sappia che a lei piace la filosofia. Odia che lui non sappia che lei vorrebbe suonare il violoncello, che guarda degli stupidi tutorial la sera prima di coricarsi e suona una sagoma di cartone che tiene nell’armadio. Odia il fatto di pensare spesso a lui sapendo che lui conosce a malapena il suo nome.

28 luglio, è passato al ritorno, si sono fermati per una birra, ma mia madre a lui che guidava ha dato solo un caffè. Mi ha chiesto cosa sto leggendo. Anna Karenina, ho risposto. Ha occhi blu, puliti, credo che Levin li avesse così.
«Condisco i tomini?», chiede alla mamma, che ha il viso inondato dalle sue lacrime silenziose mentre affetta i porcini. Non si prende nemmeno più la briga di asciugarsele via, le gocce prendono le vie naturali del viso per ricadere sul grembiule spesso.
«No, friggi i funghi».
«Dai, no».
«Friggili».
Irene riunisce i capelli in una crocchia irregolare e si mette al lavoro. Fetta, uovo, pangrattato, olio caldo, carta assorbente, vassoio. Nuova fetta, uovo, pangrattato, olio caldo, carta assorbente, vassoio. Una cantilena che riempie cinque vassoi. Li sistema nel forno acceso a ottanta gradi per tenerli in caldo. Non sono ancora le undici e il pranzo è pronto per almeno quaranta persone.
Irene sale nel piccolo appartamento al piano di sopra, vuole lavarsi i capelli per togliersi l’odore di unto che hanno assorbito. Ha detto alla madre che sarebbe andata a recuperare delle olive taggiasche nel cucinino, ma entra nella doccia. Passa la lametta nell’incavo delle ascelle e sui polpacci. Sogna che Daniele la porti al mare con lui e i suoi amici. Sa che è impossibile, è per quello che non osa confessarselo.
Esce dalla doccia, si arrotola un asciugamano intorno ai lunghi capelli ricci. Non vuole accendere l’asciugacapelli, se no la madre quando scende le chiederà perché si è lavata proprio ora e non le va di raccontarle nulla. Le madri vedono sempre cose da raccontare anche quando non c’è niente da dire. Arriva una notifica sul cellulare: «Come stai?». È suo padre, che non si è mai accertato che stesse bene o male in tutta la sua vita e ora lo fa via etere. Impostazioni, audio, modalità silenziosa senza vibrazione. Si infila i jeans e una maglietta pulita, raccoglie i capelli in uno chignon stretto.
«Aiutami col tiramisù», le dice la madre non appena è nuovamente a portata di sguardo.
«Ma’, vorrei studiare un po’ prima che arrivino tutti».
«Va bene», risponde la mamma, concentrata sulla geometria dei savoiardi nella teglia di ceramica a fiorellini.
Irene fa per andarsene, ma le prende una strana tenerezza, che la fa fermare.
«Dai, spostati: li bagni di lacrime invece che di caffè», le dice con un tono gentile che non usa mai con nessuno. Forse col gatto.
La mamma si pulisce le mani in uno strofinaccio, appoggia lo sguardo su un punto imprecisato della parete, tra la finestra e il quadro della Madonna.
«La vuoi smettere di pensare a lui? Non ti ha mai portata al mare in diciannove anni: non ci si fida di uno che non ti porta al mare».
La mamma annuisce, le si mette accanto sfiorandole un fianco, comincia a spalmare la malta del mascarpone per dare forza al muraglione di savoiardi.
È strano stare così vicine, chine sulla stessa teglia, strano che quella vicinanza oggi non le dia fastidio.

Sul diario, qualche settimana fa, ha scritto: 23 agosto, Daniele ha detto che per un po’ non passerà più. Studia per l’ammissione all’università, Fisica. Anche io all’università voglio andare a vivere a Torino. Quanto in fretta possono passare questi tre anni?
«Preparati, tra poco arriva la gente», le dice la madre.
Irene si allaccia un grembiule corto blu notte, di quelli che ha visto una volta in una vineria di Ceva. Se l’è cucito lei con la vecchia macchina di nonna Zina. Sale nell’appartamento, si è ricordata che c’è da dare da mangiare a Mirtilla. La trova sulla piccola poltrona di stoffa accanto al suo letto. Sul tavolo c’è il suo cellulare. Riattiva, inserisci la sequenza, notifiche, papà: «Non fare la stronza, servi i funghi».
«Ma vaffanculo» dice ad alta voce. Mirtilla si sveglia, stira le zampe davanti, arcua il dorso, si avvia verso la ciotola nel cucinino. Irene intercetta la sua traiettoria, la prende e se la porta al petto, infila il naso nel suo pelo morbido. È calda, sente il piccolo cuore tamburellare sotto le dita. È l’unico essere vivente con cui parla liberamente negli ultimi tempi.
«Dai, vieni che ti do due crocchine» si rivolge al gatto con quella voce dolce che riserva alle creature che considera più vulnerabili di lei. Si siede sul pavimento accanto a lei, la guarda sgranocchiare rapidamente il suo spuntino.
«Come fai a stare dentro questa casa tutto il giorno? Non ti viene voglia di andartene, anche solo per curiosità?», le chiede.

Sul diario ha scritto: 8 settembre, giornata terribile. Sono quattro mesi che lui se n’è andato, lei e io da sole. Mi pareva stesse meglio e invece s’è dimenticata di preparare i dolci. Facevamo meglio a scrivere “chiuso per lutto”, anzi “chiuso per abbandono”. È passato Daniele con un’amica bionda. Lei mi ha detto di chiamarsi Elisa. Lui non mi ha parlato. La fisica mi fa schifo, non è per niente vero che è un altro modo per rispondere alle stesse domande. Non c’è niente di più diverso dalla filosofia.
Sente un’auto fermarsi in cortile. Si alza di scatto, scende in fretta le scale. Sa che il suo posto per le prossime tre ore sarà tra la cucina e la sala, sa che non dovrà fare altro che obbedire. Si ferma un’altra auto, poi un’altra, un’altra ancora. Il piccolo parcheggio e la sala si riempiono rapidamente, all’una i tavoli sono quasi tutti pieni. Irene passa con gli antipasti, ne versa con mano inaffidabile nei piatti di chi glieli ha ordinati. È facile per le pietanze che si possono servire a pezzi: due tomini, tre fette di salame. Ma quando tocca all’insalata russa, quant’è grande un cucchiaio? Ogni porzione la fa diversa, ma non c’è nessun altro che lo può fare meglio di lei. Non c’è nessun altro che lo può fare al posto suo. Lo fa e basta, senza pensare, la rabbia e la paura ben schiacciate tra i molari.

Sul diario, ieri ha scritto: 22 settembre: gli ho mandato un messaggio. Gli ho scritto che quando passa per andare al mare, voglio che mi dia un passaggio per andarci anche io. E se non passa? E se mi ci porta sul serio, poi che ci faccio? Che deficiente che sono.
Ripete a memoria, tavolo per tavolo, i primi: agnolotti al ragù, risotto alla salsiccia, minestrone di verdure, pasta in bianco per i bimbi. Tiene a mente diligentemente ogni scelta, sorride solo ai bambini. Riferisce a sua madre il numero di porzioni e poi torna con mani e avambracci pieni di piatti caldi e pieni. In quell’equilibrismo è diventata brava nelle settimane. Non ha mai fatto un solo giorno di festa, un solo bagno al mare, quest’estate, ma è diventata esperta a non far cadere nessun piatto a terra. Ha scoperto che basta concentrare lo sguardo su un punto preciso e lei, in genere, fissa un agnolotto – gli agnolotti sono una portata fissa nel loro ristorante. Non uno qualsiasi, un agnolotto specifico, perimetrale, disposto allo zenit del piatto che porta nella mano sinistra.
Tornando a mani vuote verso la cucina, sfila il cellulare dalla tasca del grembiule corto. Due messaggi. Papà: «Lo so che leggi, fallo per la mamma, servili». Daniele: «Con Elisa abbiamo fatto tardi, oggi non passiamo. Buon weekend».
Sul diario, domattina, scriverà: 24 settembre: ho buttato i funghi nel bagno di casa. Ho preso il pullman e sono venuta al mare, ho dormito in spiaggia. I miei capelli sanno di salsedine.

 

Chiara Bertora è nata a Tortona nel 1980, ma vive da sempre a Collegno, la città dello Smemorato, sentendosi torinese nel profondo. Ha lavorato a lungo nell’ambito della ricerca scientifica e, dopo diversi anni, si accinge a imbarcarsi in una nuova avventura professionale. Ha pubblicato racconti su Carie, DieciCento Risme, e ha contribuito con un racconto all’iniziativa “Come Salmoni” dell’agenzia editoriale Lorem Ipsum. Dal 2015 scrive il blog Erodaria e dall’anno scorso è alle prese con la stesura del suo primo romanzo.

 

Editing del racconto a cura di Daria De Pascale

Fonte immagine: Christine Siracusa su Unsplash

Sto pensando di finirla qui poster italiano

Il mondo è più grande della nostra testa (?)

Per avvicinarsi a Sto pensando di finirla qui, ultimo film scritto e diretto da Charlie Kaufman, occorre porre ai blocchi di partenza due domande. La prima è esplicita: chi è Charlie Kaufman? Charlie Kaufman è chi decide di essere a seconda di ciò su cui sta lavorando ma, contemporaneamente, è sempre la stessa persona. Una persona, non c’è dubbio, stramba agli occhi dei più, che di quella stramberia ha fatto il suo marchio di fabbrica declinandola in modi sempre inattesi e più o meno geniali, da Essere John Malkovich (1999) a Synecdoche, New York (2008), passando per il notissimo Se mi lasci ti cancello (2004).

Titoli iconici, che ci hanno insegnato cosa aspettarci da Kaufman e, allo stesso tempo, che da Kaufman possiamo aspettarci di tutto.
La seconda domanda da cui partire è quella, implicita, che aleggia su tutto il film, insieme alla neve incessante che ne è uno dei bassi profondi. «C’è solo una domanda», dice una misteriosa voce fuori campo: non conosceremo né la domanda, né tantomeno chi l’ha posta.

Ecco che, da subito, Sto pensando di finirla qui ci richiama all’azione: esige da parte nostra un ruolo attivo, non di fruizione passiva – in attesa che qualcuno ci spieghi come vanno le cose o che ci dica di stare tranquilli e di goderci lo spettacolo, come nel recentissimo Tenet di Nolan – ma di interpretazione, lettura e partecipazione. Va da sé, questo non è il modello di cinema cui siamo abituati: tutto questo ci spiazza, costringe alcuni di noi a interrompere la visione, a difendersi con l’indignazione o con una risatina isterica.

Non si deve biasimare nessuno, in questo senso: sono fondate le tante definizioni anche negative che vengono date del cinema e della poetica di Kaufman. “Intellettuale”, “snob”, “arrogante”: tutto vero, forse più che mai in Sto pensando di finirla qui. Ci sono, tuttavia, degli autori che su queste parole hanno costruito la loro forza, che in un certo senso si fidano del pubblico a tal punto da disturbarlo programmaticamente. David Lynch, Lars Von Trier, il nostro Charlie Kaufman, ecco cosa hanno in comune: il cinema è azione bilaterale, atto/patto condiviso da entrambe le parti dello schermo, non puro intrattenimento, e non ci sono compromessi.

Il senso di Sto pensando di finirla qui è tutto in quella domanda non posta, nei silenzi e nei vuoti da riempire che essa crea: cosa vorrà dire quella voce? “Chi siamo”? “Dove andiamo”? “Perché”? Non c’è una risposta giusta, non c’è una risposta sbagliata: così funziona la mente umana, così funziona questo cinema che la filma.

Ma quindi di cosa diavolo parla Sto pensando di finirla qui?
Lucy (Jessie Buckley) è una studentessa di virologia; da circa un mese e mezzo frequenta Jake (Jesse Plemons), e i due stanno compiendo uno dei canonici “passi avanti” di coppia: Jake sta portando Lucy a conoscere i suoi genitori, che abitano in campagna. Lucy è consapevole della presunta importanza dell’evento, e forse è proprio questo che fa crescere in lei l’idea di chiudere la relazione. Finirla qui.

A questo punto tutto ciò che c’è di strano, di non lineare nel film – e cioè tutto il film, da qui in avanti – fa il suo ingresso. Un ingresso non trionfale e strombazzato ma sommesso, ritmato, morbido, come l’inverno che arriva attraverso la neve che cade. Questa nevicata accompagnerà tutto il viaggio di Lucy e Jake, all’andata e al ritorno, fino alla fine: una neve allegorica, che simboleggia il film e la mente umana, arrivando piano per trasformarsi a poco a poco in una bufera che copre tutto il resto.

La neve è correlativo oggettivo del pensiero o, ancora meglio, di ciò che sta in maniera bruta dentro la nostra testa, che è a sua volta il contenuto del film. È così che Sto pensando di finirla qui cessa di essere un film “normale”, che lo spettatore possa confinare entro limiti concettuali di sorta, per diventare un viaggio onirico, surrealista e visionario all’interno della psiche umana.

Fa la sua comparsa sulla scena, a questo punto, la più grande influenza per così dire “strutturale” del film, che non è tanto il cinema, quanto il teatro. Sto pensando di finirla qui inizia, a partire dal lunghissimo dialogo di Lucy e Jake in macchina, ad assumere la forma di una pièce teatrale: i due attori assumono registri comunicativi e linguistici diversi, come se interpretassero ogni volta un differente ruolo sul palco. Lucy può così diventare poetessa e, dopo qualche reticenza («non sono pronta a esibirmi qui», dirà: la macchina, becero elemento di realtà quotidiana, diventa davvero un palcoscenico), recitare una poesia che scopriremo non essere sua, guadagnandosi i complimenti di Jake, che a sua volta cita William Wordsworth e i suoi Lucy Poems.

Il primo atto di questo dramma dell’assurdo cinematografico si conclude con l’arrivo alla casa dei genitori; dalle reminiscenze beckettiane, forti e chiare nel paesaggio allucinato di una strada senza destinazione e senza nome, si passa all’influenza di Eugene Ionesco. La casa-fattoria dei genitori di Jake assume i contorni di un ambiente non spettrale ma sicuramente inquietante, dove «la vita può essere brutale», perché gli agnelli che muoiono vengono lasciati a congelare e i maiali vengono mangiati vivi dai vermi senza che nessuno se ne accorga, per poi essere serviti a cena con orgoglio («stasera tutti prodotti della fattoria»).

È proprio entro queste mura domestiche che Sto pensando di finirla qui scopre definitivamente le sue carte: la madre e il padre di Jake (i bravissimi Toni Colette e David Thewlis) sono due personaggi che incarnano proprio il grottesco estetico, brutti, trasandati, sghembi e pieni di tic. Il resto lo fa la scrittura di Kaufman, che dà vita a un ibrido tra horror e commedia surrealista d’interni, muovendosi tra i classici haunted-house movies e i film di Buñuel: grazie a questa atmosfera capiamo che ciò che viene narrato non sta succedendo.

Lucy perde il suo nome, la sua identità sfuma, ma noi spettatori, dal punto di vista narrativo, assumiamo ancora il suo punto di vista: è per questo che, a metà del secondo atto, il film impazzisce e perde il controllo, proprio come lei, proprio come noi, che cominciamo a mettere in pausa disorientati.

Chi è Lucy/Louisa/Lucia? Non lo sapremo mai, non lo sa nemmeno lei, ma d’un tratto cessa di essere importante. Ciò che conta davvero, adesso, è «il tempo che passa attraverso le persone, come il vento»: è questo che Kaufman fa scorrere attraverso gli occhi e i gesti della giovane studentessa/infermiera/cameriera, che vede i genitori di Jake in vari momenti della loro vita. Non vediamo uno spazio reale, assistiamo piuttosto alla spazializzazione, alla visualizzazione del tempo, o almeno di una percezione di esso, del tempo di una mente. Ma la mente di chi? Di Jake: eccolo (forse) il vero protagonista!

Così comincia il terzo atto di Sto pensando di finirla qui: il viaggio di ritorno nella notte spazzata dalla bufera. Anche questa volta, come all’andata, la macchina è teatro del tentativo di verbalizzare il proprio inconscio senza freni, una sorta di stream of counsciousness di joyciana memoria in cui Lucy/Louisa/Lucia si trasforma in critica cinematografica e recita (letteralmente, guardate qui) una recensione di Una moglie di John Cassavetes, e in cui Jake monologa a proposito di Guy Debord e David Foster Wallace. Di nuovo un viaggio interminabile, rotto nella sua monotonia però dalla sosta in una gelateria che sembra (è?) uscita da un altro tempo. Si riparte, con un’altra oggettificazione del grottesco: due gelati da mangiare durante la tormenta di neve.

All’altezza del quarto atto il film, ormai decisamente esploso in mille pezzi come la mente di Lucy/Louisa/Lucia, quella di Jake e la nostra, si rivolge su sé stesso, e ci riporta a qualcosa che ci ha accompagnato per tutta la sua durata senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché chi era quel bidello che abbiamo visto per tutto il tempo in un montaggio alternato rispetto al viaggio dei due giovani?
Siamo finiti con la macchina di Jake davanti al suo ex-liceo: un bidello, una scuola con un pick-up parcheggiato nella neve, avremo sicuramente delle risposte!

Sto pensando di finirla qui si fa apertamente beffe (in maniera anche, va riconosciuto, potenzialmente molto indisponente) di quelli, tra noi, che ancora a questo punto pensano che avranno delle risposte: verranno messi K.O. dal finale.

La verità è che non c’è un senso nel tempo, nell’invecchiare, nel perdere la memoria, nell’assistere alla degradazione e al decadimento del proprio corpo e del proprio cervello, o di quello di qualcun altro; non c’è un senso nella speranza, che è quella cosa che gli uomini si sono inventati per far fronte alla consapevolezza che un giorno moriranno tutti; non c’è un senso nel voler lasciare una traccia imperitura nel mondo, e quindi nel voler essere all’altezza delle aspettative che gli altri hanno di noi; non c’è un senso nel guardarsi da fuori e giudicarsi in base alla quantità di aspettative rispettate, di premi ricevuti, di oggetti posseduti, di livelli superati, di obiettivi conseguiti; non c’è un senso nel guardare un film e nell’esserne rapiti tanto da rimanere con gli occhi fissi oltre i titoli di coda, nella certezza amara che la vita non è come nei film; non c’è un senso nel guardare questo film, che non ha un senso, ma li ha tutti quanti.

In tutto questo non c’è un senso, ma lo facciamo lo stesso. Perché lo facciamo? Perché abbiamo una mente e una coscienza, purtroppo o per fortuna. E il risultato è il pensiero più umano e anti-umano che ci sia: Sto pensando di finirla qui.

Ecco perché Kaufman è così geniale, ecco perché disturba così tanto, ed ecco di cosa ci parla: non di Lucy e della sua interiorità, non di Jake e delle sue debolezze, ma di due menti che possono essere le menti di tutti. Dalla nascita ai vermi nascosti sotto la pancia, che ci mangiano vivi senza che nessuno se ne accorga.

(Sto pensando di finirla qui, Charlie Kaufman, 2020, drammatico, 135’)

 

Copertina di Di sangue e di ferro

Il depistaggio di Quarin

Di sangue e di ferro di Luca Quarin (Miraggi Edizioni, 2020) è un romanzo imperniato sul depistaggio: la parola chiave che accompagna il lettore dall’inizio alla fine. La vicenda prende spunto dalla strage di Peteano del 1972 in cui rimasero uccisi tre carabinieri. Peraltro quella è l’unica strage messa in atto dall’estrema destra, durante gli Anni di piombo, che ha un reo confesso, che ha rivendicato l’attentato e se n’è assunto la paternità. Per tutte le altre stragi di matrice nera, invece, abbiamo ipotesi, sentenze e condanne ma nessuna ammissione da parte dei colpevoli processuali che continuano a professarsi innocenti – penso a Fioravanti e alla Mambro per la strage di Bologna.

Il protagonista di Di sangue e di ferro si chiama Andrea Ferro (e qui c’è già un cortocircuito con il titolo). Andrea Ferro è figlio – e orfano – di una coppia morta in circostanze poco chiare, subito dopo la strage di Peteano. Probabilmente vittime di quel primo depistaggio attuato dalle forze dell’ordine che, inizialmente, avevano posto la loro attenzione sulla matrice di origine comunista. Qui comincia il primo intreccio fra fiction e Storia che Quarin applica per tutta la narrazione. Anche i documenti che riporta, articoli di giornale, atti della Commissione stragi, si alternano fra reali e di fantasia depistando spesso il lettore. E sull’aggettivo “reale” bisognerebbe aprire un capitolo nel suo rapporto col “vero”, che mi riservo di approfondire più avanti.

Ferro è un cinquantenne precario, assistente universitario, che per arrotondare legge manoscritti per una casa editrice e si diletta a suonare cover di country americano. Vive a Torino ma è di Udine. E a Udine torna poiché sua nonna Antonia, con cui è cresciuto alla morte dei genitori, sta male: soffre di demenza senile ed è in fin di vita. Questo ritorno alle origini spinge Andrea Ferro a voler recuperare la memoria storica delle vicende personali che intrecciano quelle storiche. Vorrebbe chiedere aiuto a sua nonna, che nei pochi sprazzi di lucidità gli dà informazioni che poco dopo però, riassalita dalla demenza nega o cambia. È così che si attua un nuovo depistaggio: il ricordo è verità? La memoria riconduce alla realtà?

Rieccoci dunque all’indagine su cui si concentra Quarin nell’intera narrazione. Qual è il rapporto tra realtà e verità? A pagine 105 l’autore fa dire a un suo personaggio che «la storia spesso non sa che cosa farsene della verità». E allora poco più avanti Andrea Ferro si chiede se tocca a lui «ristabilire la verità? O toccava alla verità trovare la strada per rimettere al loro posto le cose?».

Ma cos’è questa verità che il protagonista cerca? In realtà non lo sa neanche lui; comincia attraverso la ricostruzione dei fatti che portarono i suoi genitori a morire perché implicati nella strage di Peteano, ma pian piano perde aderenza alla realtà, incalzato da uno scrittore di cui sta leggendo un manoscritto, che non fa che scrivergli mail petulanti, fastidiose e talvolta aggressive.

Qui il primo colpo di scena. Lo scrittore che infastidisce Andrea Ferro si chiama Luca Quarin. Si crea allora un cortocircuito metanarrativo, che rimanda subito al racconto Città di Vetro della Trilogia di New York di Paul Auster, quando il detective Quinn si imbatte appunto in Paul Auster. Così Quarin continua il suo personale depistaggio, come i famigerati servizi deviati, fino a stuzzicare Ferro che prende a odiarlo, a detestare il manoscritto e le mail che gli scrive, fino a desiderare di malmenarlo. È a questo punto che si svolge una delle scene più belle e autoironiche del romanzo, quando Andrea Ferro in un bar è convinto di riconoscere in un avventore Quarin, e gli si lancia addosso e lo picchia. Purtroppo per Ferro il tipo non è Quarin, il quale invece seguiterà a pedinarlo, a osservarlo da lontano, a porgli domande fastidiose e a minargli anche le poche certezze letterarie e intellettuali.

Il romanzo raggiunge così l’apice; Andrea Ferro si trova chiuso e schiacciato da due Luca Quarin, da un lato l’autore, dall’altro il personaggio, che a sua volta è autore in un gioco di specchi destinato a propagarsi all’infinito. E come per magistrati e storici diventa complesso farsi largo tra documenti e testimonianze, spesso false, per ricostruire i fatti e i colpevoli delle stragi, così per Ferro diventa complesso comprendere quale realtà stia vivendo, quale sia il suo passato e la sua identità. A quel punto, finisce per pensare che «un giorno sarebbe toccato anche a lui precipitare giù dalla sua storia, […], come capita a tutti quanti».

Di sangue e di ferro è prima di tutto un romanzo metaletterario; è anche vero però che, grazie a una scrittura incalzante, si ha sempre l’impressione che stia per succedere qualcosa di imprevedibile a livello di plot. In questo modo, una trama si crea per forza di cose. Ecco un altro punto a favore di un romanzo che altrimenti rischierebbe di essere troppo cerebrale, e invece riesce a coinvolgere il lettore.

Anche se una critica la si può muovere a Quarin, soprattutto nelle prime pagine, quando si ha l’impressione di un certo autocompiacimento stilistico, quando cerca a tutti i costi il guizzo lessicale o talvolta quando esagera in alcune descrizioni da realismo isterico di una letteratura di fine Novecento, inizi Duemila.

A ogni buon conto sono parecchi gli spunti e gli interrogativi di natura critico-filosofica (anche qui, forse troppi?) che fornisce l’autore, uno su tutti è l’attacco al genere letterario dell’autobiografismo e a quello dell’autofiction, definiti generi di stampo sovranista. Questa di Quarin sembrerebbe una provocazione, invece viene ben spiegata nelle pagine del romanzo. Muove i suoi passi dalla ricerca identitaria che è alla base di ogni storia autobiografica, oltre che dalla fusione tra realtà e verità di cui abbiamo parlato abbondantemente. Parlare di sé come rivendicazione di esistere, di riconoscimento identitario, a costo di sacrificare la verità. Una critica che mi trova sostanzialmente d’accordo, anche se io partirei da un altro punto di vista, cioè quello del richiamo voyeuristico che nutre l’egotismo – che però alla fine conduce lo stesso all’affermazione identitaria attraverso gli occhi dell’altro. Meriterebbe di certo una più ampia riflessione a livello critico-filosofico.

Per concludere, Di sangue e di ferro lo si può definire un romanzo postmoderno che l’autore fa di tutto per depistare continuamente verso la postverità.

 

(Luca Quarin, Di sangue e di ferro, Miraggi Edizioni, 2020, pp. 288, euro 19, articolo di Fernando Coratelli)
Copertina di Achille e Odisseo di Nucci

Solo ciò che è effimero
è eterno

Tra le fila delle coste gialle degli Einaudi Stile Libero ha fatto la sua comparsa a maggio scorso Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, di Matteo Nucci. Giornalista, cultore del mondo greco e scrittore che riscuote da ormai un decennio grande successo di pubblico – sin dall’esordio editoriale con il romanzo Sono comuni le cose degli amici (Ponte alle Grazie, 2010) –, Matteo Nucci inaugura la nuova sezione di saggistica che la casa editrice torinese ha battezzato VS.

Attraverso la selezione di parole-chiave centrali nei più svariati ambiti, dalla letteratura alla musica, dalla storia alla tecnologia, dallo sport alla politica, la nuova collana indaga le contrapposizioni in cui il consesso umano è da sempre, universalmente, portato a scindersi, opporsi, confrontarsi. Nulla meglio del conflitto millenario tra i due modelli umani contrapposti incarnati dagli eroi achei, Achille e Odisseo, allora, per dare avvio a una serie di saggi sulle coppie di opposti attorno alle quali si organizza la nostra esistenza.

Scansando rapidamente l’antitesi da manuale che vuole sia il fiero e umano Ettore, amorevole figlio e padre di famiglia, a fare da contraltare allo spietato Achille, Nucci sostiene che i veri paradigmi psicologici opposti siano incarnati da due uomini che combattevano dalla stessa parte. È Odisseo la reale nemesi di Achille.

In un crescendo di paratassi contrastive, i due achei vengono presentati come un concentrato di atteggiamenti, di caratteristiche assolute che si escludono a vicenda. Violenza contro astuzia, azione contro parola, impulsività contro prudenza, giovinezza contro maturità. Iliade contro Odissea.

Accompagnando i lettori in una sorta di visita guidata ideale nei luoghi cruciali dei due poemi, Nucci li avverte subito che da sempre non corre buon sangue tra l’itacese e il figlio di Teti, ma mantiene sospesa la verità sulla celebre lite «la cui fama arrivava al vasto cielo» all’origine dell’idiosincrasia. Solo Elena, cui Nucci dà voce in un sibillino dialogo con l’amato suocero Priamo nell’atmosfera irreale del palazzo d’Ilio, sembra essere a conoscenza di «come una volta contesero in un lauto banchetto di dèi / con parole violente» il maturo Odisseo e il Pelide Achille.

Un saggio narrato, o forse una narrazione saggistica, La ferocia e l’inganno non è certo un giallo: è una banale incompatibilità di carattere a spiegare il mistero del contenzioso di cui Nucci, mentre cerca di trasmettere al lettore la passione per i poemi epici che hanno fondato la letteratura occidentale, sapiente come un aedo, sfuma e allarga i contorni fino a confonderli.

Grazie alla prosa enfatica di Nucci emerge il lato dolce, dimenticato e tutt’altro che eroico – nel senso da «illusi dell’invincibilità» quali siamo, noi lettori, a causa di Marvel e DC, l’autore – dello sprezzante Achille. Angelo della morte, che vive in una corsa furibonda verso la gloriosa fine che sola rende degnamente compiuta l’esistenza di un uomo della società omerica, Achille sembra quasi disdirsi in più punti della narrazione.

In particolare nel IX libro quando, stanco di combattere una guerra «non sua» e adirato con Agamennone, Achille si ritira dal campo e minaccia di tornarsene in patria, vagheggiando una vita tranquilla accanto alla sposa che Peleo avrà scelto per lui. Viene presto inviata una delegazione di condottieri achei, capeggiata da Odisseo, incaricata di agire con qualsiasi mezzo pur di riavere il proprio miglior guerriero. Achille respinge le scuse ipocrite di Agamennone, ma accoglie con calore Odisseo, Fenice e Aiace. Con spiazzante serenità, il feroce, Achille rinnega il suo cliché e, pizzicando le corde della cetra, tesse un vero e proprio inno al bene più dolce e prezioso, più importante della gloria eterna e dell’onore guerresco. «Nulla per me vale il soffio della vita […] che non si può, per farlo tornare indietro, né rubare / né comprare una volta che abbia varcato la barriera dei denti».

Eppure, una radice condivisa esiste, e deve esistere, sulla scia di quanto teorizzato da Anassimandro sulla differenziazione degli opposti dall’armonia statica dell’àpeiron – atto di nascita del mondo e del divenire –, per cui ogni coppia dei contrari si origina da un principio indifferenziato. La grande somiglianza di Odisseo e Achille giace nel rifuggire il passato. Con una non troppo velata preferenza per Achille, Nucci mostra la complessità di una contrapposizione tra due punti di vista sull’esistenza, due forme di intelligenza: l’una sinuosa, liquida, che anima tutto l’esile corpo di Odisseo, l’altra abbagliante e inflessibile come lo scudo argenteo, forgiato da Efesto, che Achille riceve in dono, da cui scaturiscono due modi, uguali e contrari, di sgusciare dal corso ordinario del tempo. L’uno per vivere al massimo il presente in un momento distensivo, l’altro sempre in corsa verso il futuro sopravvivendo a ogni costo.

Se Odisseo è un navigatore, che, adattandosi alle correnti, schivando i pericoli e sfruttando i venti più propizi, scivola rapidamente sul pelo dell’acqua con la prora diretta a un orizzonte di futuro che ogni giorno si sposta un po’ più in là, Achille è un nuotatore, prestante ma fragile come la sua fatale caviglia, si getta di petto e senza paura tra le onde della vita e della morte, immerso fino al collo nell’istante eterno del presente.

Repetita iuvant, e lo sa bene Matteo Nucci, che da anni si confronta con la divulgazione del pensiero greco classico nei suoi testi a metà tra il saggio e il romanzo, ed è molto apprezzato per la chiarezza cristallina della prosa, volta a una reiterazione a spirale dei concetti portanti. Giocando con l’equilibrio tra semplicità e rigore in cui il filosofo Gabriele Giannantoni, fondamentale nella formazione di Nucci, era un maestro, con Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno l’autore non si smentisce.

Tutto il libro è percorso da un leitmotif che gli è molto caro: l’eroismo della fragilità. Vittoriosi o meno – questo sta alla Fortuna deciderlo –, Achille e Odisseo, e così i tipi umani che impersonano, sono eroici sempre. Entrambi di ascendenze divine e soggetti agli umori altalenanti delle simpatie numinose che sono riusciti o meno ad attirarsi, è la loro umanità a renderli esemplari, invidiabili, straordinari. Il coraggio invincibile è tutto nella scelta, fatica quotidiana che unicamente riempie e realizza il tempo – breve o lungo lo decideranno gli dèi – concesso loro sulla Terra, e che sola neutralizza la paura, naturale e auspicabile, di fallire, di perdere, di morire. «La specularità dei due poemi si realizza all’insegna delle lacrime», scrive Nucci, lacrime copiose in cui si sciolgono, in chiusura di entrambi i poemi, un giovane e un vecchio riconoscendosi, oltre ogni divisione, nelle figure archetipe di padri e figli. È il pianto di Achille e dell’anziano re Priamo, venuto a reclamare al nemico le spoglie di Ettore; è lo sguardo offuscato che si scambiano Odisseo e Laerte nel ritrovarsi dopo vent’anni, finalmente al riparo dalla necessità di nascondersi.

Le lacrime degli eroi, di cui Matteo Nucci aveva già parlato nel saggio omonimo (Einaudi, 2013), tornano in Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno e segnano la linea tra chi è eroe e chi non lo è: unicamente chi è capace di vivere fino in fondo le proprie emozioni, abbracciando la costitutiva fragilità che rende effimere e perciò sacre le azioni dei mortali, può dirsi eroe. Non a caso, il solo personaggio incapace di piangere è Paride.

 

(Matteo Nucci, Achille e Odisseo. La ferocia e l’inganno, Einaudi Stile Libero, 2020, 232 pp., euro 16, articolo di Valentina Cela)

 

Dogtooth poster italiano su Flanerí

Storia di una strana formazione

Grazie all’infinita lungimiranza del sistema di distribuzione cinematografica italiano ora anche noi, con soli undici anni di ritardo, possiamo familiarizzare con Dogtooth. Vincitore, nel lontano 2009, del Prix Un Certain Regard al Festival di Cannes, è il secondo lungometraggio del regista greco Yorgos Lanthimos, nome oggi sulla bocca di tutti, assurto al favore del grande pubblico e delle major grazie a un film come La favorita (2018). 

Proprio questo Dogtooth può essere considerato, con il senno di poi, un punto di partenza ineludibile per un discorso sul cinema di Lanthimos, il cui stile è andato modificandosi ed evolvendosi nel corso degli anni, certo, ma che in nuce è già tutto in questa novantina di minuti. 

Ci troviamo catapultati nelle dinamiche di una famiglia dell’alta borghesia imprenditoriale greca: Padre, Madre, tre Figli. Come sempre in Lanthimos, la stranezza, la weirdness, arriva inaspettata attraverso un elemento semplice, che fa quasi sorridere: viene in mente uno di quei piccoli taglietti inavvertiti, destinato però ad allargarsi in una ferita colossale entro la fine del film.

Il primo elemento spiazzante in Dogtooth è il linguaggio, inteso come insieme di segni linguistici elementari. È il codice che plasma la realtà, ed ecco ciò che fanno i Genitori della famiglia: distorcono il linguaggio e con esso la realtà. Questa, tuttavia, appare distorta a loro due – che, in quanto Madre e Padre, sono depositari dell’esperienza negativa e orrorifica del “mondo fuori” – e a noi spettatori – che dal “mondo fuori” arriviamo –, ma non ai tre Figli: per loro quella è l’unica realtà, nel senso che non ne conoscono altra.

Una storia di segregazione e di clausura, dunque, ma non coatte: questo proprio perché il Figlio e le due Figlie non sono consapevoli della loro condizione di prigionia. Anzi, c’è di più: l’opera di costruzione di una realtà alternativa, da parte del Padre-Demiurgo-Burattinaio, è talmente convincente da non essere mai messa in discussione. Dopotutto, la famiglia è la prima sede della costruzione della propria identità: in principio non serve altro a definirci. Se Papà dice che “mare” significa “poltrona”, allora “mare” significa “poltrona”.

Ecco perché Lanthimos è interessato, proprio come uno scienziato che osservi le sue cavie in laboratorio, alle dinamiche di questa famiglia. La famiglia, in Dogtooth e anche nella vita reale, è sineddoche della realtà: qui è fondamentalmente distorta, maniacale e solitaria, perché così appare la società. Infatti, all’interno di questa bizzarra famiglia le persone non hanno un nome, sono definite soltanto dal proprio ruolo –  “la più grande” riferito alla Figlia Maggiore, ad esempio –, e il sistema di regole è rassicurante per chi sta dentro e profondamente escludente per chi sta fuori, visto come un pericolo. La realtà è fatta di non-rapporti, basati su solitudine, follia e violenza, che sono poi i temi di fondo di tutto il cinema di Lanthimos.

Dogtooth è una storia di solitudini che abitano lo stesso spazio, la cui folle tranquillità è turbata dall’irruzione del classico elemento unheimlich (ossia “perturbante”, nella definizione che è passata da Freud fino ai più recenti contributi di Mark Fisher) proveniente dall’esterno.

La soglia tra mondo ordinario e mondo esterno è evidente: una siepe ed una staccionata circondano l’intera proprietà, fino al cancello d’ingresso. L’unico autorizzato a varcare la soglia è il Padre, che prende la macchina – dispositivo misterioso e quasi magico agli occhi dei ragazzi – e si avventura a solcare le pericolose lande dell’esterno. Persino lui, però, sa che certe pulsioni non possono essere controllate.

Per dare sfogo al desiderio sessuale del Figlio Maggiore, conduce in Casa una addetta alla security della Compagnia presso cui lavora. Eccolo, l’elemento esterno che irrompe e che, con la forza sommessa ma costante di una goccia, scardina l’equilibrio dell’interno. Christina porta con sé il “mondo fuori”. La sessualità esplode nelle stanze dei tre figli; gli oggetti di tutti i giorni – come un cerchietto per capelli – diventano luccicanti testimonianze di un altro mondo possibile; dulcis in fundo, su tutto questo Lanthimos cala pure un sottile velo metacinematografico, nel momento in cui la Figlia Maggiore ottiene da Christina delle videocassette dove sono registrati Rocky, Lo Squalo e Flashdance, proibiti come fossero film porno. Saranno questi film, infatti, a darle l’opportunità di costruirsi una nuova, “vera” identità all’interno della quale lei, “la più grande”, arriverà a darsi il nome di Bruce, e a recidere il legame con la vecchia realtà – incarnato dal canino, il Dogtooth del titolo – per poter scappare.

A tenere Dogtooth al riparo dall’essere un horror come se ne sono visti tanti, ci pensa proprio la regia di Lanthimos: è un cinema, quello del greco, che intende rendere il folle e l’inquietante nella maniera più naturalistica possibile. Il surreale e il perturbante che fanno da tessuto di fondo al film nascono proprio dal cozzare tra la follia di ciò che succede e il modo in cui essa è narrata.

La regia di Lanthimos è compassata, lenta e distante, sembra un cannocchiale rovesciato che ci mostra i personaggi da lontano, alle prese con la loro vita, davvero come se stessimo osservando delle cavie sottovetro.

Anche la regia ci prende per mano, conducendoci tra le pieghe della stranezza: è tutto normale, ma le inquadrature sono tagliate, sghembe o addirittura sfocate. Teste mozzate dalla scena, dialoghi di spalle, tagli di montaggio secchi come lame, nessuna musica ad accompagnare: l’esperimento comincia così, con un occhio che mostra (a volte ancora in modo troppo autoriale e compiaciuto) il quotidiano da un altro punto di vista.

Poi, in modo documentaristico, ai nostri occhi non è risparmiato nulla: il corpo irrompe sulla scena, come una marionetta da studiare, tra sangue, lingua e sesso; la violenza fisica è efferata ma, miracolosamente – e ricordando la lunga tradizione surrealista spagnola, da Bunuel a Almodovar – ci fa quasi ridere, come quando il Figlio Maggiore squarta un gatto perché ne è terrorizzato. La violenza psicologica è un basso profondo, sempre presente nei dialoghi, ancor più nei silenzi.

Un cinema di silenzi, di bianchi abbacinanti, di spazi allungati dove la luce illumina i vuoti: tutto, in Dogtooth, è funzionale alla messa in scena della realtà solitaria dei tre Figli e della loro Casa. Lanthimos già nel 2009 dava prova di sapersi guardare intorno, facendo propria la lezione di grandi scrittori visivi della solitudine: da Michael Haneke (il cui Funny Games riecheggia ovunque nella fotografia di Dogtooth) a Lars Von Trier, da Aki Kaurismaki ai fratelli Dardenne. Dove questi ultimi, tuttavia, colmano la distanza dai loro personaggi con una regia calda e partecipe, il regista greco gioca tutte le sue carte, dando vita a film che sono veri e propri, allucinanti esperimenti di laboratorio. 

Allucinanti, annichilenti e provocatori: sappiamo tutti, infatti, che il mondo potrebbe essere pieno di famiglie che, forse solo più sottilmente, si comportano come quella di Dogtooth; e sappiamo anche tutti che il modo in cui funzionano le cose nella famiglia di Dogtooth, forse solo più sottilmente, potrebbe essere il modo in cui funzionano le cose ovunque. Solitudini che dividono lo spazio con altre solitudini.

(Dogtooth, Yorgos Lanthimos, 2009, drammatico, 93’)

 

Truman Capote: la verità come illusione

Spesso ci si dimentica sbadatamente dei precursori e degli anticipatori. Ciò avviene per una parallela quanto convergente negligenza di pubblico e critica e accade frequentemente quando oggetto della discussione è la non-fiction, un genere letterario che sembra essere apparso nell’universo romanzesco, rimestando alla radice tassonomie ed etichette, come una meteora improvvisa e inaspettata, capace in pochi anni di conquistare sempre più lettori e attenzione teorica, in Italia soprattutto a partire dalla pubblicazione de L’avversario di Carrère (Einaudi, 2000) e di Gomorra di Saviano (Mondadori, 2006). Eppure, che venga più o meno riconosciuto, un capostipite certo di questa ramificazione narrativa, che tanto successo ha avuto nelle ultime due decadi, esiste ed è A sangue freddo di Truman Capote, primo fulgido esempio di romanzo non-fiction compiutamente riuscito, pubblicato da Garzanti nel 1966 dopo sette anni di assiduo e frenetico lavoro di scrittura e riscrittura.

A sangue freddo – storia del truce omicidio dei quattro membri della famiglia Cuttler, uccisi il 15 novembre 1959 nella loro casa di Holcomb (Kansas) da due giovani instabili da poco in libertà vigilata,  Perry Edward Smith e Richard Hickockrappresenta a tutti gli effetti un “romanzo-verità”, come amava definirlo lo stesso Capote, o meglio un pezzo di cronaca applicato alla letteratura, in cui l’autore si eclissa, arretrando al grado zero della narrazione, e lo sguardo oggettivo, documentale e distaccatamente giornalistico sostituisce l’impulso immaginifico e affabulatorio per lasciare spazio a una mise en scène iperrealistica e fattualmente veritiera, che risulta essere al contempo una lucida, acuta e precisa analisi patologica e psicologica dei due efferati assassini, frutto anche di un’ambigua fascinazione sviluppata dal romanziere per Perry Smith, a cui lo avvicinava una storia adolescenziale particolarmente affine – madre alcoolizzata, padre assente, difficoltà relazionali.

Tuttavia, oltre all’indiscutibile importanza di In Cold Blood (questo il titolo originale) come libro sperimentatore e antesignano e certamente gemma più rutilante della produzione, piuttosto esigua, del romanziere statunitense, Truman Capote va ampiamente riscoperto per l’alto valore intrinseco della sua intera opera, meritevole di essere rivalutata a prescindere dai miti e dalle leggende che irretiscono la sua turbolenta biografia.

E però è un compito davvero arduo, checché ne dicano formalisti e strutturalisti, tentare di scombinare il binomio vita-letteratura, specialmente quando si parla di Capote, uno scrittore che per gran parte della sua esistenza ha coltivato fino all’ossessione la sua immagine pubblica, ri-edificando a gran voce il mito del dandy metropolitano, amico di tutti e da tutti amato, all’insegna di un mantra semireligioso, di un voto inossidabile, per cui la verità non esiste se non come illusione.

 

Scrivere sulla soglia della vita

Tanto eccentrico e scalmanato nella sua vita personale quanto posato, levigato, sobrio nella sua prosa iridescente, caratterizzata da una forte vocazione visiva e dall’attenzione per il dettaglio cinematografico, in particolar modo nelle descrizioni fisiche e gestuali, Capote possiede uno stile chiaro, nitido, apparentemente piano, che, situandosi in estrema antitesi al flusso ritmico, sostenuto e studiatamente cadenzato dei beat, si fonda sulla ricercatezza formale e lessicale, su un registro elegante e un tono equilibrato.

Ossessionato dal credo flaubertiano del mot juste, dall’incastro fluido, perfetto e brillante delle parole, delle frasi, dei periodi, Capote opera con cura maniacale sul linguaggio, infiorettando e ricamando costantemente, sacrificando sull’altare di questo patto mefistofelico, a metà tra la maledizione e il sacro fuoco, il proprio demone interiore.

D’altronde, per un autore che predilige impianti romanzeschi classici (eccezion fatta in parte per A sangue freddo), l’importanza della narrazione, considerata eminentemente come manufatto artistico-estetico, supera di gran lunga l’afflato concettuale e poetico che è possibile adocchiare in tralice nel retrobottega del testo. L’invenzione è questione di forma più che di contenuto, sembra volerci suggerire, e la finzione non è che il risultato di velate trasparenze.

I suoi romanzi, i suoi racconti e i suoi reportage, dagli esordi giovanili (Incontro d’estate, Altre voci, altre stanze e L’arpa d’erba) pervasi dalle atmosfere gotiche tipiche della letteratura americana degli stati del Sud – basti pensare a Faulkner o a Flannery O’Connor – sino all’ultimo lavoro lasciato incompiuto (Preghiere esaudite), rivelano sempre, con maggior o minore intensità, persistenti tracce autobiografiche, perché Capote è innanzitutto un personaggio, fatto più per la letteratura che per la realtà e dunque divenire l’alter-ego o il controcanto umbratile dei suoi protagonisti non gli è solo congeniale, ma semplice e naturale. Il travaso è perfettamente genuino, logico.

Per questo motivo, sotto l’opaca lucentezza della materia diegetica, a cui Capote si dedica col talento compositivo proprio dei deus ex machina, si scorge di frequente una crepatura di sofferenza malcelata, trattenuta, un risvolto tragico che germina nel sottosuolo, accompagnato da una pulsione autocompiacente di morte e sofferenza che assottiglia la sua prosa, venata da stille di plastica e ariosa espressività, sino a renderla tesa come una corda di violino, che pare doversi spezzare dopo la fine di ogni lungo periodo o frase ben cesellata.

Capote può essere allora definito un erede fitzgeraldiano, anche se sprovvisto della carica generazionale di quest’ultimo, perché ha permeato le sue pagine dei fantasmi privati e pubblici che lo tormentavano senza sosta, utilizzando la letteratura fondamentalmente come uno specchio deformante e rivelatorio, una superficie acquosa che lascia intravedere latenti vulnerabilità al fondo delle sue cristalline increspature.

Fare luce sulle ombre

Di conseguenza, da ex enfant prodige ed epigono principale dei cantastorie del Sud, quando ha deciso di mettere a lato le sue verità, date in pasto a lettori affamati e irascibili troppo presto e troppo a lungo, per spiattellare le verità altrui nella limpida filigrana di Preghiere esaudite (e anche nei testi che compongono I cani abbaiano, seppur in tono minore), è stato inevitabilmente fatto a pezzi, trasformato nel giro di pochi mesi da cantore e arbiter elegantiae della nobiltà americana a “persona non gradita”, ostracizzato per aver osato l’impensabile: sporcare e incrinare l’immagine idealizzata della high society che lo circondava, mettendo alla berlina lo snobismo macchiettistico e autocelebrativo di divi e paladini e restituendo una fisionomia umana e quindi piena di falle e peccati ai cosiddetti “intoccabili”.

Abitato dalla folle e narcisistica idea di esorcizzare definitivamente gli spettri della sua triste infanzia sottomettendo la “crème de la crème”, odiata e amata con notevole dissimulazione sin dagli albori della scalata, al dominio della sua penna, Capote ha usato l’inchiostro come antidoto per il disincanto, medicina amara per sanare il disgusto che il bel mondo che gli aveva provocato, arma a doppio taglio per compiere una vendetta più che simbolica, archetipica: il genio maledetto che infanga la rispettabile nomea della cerchia che lo ha calorosamente adottato per affermare il proprio potere artistico, la differenza fondativa, lo scarto irriducibile e supremo, anche se ciò significa rinunciare a ogni cosa, mettere in soffitta antiche velleità di trionfo e celebrità e scampoli di sane relazioni interpersonali.

Nella doppia veste, che si rivela ben presto insostenibile, di favorito e fustigatore, lo scrittore nato a Monroeville, Alabama, ha cercato di indagare in Preghiere esaudite – opera che secondo Capote doveva configurarsi come rivisitazione americana e tardonovecentesca della Recherche di Proust e che invece rimarrà incompiuta – le tenebre del microcosmo più sfarzoso e accecante che ci sia, scolpendone i moti fatui, gli appetiti voraci, gli umori scostanti, mostrando sottopelle il nero vuoto che si nasconde dietro le facciate dorate dello star system, dei salotti buoni e dell’aristocrazia europea.

Capote aveva concepito Preghiere esaudite (che uscì in America postumo, ma i cui tre capitoli costitutivi erano stati anticipatamente pubblicati sulla rivista Esquire tra il ’75 e il ’76) come un grande ritratto corale e memorialistico, un affresco caustico, mordace, al vetriolo, dell’alta società newyorchese, in cui passare al setaccio i segreti, spesso immorali e inconcepibili, che si annidano alla base di ogni ricchezza.

Nonostante il romanzo sia rimasto ampiamente monco, i frammenti che ne formano l’ossatura oggi leggibile sono infatti composti da un malizioso tourbillon di dicerie, pettegolezzi e cicaleccio rivestito ad arte tanto da divenire arte a tutti gli effetti. Libro oltremodo notevole che, al di là del vituperio mutato in succosa cronaca bizantina, dimostra una riuscita estremizzazione romanzesca (è presente una lieve alterazione dei nomi dei personaggi coinvolti nel narrato) dell’aspetto più propriamente non-fiction della materia modellata, ancor più che in A sangue freddo, perché stavolta il fenomeno non è legato saldamente alla contingenza eccezionale di un caso giudiziario feroce e assurdo, ma al semplice fluire quotidiano e perfettamente veritiero di esistenze sempre identiche a sé stesse. La realtà assume dunque spessore, colore, s’arricchisce di ulteriori sfumature di senso proprio in virtù della carica romanzesca e trasformativa che la innerva, la rimpingua e la sublima.

Bastarono i brani usciti su Esquire per inimicarsi rapidamente, a causa di un eccesso di hybris o di un’inspiegabile ingenuità, buona parte di coloro che gli avevano permesso un’ascesa sociale incredibile e innaturale. Parabola umana e letteraria in fin dei conti non molto sorprendente per uno uomo che si è costantemente esercitato lungo l’intero arco della sua vita nella raffinata arte dell’autodistruzione, alternando momenti di relativa quiete a periodi di smodata accelerazione, per essere infine soverchiato dalla macchina, fortunatamente a corta gittata, dell’oblio.

Ripescato giustamente dalla densa foschia della dimenticanza, Capote è uno scrittore la cui prosa restituisce a pieno il piacere della lettura come puro arricchimento estetico e sommo godimento artistico, cosa che succede assai di rado. Merita perciò, tenendo finalmente a margine la fama ondivaga, gli eccessi, le contraddizioni, di essere ricollocato in maniera stabile nel posto che gli spetta di diritto, tra i grandi del Novecento.

 

Everything Everything, il più grande gruppo (sottovalutato) degli anni ’10

Bisogna diffidare sempre di chi mette nello stesso calderone gli Everything Everything e i Foals. Il mistero che lega il racconto per cui siano due gruppi che abbiano qualcosa da spartire continua stranamente a essere vivo. Re-Animator, uscito a tre anni da Fever Dream, è la testimonianza – l’ennesima – che evidenzia il distacco.  Basta l’etichetta math-rock?

C’è anche un discorso attorno a come gli Alt-J siano diventati un gruppo universale, mentre i quattro di Manchester se ne sono sempre stati ai margini di un mondo cieco che non si è accorto e non si sta accorgendo di loro. C’è un errore in tutto questo.  Salvo l’ultimo Relaxer, buon album che va a colmare i vuoti degli esordi dell’iper osannato An Awsome Wave,  gli Alt-J sono sempre sembrati più apparenza che altro. Hype, attesa.

Dentro i mondi degli Everything Everything c’è un immaginario sconfinato, ci sono idee che ribollono. C’è una quantità di fantasia che prende vita tra melodie, testi e ritmica che ha davvero pochi eguali. C’è la prospettiva di un’estensione folle del mondo. C’è l’illusorio che si fa materia.

Re-Animator è forse il meno lunatico di tutti, ma è quello probabilmente più completo,  che riesce ad andare oltre il proprio massimalismo intrinseco. Il livello di “Man Alive” è stato raggiunto. Il frontman Higgs si è ispirato all’idea della mente bicamerale, di come prima dell’emergere della coscienza gli esseri umani percepissero i pensieri come allucinazioni uditive; questa, a essere blasfemi, è la sensazione che accompagna perennemente l’ascolto dei loro lavori. La sua voce è meno nevrotica – una sottrazione delle piroette melodiche stile “No Reptiles” -, è più dilatata: l’ispirazione di Thom Yorke oggi si manifesta in maniera maggiore rispetto al passato.

I Radiohead spuntano spesso: dal contrappunto con la chitarra in “Moonlight” che è più di un omaggio a “Subterranean Homesick Alien”, a “In BirdSong”, fino a “The Actor”. C’è tempo per qualche digressione verso un synth sghembo e alientante anni ’80 di “Planets”. “Violent Sun” è il pezzo più elettrizzante.   “Arch Enemy” quello più Everything Everything di tutti – potrebbe stare senza problemi in Arc.

Gli Everything Everything sono senza mezzi termini il più grande gruppo sottovalutato  degli anni ‘10. Re-Animator la summa della loro poetica. La diffidenza che li accompagna da sempre risulta ancora una volta incomprensibile e, volendo ragionare più con il cuore e non con il cervello, fastidiosa.