copertina di Il primo libro delle favole di Gadda

«La luna, sopr’a le stelle reìna»

Nel panorama letterario la componente favolistica costituisce un fenomeno carsico che si manifesta, anche in secoli differenti, con maggiore o minore vigore in virtù delle esigenze narrative d’autore o delle necessità imposte dal contesto storico-sociale. In particolare, la polisemia di cui favole e fiabe risultano investite non costituisce solo un valore aggiunto in termini di spessore ed elaborazione testuali, ma anche uno degli elementi più utili a eludere misure censorie e, contemporaneamente, esprimere determinati contenuti ideologici, filosofici o politici. Non a caso, infatti, l’immaginario letterario italiano del Novecento tende ad accogliere disparate riproposizioni, riscritture e reinvenzioni favolistiche e fiabesche, ricorrendo molto spesso a immagini simboliche, metaforiche o allegoriche ottenute soprattutto tramite l’impiego di personaggi animali, o ritratti realisticamente o modellati sull’esempio esopico.

 

Il primo libro delle favole

 

Un caso molto significativo è costituito dalla produzione favolistica di Carlo Emilio Gadda, sulla cui fisionomia si sono recentemente ottenute nuove e importanti acquisizioni ‒ come efficacemente illustrato nella piattaforma Wiki-Gadda del portale Filologia d’autore.

Considerato dapprima un’opera minore e solo in un secondo momento reso oggetto di rinnovati studi critici che ne hanno restituito il complesso quanto elaborato itinerario genetico, Il Primo libro delle favole (Neri Pozza, 1952) fu pubblicato insieme a una Nota bibliografica scritta da Gadda medesimo e posta a chiusura di un corpus di 186 racconti variamente strutturati.

Nel terzo capitolo, intitolato Le «picciole fave» di Carlo Emilio Gadda, del volume La maschera di Esopo. Animali in favola nella letteratura italiana del Novecento (Bulzoni, 2014), Elisabetta Bacchereti ricorda che al primo nucleo di 98 favole gaddiane, prive di titolo ma ordinate numericamente in cifre arabe e già pubblicate in piccoli gruppi su varie riviste tra il 1938 e il 1940, si aggiunge un secondo corpus di testi composti o corretti (mediante riprese, aggiunte o vere e proprie riscritture) dopo la fine del conflitto mondiale, a partire dal 1951, come attestano i tre quaderni manoscritti conservati presso l’Archivio Garzanti.

 

Fattori di varietà: componente esopica, satira politica e critica sociale

 

Nonostante la predominante eterogeneità della raccolta, piccole serie di racconti appaiono caratterizzate da strutture e personaggi molto simili. La presenza di animali parlanti, in particolare, contraddistingue le favole esopiche, alla cui tradizione Gadda medesimo rimanda esplicitamente già nel brevissimo testo incipitario del libro, dove tuttavia il paradigma fedriano viene rovesciato: «L’agnello di Persia incontrò una gentildonna lombarda, che prese a rimirarlo con l’occhialino. “Fedro, Fedro”, belava miseramente l’agnello: “prestami il tuo lupo”!».

La sferzata polemica s’indirizza infatti, nella figura simbolica della dama milanese, contro la spietata società borghese, la quale, nella prospettiva restituita da Gadda favolista tramite gli occhi di un animale dal vello pregiato, risulta ben più temibile della famigerata belva classica.

 

 

 

Come ampiamente notato dalla critica, la piccola sezione costituita dalle favole 119, 120, 121, 122 e 123 rappresenta, invece, una brillante riproposizione della celeberrima Il corvo e la volpe esopiana e poi fedriana. All’apologo che narra del trucco ordito dalla volpe affinché il corvo, aprendo il becco, lasci cadere il pezzo di formaggio procacciato, Gadda aggiunge un seguito e immagina gli effetti provocati dall’accaduto nella madre (testo 119), nel padre (testo 120), nel fratello (testo 121) e nella sorella dell’uccello (testo 122), concludendo poi con l’epimitio del racconto 123: «Queste favolette ne adducano: acqua in bocca, e cacio nel becco. E d’attorno a’ corbi e’ fanno buon giulebbe e’ babbei».

Tuttavia, gli apologhi gaddiani di fattura esopica non ospitano esclusivamente animali tradizionali, anzi: non di rado l’azione narrativa coinvolge creature mai apparse negli schemi classici. Ad esempio, la favola 20 recita: «Il dinosauro, fuggito dal Museo, incontrò la lucertola che ancora non vi abitava. Disse: “Oggi a me, domani a te”». E la stessa fabula ricorre, ampliata e corredata di morale esplicita, nel racconto 60:

Il dinosauro che dormicchiava al Museo, si sentì vellicar la groppa da zampini di lacertola, sendoché d’un osso in altro quella vi andava scintillando a diporto, nell’esercizio mattutino. Disse: “Oggi a me, domani a te”.

Questa favoletta ne adduce: che i piccoli vivi amano rampicare i grandi morti.

Pur prescindendo da valutazioni relative ai coinvolgimenti di Gadda con il regime fascista (di cui Eros e Priapo, specie nella riscoperta versione originale, è fondamentale espressione), è bene considerare che uno dei nuclei più complessi quanto interessanti della raccolta è costituito dalla serie delle cosiddette favole mussoliniane (111, 129, 134), la cui struttura allegorica è analizzata nel commento di Claudio Vela a C.E. Gadda, Il primo libro delle favole (Mondadori, 1990): in particolare, si nota che l’azione narrativa culmina, quasi a mo’ di esplosione collerica, nell’amplesso del personaggio protagonista, immagine del dittatore, con una figura femminile che, simboleggiando metaforicamente la collettività sociale, risponde al nome della Erinni Megera ma presenta anche alcune caratteristiche tipiche delle Arpie virgiliane. Ma se nella favola 134 la descrizione muove anche dal ricordo mitologico dell’incontro erotico tra Pasifae e il toro bianco, nel racconto 111 l’intreccio narrativo sembra piuttosto ispirarsi alla pena infernale dei dannati immersi nello sterco della seconda bolgia dantesca: infatti, come nella favola si legge che «la dogal cuticagna (…) impisciavono, e scacazzavono il capo calvo», così in Inf. XVIII 116-117 è descritto «un col capo sì di merda lordo, / che non parëa s’era laico o cherco».

D’altronde, gli echi danteschi si susseguono frequentemente nella raccolta, tanto che gli amanti che «paiono imitare i colombi» del brano 103 sono stati spesso associati a Paolo e Francesca.

E dopotutto, un gran numero di racconti rimanda, implicitamente o esplicitamente, a prodotti favolistici della tradizione letteraria: basti come esempio quel gruppo di testi apertamente riferiti agli apologhi di Leonardo da Vinci. Assai brillante, in particolare, la riscrittura del celebre esempio del ragno nella favola 133:

Il ragno, stando in fra l’uve, pigliava le mosche, che in su tali uve si pascevano: venne la vendemmia e fu pestato, il ragno insieme coll’uve.

Questa favola del sommo Lionardo di misser Antonio di ser Piero di ser Ghuido da Vinci, nel quartiere di Santo Spirito, ne ammonisce a ritenere: che quale ancide altro animante a suo vitto, la gran vendemmia del Cristo lui ancide.

 

 

Alcune favole, poi, seppur apparentemente molto semplici, si rivelano in realtà intessute di allusioni e riferimenti satirici a personaggi o vicende non sempre facilmente identificabili.

Elisabetta Bacchereti, nel libro suddetto, riflette sulla favola 39, leggendola quale sarcastica polemica vibrata contro la tassa sul celibato prevista dalla legislazione di regime attraverso la figura di un passero solitario di leopardiana memoria, occupato nella ricerca di uno stratagemma valido a evitargli la pena altrimenti imputatagli:

Il passero solitario fu invitato dall’Agente delle Imposte a voler pagare la tassa dei celibi, comminàtegli in caso d’inadempienza le sanzioni statuite dalla legge.

Parendogli troppo grave il pagare, deliberò di togliersi, a non pagare, una Marfisa. Poiché la passera s’era già coniugata al beccafico, ei s’ammogliò con la foca.

Non scarseggiano, inoltre, le allusioni al malcostume critico-letterario, come nel brano 97: «Il canarino, volendo fare della critica, cominciò a provare il becco su di un osso di seppia».

 

Fattori di organicità: stile, tonalità e ispirazione

 

Insomma, traducendo in forma di apologhi, favole, epigrammi e anche brevi aforismi impressioni comunque ricorrenti in tutta la sua produzione, Gadda realizza una raccolta che, pur estremamente variopinta, appare ispirata ad almeno tre principi fondamentali: il manierismo espressivo che, visibile anche negli esempi testuali finora citati, investe tanto l’aspetto morfologico quanto quello lessicale e sintattico; i toni talmente dissacranti da evocare scenari non solo satirici ma talora persino simili a sfoghi rabbiosi e, infine, la comune ispirazione dei racconti a uno dei principali presupposti concettuali del pensiero gaddiano, sintetizzato dall’ingegnere nella Meditazione milanese con le formule n, n+1 e n1. Egli, infatti, scrive che l’esistenza di un sistema (inteso sia come singolo individuo sia come collettività sia come paese o stato) e delle rispettive caratteristiche psicologiche, sociali o politiche dipende dall’andamento di ogni possibile fase vitale: la stasi coincide con la mera sopravvivenza (da Gadda indicata semplicemente con “n”), il miglioramento delle condizioni alimenta invece una graduale progressione (riassunta nella formula “n+1”) mentre il peggioramento è responsabile di un inevitabile degradamento (rappresentato con “n−1”).

Ed è proprio nella struttura figurata caratteristica della forma favola che questa concezione si traduce in efficaci quadretti di iconica immediatezza: «I buoi dissero all’operaie: “così voi non per voi mellificate, o api”. Risposero l’operaie: “così voi non per voi portate l’aratro, o buoi”» (favola 37).

 

 

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(Nel testo la riproduzione della prima di copertina originale , Neri Pozza, e le illustrazioni delle favole 1 e 39 contenute in C.E. Gadda, Il primo libro delle favole, con venticinque disegni di Mirko Vucetich, il Saggiatore, 1969).

L’esordio solista di Cristiano Godano

Prima esperienza senza Marlene Kuntz. Cristiano Godano, con Mi ero perso il cuore, si aggiunge alla lista di leader di band che decidono di scrivere un album solista. Solo negli ultimi tempi dalle nostre parti Francesco Bianconi dei Baustelle con l’uscita dell’album posticipata in autunno causa Covid  e Tommaso Paradiso, oramai ex Thegiornalisti, che sta tiranno fuori singoli a suo nome. Guardando agli Stati Uniti, Matt Berninger farà uscire il suo album Serpentine prison, e sarà anche per lui un esordio senza i The National.

Dietro questa scelta ci sono sicuramente  delle spinte artistiche/personali, ma è probabile che ci siano delle motivazioni per cui il mercato, almeno dalle nostre parti, stia assecondando un discorso che lega la musica popolare all’immagine forse più rassicurante del singolo. Sta venendo a galla un problema con l’accettare l’idea di gruppo, di band. Sembra un tipo di esperienza che ha presa nei i paesi angofoni, ma da noi decisamente meno. Per una ragione o per un’altra, il cantante solista ha più appeal. Basta anche non andare troppo lontano e vedere l’esperienza di Francesco Scarcina in relazione a Le Vibrazioni. O Motta, che per uscire ha dovuto mettersi in proprio e lasciare la sua vecchia band, i Criminal Jokers.

Anche Cristiano Godano, quindi, rientra oramai in questa categoria e tira fuori un album, Mi ero perso il cuore, che riprende la parte centrale della storia dei Marlene, quella della mutazione tanto contestata dai fan, partita da Che cosa vedi e passata per il capolavoro Senza peso e per Bianco Sporco, andandola a comprimere. Sottraendo. In questo lavoro c’è il folk,  sprazzi quasi country, un richiamo agli Wilco non scontato, batteria con le spazzola. “Sei sempre qui” pare un rifacimento di “Schiele, lei, me“.  C’è poco, pochissimo degli esordi: la seconda parte di “Lamento del depresso“, poi, è una netta deviazione alla  Massimo Volume.

Estremamente poetico, come ci ha sempre abituati, nonostante in alcuni momenti l’effetto che si insinua lungo i 53 minuti dell’album è quello un po’ soporifero che certe scelte stilistiche, se sovraesposte, rischia di produrre. Ma nonostante questo, quello che ne esce fuori è un buonissimo lavoro  che ci racconta un grande cantautore che prova a ritrovarsi in una veste inedita. Gli ultimi tre album dei Marlene, infatti, non avevano convinto, incartandosi un po’ su loro stessi, lasciando molte perplessità sul futuro del gruppo. I Marlene Kuntz si sono persi, custodi di un’epoca precisa legata all’underground italiano, ma con il presente non hanno molto da spartire.

Le liriche alternano come solito momenti aulici – interpretati proprio come siamo abituati a metabolizzare la cadenza melodica che è solo di Godano -, controbilanciati con le sue immagini tipiche che spaziano tra secrezioni, carne e ossa. Circa a metà, in uno dei tanti luoghi dove il cuore si è perso, si vira verso la ricerca di decodificare il rapporto sempre complesso di padre e figlio, iniziato nel 2012 con “Canzone per un figlio” a cui si aggiungono oggi “Padre e figlio” e “Figlio e padre“: un trittico doloroso e nostalgico.

Mi ero perso il cuore è una sorpresa, non ci nascondiamo, da cui Godano getta le basi, forse, per una nuova carriera. Noi, egoisticamente, l’unica cosa che possiamo sperare è che quel cuore non venga ritrovato mai più.

Copertina di Maneggiare con cura di Kuruvilla

Tutte le nostre fragilità

Dopo otto anni è tornata sulla scena narrativa Gabriella Kuruvilla. A dire il vero, in questi anni sono usciti parecchi suoi racconti su varie antologie, ma mancava il romanzo. È Morellini Editore a rilanciarla ora con Maneggiare con cura. Kuruvilla è un’artista poliedrica, dedita alla scrittura quanto alla pittura: è sua infatti l’immagine di copertina. E non a caso nel romanzo tutti i personaggi che incontriamo ruotano intorno al mondo dell’arte. O meglio ruotano intorno a Ashima, artista indiana, che si suicida a cinquant’anni. Da qui si dipanano una serie di voci e intrecci di vite.

Diana, sua figlia, Pietro, suo studente all’accademia, Manuel, cameriere e suo amante di una notte, e infine Carla, l’unica che non ha un diretto coinvolgimento con Ashima se non per una sua strana abitudine di cercare funerali per disegnarne i partecipanti. Così si ritrova al suo funerale.

Il suicidio di Ashima avviene in una calda giornata estiva del 2001. Il romanzo però si svolge quasi per intero dieci anni dopo quell’evento. Kuruvilla sceglie di raccontare in prima persona ciascuno dei personaggi presentati – a eccezione di Ashima che conosciamo solo attraverso il punto di vista dei protagonisti. La scelta di cambiare voce e registro stilistico è una scelta coraggiosa e per niente scontata. C’è da dire che l’autrice riesce nell’intento, nonostante qualche piccolo inciampo di cliché su Manuel, immediatamente recuperato nei dialoghi, che sono così aderenti alla realtà da fartene dimenticare.

Sicuramente il personaggio più forte è Diana. Figlia di Ashima, senza padre biologico ma con un patrigno e una sorellastra imposti, tratteggia assai bene l’essenza apolide di chi è definito italiano di seconda generazione. Nel suo disperato e mal riuscito tentativo di elaborare il lutto della madre, racconta come venga considerata indiana in Italia e italiana in India. È senza patria, del resto è senza padre. Sua madre è scappata da quella realtà e Diana, seppure desideri ogni tanto integrarsi capire quel mondo, rompe i cliché (qui sì, tutti) di cui siamo farciti in Occidente rispetto alla famigerata spiritualità indiana, che per gli indiani chiaramente altro non è che un souvenir da venderci. Un po’ come quell’americano che in Italia voleva comprare il Colosseo.

In ogni personaggio traspaiono debolezze e fragilità tipiche di un universo borghese e convenzionale di una generazione nata fra i Settanta e gli Ottanta. Chiaramente, ciascuno di loro si percepisce o si crede antiborghese, artista, rivoluzionario – basti pensare che Manuel e Diana si conoscono la prima volta al G8 di Genova l’estate del 2001 – eppure restano profondamente borghesi, nelle aspettative che creano loro ansia, nei desideri di fuga, nell’incapacità di crescere e assumersi responsabilità.

Per esempio Diana dice di sé che intasa il futuro con il passato e «il presente è un ponte, da cui temo di cadere». Invece Pietro mette in dubbio anche i suoi stessi ricordi, si chiede se non si sia inventato il suo passato, «come se la memoria potesse essere considerata un parente stretto della fantasia: qualcosa come una figlia. O un genitore». Manuel dal canto suo è sempre a corto di denaro ma pieno di donne, e seppure ora sia fidanzato con Diana non manca di tradirla consciamente, ma poi candido afferma che lei «rappresenta un punto di riferimento, che mi dà sicurezza». Infine Carla che a differenza di Pietro scappa dai luoghi dei suoi ricordi, se questi sono spiacevoli, e ha paura delle persone capaci di dirle di no, sebbene al contempo le stimi.

La lingua di Maneggiare con cura è aderente alla sua vicenda, ansiosa e ritmata. Come detto, Gabriella Kuruvilla riesce a cambiare registro a seconda dei narratori delle vicende, ma il principale merito va ai dialoghi che intreccia, alla sottile ironia, meglio, al sarcasmo che traspare nell’intera vicenda.

Da un punto di vista strutturale, una maggiore frantumazione delle voci gli avrebbe dato maggiore forza, invece della linearità di avere quattro personaggi e sei capitoli. Infatti solo Diana e Carla hanno una seconda ma brevissima possibilità di parlare. È una semplicità lineare che fa perdere un po’ di intensità, soprattutto nel finale dove c’è un sospeso che avrebbe guadagnato con una diversificazione maggiore del ritorno delle voci narranti. Resta in ogni caso un’ottima prova d’autore (o d’autrice, se si preferisce), in cui risaltano Milano, le folle, la solitudine notturna, i silenzi improvvisi nella confusione.

 

(Gabriella Kuruvilla, Maneggiare con cura, Morellini Editore, 2020, 218 pp., euro 14,90, articolo di Fernando Coratelli)

 

Copertina di Money di Amis

Il testa-coda di Martin Amis

Lo scorso inverno, alla notizia della pubblicazione prossima di una nuova opera di Martin Amis, cominciò rimbalzare un articolo del Guardian scritto qualche mese prima, nell’agosto del 2019, un giorno prima che l’autore compisse settant’anni. L’articolo, firmato eloquentemente da “John Self”, metteva in classifica, dal peggiore al migliore, tutti i quattordici romanzi dello scrittore inglese.

Una volta letto il firmatario, è facile indovinare l’assegnazione del primato anche senza scorrere fino in fondo. Il primo posto va naturalmente a Money (1984, pubblicato in Italia da Einaudi), da cui l’articolista si ispira per il proprio pseudonimo – John Self, appunto, nome parlante del protagonista e narratore del romanzo.

Un romanzo, Money, che valse a Amis il primo grande successo – un successo mai dimenticato e suggellato anche dall’inserimento nella celebre lista del TIME, che raccoglie i cento migliori romanzi in lingua inglese scritti tra il 1923 e il 2010. Una lista in cui, peraltro, compare anche Kinglsey, papà di Martin, con un romanzo pubblicato esattamente trent’anni prima di Money e intitolato Lucky Jim. Figlio d’autore, dunque, Amis si è poi imposto definitivamente come una delle voci più brillanti e autorevoli del panorama contemporaneo con Territori Londinesi (1989), La freccia del tempo (1991) e soprattutto L’informazione (1995).

Per provare a spiegare il successo di Money, potremmo iniziare col dire che Money è il grande romanzo del Ventesimo secolo – sul Ventesimo secolo. È facile obiettare: Ce ne sono stati tanti. È facile ed è vero. Del resto, il Ventesimo secolo ci ha ridimensionati, ci ha sconfitti, ci ha distrutti: siamo tutti, direttamente o indirettamente, figli del secolo più destabilizzante della storia dell’Uomo. Il più destabilizzante e il peggiore che ci sia stato. Per cui al racconto di quel tempo non si è nemmeno “portati”: si è costretti. E ognuno lo racconta a suo modo – è proprio questa la più banale e imprescindibile verità del Novecento: che siamo tanti io che parlano e raccontano tutti la stessa storia che si disgrega. E se questo è un libro del Ventesimo secolo, allora non può che esprimere il punto cruciale su cui è sembrata muoversi la critica del romanzo da un certo momento in poi: la scomparsa della trama in senso classico, qui annichilita in una serie di numerosissime informazioni e sensazioni del protagonista.

Un surplus di input che il lettore fatica a gestire, sotto cui resta piacevolmente sommerso, stordito come dopo un fiume di alcol: in bilico in una storia che c’è, esiste, e di cui si ha un quadro confuso e ingannevolmente euforico che si comprenderà appieno solo il giorno dopo. Il Guardian scrive: «Martin Amis mostra che lo stile non è qualcosa che aderisce a una storia: lo stile è la storia». Per cui, scrollandoci di dosso i pregiudizi di questa espressione così stigmatizzata, è giusto dire che questo romanzo è innanzitutto un esercizio di stile: la modellazione continua e infaticata della voce del narratore.

Money si configura come una sorta di Satyricon moderno, con le stesse tre tematiche a comporre il filo conduttore degli eventi: i soldi, il sesso, la morte.

Nome parlante come quasi tutti gli altri presenti nel romanzo, John Self è un personaggio egoista, egocentrico, maschilista, menefreghista ma estremamente franco con il lettore – a cui si rivolge direttamente, spesso chiamandolo “fratello”/“sorella”. Il suo desiderio di raccontarsi è un desiderio di comprensione, così come tutte le sue bassezze nascondono una profonda solitudine dalla quale non c’è via di uscita – se i soldi né il sesso possono esserne rimedio, allora cosa?

Egli incarna la verità delle parole: «i soldi non fanno la felicità» – e lo fa anche nell’evidenza delle (apparenti) meschinità di questo pensiero, nella manifestazione e nell’esibizione senz’altro sfacciata di uno stile di vita che noialtri non-ricchi possiamo solo immaginare. E John è consapevole di questa verità ed è questo che connota la sua disperazione: il fatto che lui sia certo di non poterla sovvertire, che il suo tentativo di “guarigione” non può che passare dai soldi, perché i soldi sono l’unica cosa che ha – in un altro circolo vizioso per cui i soldi sono il solo motivo per il quale John ha tutto quello che ha, ma anche l’unico frutto degli anni di vita. E l’ossessiva ripetizione anche solo del termine «soldi» diviene una sorta di palliativo per il personaggio, un continuarsi a ripetere che almeno ci sono quelli, che quel problema è risolto – come la morfina che ti cura il dolore mentre hai comunque tutto il corpo inutilizzabile.

Selina, invece, suo amore/non amore tormentato, catalizza tutte le dipendenze di John Self e incarna quel modello idealizzato e fuorviante figlio della pornografia: ecco perché John non può resisterle, perché ha cristallizzato il sesso nel porno e non riesce ad uscirne, al punto che ogni esperienza risulta alla fine inappagante. Questo distacco della percezione reale, lo sguardo vitreo che filtra il romanzo, sfocia perfino nell’impotenza del suo protagonista.

Il postmodernismo di Money sembra ribaltare la metaletteratura pirandelliana, nella quale i personaggi chiedevano conto al proprio autore: qui l’autore piega sé stesso al personaggio e si porta a un incontro-scontro con il proprio protagonista, inizialmente per risolvere un problema prettamente letterario – il problema del realismo, appunto.

Sembra che Amis abbia foggiato John Self come una sorta di alter ego negativo, nel quale poter riversare tutte le brutture che teme di poter nascondere: l’egoismo, il maschilismo, le dipendenze, l’incapacità di accontentarsi, la mancanza del decoro e del senso della misura, l’ignoranza, l’inappagabilità, perfino i brutti denti. Ma il ribaltamento è doppio, perché il romanzo non conduce alla morale retorica che ci aspetteremmo: vince la vita, perde la letteratura – in questo che è comunque un trionfo di stile; un trionfo interno al discorso artistico-letterario, e non assoluto, perché esiste una letteratura superiore a un’altra, ma non ne esiste una superiore alla vita vera.

Sempre per restare al discorso letterario, il romanzo fa quasi il verso al genere di formazione, configurandosi come de-formazione di un protagonista già adulto che non cresce ma invecchia, non si arricchisce ma perde tutti i soldi, non si realizza ma si smarrisce – e nemmeno guarisce per davvero: privato del denaro, si libera (involontariamente) soltanto di una dimensione che gli aveva permesso di esprimersi; se adesso si accontenta, è perché deve farlo. La solitudine – mai mostrata, che emerge solo per contrasto – di John è la solitudine dell’uomo moderno, circondato da una bellezza che comunque risulta insufficiente, in una spirale di contraddizione per la quale questa bellezza si avverte, perfino si comprende, talvolta se ne gode pure, ma non è bastevole alla felicità.

 

Ovviamente, come ogni classifica, l’articolo del Guardian non elegge soltanto ciò che è meglio, ma sentenzia anche cos’è peggio. In questo caso, l’ultimo posto è andato a La vedova incinta, romanzo del 2010 pubblicato in Italia ancora da Einaudi e accolto piuttosto tiepidamente – se non con un accesso di stizza come accadde per L’Espresso, che dichiarò senza mezzi termini: «Martin Amis ha rotto le scatole». Appena dieci anni più tardi, il romanzo è finito fuori catalogo e oggi risulta introvabile non solo nelle librerie di tutta Italia, ma anche online. E al di là delle polemiche che riuscì a suscitare ai tempi della pubblicazione, oggi il libro sembra essere uscito perfino dai discorsi intorno all’autore – nessuno lo menziona, tanti ne hanno abbandonato la lettura, non si trova nemmeno nella sezione degli usati.

Ma quindi: di che cosa parla La vedova incinta? È, per farla breve, un romanzo sulla giovinezza. Direte: un altro romanzo sulla giovinezza? No. Un libro così, sulla giovinezza, non era forse mai stato scritto. Il romanzo non prende una direzione, e in questa sua indefinitezza trova la definizione della sua forma. Un romanzo sulla giovinezza che è il riflesso della giovinezza: leggero all’apparenza e ricco allo stesso tempo, disorientante, informe perché mutevole. Pieno di fantasie e fantasticherie – intriso di Letteratura.

Sembra configurarsi come un romanzo a cornice, ma non è nemmeno quello. Amis recupera l’uso del prologo, ma rifiuta l’epilogo – o quantomeno ristruttura anche quello, lo chiama “Coda” e gli serve quasi come appendice. Perché la storia, quella del romanzo, è già conclusa, e in effetti non si avvertirebbe il bisogno letterario di conoscere quello che accade dopo. Ma c’è un bisogno non-letterario, «semplicemente umano», che è quello di «sapere che fine hanno fatto tutti». Per soddisfare questo bisogno, il narratore accelera i tempi, comprime trent’anni in settanta pagine dopo averne spese 350 al racconto di una sola estate.

Un’estate di giovinezza, però, dopo la quale si può soltanto invecchiare – dopo la giovinezza, del resto, s’invecchia in fretta, chiedetelo ai nonni. Restano i ricordi – quelli e «una verità e una cronologia», la forma intrinsecamente tragica che appartiene a chiunque ha superato la giovinezza; «la bocca di una maschera tragica: un volto comune a tutti coloro che non muoiono giovani».

Della giovinezza non sappiamo nulla, fin quando non ne usciamo. Da bambini ignoriamo quando arriverà – e forse ignoriamo semplicemente che esiste, in quella fase di età in cui il mondo corre soltanto su due binari: i grandi e i piccoli. Da giovani ignoriamo il momento in cui la perderemo – questa consapevolezza che può farsi tormento, come se aspettassimo una morte d’anticamera a quella naturale: la morte della nostra giovinezza. Il tentativo di Amis, allora, diventa quello di eternare questo momento irripetibile, e di farlo con la con-fusione sentimentale che la caratterizza, l’intensità, gli impeti emotivi, ma anche la rincorsa – agognata – alla leggerezza, all’indipendenza attraverso cui si cerca di plasmare un’identità che poi rifiuta la stessa fissità che ne deriva.

Di conseguenza il romanzo non può essere fisso in un impianto, ma si modella sui tanti momenti che lo vanno a comporre – che compongono, tutti insieme, una storia che non è una grande storia, ma soltanto uno stato d’animo, il Momento dei momenti: l’apice della vita al massimo del proprio splendore, del proprio fulgore, sciolta dagli obblighi del mondo adulto ma padrone delle possibilità che non sono concesse ai bambini.

Se Money appariva come una sorta di romanzo di de-formazione, La vedova incinta elude il Bildungsroman, a cui si allinea senza aderire completamente, configurandosi piuttosto come un’educazione sentimentale. Ma il gioco letterario condotto da Amis è ricchissimo, senz’altro troppo per sviscerarlo, e dai casi più evidenti si sfuma in un citazionismo tributario che può, a seconda del lettore, estenuare o entusiasmare, spazientire o divertire.

La centralità della Letteratura, il contraltare ideale alla Vita, si esprime nella centralità delle frasi, la cui giustapposizione compone la tessitura strutturale dell’opera, che vive essenzialmente sulle parole che descrivono, o sostituiscono, le azioni, più che sulle azioni stesse. Ma è l’insufficienza di queste parole, ancora una volta, a rendere il senso dell’opera – perché esprimono una bellezza soltanto letteraria, al massimo vitalistica ma non viva. Perché la bellezza non si può raccontare – anche se la poesia dice: “Bellezza è verità, verità è bellezza”. Ma una volta che la giovinezza è passata, la bellezza è perduta e resta soltanto la verità.

E qual è, questa verità? «Ce n’è una scorta infinita», dice Keith. Tra le altre, questa è una verità: che la bellezza scompare – che la bellezza muore. E il dramma della vita, che è una sola per ognuno, è che non tutti l’hanno avuta. Così, chi non ce l’ha, la insegue; chi la possiede, finisce per adorare la propria immagine allo specchio – che riflette un momento ed esprime un potere che i belli esercitano sugli altri, gli altri che alla bellezza non possono fare a meno di piegarsi. Ed essendo l’apparenza la manifestazione dell’essere (in qualsiasi modo lo si voglia intendere), si finisce per diventare quella bellezza. Innanzitutto, sopra ogni cosa.

«Oh, come mi amo. Come mi amo», dice Gloria Beautyman (un altro nome parlante) mentre si guarda allo specchio – e in quel momento sta dicendo: “Amo la mia bellezza, come gli altri, anche se è già mia”. Così Keith, che non è bello ma solo giovane, non si accontenta dell’amore di Lily, nemmeno lei bella, ma agogna la bellezza che non ha – la bellezza dei corpi che lo ossessiona al punto da rilevare le misure di ogni ragazza fino a inventarne di nuove. E nel tentativo di compiere questa impresa, sfida la logica della fedeltà, e sotto di questa soccombe. La giovinezza è anche questo tentativo ingenuo di coniugare la logica ai sentimenti: per cercare di superarli, per sentirsi nel giusto nonostante tutto. «Con Gloria fu solo sesso, con Lily fu solo amore».

Ma al termine del romanzo, quando la giovinezza è finita, si maturano le consapevolezze dell’età adulta. E si scopre il momento in cui la giovinezza ci ha lasciati, come si scopre che si ama la propria bellezza non per vanità, ma per la paura – la paura senza speranza – che un giorno la perderemo. Ma anche: per quello che quella perdita starà a indicare, e cioè il preludio alla morte. La metamorfosi del corpo si compie quando lo stato della vita lascia il posto a quello della morte: la trasfigurazione ultima e destinata di un corpo che non ci sarà concesso vedere allo specchio.

Quando tutto si chiude, non restano che i ricordi – che sono immagini raccontate, inevitabilmente, a parole. Quando tutto si chiude, restano le parole che hanno coperto tutto. Hanno coperto il sesso «perché non può essere descritto». Hanno coperto l’azione perché l’hanno ridotta a una fantasia che non si è avverata – che si è espressa soltanto nelle parole della mente – o a una confessione, o a una vicenda che è stata riferita. Trascinati dalle parole, formuliamo tutti lo stesso pensiero: «T’immagini che paradiso, vivere due volte i propri vent’anni? Sapere quel che si sa a trenta e rifarlo daccapo?»

E allora la giovinezza diventa un ricordo fuori dall’alfabeto, che si consuma in noi senza parole, in una giustapposizione d’immagini che abbiamo trasfigurato, per gli altri, nelle frasi – quelle che vanno a comporre un romanzo come questo. E ci consuma fino all’ultimo giorno.

 

(Martin Amis, Money,  trad. di Susanna Basso, Einaudi, 1999, 490 pp., euro 15; La vedova incinta, trad. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2011, 432 pp., euro 22. Articolo di Giuseppe Del Core)

 

nessuno sa che io sono qui poster italiano

Come sparire completamente

Uno dei vantaggi delle piattaforme di streaming è che permettono di accedere con relativa facilità a film provenienti da ogni angolo del mondo altrimenti poco visibili. Netflix ha da poco aggiunto al catalogo Nessuno sa che io sono qui, esordio alla regia del cileno Gaspar Antillo.

Un film piccolo, destinato al circuito dei festival e a un po’ di curiosità della stampa per l’attore protagonista: Jorge Garcia, l’Hugo “Hurley” Reyes della serie tv di culto Lost. A fare da produttore e garante per Antillo c’è Pablo Larraín, uno dei più importanti autori del cinema cileno contemporaneo.

È proprio nei confronti di Larraín che Antillo dimostra un debito estetico piuttosto evidente, ma l’opera prima del regista trentasettenne dimostra già una consapevolezza di idee e di stile da tenere d’occhio.

La storia racconta di Memo, ex bambino dalla voce d’oro oggi allevatore di pecore in compagnia di uno zio in una zona sperduta del Cile. La sua possibilità di una vita diversa è stata spazzata via quando un’etichetta discografica ha deciso di usare la sua voce per lanciare la carriera di un’altra giovanissima stella. Memo è stato relegato dietro le quinte, mentre le sue canzoni vendevano milioni di copie. Il Memo adulto vive isolato, pieno di rimpianti per il passato e di sogni mai realizzati.

Nessuno sa che io sono qui parte da uno spunto narrativo di grande suggestione. Antillo ha scritto il film insieme a Enrique Videla e Josefina Fernandez con un focus tutto riservato a Memo. L’ex baby prodigio è il centro totale del film, intorno a cui gravita tutto. È la sua emotività a spingere il film, la sua voglia di riscatto per un passato che gli ha negato un presente diverso.

Jorge Garcia, a dieci anni dalla fine di Lost, indovina il ruolo della vita, con un’interpretazione carica di empatia, solo apparentemente dimessa.

Gaspar Antillo è probabilmente destinato a diventare un nome nel giro del cinema d’autore. Con Nessuno sa che io sono qui dimostra già una maturità da regista molto pronunciata, che non a caso gli è valsa il premio come miglior esordiente al Tribeca Film Festival. Tutto il film si regge su un rapporto attento tra il corpo di Memo e lo spazio che lo circonda. Nella vastità del Cile meridionale, l’immensità di laghi e foreste offre l’ambiente ideale per sparire e non farsi trovare.

Peccato però che la scrittura non riesca ad assecondare l’ottima idea di partenza e finisca per farsi sopraffare dalla semplice suggestione delle immagini. C’è un difetto di evoluzione dei personaggi che penalizza Nessuno sa che io sono qui, così come una certa incertezza nel gestire i flashback e i momenti onirici.

Il film rimane, però, un ottimo esordio, che senza Netflix sarebbe stato destinato a una serie di passaggi per festival internazionali fino a un relativo oblio. Sarebbe stato un peccato, perché Antillo può diventare un nuovo nome importante di un cinema vitale e interessante come quello cileno.

(Nessuno sa che io sono qui, di Gaspar Antillo, 2020, drammatico, 91’)

Copertina di Ohio di Markley

L’America desolata di Stephen Markley

«Il feretro non conteneva nessuna salma. La bara Star Legacy modello Platinum Rose in acciaio calibro 18, in prestito dal Walmart locale, era solo ricoperta da una grande bandiera americana».

Così si apre Ohio, il romanzo d’esordio dell’americano Stephen Markley (Einaudi, 2020). Immagini tetre di una bara senza corpo per i funerali di Rick Brinklan, morto in guerra, e di una bandiera americana, simbolo di un’America che tornerà spesso nelle cinquecento pagine successive. Il tono cupo e crudo dell’incipit anticipa lo stile dell’opera, che segue le sorti di quattro ex compagni di liceo che si ritrovano per caso nella città natale lasciata da circa dieci anni.

Ohio mostra tutta la desolazione americana attraverso la città di New Canaan, che fa da sfondo quasi invadente per tutto il tempo del racconto. È la città in cui i quattro protagonisti, gli unici a non essere presenti al funerale della scena iniziale, si ritrovano a rivivere ricordando le persone che non ci sono più e soffermandosi su tutte quelle cose che non cambiano mai e che si reperiscono in tutti i posti in cui capita di vivere: una serie di non luoghi che dimostrano il capitalismo arrivato in periferia, con i soliti Pizza Hut, discount, Dunkin’ Donuts, centri abbronzanti e negozi per animali che rendono una cittadina uguale all’altra.

Le descrizioni paesaggistiche sono altrettanto desolate, a tratti ricordano lo stile di Kerouac, citando stelle cadenti dell’Alabama, «paesaggi sbiancati d’America», «i campi che ardevano da tutte le parti». È una notte d’estate, eppure i racconti non rimandano alla libertà estiva, ma al grigiore invernale.

Il provincialismo di New Canaan mette continuamente in luce l’altra America, quella abbandonata e addolorata, colpita dallo spopolamento urbano post crisi industriale. Troviamo le inutili americanate, le tavole calde con le foto di Marilyn Monroe attaccate alla parete, i divani in pelle, «il prototipo del ristorante di provincia, pacchiano, arredato con i pezzi sgombrati da casa del nonno appena defunto».

«New Canaan sembrava il microcosmo simbolo dell’angoscia suburbana. Quella piccola fila di negozi aveva perso tutte le insegne, si vedevano i contorni spettrali delle attività scomparse insieme ai contorni più piccoli lasciati sull’intonaco dalle viti arrugginite. Per il resto la strada presentava i soliti tumori. Casa con cartello VENDESI. Casa con cartello PIGNORAMENTO».

Ogni capitolo è dedicato a un personaggio della storia: ci sono quattro protagonisti, ma tutti appaiono in ogni capitolo, e il libro diventa una sorta di labirinto in cui le stesse storie sono raccontate da punti di vista differenti, almeno fino al punto di svolta. Pertanto, non sono mai davvero le stesse.

Il capitolo iniziale ha come protagonista Bill Ashcraft: con le stesse convinzioni politiche che lo accompagnano dai tempi del liceo, fa ritorno in città non per il funerale dell’amico, ma per consegnare un pacchetto misterioso. Con la tipicità da personaggio di film americani, è l’ex campione della squadra di pallacanestro fidanzato, ai tempi del liceo, con la ragazza più popolare, Lisa Han. Un pacifista contrario alla guerra degli americani e con convinzioni anticapitalistiche.

Dieci anni dopo si ritrova solo con quelle, senza aver realizzato i suoi sogni, senza aver cambiato il mondo. Ashcraft è un personaggio che provoca nostalgia e tenerezza, che crede nei propri valori e alla fine, nella sua ipocrisia, tanto gli basta. «Anche dopo tutto questo, un motivo per rialzarsi c’era sempre. Per trovare il coraggio di vivere ed essere vivi. Per ribellarsi a quell’entropia senza volto, alla logica selvaggia dell’accumulazione che li avrebbe riportati tutti all’esilio, che voleva spogliarli di ogni cosa, di ogni luogo e ogni persona che avevano amato».

Stacey Moore è un’altra protagonista della storia, tornata a New Canaan per incontrare la madre di Lisa Han, con la quale aveva scoperto la sua omosessualità ai tempi del liceo e che non aveva più rivisto dal diploma. Che fine aveva fatto Lisa? Perché di lei restano soltanto cartoline spedite da posti sparsi nel mondo? E perché non usa più i social? È soltanto sul finale che la storia di Lisa Han, presente nei racconti di tutti i personaggi, trova una risposta. Proprio quello di Stacey è uno dei capitoli più affascinanti, intriso di teorie ecologiche e citazioni di classici dell’ecologia, delle credenze della famiglia Moore, bianchi borghesi ipercattolici, e dei disagi della sua omosessualità. Il suo capitolo ha un finale sospeso, sta lasciando la città ma una figura di una donna, che lei riconosce, la ferma chiedendo aiuto.

Ohio prosegue con altri tre capitoli, in cui si incontrano Dan Eaton, reduce dall’Iraq che torna in città per vedere Hailey Kowalczyk, la sua ex ragazza, personaggio fondamentale della storia. Tra ricordi di liceo e ricordi di guerra, si torna a menzionare il famoso «omicidio che non c’è mai stato», una sorta di leggenda liceale già citata nelle pagine iniziali, secondo cui qualcuno forse era scomparso o era morto per sbaglio, o forse aveva inscenato la propria morte e viveva ormai lontano dalla città.

Arrivano i personaggi di Tina Ross, ex cheerleader del liceo, Lisa Han e il finale della storia dell’omicidio che non c’è mai stato. È una storia che viene poco approfondita, come se fosse una semplice diceria che non influenza le vite dei personaggi, ma che alla fine si rivela la risposta a tutte le domande. Proprio Hailey la è la prima a parlare dell’esistenza di un video hard di Tina Ross e Todd Beaufort, svelando che quest’ultimo aveva accoltellato una ragazza che aveva una copia del video. Cosa sta facendo Tina Ross? E perché emana odore di benzina? Anche questo capitolo ha un finale sospeso. Macchine della polizia e un omicidio.

Lo scrittore è abile nel mettere in luce i progressi intellettuali e umani dei personaggi, tutte le pagine sono intrise di flashback. A tratti è una lettura lenta, e il lettore è sensibilmente vicino ai temi trattati: dal capitalismo alla guerra, dalla forte presenza del razzismo in America alla politica di Obama, dai temi ecologici ai figli partiti per la guerra, e sullo sfondo trentenni che si guardano indietro e provano pura nostalgia per i tempi andati e i sogni non realizzati, per le persone amate e quelle non apprezzate che non ci sono più.

Non c’è alla base una trama accattivante, è un libro fatto di intrecci, ricordi, visioni, in cui il superfluo sembra protagonista e il non detto alla fine si rivela essere il vero senso della storia. Soltanto alla fine i quattro personaggi scopriranno il segreto che ha segnato le loro vite.

«La vita stessa è diventata l’ultima risorsa usa e getta, sfruttabile. Faremo di tutto. Spianeremo le montagne, cancelleremo intere specie, sposteremo fiumi imponenti, ridurremo in cenere le foreste, cambieremo il pH dell’acqua, ci ricopriremo di sostanze tossiche. La nostra specie ci ha messo due milioni di anni ad assumere la posizione eretta e solo cinquecento generazioni a fare il resto. La nostra è la cultura dell’abbondanza, del tutto dovuto, e in pratica di poco altro. Abbiamo messo a rischio la nostra eredità perché non sappiamo controllarci. Non sappiamo controllare la nostra brama».

 

(Stephen Markley, Ohio, trad. di Cristiana Mennella, Einaudi, 2020, 538 pp., euro 21, articolo di Giusy Esposito)

 

Parachutes e i primi vent’anni dei Coldplay

C’è stato un periodo in cui i Coldplay avevano il potenziale per diventare i nuovi Radiohead. Ce li ricordiamo i Coldplay, quei Coldplay. Ce lo ricordiamo Chris Martin. Quante speranze. Fa strano pensarci oggi, vent’anni dopo l’uscita di Parachutes. Sapendo cos’è successo e come si è sviluppata la loro carriera.  Ma è stato così.  Il gruppo di Chris Martin era riuscito a scrivere un album decisamente maturo per essere un esordio, lontano dalle suggestioni del brit pop, che in quegli anni iniziava a mostrarsi meno efficace rispetto al passato.

Gli Oasis, infatti, solo qualche mese prima pubblicavano Standing On The Shoulder Giants, momento in cui il gruppo dei Gallagher inizia prepotentemente la sua discesa verso un’inferno di insensatezze e pochezza di idee. Gli Oasis erano il passato, i Blur (o meglio Demon Albarn) provavano a stare al passo coi tempi reinventandosi come Gorillaz. Il futuro della musica era stato tracciato dai Radiohead, che tre anni prima avevano scritto Ok Computer. Ed è questa la strada che i Coldplay intraprendono.

C’è da dire, comunque, che Parachutes non è prettamente erede diretto di Ok Computer:  strutturalmente sono due album differenti. Non ci sono,  nella prima esperienza di Martin, quei guizzi estemporanei quasi prog  (l’episodio di “Paranoid Android” su tutti) o quella capacità di riscrivere le regole del rock, proiettandolo verso qualcosa che ancora non è. Non c’è, sicuramente, il perenne sguardo sul futuro che rende Ok Computer l’album più importante degli ultimi venticinque anni.  C’è, invece, uno sguardo verso la cristallizzazione del presente e magari un occhio verso un futuro recentissimo. I Colplay sembrano comunque capaci di parlare un linguaggio che si trova sulle frequenze di quello dei cinque di Oxford.

Allo stesso tempo, però, esistono dei punti in comune: “Karma Police” è padre putativo di “Trouble“,  certe sospensioni di “Let Down” le possiamo ritrovare lungo tutto l’album (“Spies” e “Sparks“), l’alienazione di “The Tourist” è sparsa qua e là, certi tappeti sonori tipici di Ok Computer possiamo ritrovarli in “High Speed“.

In Parachutes è tutto molto chiaro e controllato, i brani non si sbottonano mai più di tanto. Tutto è conforme a sé stesso.  Entrare dentro Parachutes significa aprire senza far rumore le porte di una vecchia sala da ballo. Parachutes è un album sussurrato. Ci troviamo all’interno quello che poi, in parte, troveremo l’anno successivo con Reveal dei R.E.M., forse l’album più sottovalutato di Michael Stipe e compagnia, ma dotato di una profondità espressiva con pochi pari. Quella capacità di trattare il pop con occhi nostalgici dei grandi autori.

L’ingegno è stata quella di andare a prendere certi spunti di The Bends, ripulire le chitarre e provare a creare un universo sonoro che potesse andare a sposarsi con Ok Computer. Da alcune angolazioni, Parachutes sembra un negativo apocrifo del secondo album dei Radiohead.

I Coldplay, quindi, erano riusciti a scrivere un album enorme nel suo essere discreto, capace di captare un mondo che andava scomparendo e gettando le basi per una carriera luminosa. Insomma: I Coldplay potevano diventare uno dei pilastri della musica del nuovo millennio.

E fino a un certo punto ci sono pure riusciti. A Rush Of Blood To The Head  è un secondo album notevole, pieno di istant classic (“The Scientist“, “Clocks“, “God Put A Smile Upon Your Face“) e una scrittura continua che  non trova intoppi e che, addirittura, per alcuni aspetti può anche farsi preferire al suo predecessore. I Colplay erano riusciti a confermarsi, mancava forse ancora il capolavoro assoluto, ma la strada poteva far ben sperare.

Per molti  X&Y è l’inizio della mutazione dei Coldplay da grandi autori pop a generatori di marchette.  È vero che in quel tour iniziavano a farsi vedere componenti da gruppo da stadio, palloncini e coriandoli e simili. Quindi da questo punto di vista può essere un’affermazione verosimile. Ma bisogna fare attenzione, perché le sonorità di quest’album sono comunque in linea con quello che lasciava A Rush Of Blood To The Head. Anche i brani più maliziosi, come per esempio “Fix You“, avevano dentro di sé una storia credibile da raccontare. O “Speed Of Sound“, figlia di “Clocks“, risultava tremendamente efficace e non ambigua.

Quindi il buco nero che va dal 2008 al 2014, due album di una pochezza enciclopedica (Viva la vida Or Death And All His Friends, nonostante Brian Eno, e Mylo Xyloto), e il paragone della disgrazia che li ha accomunati ai Muse, altro gruppo il cui cammino grida alla scandalo. Ma se per il gruppo di Bellamy le speranze sono del tutto scomparse, per Chris Martin il discorso è ancora aperto.

Il mercato aveva vinto sull’arte. In quel lunghissimo frangente, i Coldplay avevano definitivamente cambiato muta, trasformandosi in un gruppo che voleva forzatamente farsi piacere da tutti, con scelte banali e cliché insopportabili. Tra il 2004 e il 2007 gli Arcade Fire prendevano lo spazio che sembrava destinato a loro. Funeral e Neon Bible riscrivevano le regole del gioco: i Coldplay abbandonavano il tavolo. Avevano abdicato, preferendo un pop posticcio degno del peggio delle boy band. Nel giro di pochi anni, i Coldplay si erano trasformati da gruppo di punta a gruppo dozzinale di cui, francamente, non si sentiva la necessità. I Coldplay erano morti.

La disgrazia che passa da “Life In Technicolor ii“, scontrandosi  con “Mylo Xyloto” e infrangendosi definitivamente con “Paradise” e “Charlie Brown“, sparisce momentaneamente con un album che non regala particolari emozioni, ma che paragonata al recente passato è oro che cola: Ghost Stories. Forse un po’ troppi boniverismi, ma non si può avere proprio tutto. A questo segue un altro errore, A head Full Of Dreams. Sulla scia di Mylo Xyloto, i Coldplay riescono a rituffarsi in quel mare di ovvio, cori da stadio, ooohhhh-ohhhhh, e davvero poco altro.

Poi, quando le speranze sembravano andate definitivamente (Ghost Stories è stato un abbaglio), arriva il 2019 ed esce Everyday Life. World Music, afrobeat, gospel. E ballate alla Coldplay vecchia maniera – l’ultima traccia, “Everyday Life” può essere senza problemi uno dei loro brani migliori di sempre. Incredibile. Incredibile che sia successo davvero.

I Coldplay esistono ancora, e per chi li ha amati dagli esordi non può che somigliare al rivedere un vecchio amico dopo tantissimi anni. E non possiamo che essere contenti.

 

 

 

 

foto di natalia ginzburg

Natalia Ginzburg: scrivere a bassa voce

Quella di Natalia Ginzburg è senza dubbio una delle voci più originali, anomale e inconfondibili del panorama letterario italiano del secondo Novecento. Allergica a etichette stringenti e spesso avvilenti e capace di sfuggire sempre alle mode e alle tendenze imposte dalle convenzioni formali del momento, dal milieu culturale d’appartenenza o dalle svolte storiche, Natalia Ginzburg ha scritto, nell’arco di una carriera pluridecennale, opere magistrali come Lessico Famigliare, Le piccole virtù, Caro Michele, che la certificano di diritto, se mai ce ne fosse ancora bisogno, tra le autrici più importanti e canonizzate dell’Italia del XXI secolo, insieme a Elsa Morante e Anna Maria Ortese. A lato e oltre la sua variegata, per quanto non estesa, produzione artistica – romanzi, racconti, pezzi di costume, saggi, pièces teatrali – ciò che ci sorprende e ci affascina oggi (si veda anche la riscoperta in atto al di là dell’oceano Atlantico, dove negli ultimi anni nuove e inedite traduzioni stanno interessando pubblico e critica) è il potere della sua prosa ipnotica, evocativa e ammaliatrice, priva d’enfasi o retorica, la qualità indiscutibile del suo fraseggio semplice e vigoroso, vigoroso perché semplice, quasi sillabato, l’impatto sonoro e musicale del suo timbro ritmico e contrappuntistico (Pavese lo definiva scherzosamente lagna Ginzburg), che promana solo dalla tessitura lessicale, dal periodo e non dalla struttura retrostante (talvolta mancante), dal concetto o dall’idea. Questo perché per la Ginzburg la scrittura è una vocazione primordiale, genetica, quasi ferina, che rifugge da eccessive razionalizzazioni o filtraggi teoretici.

Nella concordanza istintuale e immediata di pensiero e impulso scrittorio, il lessico disadorno, puntuale e rapido della Ginzburg restituisce con precisione millimetrica, assecondando una predisposizione ineguagliata per l’immagine espressiva, netta ma non icastica, il colore, il tratto e l’ordito di ciò che viene raccontato, persone, oggetti, situazioni, senza perdersi nella divagazione sterile della descrizione fine a sé stessa. Il registro piano, monocorde, apparentemente inscalfibile, che non cede a variazioni rapsodiche, siano esse innalzamenti aulici o abbassamenti dialettali e colloquiali, manifesta la sua creaturale propensione per il dettaglio a prima vista infimo e pulviscolare, che parlando di sé s’incarica però di parlare anche di tutto il resto. Proprio nel segreto intimo di questa preziosa attitudine si cela la grandezza della Ginzburg, la cui naturalezza dello scritto è emanazione veritiera, spontanea e genuina, non poeticamente determinata o ricercata, e dunque lontana anni luce dal patetismo/pietismo di buona parte del Neorealismo a lei coevo. La scrittrice torinese possiede di conseguenza il dono unico e assai raro di dire cose difficili mettendo al bando l’ambiguità o l’ermetismo, assegnando il massimo valore alla parola schietta, integra, semanticamente pregnante e perciò rivelatrice. Le sue opere sono infatti costellate da parole-mondo, che, galleggiando su di una superficie narrativa tendente al basso, intarsiata da una tristezza aprioristica e ineludibile, illuminano per un attimo l’universo circostante, perché in fondo la verità della letteratura è la verità del reale, il cui centro nevralgico, brutale e doloroso, può essere avvicinato solo attraverso fugaci bagliori di senso, tramite accostamenti repentini ed epifanici di conoscenza, subito dopo frustrati e rinnegati.

Entro il perimetro di una dialettica continuativa di repulsione e avvicinamento al magma informe e incandescente dell’esperienza umana, acquisisce spessore per logico contrappasso il canto dimesso dell’oggetto, la cui sublimazione poetica ne modifica la fisionomia sino a renderlo cristallizzazione immanente del passato, sua proiezione presente, a cui l’autrice si avvicina armata dell’amara consapevolezza della caducità del tempo. La scrittura della Ginzburg tende allora verso il livello minore, primogenito, dell’esistenza, quello meno acclamato e quindi decisivo, irradiante. La sua prosa, che si configura spesso come un ruvido impasto di fatti, incontri, dialoghi, ricordi, impressioni, è essenziale, ontologicamente essenziale, sorretta da uno stile sorvegliato, minuziosamente controllato, il cui apparente minimalismo non scade mai nella superficialità scialba e piatta che caratterizza di frequente le forme di narrazione dirette e banali tipiche della nostra contemporaneità.

Nei suoi testi la Ginzburg aggiunge per sottrazione, inseguendo il massimo grado di concisione e lucidità, a volte venato da stille di divertita e lirica malinconia, nel tentativo di sondare e auscultare la storia vera, quella posta all’ombra della Storia dei manuali, delle rievocazioni e degli anniversari, che scorre in profondità come un fiume carsico, di cui è possibile scorgere l’alveo solamente in corrispondenza di alcuni brevi pertugi nella roccia sottostante. All’interno dei suoi romanzi e dei suoi racconti, in cui l’io emerge in quanto io plurale in una perpetua e implicita tensione pronominale, la Ginzburg getta uno sguardo obliquo sulle cose della sua vita e del mondo, assestando la parola sul calco secondario dell’esperienza, quando l’impatto emozionale si è raffreddato e un leggero velo di moderata nostalgia si è frapposto nel mezzo. La quotidianità racchiusa dalla sua scrittura ha il potere di dipingere con lievità e chiarezza un autoritratto collettivo, in primis famigliare, che sfugge a ogni tipo di glorificazione retroattiva, in cui la voce narrante insegue l’anonimato, mimetizzandosi con i personaggi e gli eventi tratteggiati dallo stesso atto narrativo.

Nonostante l’utilizzo reiterato della prima persona singolare, declinata poi secondo differenti sfumature ma sempre fedele all’urgente espressione del sé e del reale, una delle peculiarità più evidenti della maestria autoriale della Ginzburg, sviluppata anche in virtù d’un modo d’essere e di relazionarsi che la caratterizza sin dall’infanzia, è proprio la capacità di porsi ai margini del racconto, di farsi da parte, per lasciare spazio alla rielaborazione romanzesca dell’affresco, di volta in volta diverso e paradossalmente uguale, d’una famiglia, d’una generazione di scrittori e intellettuali, di un fondamentale periodo storico del nostro Paese.

Grazie a un dispositivo testimoniale del tutto puro e sincero gli scritti di Natalia Ginzburg, che si tratti di fiction o non fiction, collocati sulla soglia frastagliata che divide realtà e finzione, sono immersioni dolenti e però piacevoli nel presente e nel passato di una vita che si relativizza e scinde sino al punto da diventare più vite, ritratte da un cantuccio appartato da una voce nitida e tersa. Dall’esplosione centripeta di squarci di memoria germogliano allora piccoli spazi di esistenza doppiamente vissuta, in cui la Ginzburg, sospinta da un istinto ancestrale per l’umana condivisione, tanto più sentito quanto meno ostentato, restituisce un corpo e una voce alle ombre prodotte dalla dimenticanza e dal ricordo, assegnando alla scrittura il potere taumaturgico di riassemblare volti, gesti, sguardi un tempo conosciuti, ammirati e amati. Ecco perché, in virtù di un credo innocente e salvifico, incorruttibile e incorreggibile, l’intera opera di Natalia Ginzburg, riflesso del sé nel mare del noi, è un atto di fede nel valore primario e rivelatore della letteratura.

Poster italiano di Dark su Flanerí

Dark, o dell’inutilità irreversibile del tempo

Il 27 giugno 2020 è tornata su Netflix Dark, la serie tv tedesca ideata da Baran bo Odar di grande successo giunta alla sua terza e ultima stagione. Un finale faticoso, sbrigativo e tutt’altro che soddisfacente.

Parlare di Dark senza rivelare troppo della trama è complicato. Ci limitiamo a dire che la storia si apre a Winden, immaginaria cittadina tedesca con annessa centrale nucleare. Lì, nel 2019, avvengono tre fatti che sconvolgono gli equilibri di quattro famiglie: Michael Kahnwald si impicca lasciando alla moglie e al figlio adolescente Jonas una lettera, da aprire alle 22:13 del 4 novembre; spariscono due ragazzini nel nulla; viene ritrovato il corpo di un terzo bambino vestito con abiti anni Ottanta.

Questa serie di eventi è il preludio a una danza di viaggi indietro nel tempo nel 1986 e nel 1953 destinato a espandersi nella seconda stagione fino al 1921 e al 2052 e a un’infinità di altre linee temporali nella stagione conclusiva.

Le ragioni del successo di una serie come Dark sono da ricercare soprattutto nella passione di ampie porzioni del pubblico internazionale per le vicende complicate. Il viaggio nel tempo è un materiale narrativo di grande fascino, sia quando è trattato in chiave pop come nella saga di Ritorno al futuro sia quando si basa su presupposti più o meno scientifici in film come InterstellarArrival.

La serie firmata da Baran bo Odar ha molti elementi in grado di catturare l’attenzione degli spettatori. Prima di tutto è realizzata molto bene dal punto di vista tecnico, con un ottimo casting e una ricostruzione assolutamente credibile delle varie epoche storiche che attraversa. Nella scrittura, poi, ha la furbizia di unire il fascino della scienza con l’inquietante dubbio del trascendente, le vicende sentimentali con complottismo e società segrete.

Dark è un prodotto estremamente suggestivo, con un’atmosfera e un ritmo tesi che non risparmiano colpi di scena e momenti spiazzanti per il pubblico. Peccato, però, che non sia in grado di reggere alle sue stesse premesse.

Le tre stagioni si basano su un meccanismo di accumulo narrativo che anziché fornire spiegazioni aumenta i dubbi. La prima annata si conclude con la rivelazione di un futuro in cui viaggiare. La seconda aggiunge un’ulteriore linea narrativa nel 1921. La terza va fuori scala con sempre più epoche da visitare e addirittura mondi paralleli.

Nelle prime due stagioni a tenere incollato lo spettatore era la curiosità di capire in che modo la possibilità del viaggio del tempo determinasse il destino di tutti i personaggi (tanti, troppi, per lo più superflui) che compaiono. Arrivato al terzo anno, Dark non si preoccupa di fornire risposte ma si limita a scombinare  gli elementi con una vagonata di nuove informazioni che servono solo a condurre il pubblico verso un finale deludente e incompleto.

L’andamento ciclico dei viaggi del tempo e l’insistenza sul concetto di ripetizione («il principio è la fine e la fine è il principio») finiscono per sviluppare un loop narrativo in cui le vicende si ripetono stancamente uguali a loro stesse.

Vi basta andare sulla pagina Wikipedia di Dark per leggere che la vicenda si regge su due postulati di fisica teoretica applicati ai viaggi del tempo: il principio di autoconsistenza di Novikov e il paradosso della predestinazioni. Due teorie già alla base di numerosi romanzi e film di fantascienza. Baran bo Odar sembra che sia finito prigioniero delle stesse premesse su cui aveva deciso di fondare  la serie. Incastrato nel loop narrativo che aveva creato ha cercato di aggiungere sempre più elementi alla ricerca di una via di uscita. Ma non c’è riuscito.

(Dark, di Baran bo Odar, 2017-2020, tre stagioni su Netflix)

Copertina di Essere senza casa di Didino

Il segno del reale sulla nostra pelle

In questi anni ci siamo abbeverati di saggi e teorie che spiegano le mutazioni economiche, sociali, culturali, cognitive del nuovo ipercapitalismo tecnologico. La riscoperta in chiave critica di Dick e Ballard, la divulgazione a più ampio raggio di Fisher, Reynolds, Srnicek, Williams ci ha fornito degli strumenti per leggere un reale complesso – non si tratta di fare name-dropping, ma di rendere conto di un certo milieu che si è posto come avanguardia critica del nostro tempo.

Al di là della teoria c’è però una riflessione da fare su come tali fenomeni influiscano sul nostro modo di vivere e ragionare sul piano soggettivo, quali siano le categorie e le figure del sapere che introiettiamo, spesso inconsciamente, nel nostro alfabeto cognitivo. Ci ha provato Simon Sellars con Ballardismo applicato, esempio riuscito di speculative fiction in cui – attraverso la storia fittizia di uno studioso di Ballard – si ricostruiscono le figure epistemiche che agiscono sul reale, quali lo specchio, il fantasma, la fascinazione per l’inorganico, il complotto come metafora ermeneutica.

Non è tanto diverso da ciò che nel Seicento, un’altra epoca di vuoti e cambiamenti, facevano Emanuele Tesauro nel Cannocchiale aristotelico o Torquato Accetto in Della dissimulazione onesta: ovvero ridiscutere lo statuto degli strumenti retorici e reali – in quel caso la metafora, la maschera e il ruolo culturale della corte – per adattarli a un nuovo paradigma epistemologico, e dunque definire l’estetica e l’ermeneutica del Barocco.

Detto così sembra molto più complicato di ciò che è, ma basta leggere Essere senza casa di Gianluca Didino (minimum fax, 2020) per rendersi conto di come alcuni automatismi culturali influiscano sulla vita di tutti i giorni. Il pregio di questo saggio risiede nella capacità di unire generale e particolare con naturalezza, grazie alla felice intuizione di desumere le forme ideologiche della contemporaneità proprio a partire dall’esperienza dell’autore. E proprio come da titolo Didino ci racconta del precariato cognitivo e materiale di chi, emigrato nella Londra in odor di Brexit, deve fare i conti con la difficile situazione abitativa della città.

Londra e l’Inghilterra – nonché il cortocircuito fra cultura anglosassone e italiana – costituiscono il fondale per le speculazioni dell’autore, che prende a pretesto la sua esperienza per raccontarci la mutazione degli spazi fisici e mentali nelle città occidentali, trasformate in hub del potere finanziario e piattaforme estrattive del lavoro immateriale, nuovi accumulatori di plusvalore nella geografia del platform capitalism e per questo tanto inospitali quanto gerarchizzate dal punto di vista socio-economico. Fra critica dei prodotti culturali – Fisher e Reynolds i numi tutelari – e flânerie urbana in stile Iain Sinclair, Didino ci restituisce un ritratto efficace di Londra che funge da sineddoche per descrivere i rapporti di produzione di una qualsiasi metropoli abitata dal cognitariato.

È solo il primo punto di un discorso che tocca gli ambiti più disparati, dal cinema alla televisione, dalla cronaca alla letteratura. Se la riflessione sulla città diviene una critica al rapporto fra soggetto contemporaneo e spazio, allo stesso modo l’autore rileva dal modo in cui fruiamo alcuni prodotti culturali un certo stravolgimento nella nostra percezione del tempo. La critica alla retromania della nostra epoca non è una novità: consumiamo l’estetica dei decenni passati tramite il feticcio, ne ricombiniamo i tratti fondamentali per creare ibridi ipercontemporanei, allo stesso modo attestiamo un impasse culturale nell’incapacità di formalizzare qualcosa di realmente nuovo, se non mediandolo con il fantasma di un passato che viene riciclato in maniera meccanica.

Ancora una volta Didino spiega il fenomeno con chiarezza, prelevando un ricordo personale; la citazione è lunga ma serve a mettere in luce il metodo argomentativo: «Nel 2007 mi ritrovai, a Torino, a una festa a tema anni Cinquanta. La sensazione era quella di essere entrati in Ritorno al futuro, con me e i miei amici nella parte di Michael J. Fox con il suo inadeguato gilet di piumino rosso. Come nel film di Robert Zemeckis si respirava un’atmosfera di tempi accumulati alla rinfusa. Il fatto che il nostro abbigliamento ricalcasse già mode vecchie di decenni, e nonostante questo sembrasse assurdamente futuribile in quel contesto di ossessiva riproduzione del passato, dava la strana sensazione di essere finiti in un mondo disfunzionale, un presente alternativo dove il tempo aveva smesso di scorrere nella giusta direzione. Nel locale affollato, dove la temperatura era di diverse decine di gradi più alta che nella fredda notte torinese, avevo avuto un’illuminazione degna di un romanzo di Burroughs: eravamo tutti culturalmente morti, spettri in una cultura spettrale. Non solo quei ragazzi e quelle ragazze che ballavano la stessa musica dei loro nonni se i loro nonni fossero nati a Memphis, ma anche noi con il nostro culto dei film di Sergio Leone e le pettinature da Robert Smith. Scoperchiando archivi sepolti nei meandri più nascosti di sottoculture dimenticate, internet non ci stava portando verso il futuro – che sembrava ogni giorno più vago e incerto – né serviva a restituire l’energia del passato – nonostante le Les Paul e i tuxedo l’accuratezza filologica era solo una forma di illusione, una elaborata scenografia – ma ci stava trascinando in un eterno e inquietante presente».

Grazie al contrappunto biografico l’autore riesce a produrre immagini in grado di spiegare chiaramente l’incidenza delle forme culturali nel nostro vissuto, e non solo. Nella parabola di Essere senza casa le riflessioni su spazio e tempo si incrociano nella costruzione di nuove categorie cognitive. Dal rapporto disturbato fra soggetto, spazio e tempo – disfunzionale in quanto mediato dai dogmi ideologici del capitale – nasce una riflessione su weird e eerie, lo strano, il bizzarro, il perturbante contemporaneo che già era stato oggetto di riflessione nell’opera omonima di Mark Fisher (nell’edizione italiana la postfazione è proprio di Didino).

Il sentimento del bizzarro, la percezione del fantasma insito nella nostra cultura, diviene lo strumento estetico e cognitivo con cui il soggetto contemporaneo perviene al controsenso di un cultura bloccata in un eterno presente. Si tratta di una prima presa di coscienza della vuota forma del nostro paesaggio culturale che occulta i rapporti di forza socio-economici, e weird e eerie sono strumenti, più che vere e proprie categorie semiotiche, con cui saggiare la forma onnicomprensiva che ha assunto lo Spettacolo di debordiana memoria nell’era tardocapitalista. Proprio come la metafora, tornando alla nota iniziale, era lo strumento ermeneutico dell’epoca barocca.

Questo è solo un percorso di lettura fra i molti che predispone il ventaglio discorsivo di Essere senza casa. Si tratta di un’utile cassetta degli attrezzi in cui il lettore accorto può prelevare i simboli adatti a discernere il reale, giacché ogni aspetto preso in esame dall’autore prevede il nitore della sintesi, segno della profonda riflessione che c’è a monte. Ecco che ci ritroviamo ad avere un alfabeto preciso per esprimere l’abisso psichico e materiale di cui fa esperienza il cittadino dell’Occidente globalizzato. D’altronde, a proposito di case, io stesso scrivo questo articolo in procinto di lasciare il nono appartamento in nove anni, nella quarta città in cui ho vissuto, e chissà se sarò già a disfare le valigie nel decimo quando questo pezzo verrà pubblicato.

 

(Gianluca Didino, Essere senza casa, minimum fax, 2020, 172 pp., euro 15, articolo di Giovanni Bitetto)

 

Premio Tenco, Brunori Sas, Paolo Benvegnù

Si può dire senza molti problemi: Dell’odio dell’innocenza è un album più complesso e più interessante di Cip!. In maniera molto semplice e netta, Benvegnù ha tirato fuori un lavoro che ha nella ricerca della parola – tecnicamente motore delle valutazioni della giuria del Tenco – un livello di attenzione che si trova diversi piani sopra Brunori.  Oggi come in passato.

Le votazioni hanno dato questo esito: 56 a 48.  Brunori Sas ha battuto Paolo Benvegnù per 8 punti. Al terzo posto Diodato con Che vita meravigliosa, poi i Perturbazione con (dis)amore e per ultimo Luca Madonia con Piramide – quest’ultimo, in questo quintetto, avrebbe forse potuto racimolare qualche cosa in più.

Brunori ha capito come farsi apprezzare da un pubblico più vasto, una sorta di piccolo nuovo Ligabue non con gli stivali da cowboy ma in pantofole.  È un male piacere a molti? Dobbiamo odiarlo perché non è più di nicchia come agli esordi quando cantava “Italian Dandy“? No, chiaramente no. Ma questo non può distrarci dal fatto che Cip!, senza tirare in ballo il passato e quindi tutta la figura di Brunori, sia meno efficace rispetto a Dell’odio dell’innocenza – chiaramente non da un punto di vista di vendite, lì la questione neanche si apre. La votazione dovrebbe non curarsi della portata mainstream dell’album, ma qui, in realtà, sembra che le cose siano andate proprio in questa direzione.

Un aspetto fondamentale risiede nell’aspettativa e l’aura da guru/santone che da qualche tempo sta attorno a Brunori. Quello del cantautore calabrese è un caso molto strano, figlio un po’ di un buco generazionale. Tutta l’it pop sembra tagliata fuori da questo discorso, vuoi per impegno/disimpegno, vuoi anche per un discorso magari meno profondo e interessante, ma che può influire: la presenza fisica. Calcutta e Contessa (nonostante quest’ultimo, per chi scrive, sia il l’autore che è riuscito meglio a raccontare gli ultimi dieci anni) non vestono quel ruolo. Ci sarebbe Tommaso Paradiso, ma sta prendendo una strada piuttosto discutibile. Brunori sì, con quella barba e i capelli cenere. Quel portamento già visto nell’idea che abbiamo del cantautore.

 

Sulle sue spalle, infatti, è stato gettato il peso di un cantautorato che sembra smarrito, senza una o più voci che possano narrare con lo statuto che compete la società, i tempi, una generazione. Partendo dall’indie di una decina di anni fa insieme al collega Dente, piano piano è andato a trascolorare anche in contesti diversi, facendosi altro dal semplice cantautore indie di nicchia.  Questo vuoto storico ha probabilmente gonfiato i valori reali di Brunori, finendo quasi per essere una speculazione artistica, e che infatti in Cip! è andato a ripescare massicciamente un modo di fare un po’ alla De Gregori per darsi ulteriormente un tono da vero cantautore, senza disdegnare i suoi soliti spunti alla Gaetano. Ma di fondo è proprio nella scrittura che il calabrese non riesce a convincere mai pienamente.

C’è quindi l’annosa questione su cosa sia una canzone d’autore ed è su questa dovrebbe ruotare il discorso delle motivazioni che spingono la giuria del Tenco ad assegnare il premio.  Ma se partiamo anche da un’idea più o meno vaga di cosa abbia rappresentato in Italia l’idea storicizzata della musica autorale, Dell’odio dell’innocenza è una cosa che rientra in certi canoni, mentre Cip! sembra solo costeggiarli.

E non è neanche un merito particolare quello che si dà a Benvegnù. Senza fraintendimenti: Dell’odio dell’innocenza è un lavoro di spessore, ma nella sua carriera ha scritto di meglio. Se non chiaramente Piccoli fragilissimi film, il suo vero e proprio capolavoro, anche solo con Earth Hotel si è fatto preferire, stando una spanna più in alto. Oggi il milanese è andato a ripescare alcune sonorità radioheaddiane (Ok Computer in particolare) a cui ha aggiunto, senza strafare, inclinazioni alla Ivano Fossati.

Per fare un esempio diretto: un brano come “Non torniamo più“, che mischia un vecchio mondo  (proprio Tenco, “Lontano, Lontano”) a uno più o meno nuovo (qualcosa di sigurrossiano), Brunori Sas non lo ha mai azzardato. I brani di Cip! sembrano solo muoversi sulla superficie della profondità delle cose, guardandole dall’alto, senza provare a scontrarci. È sempre presuntuosamente distante, ma in grado di camuffarsi e di sembrare altro. Il brano più riuscito dell’album è banalmente uno dei singoli, “Al di là dell’amore”, in fondo anche un pezzo furbetto, con la sua inclinazione verso una radiofonicità sempliciotta. Il resto è vago: una sufficienza striminzita.

Benvegnù, invece, regala sempre la sensazione di andare a fare i conti con l’intangibile dell’esistenza, anche nei pezzi meno riusciti. E questo è un aspetto che si può ritrovare in tutta la sua carriera solista.

L’ex Scisma, dunque, sembra un eterno secondo, un po’ come sono/sono stati Murakami o Philip Roth nell’annosa questione dei premi Nobel. Mentre invece Brunori è sempre più lanciato a vestire i panni del vincitore, quello che ce la fa. C’è forse da rivedere, in definitiva, per le prossime stagioni, l’idea del premio Tenco: cosa vuole e a cosa ambisce.

 

Alba senza giorno I colpevoli

Il vero oltre il reale

Alba senza giorno di Fernando Coratelli (Italo Svevo, 2019) e I colpevoli di Andrea Pomella (Einaudi, 2020) sono due libri completamente diversi tra loro. Il primo – che inaugura la collana di narrativa INCURSIONI – racconta la storia di quattro personaggi – due giovani bulgari di etnia rom in cerca di fortuna nell’Europa occidentale, una giovane ragazza madre della periferia milanese, un sicario della ’ndrangheta che deve vendicare un omicidio –, le cui vicende si sfiorano fino a intrecciarsi nel finale. Il secondo – che viene dopo L’uomo che trema (Einaudi, 2019) – è un memoir dedicato all’incontro, dopo trentasette anni, di un figlio con il padre che ha abbandonato la propria famiglia per amore di un’altra donna.

Abbiamo chiesto a Coratelli e a Pomella di dialogare tra loro, partendo da questi due libri apparentemente agli antipodi.

 

 

Fernando Coratelli: Andrea, ho letto il tuo nuovo romanzo, I colpevoli, e vorrei partire da una suggestione. Suggestione che finisce col dare un’accezione allegorica a questo mio primo intervento con cui apro il nostro dialogo. Si tratta di un brano musicale che mi ha accompagnato mentre ero immerso nella lettura del tuo romanzo: Notte inquieta di John Servus Orchestra, usato da Sergio Zavoli come sigla iniziale del ciclo di “La notte della Repubblica”. Peraltro tu stesso nel romanzo a un certo punto fai riferimento a quella trasmissione. Bene, è sull’inquietudine notturna di quei trentasette anni di piombo (per continuare a giocare su suggestione e allegoria), che separano il protagonista dal padre prima della riconciliazione, che si fonda l’intero impianto narrativo. E come quell’indagine a posteriori realizzata da Zavoli, altrettanto l’io narrante indaga e processa l’abbandono del padre, ma anche per converso quello del figlio. Anzi direi che l’abbandono del figlio reca in sé una linea della fermezza che sgomenta il lettore. Penso a quando il protagonista riconsegna il modellino di un galeone spagnolo, regalo natalizio di suo padre. Con queste premesse, alla fine del processo la sentenza non potrà che essere di colpevolezza. Quei trentasette anni dentro cui scorrono cinque padri e cinque figli, come spieghi nel libro prendendo spunto dal ricambio cellulare che subisce il nostro corpo, vengono sezionati, ripercorsi a strappi e ricomposti anche se esclusivamente dal punto di vista del figlio (ma di questo vorrei parlarne più avanti). Così, la sensazione che mi è rimasta è quella di un «notturno», da cui nasce il bisogno dell’io narrante di fare luce soprattutto su se stesso, ancor prima forse che sul rapporto col padre.

 

Andrea Pomella: Il brano musicale che citi ha un’intensità formidabile, come l’aveva “La notte della Repubblica”. Se guardo indietro alla mia vita la immagino esattamente come un «notturno», ed è notevole che tu abbia colto così precisamente questo aspetto. La qualità del notturno però non è solo della mia vita, ma vorrei dire di una generazione, se non fosse che provo sempre un certo fastidio a parlare di generazione. Intendo dire che la mia vita, la nostra vita, visto che siamo pressoché coetanei, è inserita in un luogo della Storia che ha come qualità essenziale quella di essere senz’altro un notturno. Forse non è un caso che il tuo ultimo romanzo abbia per titolo Alba senza giorno. Vorrei dire che siamo come il personaggio di Stéphka che non ha mai visto il mare, Stéphka che insieme a Stoian attraversa l’Europa di oggi in cerca di un posto in cui provare a vivere una vita normale. La questione del notturno sta tutta nel dove trovare una piccola luce. E la ricerca della piccola luce è forse il tema che accomuna un po’ tutti i personaggi di Alba senza giorno, a partire dalla giovane madre Martina e dal sicario Tonino Cortale. Ma è una piccola luce, appunto, che quando viene scovata, serve a diradare le tenebre. Il che in fondo è solo un modo per non avere più dubbi che fossero «tenebre».

 

FC: Dici una cosa esatta. Ti svelo un segreto, ho messo parecchio di me in Stéphka. In ogni caso, l’idea di voler vedere il mare e la ricerca della luce, come dici tu, è alla base di ciascun personaggio, da Stoian a Martina a Tonino. A questo punto, però, mi trovo costretto a citarti, quando a pagina 123 del tuo romanzo dici: «La nostra è una lotta per tenere accesa quella luce». Che poi è ciò che fa o tenta di fare il protagonista della tua vicenda, ma è anche ciò che fa lo scrittore stesso nel momento in cui affronta la sua storia – mi verrebbe da dire con la esse maiuscola e minuscola al contempo. Ma c’è un aspetto, che accennavo prima e che vorrei sottolineare, cioè quell’attenzione al punto di vista che ha il narratore di I colpevoli. Non cede mai alla tentazione di provare a interpretare o a indossare la maschera del padre per accusarlo o difenderlo, si limita a ricordare quella frase che ci siamo sentiti dire tutti da piccoli (e forse la diciamo da adulti): «Quando sarai grande capirai». Ma l’io narrante – che peraltro non ha nome, non viene mai chiamato nel romanzo, salvo in una circostanza, in cui lui stesso si dà il nickname di Sam – riesce nonostante tutto a non cadere nella tentazione di dirci quindi se da grande ha capito o no quel che il padre non riusciva a spiegargli. Credo che questa tua capacità autoriale di restare fermo nel punto di vista permetta al lettore di farsi una sua opinione morale ed etica della vicenda.

 

 

AP: Scrivere è dover risolvere una serie di problemi, sbrogliare matasse, assumere delle decisioni piuttosto che altre, il tutto cercando di arrivare da qualche parte nel modo più redditizio possibile. La questione del punto di vista è la prima tra le decisioni che bisogna prendere. Nel mio caso, non facendo mistero dell’origine autobiografica dei miei libri (perlomeno degli ultimi tre), il punto di vista può apparire scontato. Eppure non lo è. Ogni volta che parlo in pubblico mi sento rivolgere domande che non attengono al mondo racchiuso entro i confini del libro, ma alla mia vita privata. È come se il punto di vista del narratore autobiografico sia costantemente equivocato con l’essere umano in carne e ossa che ha vissuto materialmente quelle esperienze. Questa profonda incomprensione inquina il godimento stesso del testo, perché lo scardina, ne vìola i confini, imponendone di nuovi e arbitrari. È come lasciare aperta una bottiglia di profumo, l’aroma viene contaminato e si disperde fra i centomila altri profumi del mondo. Che l’io narrante non aderisca all’autore come una carta regalo dovrebbe essere una questione risaputa. Eppure mi trovo continuamente a doverlo puntualizzare. Nel tuo caso invece il narratore è impersonale, è colui che tutto sa della storia, ne riporta i fatti come se li dominasse a volo d’uccello. Qualche mese fa ci siamo incontrati per caso su un Frecciarossa diretto a Milano e ricordo di averti detto che Alba senza giorno mi ha ricordato i lavori di Guillermo Arriaga, soprattutto le sue sceneggiature per i primi, grandi film di Iñárritu: Amores perros, 21 grammi, Babel. Parlo della costruzione del tempo, del montaggio che definirei «cubista» perché fa intravedere tutti i lati possibili della storia in un solo colpo d’occhio. In questo sguardo io ci trovo un rigore, una disciplina che è propria di chi lascia parlare la vicenda senza, appunto, farsene interprete palese. Mi chiedo però se lo stesso lettore che confonde il mio libro col mio privato, posto di fronte a uno stile così intransigente, riesca a non porsi alla fine le stesse domande, a chiedersi per esempio: «In tutto questo, tu, Fernando Coratelli, dove ti sei nascosto?».

 

FC: Confesso: l’idea della struttura di Alba senza giorno si ispira proprio a Babel di Iñárritu. Detto questo, a differenza dei miei lavori precedenti, in cui i lettori si sbizzarrivano a identificarmi e a chiedermi se taluno o talaltro personaggio fossero il mio alter ego, in questo romanzo invece hanno deciso di porsi e pormi un altro interrogativo. Quanto c’è di realmente accaduto nella vicenda? Quali sono i fatti di cronaca che dissemino nel romanzo? Come se il voyeurismo che spesso spinge il lettore a cercare l’aderenza della vita dell’autore con quella del suo personaggio, nel mio si fosse trasferita nell’aderenza tra la realtà di cronaca e quella della narrazione. E qui vorrei aprire un capitolo sulla differenza tra verità e realtà e tra vero e reale. Non a caso in alcune occasioni ho voluto sottolineare che Alba senza giorno lo percepisco più come un romanzo verista che realista. Alla base c’è il vero più che il reale, del resto non tutto ciò che è vero è reale e viceversa. Con vero e verità, sia ben chiaro, non intendo però l’assolutezza di una affermazione o di un giudizio, bensì la sua onestà e credibilità, cosa che spesso nel reale non si trova. E allora prendo in prestito ancora una volta una frase del tuo I colpevoli, quando dici che «ciò che è reale è regale, e non c’è nulla di più falso degli attributi tradizionali e favolosi dei re». Trovo molto interessante questa tua affermazione, in particolare se si tiene conto del fatto che vieni catalogato come scrittore autobiografico per cui l’idea preminente è quella dell’aderenza di ciò che narri alla realtà dei fatti. Quante volte durante presentazioni o interviste ho ascoltato autori dire: «Mi sono attenuto ai fatti, ciò che è scritto è realmente accaduto, mi sono limitato a raccontare». Di solito mi viene l’orticaria.

 

AP: Tu dedichi il libro a Petru Birladeanu, il suonatore di fisarmonica che fu ucciso a Napoli nel 2009 durante una “stesa”, quella pratica a cui ricorrono i giovani camorristi che per sfidare i rivali corrono all’impazzata sui motorini sparando a raffica contro tutto ciò che capita loro a tiro. Ma Alba senza giorno non è la storia di Petru Birladeanu. Non lo è per due motivi: il primo perché tanto la storia che racconti quanto il personaggio di Stoian sono diversi dalla storia e dalla persona di Petru Birladeanu; il secondo perché anche se tu avessi voluto «attenerti ai fatti», ciò che avresti concepito sarebbe stata comunque un’altra storia rispetto a quella realmente accaduta. Per questo anch’io credo che sia profondamente inutile tirare in ballo il principio di realtà nella letteratura, così come è inutile dividere i romanzi tra fiction e non fiction. Il semplice atto di narrare presuppone che si ricorra a degli accomodamenti, che si raddrizzi il tiro, che si spiani dove ci sono delle gobbe, e che attraverso tutto questo si finisca per consegnare al lettore qualcosa che prima non esisteva. Quanto sia profonda questa incomprensione lo testimonia per esempio il fatto che c’è ancora tanta gente che confonde la scrittura autobiografica con l’autofiction, anche tra i più autorevoli addetti ai lavori. Dare a una storia la patente di fiction, o il suo contrario, è utile solo al mercato editoriale. Ma è una semplificazione che tradisce il motivo stesso del fare letteratura.

 

 

FC: Sottoscrivo. Già l’assurdità di dover dirimere se autofiction si pronuncia all’inglese o alla francese, da dove poi sarebbe nata, un po’ come “stage”, mi fa ridere. A ogni buon conto, la mia scelta era appunto voler raccontare una storia vera – realmente accaduta o no, poco importa.
Per concludere vorrei parlare un po’ dei luoghi del romanzo. Il protagonista di I colpevoli cresce in una periferia, che non citi per esteso ma solo con una S., definita né una borgata né un quartiere. Un non-luogo. Anche il palazzo, il grattacielo, in cui a un certo punto il protagonista va a lavorare è un non-luogo, un castello kafkiano. L’impressione che se ne ha è che per l’intero romanzo la colpevolezza di padre e figlio si rispecchi sempre in luoghi periferici e senza identità – penso anche alla settimana al mare in cui si compie forse lo strappo definitivo tra padre e figlio. E lì giochi sulla contrapposizione di Cerenova, dove il padre lo porta, e Gaeta, dove sarebbero dovuti andare; un gioco anche di suono, di forza evocativa che ispira. Per contraltare, invece, i luoghi dell’amore, che spingono il protagonista fra le braccia di Pris, sono i pochi immediatamente riconoscibili di Roma, luoghi di forte carica cinematografica o letteraria, ma soprattutto intrisi di bellezza. Questo nonostante l’amore con Pris sottenda a un tradimento del protagonista alla donna con la quale ha una relazione. Mi ha attratto fortemente questa geografia dei luoghi che segue passo passo involuzione ed evoluzione della vicenda. L’ho trovata una linea sotterranea parecchio interessante.

 

AP: Questa geografia dei luoghi non fa che ripercorrere Roma, una città abusata dal cinema e dalla letteratura, ma che per quanto mi riguarda rimane una città irraccontabile. Lo è perché contiene al suo interno ogni negazione possibile, perché non è la città dell’eterna bellezza e non è la periferia ipertrofica, oppure, essendo entrambe le cose, rende impossibile qualsiasi sintesi che abbia la pretesa di esaurirla. Perciò se all’interno di un romanzo si deve fare i conti con Roma, non si può che adoperarla come una scenografia mobile, sapendo che qui c’è uno sfondo per ogni occasione. Non so se Milano si lascia raccontare, e in che modo. Tu ci avevi già provato con La resa. A me pare che la «tua» Milano sia una città sociale, voglio dire una città i cui pregi e difetti affiorano attraverso le dinamiche che alimentano o abbrutiscono la comunità. In Alba senza giorno sono i presidî contro l’installazione di un campo nomadi. Penso che la geografia di un romanzo sia importante, ma penso anche che negli ultimi anni si sia dato troppo peso a questo aspetto. I luoghi servono a dare una bella mano agli autori. Sono stati d’animo già pronti per l’uso. Scegliere di ambientare una storia a Roma, o a Milano, o quel che sia, può indurre un autore a dare per acquisito quello che sarà il tono dominante del proprio affresco. Ma a me interessano più i contesti mentali, i luoghi psichici, lo spazio che si crea nelle relazioni. In quelle ampiezze si trovano città meravigliose e ai più invisibili che chiedono solo di essere raccontate.

 

FC: Sono d’accordo con te. Bene, direi che abbiamo abusato abbastanza della pazienza dei lettori online. Grazie di avere voluto condividere con me un po’ di suggestioni su luoghi, suoni e prospettive della scrittura.

 

AP: Grazie a te. Ci rivediamo su un Frecciarossa a caso, o magari stavolta su un Italo.

 

 

(Fernando Coratelli, Alba senza giorno, Italo Svevo, 2019, pp. 312, euro 18 | Andrea Pomella, I colpevoli, Einaudi, 2020, pp. 216, euro 18,50)