Copertina di Le ragazze stanno bene di Cuter e Perona

Come stanno le ragazze

La prima cosa da fare è partire dal concetto di privilegio.

«Provate a pensare a qualcosa che vi rende più fortunati degli altri. Non lo vedete? Ecco, questo è il punto per cui per molti uomini è così difficile vedere il proprio privilegio e accorgersi della disparità di genere. Mettersi nei panni degli altri, quando si sta tanto comodi nei propri, non è facile per nessuno».

Con questo assunto si conclude Le ragazze stanno bene (Harper Collins Italia, 2020), libro di Giulia Cuter e Giulia Perona, già ideatrici e curatrici del podcast e della newsletter Senza Rossetto, progetto che racconta le donne senza stereotipi e oltre ogni convenzione. La riflessione sul significato di privilegio costituisce in realtà il punto di partenza per avvicinarsi e iniziare a comprendere i temi del libro in cui un unico io narrante – che include non solo le autrici ma le loro nonne, le amiche, le scrittrici lette – combina insieme esperienze personali, dati statistici, citazioni ed episodi reali per arrivare a operare un confronto lucido e realistico sulla situazione delle donne da ieri a oggi.

Le autrici hanno suddiviso il lavoro in capitoli tematici dedicati a diversi momenti o fatti significativi, a volte simbolici, nella vita di una donna e, per ognuno di essi, ne raccontano il senso, il cambiamento della rappresentazione attraverso gli anni, i passi avanti compiuti e le piccole vittorie, la strada ancora da percorrere. E come cambia la percezione del medesimo momento da parte di ciascuna donna.

Interrogandosi sul rapporto con l’eredità delle donne che le hanno precedute e con le conseguenze delle loro battaglie, Giulia e Giulia percorrono le fondamentali e inevitabili tappe del femminile – dalle mestruazioni alla maternità, dal corpo alle relazioni, dal lavoro al matrimonio – fornendo un quadro di verità, a volte sorridente, a volte sconcertante, in cui è impossibile non ritrovarsi almeno una volta, riuscendo in tal modo a trasformare ogni fatto personale in comune denominatore universale.

Come sosteneva Chimamanda Ngozi Adichie in Cara Ijeawele. Quindici consigli per crescere una bambina femminista (Einaudi, 2017), una stereotipata suddivisione dei ruoli di genere è «una grande sciocchezza» perché la rigidità precostituita non è di alcun aiuto all’educazione dei bambini e allo sviluppo dei futuri adulti. Nel capitolo sull’Educazione, ci si chiede: chi ha deciso che il colore rosa appartiene alle femmine e l’azzurro ai maschi? Tutti i bambini amano le automobili e le armi giocattolo mentre le bambine sono destinate alle bambole?

Sono ruoli imposti e radicati dal ripetersi negli anni dei medesimi stereotipi, dati per scontato in quanto parte di una passiva quotidianità, ma sono ruoli che possono essere ancora scardinati o messi in discussione e in quest’ottica l’importanza dell’educazione riveste un compito imprescindibile. Soprattutto perché un’impostazione educativa differente è possibile, come dimostrano alcuni degli esempi citati: in Svezia, dove si promuove una cultura neutrale, mirata a crescere i bambini indipendentemente dal loro sesso; nei Paesi Bassi, dove l’educazione multidisciplinare alla sessualità comincia a scuola all’età di quattro anni.

Per parlare di Maternità si parte invece da un excursus sulla disciplina dell’aborto in Italia e soprattutto sulle battaglie che lo hanno reso legale, si parla di contraccettivi e di perdita della verginità, di violenza ostetrica e di depressione post partum. Grazie al racconto di legislazioni lontane, di percorsi di ribellioni e diritti, di storie vissute in prima persona, si riesce a dimostrare che maternità non vuol dire una cosa sola ma che gli aspetti che la compongono sono molteplici e vanno dal consenso al desiderio alla scelta di non vivere questa esperienza.

Le ragazze stanno bene attraversa così ogni tappa della vita, ne affronta le intemperie, non si lascia scoraggiare dai precedenti, ha fiducia nel futuro. Il tutto tenendosi saldo a un unico coerente sguardo, quello femminista.

«C’è una parola in particolare che ci ha fatto paura per molto tempo: femminismo. A lungo l’abbiamo snobbata, evitata, sussurrata per il timore di sembrare troppo radicali o estreme, ma col tempo ci siamo rese conto che il femminismo è ciò di cui abbiamo bisogno per vincere le sfide che dobbiamo ancora combattere. Femminista è chiunque creda nella parità sociale, politica ed economica tra i sessi, e chiunque sia convinto che il sesso biologico non sia un fattore rilevante nella determinazione dei diritti di un individuo. Possiamo e dobbiamo esserlo tutti, donne e uomini, senza distinzione di età, etnia o orientamento sessuale».

 

(Giulia Cuter e Giulia Perona, Le ragazze stanno bene, Harper Collins Italia, 288 pp., euro 16, articolo di Francesca Ceci)

 

Nostalgia di un cinema da dimenticare

Le nuove frontiere dello streaming legale lasciavano sperare in un maggior coraggio produttivo per il cinema italiano in grado deviare la rotta rispetto all’imbarazzante proposta commerciale degli ultimi anni. Proposta in cui, tralasciando il fenomeno Zalone e poche altre eccezioni, si fa fatica a distinguere un film dall’altro, in un rincorrersi di copioni simili, cast ripetitivi e colonne sonore mortali. Invece, Sotto il sole di Riccione l’esordio alla regia della coppia di registi YouNuts! (Niccolò Celaia e Antonio Usbergo), conferma tutte le enormi debolezze di un sistema che deve, per forza di cose, iniziare a riflettere su stesso. Il film nasce dalla collaborazione tra Netflix e Mediaset che già aveva portato a Ultras di Francesco Lettieri.

Il cinema italiano ha, da tanti anni, una serie di problemi e limiti. Non riesce più da tempo a fare quello che gli riusciva meglio: parlare degli italiani in toni leggeri, rappresentandoli nelle loro contraddizioni ed enormi debolezze. Non è necessario tirare in ballo i tempi d’oro della commedia all’italiana di Risi, Monicelli e Scola. Nomi che fanno beare i più nostalgici, delusi ormai anche da Paolo Virzì, sbilanciato tra vocazioni internazionali e poco riusciti rimpianti giovanili (Notti magiche). Il cinema nazionale non è più in grado neanche di riproporre le commedie che a partire dagli anni Ottanta hanno raccontato i cambiamenti della nostra società. Al cinema italiano popolare mancano, addirittura e in buona sostanza, i film dei fratelli Vanzina.

Il progetto Sotto il sole di riccione nasce proprio per rilanciare quel tipo di commedia estiva leggerissima che ha in Sapore di mare di Carlo ed Enrico Vanzina il suo titolo migliore. Una specie di summa del cinema dei fratelli, di quella capacità di parlare degli strati medio-alti della società nazionale attraverso ritratti semplici di giovani viziati.

Non è un caso che il nume tutelare dell’esordio di YouNuts! sia proprio Enrico Vanzina, autore del soggetto e produttore di Sotto il sole di Riccione. Accanto a lui, al tavolo della sceneggiatura, siedono due giovani autori, Caterina Salvadori (1991) e Ciro Zecca (1987). Con i registi classe ’86 formano un team giovanissimi, soprattutto per gli standard del nostro cinema, eppure è impressionante come il film finisce per essere cannibalizzato dall’anziano mentore Vanzina.

La storia è quella di un vasto gruppo di ragazzi provenienti da tutta Italia a Riccione per le vacanze estive. Un elemento a favore del film: non ci sono regionalismi marcati, grande cavallo di battaglia dei Vanzina.

C’è l’aspirante cantante arrivato da sud per un talent che finisce a fare il bagnino; lo sfigato occhialuto innamorato da cinque anni di una che non se lo fila; un milanese che si ammazza di canne ma è saggio e con il cuore d’oro; il figlio del bagnino anziano che divide le ragazze in carbonara con o senza panna; un non vedente in vacanza con la mamma, e un assortimento di ragazze così poco approfondite che è pure difficile ridurle a poche parole. Intorno a loro si muovono tre anziani volti noti: Isabella Ferrari, madre del non vedente; Luca Ward, buttafuori filosofo che avvia una tresca con la Ferrari; Andrea Roncato, sciupafemmine ormai ritirato. Tutto ruota intorno a un torneo di beach volley, premio in palio «i biglietti per il concerto dell’estate». Ci sono amori, crescita, prese di coscienza e altre cose così.

È raro trovare un film realizzato da una troupe così giovane così incapace di parlare dei giovani. Se Sotto il sole di Riccione voleva essere un rilancio per i film estivi, un nuovo cult in stile Sapore di mare per le nuove generazioni ha sbagliato completamente direzione. Siamo piuttosto dalle parti del non esattamente memorabile Panarea.

La rappresentazione del mondo giovanile nel nostro cinema e nelle nostre serie tv ha sempre avuto dei grandi limiti proprio per la distanza anagrafica tra chi scrive e dirige e le storie che vuole raccontare. Un’ottima eccezione degli ultimi tempi è Skam, web serie nata da un modello norvegese che riesce davvero a parlare e far parlare i ragazzini.

In Sotto il sole di Riccione la bidimensionalità dei personaggi e la banalità delle svolte narrative è impressionante. Il paradosso enorme è che le parti che si salvano sono quelle che riguardano gli anziani, dove il tocco nostalgico-vanziniano è più evidente. Senza nomi davvero carismatici, i giovani interpreti finiscono per soccombere nel confronto con i vecchi attori, ed è tutto dire.

La domanda, legittima, che a questo punto un lettore potrebbe farsi è: «Ma cosa vi aspettavate da un film simile?». Vero, Sotto il sole di Riccione non ha mai preteso, nella sua proposta, di essere la rivoluzione del cinema italiano. Quando vengono dati mezzi e possibilità a nuovi autori, però, c’è sempre l’illusione che possano sfruttarli in modi inediti, se non per forza originali quanto meno interessanti. E invece siamo ancora una volta nel moccismo, e neanche in quello meglio riuscito (assurdo a dirsi).

Per parlare di quanto visto finora della collaborazione Mediaset-Netflix, Ultras di Lettieri scontava il limite di un’enorme cura della messa in scena non accompagnata da un’adeguata capacità narrativa. La personalità del regista, però, era evidente. YouNuts!, invece, già autori di numerosi videoclip degli artisti di maggior successo degli ultimi anni, non riescono a lasciare alcun tipo di impronta. La loro regia è anonima, senza slanci di nessun tipo. Come tutto il film.

(Sotto il sole di Riccione, di YouNuts!, 2020, commedia, 100’)

copertina di ballo in maschera di szabo

Storia sentimentale di traduzione

Fin dai miei primi ricordi lo scambio fra lingue è un elemento ricorrente, la presenza di una seconda, una terza, persino di una quarta lingua oltre all’ungherese è costante. Poi arriva anche la quinta, l’italiano, con cui divento adulta, che mi accompagna ormai da quasi mezzo secolo. Dopo decenni di traffici con le lingue nella vita privata e nel lavoro, approdo alla traduzione editoriale quindici anni fa sbagliando, pur amandolo, il primo libro, e avendone in mente altri da tradurre, tutti con qualche legame affettivo. Questi affetti hanno molto a che fare con la peculiarità della mia combinazione linguistica: di solito si traduce da una lingua straniera verso la lingua madre, io però faccio il contrario, anche in virtù dei due terzi di vita trascorsi in Italia. Per me tradurre dall’ungherese è più di un lavoro, a torto o a ragione mi sento investita del ruolo di rappresentanza della storia, della letteratura, in generale della cultura del Paese in cui sono nata.

L’evento storico ungherese più importante fra la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta del Muro è indubbiamente la rivoluzione del 1956. Colgo dunque al volo l’occasione offerta da Baldini Castoldi Dalai di tradurre un libro a mia scelta per commemorarne il cinquantenario. Scelgo Il caso Bang-Jensen. Ungheria 1956, un Paese lasciato solo, il brillante risultato di dieci anni di ricerche svolte dal drammaturgo e filosofo András Nagy. Apparentemente un giallo storico sulla misteriosa morte del diplomatico danese Povl Bang-Jensen, in realtà è un saggio romanzato che attraverso la vicenda personale di Bang-Jensen ripercorre la storia della rivoluzione ungherese, della crudele repressione messa in atto dal governo Kádár dopo la sconfitta, delle iniziative o piuttosto della loro assenza, da parte del mondo ritenuto libero, e soprattutto dell’ONU. Un voluminoso saggio ben documentato e strutturato come uno spettacolo teatrale, che insieme alla mole di riferimenti storici e letterari, ai corposi apparati e alla complessità della storia sarebbe stato un compito difficilissimo da affrontare per un traduttore provetto, figurarsi per un’esordiente.

Un esperto avrebbe capito subito che la traduzione pedissequa di un saggio costruito con tecniche teatrali, praticamente una pièce, per giunta ungherese, non avrebbe prodotto una lettura godibile per i lettori italiani, quindi sarebbe stata bocciata dall’editore. E così è stato. Per fortuna l’autore si è messo subito a disposizione, abbiamo riscritto il libro, e io la traduzione, facendolo diventare se non un saggio di facile fruizione, ma almeno a portata del pubblico italiano. Ricordo i pianti mentre traducevo; non piangevo per le difficoltà incontrate, bensì per i destini tragici delle persone coinvolte in quelle vicende storiche. Una figura in particolare mi fa venire i lucciconi ancora oggi: Valéria Friedl, una traduttrice che non aveva combattuto con le armi, ma negli anni immediatamente dopo traduceva e inviava rapporti a Vienna facendo sapere al mondo che cosa stava succedendo in Ungheria. Per questo è stata condannata a morte e impiccata a 47 anni a Budapest il 21 luglio 1959.

Nella storia delle mie traduzioni l’anno d’oro è stato il 2009: uscirono un libro tradotto con amore e ben tre libri tradotti per amore, due per amore filiale e il terzo perché opera dello scrittore che è in cima alla mia classifica di autori ungheresi, allora come ora. Li passo in rassegna.

Dostoevskij legge Hegel in Siberia e scoppia a piangere di László F. Földényi, studioso della letteratura, storico d’arte e saggista prolifico insignito di numerosi premi, è un libretto di poche pagine con dentro un mondo di uomini in esilio. Pubblicato da Il Melangolo, è il mio omaggio alla memoria di mio padre, avido lettore di Hegel e di Dostoevskij. Alberto Manguel scrive nel 2012 su Repubblica: «Devo la scoperta di László Földényi a Cees Nooteboom, che in uno dei suoi assalti epistolari insistette perché lo leggessi…». Un titolo folgorante che mantiene la promessa, recensioni molto favorevoli di penne illustri, crescono quindi le speranze di vedere altri libri di Földényi pubblicati in italiano. Allo scopo traduco brevi saggi dell’autore anche per l’indimenticata rivista di Goffredo Fofi, Lo Straniero. Ma nonostante delle opere di Földényi si occupi un’agenzia letteraria italiana abbastanza agguerrita, non succede nulla, mentre la crescente popolarità internazionale di Földényi viene confermata dalle numerose traduzioni. L’ultima per la Yale University Press seguita da una lunga recensione sul New Yorker. Tuttavia Földényi ancora oggi è un illustre sconosciuto in Italia. Cito di nuovo Manguel sul nostro autore: «La mia ignoranza dell’ungherese è assoluta e mi dovetti limitare perciò a leggere qualcuna delle opere di Földényi tradotte in spagnolo e in tedesco: sufficienti per giudicarlo un pensatore brillante, originale, lucido; ho seguito con piacere le sue illuminanti considerazioni filosofiche, storiche ed estetiche. I suoi libri sulla malinconia, l’arte e la critica sono dei capolavori».

Azarel di Károly Pap, uscito in Ungheria nel 1937, avvicinò la mia mamma adolescente alla lettura: ancora parlandone mezzo secolo dopo le si illuminavano gli occhi. Piaceva anche a me ma l’ho capito e apprezzato veramente solo traducendolo, e difatti ho dato ragione a Gesualdo Bufalino che in Il malpensante scriveva: «Il traduttore è l’unico autentico lettore d’un testo. Non dico i critici, che non hanno voglia né tempo di cimentarsi in un corpo a corpo altrettanto carnale, ma nemmeno l’autore ne sa, su ciò che ha scritto, più di quanto un traduttore innamorato indovini».

Azarel, pubblicato da Fazi con la prefazione di Moni Ovadia per il Giorno della Memoria del 2009, è un libro completamente fuori dagli schemi a partire dalla trama e per finire con la scrittura, una prosa ritmata, un’atmosfera senza pari nella letteratura ungherese. Trasmette un messaggio singolare e molto audace, tant’è vero che nel 1937 il libro viene giudicato dalla comunità ebraica e trovato eretico. Un romanzo di educazione sentimentale di un bambino nato e cresciuto nell’ortodossia di cui però scopre il rovescio, un bilancio poco rassicurante dell’ebraismo mitteleuropeo degli anni Trenta. Il capolavoro unico di Károly Pap che perisce a Bergen-Belsen nel 1945.

«Nádas è uno dei maggiori scrittori al mondo» Susan Sontag – recita la scritta in piccolo sulla copertina de La Bibbia di Péter Nádas, un volume con tre racconti lunghi della produzione giovanile dell’autore corredato della sua prefazione, un importante documento storico-letterario, edito da BUR nel 2009. La troppa fretta di vederlo pubblicato produce due errori: un verbo sbagliato nella prima frase del racconto che dà il titolo alla raccolta e l’omissione del nome del traduttore. Ho avuto più fortuna con gli altri due libri del mio autore preferito – Minotauro (un’altra raccolta di novelle giovanili) e il breve romanzo psichedelico Amore –, tradotti per Zandonai in anni successivi. La sfortunata vicenda editoriale italiana di Péter Nádas, da anni costantemente fra i probabili vincitori del premio Nobel per la Letteratura, è stata raccontata già in altre sedi. Grazie a Bompiani che ha pubblicato il primo volume delle sue Storie parallele nella traduzione di Laura Sgarioto, Nádas è tornato nelle librerie italiane, e spero che pian piano anche le sue opere già tradotte potranno rivedere la luce. La traduzione del microcosmo de La Bibbia e dell’antisemitismo lessicale de L’agnello rimangono due momenti indimenticabili delle migliaia di ore dedicate alla traduzione.

Per un certo periodo da adolescente il mio romanzo preferito era Ballo in maschera di Magda Szabó, quindi con la proposta di Salani di tradurlo si avverava un sogno. L’autrice non ha bisogno di presentazioni, da tempo i suoi romanzi svettano nelle classifiche. Magda Szabó scriveva anche per quelli che oggi vengono definiti young adults, adattandosi ai criteri della letteratura giovanile comunista. Li seguiva però senza scadere nella letteratura di propaganda tanto diffusa negli anni Cinquanta e in buona parte anche dei Sessanta, arricchiva i suoi romanzi di elementi non di stretta osservanza politica e li confezionava secondo i canoni della letteratura di qualità. La prima edizione in ungherese del Ballo in maschera risale al 1961, è ambientato a Budapest nell’anno precedente, e la protagonista è una delle tante figure femminili indimenticabili – insieme alla nonna e l’insegnante – che hanno reso la scrittrice una delle più importanti del Novecento. Tradurlo è stato bellissimo perché mi ha fatto tornare adolescente ma con la capacità di comprensione e di analisi di un’adulta, scoprendo lo straordinario coraggio della Szabó di parlare anche dell’amore fra vecchi. Un tema decisamente insolito in quegli anni, in particolare in un’opera destinata ai giovani.

Con l’eccezione di due titoli che ho scoperto di non apprezzare in corso d’opera per motivi che qui tralascio, ero e sono rimasta affezionata anche a tutte le altre traduzioni seppure in assenza di un qualsiasi legame affettivo diretto. Concludo dicendomi onorata e molto soddisfatta di aver potuto tradurre György Konrád perché questo scrittore, sociologo e giornalista scomparso nel 2019 somma con il suo destino e i suoi scritti gran parte della storia politica e letteraria ungherese del Novecento e dell’inizio del Duemila. Perseguitato perché ebreo prima e durante la Seconda guerra mondiale, è stato dissidente durante il regime comunista, ha vissuto in esilio e ha contribuito all’avvento della democrazia in Ungheria dopo la caduta del Muro. Della sua vasta produzione in italiano sono stati tradotti solo tre romanzi, Il visitatore (1975), Il perdente (1995), e il terzo, l’autobiografico Partenza e ritorno, l’ho tradotto io per Keller nel 2015. Confesso che di lui avrei tradotto qualsiasi cosa, tanta è la stima e la considerazione, ma ho avuto fortuna perché Partenza e ritorno, la storia di Konrád bambino che attraversa l’Olocausto e riesce a ritornare a casa, è uno degli affreschi storici e umani più belli nella letteratura magiarofona.

 

 

(Post scriptum: forse tradurrò ancora o forse no, colgo comunque l’occasione per ringraziare, in ordine alfabetico, Raffaella Belletti, Giuliano Geri, Daniele Petruccioli, Laura Senserini, Nadia Terranova e Isabella Zani per il loro altruismo.)

Copertina di Le brigate di Luppino

Infettati dalla paura

«In principio, anche peggio della malattia era la paura di ammalarsi: una specie di contagio parallelo».

Nel romanzo d’esordio dello scrittore argentino Ariel Luppino, Le brigate (Edizioni Arcoiris, 2020) accade qualcosa di sorprendente. Sulla soglia delle prima pagine, dove ci attendono la violenza, la prevaricazione, la crudeltà insensata, arriva, spietata e irridente, la voce narrante della storia, che invece di tenderci una mano, giunge a intensificare la paura e lo smarrimento.

Siamo in Argentina, a Buenos Aires, catapultati dall’autore all’interno del terrificante Centro di Detenzione, dove le brigate, le guardie a servizio di un folle despota chiamato il Milite, hanno diritto di vita, di morte e di tortura, sui reclusi.

I diritti civili sono stati sospesi a causa di una misteriosa epidemia che probabilmente è stata causata dai topi, e in questa realtà in cui l’ordine morale è imploso ogni barbarie è permessa. I prigionieri caricati sui camion come bestiame diretto al macello vengono destinati alla pelatura dei i topi e svolgono il loro lavoro tra mille soprusi e spaventose violenze.

Uno di questi, il narratore della storia, riferisce con inquietante indifferenza una ordinaria giornata nel Centro di Detenzione, in cui può capitare di venire impalati perché ci si è arrischiati a bere sangue di topo per dissetarsi, o dove una donna può essere punita infilandole un ratto vivo nella vagina, oppure, come accade sempre più spesso, tanto le guardie quanto i reclusi possono trovare sfogo alla loro condizione di deprivazione, noia e abbrutimento morale, seviziando il Capitano, un uomo debole e inefficiente, il più esausto tra i detenuti incapace tanto di eseguire gli ordini quanto di reagire alle offese.

«Quello che comandava tutto e tutti, e che l’aveva preso di mira fin dal primo giorno. Vedeva come un affronto, una specie di offesa personale, che uno dei suoi uomini si fosse rivelato un pusillanime. Come se la debolezza del Capitano attentasse alla sua autorità, come se la mancanza di energia dell’altro rappresentasse una forma di resistenza nei suoi confronti».

Il Capitano è la vittima predestinata, colui che più di tutti attira su di sé le sadiche attenzioni del Milite, così come il disprezzo dei compagni di prigionia e le punizioni violente e immotivate delle guardie. Tutto è così intollerabile che siamo da subito spinti a solidarizzare con il protagonista, la voce narrante del romanzo, un uomo in cui crediamo di scorgere un’ombra di compassione e un possibile alleato con cui attraversare il parossismo di queste scene.

Ma quando il Milite, che si serve di lui affidandogli i compiti più disparati (dal pelatopi, al segretario, al barista, al bruciacadaveri) gli dà l’incarico di sorvegliare e punire i suoi compagni di reclusione, l’autore ci strappa via ogni consolazione, mostrandoci in poche frasi la facilità con cui è possibile cambiare ruolo all’interno della stessa realtà iniqua in cui siamo immersi, e decidere di infliggere il dolore invece che subirlo.

Il narratore – scopriremo poi che si tratta di un aspirante scrittore in rotta con la tradizione della letteratura argentina e soprattutto con gli infiniti epigoni di Juan José Saer, considerato uno dei più influenti autori della letteratura rioplatense – non è tanto diverso dai suoi aguzzini, come loro è implacabile, è una vittima che, appena gliene viene data l’occasione diventa, con un certo macabro gusto, a sua volta carnefice: «Per il Capitano iniziò allora a mettersi molto male. Io ero implacabile».

In questo romanzo privo di redenzione anche la voce narrante è implacabile, per il lettore arriva già dalle prime pagine la consapevolezza di essere in guerra e di dover combattere da solo contro il dolore e la paura che gli verranno gettati addosso durante la lettura, non appena sarà entrato nel terribile carcere romanzesco costruito dall’autore. Solo, in trincea, senza nessuno a tendergli la mano a parte la letteratura, al lettore non resta altro da fare che gettarsi nel flusso di questa prodigiosa macchina narrativa dal ritmo complesso, musicale, denso di accelerazioni e distensioni, di vette e precipizi narrativi.

«I pazienti riescono a concatenare una serie di fonemi, persino ad articolare parole, ma ciò che dicono rimane oscuro, elusivo, come se ogni frase derivasse da un sistema di cifratura».

Le brigate è una storia di orrende trasformazioni in cui anche le parole si deformano per evocare il linguaggio della paura, la sola nota costante che riecheggia nel corso di tutta la costruzione drammatica.

Mentre il Milite progetta una delirante guerra per recuperare le isole Malvinas e tra le pagine del romanzo continuano ad ammassarsi corpi seviziati, scene di tortura, di stupro e di devastazione fisica e morale, Ariel Luppino allestisce un cruento teatro dalle marionette insanguinate e deliranti, in cui rivivono, a tratti, i grotteschi incubi propri del grande Alberto Laiseca, ma anche temi quali la poetica dell’uomo-marionetta e della totale casualità ingovernabile del male cari a Thomas Ligotti, una rivisitazione delle ambientazioni e dei dialoghi dei film hard-boiled e noir Americani.

Il tutto è reinventato e stravolto da uno stile unico e originale e da una sorprendente capacità di invenzione che fanno di questo esordio un opera spiazzante e matura che al tempo stesso diverte, spaventa e irretisce.

 

(Ariel Luppino, Le brigate, trad. di Francesco Verde, Edizioni Arcoiris, 2020, pp. 168, euro 13, articolo di Emanuela Cocco)

 

omar di monopoli foto

Il Sud per affermazione
e negazione

Scrivere significa, primariamente, rapportarsi a un immaginario. Ci sono immaginari già decodificati, orizzonti estetici dalla forte evidenza simbolica, altri invece da costruire o trasformare. Ogni scrittore si rapporta, per affermazione o negazione, a un certo immaginario di riferimento. L’immaginario meridionale, per gli scrittori che provengono da certe latitudini geografiche, è un orizzonte evocativo, che può costruire un universo stabile in cui ambientare una storia oppure, al contrario, se frequentato male può diventare una cassetta degli attrezzi usurata, insomma sfociare nello stereotipo. Sta allo scrittore che decide di rapportarsi con questo patrimonio rimanere in equilibrio fra ciò che è iconico e ciò che può dirsi elemento innovativo. Si tratta di un discorso complesso, su cui mi interrogo da un po’ di tempo, sin da quando ho preso la penna in mano per scrivere il mio primo romanzo (Scavare, Edizioni Italo Svevo, 2019). Per rifletterci su, sviscerandone alcuni aspetti, ho coinvolto Omar Di Monopoli, che l’immaginario meridionale lo frequenta da anni, rinnovandolo nei suoi romanzi. Ne è uscita una bella discussione in cui si evince, oltre alla poetica di Omar, il raffinato gioco di leve che mette in atto lo scrittore quando decide di trafficare con determinati codici simbolici.

 

 

Giovanni Bitetto: Nei tuoi romanzi c’è uno studio sull’immaginario a molteplici livelli. Il primo immaginario sul quale vai a operare è quello del Meridione. Si tratta di un Sud che ha degli elementi atavici, ma che trova anche espressione in una certa forma cinematografica. I paesaggi che racconti riecheggiano un certo western americano, potrebbero essere presi da un film di John Wayne o da un racconto di McCarthy. Mi colpisce molto invece come nei tuoi libri questo immaginario sia pieno, e non solo di una simbologia usurata, ma capace di esprimersi in forme moderne. Come ti approcci tu a un immaginario già dato, come scegli di costruirlo e modificarlo? E secondo te qual è un modo efficace di farlo nel contesto culturale di oggi, senza risultare scontati?

 

Omar Di Monopoli: Provengo dal fumetto (robaccia ciclostilata, esperienze universitarie decisamente underground) e poi dal cinema low budget, ambiti in cui ho affinato giocoforza una scrittura molto “visiva”, profondamente sradicata cioè dalla rappresentazione dei moti dell’Io in funzione invece di un utilizzo narrativo dello sguardo, di ciò che “fuori” e “attorno” ai miei personaggi – scuola americana, se vogliamo, per la quale la descrizione della natura mira a essere il perfetto contraltare del panorama interiore dei personaggi –, quindi con gli anni ho lasciato sedimentare in me una visione della terra in cui sono cresciuto figlia di altri media, altri spazi, altre latitudini. Ma per me la Puglia era, già nelle torride estati di ragazzino negli anni Settanta, speculare alle piane sconfinate dei western che divoravo al cinema con mio padre, e i colori del posto in cui vivo (una profusione di ocra e toni di marrone, perennemente smossa da nervosi dervisci di vento) mi hanno col tempo aiutato a consolidare questa mia idea. A questo si aggiunga l’indole sorniona e stracca tipica di chi vive dalle mie parti, gente abituata a secoli di soffocante scirocco e a un sole spaccapietre che blocca ogni impeto, ogni guizzo: sono cresciuto immerso in una sfolgorante brulicare di peones dalla sigaretta pendula sul labbro, il volto crepacciato dal lavoro nei campi e la mimica facciale ridotta al minimo: puri cowboy del Salento – ma questo l’aveva già intuito Sergio Leone, che da noi veniva non di rado a pescare le facce giuste per i suoi messicani posticci (in Il buono, il brutto, il cattivo lo sceriffo cui il Biondo fa saltare il cappello per salvare Tuco dalla forca era del mio paese, la sua famiglia abita ancora a uno sputo dal mio quartiere). Quindi mi è venuto spontaneo rielaborare attraverso il mio background formativo il paesaggio che già mi apparteneva.

 

GB: Un altro discorso che fai nelle tue opere è quello del genere. Sappiamo che la nostra cultura è finalmente matura per sdoganare ogni tipo di narrazione: oggi, nei contesti più avveduti e speriamo presto anche in certe roccaforti commerciali dure a morire, il romanzo borghese ha perso il suo ruolo di centralità. Anche altri generi sono percepiti come “narrativa seria”. Le tue storie non rinunciano alla letterarietà ma allo stesso tempo si muovono veloci nel territorio del giallo, con l’aggiunta di essere in un certo senso “cinematografiche”. Alla luce di tutti questi elementi, quando ti approcci a una storia come decidi che direzione darle, quale taglio conferirle?

 

ODM: Credo di essere agevolato dal fatto che, come dicevo sopra, non ho avuto una formazione lineare (ho davvero letto di tutto, passando da Joyce a Liala senza soluzione di continuità) e pertanto credo di approcciarmi alla pagina bianca senza pregiudizi di sorta: so che devo anzitutto raccontare una storia, e questa è la mia prima, irrinunciabile priorità. Sono naturalmente molto attaccato al concetto di stile (i critici qualche volta mi hanno definito “iperletterario”, che è un modo mica tanto sottile per dire che esagero con i barocchismi, ma la mia è una scelta espressionistica consapevole) e quando scrivo il vero rovello diventa semmai per me trovare la parola esatta, quella che meglio definisce ciò che devo e voglio dire (ovviamente è una nevrosi: la pia illusione di un ossessivo-compulsivo di scampare alla morte attraverso l’identificazione del vocabolo giusto) ma in linea di massima confido nella mia vena lirica, soprattutto in quel bacino di storie di cui la mia terra continua quotidianamente a farmi omaggio (credo si possa tranquillamente affermare che dal 2007, anno dell’esordio con Uomini e cani, io stia scrivendo un unico, lungo romanzo corale; non a caso l’idea di “contea” letteraria cara a Faulkner è per me un faro, un modello: e libro dopo libro il mio intento è quello di costruire una toponomastica personale scandita da un’unica continuity, con la stessa masnada di personaggi che s’incrociano, le loro vite che si perdono, i fatti che accadono, delitti e amori che si consumano)

 

GB: Collegandomi a quanto detto prima: costruire un mondo significa adottare e riflettere su una determinata lingua. Tu fai un’operazione particolare sulla lingua, implementando un impasto dialettale desueto, o che almeno non trova riscontro nella letteratura “ufficiale”, ovvero il dialetto pugliese con le sue mille variabili. D’altronde questo è un modo per dare voce al mondo e alle categorie di pensiero dei tuoi personaggi, a un sistema di valori che si esprime tramite una determinata lingua. Che studio fai sul tuo stile?

 

ODM: Poiché il grosso dei personaggi che bazzica i miei romanzi sono umili bifolchi e criminali di basso cabotaggio la scelta del vernacolo si è imposta in maniera pressoché naturale, non potevo far parlare come damerini gente abituata a esprimersi per geremiadi gutturali e bestemmie. Ma la tenuta dell’intera impalcatura linguistica rappresenta per me da sempre una sfida, quella cioè di riuscire a giustapporre due registri: quello aulico ed evocativo che non si perita di ricorrere a un italiano anche arcaico (sulla scorta dei grandi maestri del Southern Gothic cui guardo con voracità ma anche degli sperimentatori meridionali nostrani: i Bufalino, i Consolo, i Bodini, scrittori che non a caso col dialetto hanno flirtato spesso) e uno invece più terra-terra, popolare nella maniera più abietta e rude, ma al contempo divertente: il dialetto, non scordiamolo, possiede in sé una vivacità ingovernabile, che resiste all’usura del tempo nonostante l’accanimento dei neologismi anglosassoni. Inoltre sono solito guardare alla composizione della pagina come a quella di una partitura musicale, una architettura insomma in cui non necessariamente il fruitore del prodotto finale deve saper riconoscere il suono di ogni strumento, poiché l’importante è “entrare” nelle malie della sinfonia globale, lasciarsi guidare da essa. Non è facile riuscirci, me ne rendo conto, ed è anche un tantino presuntuoso pensare di farlo, ma quando ciò accade sia per il lettore che per l’autore è una goduria.

 

GB: “Noir mediterraneo” è una definizione che mi piace per i tuoi libri. Perché si sente forte il senso di decadenza che sta dietro a un certo orizzonte e immaginario meridionale. La ferocia della riuscita, il tentativo di sopravvivere soverchiando l’altro, insomma una certa crudeltà declinata nel contesto di appartenenza, è l’orizzonte valoriale che trovo declinato nei tuoi libri. Allo stesso modo che con la lingua ti chiedo: qual è lo studio che fai sui personaggi, sulle loro psicologie?

 

ODM: Io parto sempre da alcuni tropi universali per innestarli poi su fisionomie di persone realmente esistenti. Adatto degli archetipi, ovviamente, cosa comune tra gli scrittori di genere. Di mio direi che ho capito da tempo l’importanza, nel mio lavoro, di saper essere una spugna: fin da quando ero giovanissimo tornavo a casa da scuola o dalle feste con la testa piena di voci, quelle dei compagni, dei bidelli, della professoressa e delle ragazzine che mi piacevano. Tutte persone con le quali non avevo magari saputo – o voluto – comunicare apertamente (sono conscio del fatto che vi sia molta materia per gli psicologi in ciò che sto confessando) ma che avevo registrato attentamente, assimilato fin nei minimi particolari: uno scrittore è, per certi versi, un imitatore mancato: nella mia testa frullavano (e frullano) decine di caratteri che ora ho imparato a modellare, plasmare secondo le esigenze della storia che intendo raccontare. Osservo, cercando di mimetizzarmi in chi guardo. Poi ovviamente ho ormai una routine mia: in linea di massima quando m’incaglio in una impasse e qualcosa nel meccanismo del romanzo che sto scrivendo non mi convince penso a come si muoverebbe un personaggio dei Coen e lo adatto ai topoi pugliesi: sostituisco il pick-up con l’Apecar e la follia dei killer messicani con quella dei sicari della Sacra Corona Unita. Dico un po’ per dire, ovvio, ma per applicare questo genere di rimodulazione bisogna conoscere perfettamente entrambe le tipologie di criminale. E io vado in giro con il taccuino (mentale) sempre aperto, pronto a registrare…

 

 

Copertina di Un amore di Dino Buzzati

La sindrome della ninfetta

Massacrato dalla critica dell’epoca, censurato e frainteso, il romanzo di Vladimir Nabokov viene pubblicato in Italia solo nel 1959Lolita (Adelphi, 1993) si presenta da subito come un’opera concepita per disturbare il lettore per tematica, intreccio e narrativa.

La pedofilia, attorno alla quale orbita il romanzo, viene affrontata con una tecnica stilistica votata all’estetica, architettata per essere allusiva e mai brutale.

La vicenda è quella del maturo professore Humbert Humbert che sin dall’incipit del romanzo argomenta in modo chiaro le motivazioni che nella vita l’hanno portato ad amare giovanissime “ninfette”, per sua definizione ragazzine che, pur molto piccole, emanano già sensualitàHumbert in prima persona parla dell’incontro con la femme fatale che ha incantato negli anni letteratura e cinema (IMDb, 1962) Dolores Haze, una dodicenne di una benestante famiglia statunitense. Dolores o Lo o Lola e soprattutto Lolita, si dimostra da subito irrequieta, ribelle e precoce, «una miscela di tenera infantilità sognante e inquietante volgarità», tutte qualità che irretiscono il professore: «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.»

Seguono così nel corso della narrazione le frenesie del protagonista, la sua smania febbrile di contemplarla e desiderarla. Il dissenso del lettore viene assecondato dal narratore-protagonista, che rivolgendosi costantemente all’ipotetico pubblico di una giuria, confessa la propria colpa e l’incapacità di liberarsi dalla propria ossessione che lo porterà ad una climax di atti disperati fino al termine del romanzo. Così si rimane spiazzati davanti ad un testo autodiegetico che è apologia, confessione, memoriale e testimonianza del più feroce predatore e del più debole degli amanti.

Con la morte della madre di Dolores, vittima di un incidente stradale, avviene un significativo passaggio all’interno del romanzo: Humbert andrà a prendere Lola, partita per una colonia estiva pochi giorni prima, e con lei inizierà un assurdo vagabondaggio tra un motel e l’altro in giro per gli Stati Uniti proponendo a Lolita di accettarlo come suo patrigno. La penna di Nabokov raggiunge qui l’apice della sensualità nella descrizione della scena di seduzione che si svolge nell’hotel dove i due passano la prima notte insieme: inaspettatamente è proprio la giovane a sedurre l’uomo con infantile disinvoltura, come inconsapevole del gioco perverso che ha avviato. Persino nei luoghi dove la fisicità e l’incontro sessuale sono predominanti, l’autore russo non perde il tocco e affronta il passaggio con eleganza, trasudando sensualità e mai sessualità. In Lolita nulla è taciuto ma tutto è equilibrato.

Buzzati, Nabokov e la sindrome della infetta

La relazione viene riportata da Nabokov con sinistra empatia e ritmo incalzante: Lolita e Humbert in un estenuante gioco di forza rivestono e ribaltano i ruoli di padre e figlia, di amante e amata, di schiavo e padrona. Litigano spesso e l’uomo soccombe ai capricci della giovanissima ninfetta che, suo malgrado, lo manipola, lo tortura e lo umilia in modalità differenti: poche volte emerge il raccapriccio della bambina di fronte alle perversioni del suo tutore, alle quali s’abbandona il più delle volte lucidamente, convinta di avere l’uomo in suo potere. Così nel mistero del loro legame lascivo e incontenibile viene costantemente a perdersi il confine tra carceriere e carcerato.

Nel mentre, Humbert s’innamora. È un amore malato, d’una profondità abissale e lacerante che finisce per persuadere il lettore che sia Dolores in certi casi l’antagonista che si accanisce e si prende gioco del proprio amante. Un autore che riesca in un’impresa del genere, a ribaltare i fatti, a sottrarre il baricentro morale al proprio lettore, risulta senza dubbio un grande scrittore.

Il filo portante del romanzo di Nabokov sembra essere stato assimilato e intessuto nell’intreccio di Un Amore (Mondadori, 2016) di Dino Buzzati che pubblica il suo romanzo nel 1963, a poca distanza dalla prima edizione italiana di Lolita, come a porsi in diretta continuità.

Buzzati regala un interessante spaccato della Milano industriale degli anni sessanta che fa da sfondo alla vicenda di Antonio, ricco architetto di mezza età alle prese con la ninfetta Laide. La femme fatale in questione è una giovanissima prostituta, ufficialmente ballerina del corpo di ballo della Scala, conosciuta nella casa di incontri della signora Ermelina. Dal carattere sfrontato e deciso, la ventenne prende pian piano coscienza del totale asservimento di Antonio che lo rende debole e acquiescenteIn questo modo Laide ribalta la natura dei rapporti con il suo cliente, la giovane “maschietta” detta modi e tempi della relazione stabilendo un legame di totale sottomissione e devotissimo servitium amoris: su questo passaggio sembra intravedersi l’eco del maestro russo e dei suoi personaggi.

Gli universi di Laide ed Antonio sembrano scontrarsi: la borghese Milano imprenditoriale entra in collisione con il sobborgo costretto ad umiliarsi per sopravvivere.

Ma nello scontro ecco il trionfo del contendente più svantaggiato, la giovane prostituta, che finisce per ritagliarsi un ruolo di predominanza nella vita del suo amante. Buzzati vorrebbe in tal modo rimarcare seraficamente la dipendenza morbosa della Milano abbiente da quella Milano popolare e affamata di cui si nutre.

Così Antonio vive la sua passione tossica per Laide: lei, dal canto suo, non lascia mai intendere di ricambiare quel sentimento morboso, se non per aggrapparvisi nei più disperati momenti di bisogno, diventa la sua mantenuta pur continuando a condurre la vita di sempre.  Appare chiara la panoramica dei tradimenti, delle menzogne raccontate ad Antonio e dell’indifferenza nei suoi confronti, eppure sono i pensieri convulsi del protagonista, il protrarsi dell’attesa e la sua cieca speranza in quell’amore che spingono il lettore ad aspettare, insieme ad Antonio, un estremo atto di pentimento da parte di Laide.

«Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata… E benché molti ci avessero camminato sopra, era ancora fresco, gentile e profumato… Non era una infatuazione carnale, era una stregoneria più profonda…»

In questo passaggio avviene la definitiva simbiosi tra la cruda vicenda di Buzzati e l’elegante narrazione di Nabokov: a partire dai due protagonisti maschili Humbert e Antonio, che raccontano in prima persona l’ossessione per le donne estremamente più giovani di cui finiscono per diventare schiavi. La differenza è percepibile nel modo in cui entrambi vivono le proprie esperienze: Antonio non tenta di nascondere la sua natura, non trova svilente la sua propensione verso partner sessuali più giovani e anzi, si racconta sin dall’incipit con ostentazione e esuberanza. Humbert al contrario appare consapevole della propria perversione e, combattuto tra morale e desiderio, si rivolge ai membri della giuria parlando di sé come di un paziente incapace di vincere la propria malattia e che di questa ne ha fatto un simulacro. Entrambi tuttavia non vogliono guarire affatto, cercano scusanti per rimanere incatenati alle proprie prede, sfiniti dalle ossessioni a cui hanno votato il cuore, Lo e Laide.

Quest’ultime a loro volta sono l’una lo specchio dell’altra: giovanissime, seducenti, elusive e consapevoli della loro influenza sui due amanti. La disarmante lucidità di Lolita oscilla insieme alla sua innocenza strappata: in lei combattono la donna cresciuta precocemente e la bambina che desidera un’infanzia, pertanto tormenta e inganna il proprio aguzzino inerte e certo di meritare una simile punizione.

Laide dalla vitalità intensa, misteriosa e bugiarda, che ricorda a volte quello di una bambina, similmente nasconde l’amarezza della propria condizione di prostituta e della gioventù sprecata: così si abbatte su Antonio come un ciclone sconvolgendogli la vita e guadagnandosi una rivincita, un riscatto all’infinita pietà che prova per sé stessa. Tanto Laide quanto Lo troveranno infine epilogo comune in una gravidanza, che finisce per conferire loro un acquietarsi dei sensi, un torpore che lenisce le ferite e che genera rinascita, come se le loro precedenti esistenze rimanessero nell’oblio della memoria e i loro amanti un malinconico capitolo trascorso.

In questo modo i profili delle due giovani combaciano nella tragedia fino a diventare un topos, senza perdere quella pallida umanità che non smette di commuovere.

Si confondono i confini tra bene e male, morale e immorale, vittima e carnefice: in questo la grandezza di Nabokov che riflette in Buzzati. Il loro merito è di aver avuto l’ardire di affrontare una tematica scottante adattandola al proprio stile ma lasciandone invariata la poetica ossimorica dell’orrore e del magnetico, della repulsione e del fascino. Così entrambi gli autori provocano il lettore e lo catapultano in un viaggio nei dilemmi interiori reali e immaginari, finendo per elevarlo così, esplicitamente o intimamente, al ruolo di giurato.

Phoebe Bridgers, Punisher

Phoebe  Bridgers aveva già impressionato tre anni fa con l’esordio Stranger in the Alps. Non passava inosservata la sua scrittura minimalista, quegli squarci di disperazione: qualcosa che somigliasse a un ibrido tra il primo Bon Iver e Joni Mitchell. Una cosa del genere ti fa esplodere il cervello, detta così. Era possibile?  Certo, in alcuni aspetti il suo primo lavoro era limitato, ma di sostanza ce n’era eccome. E quei due riferimenti altissimi non erano inverosimili se accostati a lei. Ci ha pensato oggi a perfezionarsi: Punisher, il suo secondo album, è un netto passo in avanti.

Parallelamente alla sua carriera solista, però, pensiamo sempre alle sue collaborazioni, dove ha potuto spaziare e crescere: il roots rock con Better Oblivion Community Center, il grunge con Boygenius (Julien Baker e Lucy Dacus), l’alt rock insieme ai The National.

Insomma, Phoebe Bridgers è un’artista che è all’inizio, classe ’94, ma ha già molta esperienza. Punisher, dicevamo, è un passo in avanti rispetto a Stranger in the Alps: nonostante possano somigliarsi esteticamente di primo acchito, è evidente come, un po’ alla volta, le somiglianze tra i due si fanno sempre meno chiare. Prendono due direzioni diverse: con Punisher il dolore pare raccontato come si potrebbe raccontare il dolore provato in un sogno, e lo fa in maniera più decisa rispetto al suo predecessore. È un album quasi immateriale, asimmetrico, con le sue undici tracce-ballate, una solo up-tempo (“Kyoto“), atmosfere sommesse come la luca bassa e aliena di un sole che sta tramontando su un pianeta disabitato.

Nel 2020 la cantante di Los Angeles sembra ancora più a suo agio con la sostanza che sta maneggiando: l’intimità di tre anni fa, un’intimità profonda e viscerale, oggi viene presa e rivista, rigirata, ristudiata. C’è molto amore, molta pazienza nella ricerca di un sound più preparato, una scrittura più consapevole dei propri mezzi. Nonostante il fatto, poi, che ci troviamo in un terreno che è quello di tre anni fa. Che qui si è evoluto o meglio, ha dato frutti migliori, diventando universo onirico dove riuscire a interpretare il disagio e le paure dell’esistenza materiale.

A spiccare, chiaramente per diversità, c’è “Kyoto“: ma sono notevoli “Halloween” e “Chinese Satellite“, davvero due perle. In generale, l’impressione è quella di un’artista che aveva un’idea ben precisa di cosa fare ed è riuscita a inserire un pezzo dopo l’altro in un disegno a incastri che segue una logicità che si basa sulle sensazioni.

Phoebe Bridgers, con Punisher, vuole dirci che se bisogna scommettere su qualcuno per i prossimi anni, quel qualcuno dovrebbe essere lei.

foto di jack kerouac

Gli spazi nella prosa di Kerouac

Quando si parla di Jack Kerouac ci si ritrova sempre ad affrontare la sua strada, la sua vita alla ricerca della libertà, la creazione della prosa libera spontanea, la sua America. Jack Kerouac non sarebbe il Kerouac che conosciamo oggi se non fosse nato in America e se non avesse vissuto viaggiando liberamente.

Se non avesse attraversato il Paese e vissuto senza meta, ci mancherebbe un pezzo importante della storia della letteratura americana, quello della Beat Generation. Dove Beat, per Kerouac, non sta superficialmente per battito, beat sta per battuto come battuto a macchina e, nella fase finale della sua vita, ha assunto il vero significato, quello di Beatitudine: «C’è una beatitudine in cui certamente bisogna credere, ed è che ogni cosa dimora nell’estasi eterna, ora e per sempre».

È un Kerouac che non si è mai fermato e che nel suo lungo viaggio, alla ricerca del suo dio, dell’eternità dorata e del sogno vuoto dell’universo, ha portato il proprio spirito. Spirito tramutato nella sua scrittura dalla prosa spontanea. Se Kerouac fosse nato a Roma, a Parigi o a Sidney, oggi non ci avrebbe consegnato la sua opera così com’è. Perché è dai luoghi in cui viviamo e dal modo in cui viviamo ogni giorno la vita, che formiamo il nostro essere e così nasce la nostra arte. E si crea la letteratura. Il modus vivendi che modifica le sensibilità umane, agisce anche attraverso gli spazi che abitiamo e che influenzano il nostro modo di sentire. L’America è Kerouac e Kerouac è l’America, a prescindere dal capolavoro On the road. I luoghi di Kerouac fanno parte della sua arte perché lo hanno reso libero e ha trasportato la sua libertà in giro per il mondo e, per fortuna, lo fa ancora oggi attraverso i suoi libri.

Se non si riesce a concepire la giusta rilevanza che hanno gli spazi nella letteratura, allora sarebbe difficile immaginare le avventure di Sal e Dean in un qualsiasi posto del mondo. Non incontreremmo gli stessi personaggi, perché tutti i suoi personaggi sono caratterizzati da infinite sfaccettature, tipiche di chi scrive i dettagli che vede; rispecchiano il viaggiatore, l’esploratore, le storie che gli raccontano i vagabondi. Non incontreremmo i campi di Frisco, né i crocevia «dove i piccoli agglomerati di case ci balzavano incontro dall’oscurità, e superavamo lunghe file di braccianti e cow-boy che oziavano nella notte».  È la concezione dello spazio come spazio sempre aperto, sempre in moto e in continuo cambiamento, come luogo della libertà a rendere tale la scrittura letteralmente libera di Kerouac: «A quel tempo danzavano per le strade come pazzi, e io li seguivo a fatica come ho fatto tutta la vita con le persone che mi interessano, perché le uniche persone che esistono per me sono i pazzi, i pazzi di voglia di vivere, di parole, di salvezza, i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno Oooooh!». È una scrittura danzante, dove la danza è tutto. Per dirla alla Nietzsche «Crederei solo a un dio che sapesse danzare» e Kerouac ci ha creduto e l’ha cercato per tutta la vita.

La tanto discussa superficialità della cultura americana, la filosofia Here Now, le lunghe strade desolate, diventano agognata leggerezza nella prosa e nella vita kerouachiana. Kerouac insegna a non etichettare, a non giudicare e ad andare sempre incontro al diverso, inteso come Altro. La cultura americana lo ha formato e reso tale. La conoscenza del popolo, dello squallore, dei campi di cotone, del vivere alla giornata, delle corse in macchina e dei ragazzi del riformatorio, hanno contribuito alla formazione della sua visione poetica. Provando a rileggere i suoi scritti, la domanda che sorge spontanea è: quanto i luoghi di Kerouac hanno influenzato la sua scrittura?

La ragazza messicana (The mexican girl), poi incluso in forma leggermente modificata nel romanzo On the Road (Sulla strada), era stato precedentemente pubblicato come racconto sulla Paris Review. È già dal lessico adoperato nella prima pagina che percepiamo lo spazio in cui stiamo entrando. Ripete il termine «autobus» per quattro volte in una sola pagina, risuonano a ritmo quasi ritondante i nomi delle città di Los Angeles e New York, usa verbi quali «aspettare», sostare», «andare», «partire», «viaggiare». Si apre così, con l’attesa di una partenza su un autobus, sulla strada, con le valigie, le sigarette, la solitudine. È la casa da cui proviene l’autore. È interessante notare come cambi l’uso della persona, per tutta la prima parte il protagonista parla al singolare, «la mia vita», «aspettavo», «partivo». Poi nella parte successiva si trasforma in una prima persona plurale, perché include anche la ragazza messicana, ma si limita a poco, perché continua a parlare della sua di vita. E sul finale torna al singolare, alla sua solitudine, al suo essere sbattuto, che fa la valigia, e ancora una volta parte da solo verso una nuova destinazione.

«Piegai la testa e l’osservai. Be’, alla buon’ora, ero di nuovo in cammino».

«Skidilibee-la-bee you, -oo, -e bop she bam».

Gli spazi sono tali in quanto intesi non esclusivamente come entità geometriche, ma come spazi reali che racchiudono tutte le sfaccettature del preciso momento in cui si vivono: storiche, sociali, culturali, artistiche o musicali. Keroauc vive l’America delle tavole calde, degli autostop e dei ritmi jazz che diventano in lui i veri ritmi del viaggio. La sua scrittura risente del sound di Parker o di Holiday. La sua spontaneità creativa incontra la jam session, trovando una perfetta fusione nella sua prosa libera spontanea. Il suo è un modo di scrivere libero e adatto a raccontare le sue storie di libertà, senza preoccuparsi dell’uso corretto delle parole, perché le parole vanno da sole. Vanno da sole anche quando compone il famoso rotolo di On the road, il celebre dattiloscritto lungo 36 metri, contenente la prima stesura del romanzo. Non ha interruzioni di paragrafo, lo compose in meno di 20 giorni nel 1951, senza fermarsi. Concepito come una vera e propria maratona, scandita dal ritmo bepop e jazz che lo ispiravano nella sua scrittura sincopata. È il concetto di improvvisazione che riesce a trasportare nella sua prosa e a renderlo diverso, l’improvvisazione è una sorta di sentimento che appartiene a pochi, a chi sa vivere per strada, a chi raggiunge l’estasi durante un concerto jazz.

Oggi esistono veri e propri itinerari sulle tracce di Kerouac, quelle di Sal che partiva da Paterson (New Jersey), fino alla sua amata metropoli newyorkese (protagonista del suo primo romanzo, La città e la metropoli, in cui i protagonisti sono destinati a perdersi nella grande città), per la volta della sua Frisco (San Francisco), attraversando i campi del Nevada, la città di Denver, grande spazio emotivo della sua esistenza, la terra dorata di Sacramento. Per poi ripartire da San Francisco, Indianapolis, Ohio, Pittsburg, perché sapeva «che a un certo punto di quel viaggio ci sarebbero state ragazze, visioni, tutto; sapevo che a un certo punto di quel viaggio avrei ricevuto la perla». Si ritorna all’estasi e all’eternità dorata. Ed è tutto spontaneamente e perfettamente collegato, perché alla fine gli spazi sono la scrittura, le immagini sono la scrittura, la vita è la scrittura e tutto è un “Sacro vuoto”. Perché «le parole, le immagini e i sogni sono le dita della falsa immaginazione che indicano la realtà del Sacro Vuoto – ma le mie parole sono ancora molte e le mie immagini procedono verso il Sacro Vuoto come una strada che ha una fine. È la STRADA DEL SACRO VUOTO questo scrivere, questa vita, quest’immagine di rimpianti».

copertina di l'amante di duras

Effluvi di un ricordo

Volutes è il nome che Yves Coueslant, fondatore della celebre maison Diptyque, ha dato a una delle sue creazioni: un profumo esotico, speziato, dolce, nato dai ricordi d’infanzia del viaggio che, da Marsiglia, lo portò nella capitale dell’allora Indocina Francese, Saigon, negli anni Trenta del Novecento. Negli stessi anni la diciassettenne Marguerite Duras, pseudonimo di Marguerite Germaine Marie Donnadieu, viaggia nella direzione opposta a quella del profumiere: dal Vietnam rientra in madrepatria per iscriversi all’università e studiare matematica, come vuole sua madre. È forse in questo viaggio il punto di congiunzione tra il profumo e la scrittrice. “Volutes” come le volute disegnate nell’aria equatoriale dal fumo delle sigarette inglesi. Le stesse sigarette fumate da un ricco e giovane cinese quando, sul ponte del traghetto che sfila sul fiume Mekong, nota una graziosa adolescente, con un buffo cappello da uomo e scarpe di lamé, affacciata al parapetto. È questa l’immagine, che Marguerite Duras fa riaffiorare con fatica alla memoria, con cui si apre L’amante. Le note olfattive che costruiscono la piramide di Volutes – pepe, miele, tabacco, frutta secca, incenso, oro – hanno l’odore del corpo di quell’uomo, quel miliardario cinese glabro e debole, abominevolmente innamorato della pelle bianca della francese di quindici anni e mezzo che stringe a sé nel segreto di un’alcova.

Lo sguardo lucido, straziante ma privo di compatimento col quale Duras racconta, quasi sussurrando e servendosi di una sorta di understatement poetico e raffinato, la relazione vissuta a quindici anni con un uomo molto più grande di lei, valse al romanzo il Premio Goncourt nel 1984. Edito in Italia da Feltrinelli nel 1985, nell’opera Duras tenta di realizzare uno scollamento tra scrittrice e scritto: la prosa frammentaria, la narrazione rievocativa, il destreggiarsi tra i tempi verbali per confondere, sovrapporre e infine riprendere immagini, ricordi, riflessioni sconnesse, circoscritte, come un album di fotografie in disordine, tutto concorre a produrre questa separazione.

Storia di un amore soffocato, dolente ritratto di una famiglia disastrata, riflessione sulla costruzione dell’identità di una scrittrice-protagonista che è a volte voce narrante e a volte descritta in terza persona, quasi che Duras stesse parlando di e a una sé troppo lontana nel tempo e nello spazio per poterne rivelare il nome, per ammettere che quel nome è il suo, per riconoscersi e farsi riconoscere nella ragazza col cappello da uomo in feltro a tesa piatta color rosa: di questo sono intrise le poche pagine de L’amante.

In Indocina, nel periodo tra le due guerre mondiali, l’amore tra un ricco uomo cinese e una giovanissima colona povera è ossimorico, scandaloso per ragioni anagrafiche, razziali e sociali, vive solo di quei momenti in cui, nelle righe di luce proiettate sul letto dalle stecche di una persiana calata, Marguerite va ad «approfondire la conoscenza di Dio», abbandonandosi a un piacere «come il mare, sconfinato, semplicemente incomparabile».

Per svuotare di significato i loro incontri rubati, la giovane ostenta una crudele freddezza verso di sé e il suo amante: lo implora di trattarla come tutte le altre donne che egli porta nella penombra della sua garçonnière, nel quartiere malfamato di Cholen, di strapparle i vestiti di dosso e pagarla. I soldi lavano l’onta. La protagonista è una piccola prostituta, ma la decenza per la famiglia è ripristinata: anche se povera, Marguerite è bianca, giovane, francese e un cinese, per ricco che sia, merita solo che di tale ricchezza ci si approfitti. «Hanno stabilito che non l’amo, che non posso amarlo, è impossibile, e lui è pronto a sopportare tutto da me senza mai ottenere il mio amore. E perché è un cinese, e non un bianco».

Ma l’amore non è solo quello proibito, sofferto e languido tra il miliardario e la ragazzina: il romanzo è una disperata e sommessa dichiarazione d’amore a una famiglia impossibile da amare, a una madre preda di crisi maniaco-depressive, perseguitata dalle sfortune e inasprita dalla miseria; a un fratello maggiore aggressivo, bugiardo e dispotico che annienta la vitalità del più debole, il fratello minore, adorato e protetto da Marguerite, che morirà prematuramente.

Antitesi della tormentata protagonista è la rosea Hélène Lagonelle, compagna di stanza descritta con desiderio fremente e mai concretizzato, osservata con invidia forse perché «indugiava ancora nell’infanzia».

Di lei sappiamo tutto, a cominciare dal nome. Al contrario, l’anonimia avvolge la protagonista; non hanno nome neppure i fratelli, la madre, l’amante di Cholen. Hélène Lagonelle «dai seni fior di farina», innocente e puerile, che porta in giro con ingenuità per il pensionato femminile il corpo nudo, inconsciamente voluttuoso, è la nemesi della sua precoce coetanea, gracile e minuta, che ha già scoperto il piacere e vive nella clandestinità una storia che non ammetterà mai, neppure a sé stessa, essere d’amore.

L’amore riceve uno statuto di riconoscimento solo quando la sua impossibilità di realizzarsi slitta dal piano etico a quello pratico: la madre trascina con sé i tre figli nella decisione di lasciare per sempre l’Indocina e tornare in Francia, e l’autoinganno si disvela ai due amanti costretti a separarsi. L’ostinazione a voler sminuire, sciupare, soffocare questo sentimento inaccettabile non è sufficiente per metterlo a tacere – né nello spazio del libro, né al di fuori di esso.

Nel 1992 Jean-Jacques Annaud realizza una trasposizione cinematografica del breve romanzo, e Marguerite Duras scrive L’amante della Cina del nord, rimettendo mano a questo lontano episodio, quest’immagine che non esiste, questa foto non scattata se non nella sua memoria, che inizia con l’attraversamento del fiume Mekong. La potenza della storia che in quest’immagine si sintetizza non è, infatti, esaurita, né Duras si scarica del suo peso solo con L’amante, le cui righe conclusive sembrano una promessa a posteriori di quest’inesauribilità: «Anni e anni dopo la guerra, i matrimoni, i figli, i divorzi, i libri, era venuto a Parigi con la moglie. Le aveva telefonato. […] Lui sapeva che lei aveva cominciato a scrivere libri, l’aveva saputo dalla madre incontrata a Saigon. Sapeva anche del fratello piccolo, disse che ne aveva sofferto pensando a lei. E poi sembrava che non avesse altro da dire. Ma poi glielo aveva detto. Le aveva detto che era come prima, che l’amava ancora, che non avrebbe potuto mai smettere d’amarla, che l’avrebbe amata fino alla morte».

Copertina di Piccole apocalissi di Santoro

Un labirinto in frammenti

Sulla sottile linea di demarcazione tra il disturbante e il divertito, si trovano come piccoli satelliti questi brevi input di taglio ora narrativo ora descrittivo ora immaginifico, una raccolta che ben si accorda nello spirito generale e nella fugacità al titolo del secondo racconto che vi appare, Piccole apocalissi, scelto appunto come nome dell’intero lavoro.

L’autore è Livio Santoro, già apparso sulle riviste di narrativa breve effe, Nuova Prosa, Achab e Crapula ed ora approdato alla prima sua raccolta (Edicola, 2020).

Il libro si compone di 49 frammenti, talvolta di una pagina ciascuno – ma ve ne sono anche di più piccoli – perfettamente autosufficienti e conchiusi, in cui il titolo, proprio per l’effettiva brevitas dei testi, acquista in ciascuno un protagonismo speciale, commentando, chiosando, semplicemente impostando l’atmosfera, oppure mettendo in atto una sorta di sagace contrappunto con quel che segue.

Per quanto riguarda le tematiche, siamo di fronte a un intero bestiario di strane creature letterarie sempre in bilico tra il reale e il deformato, l’accettabile e il paranormale, il concreto e l’inquietante. La stessa “natività” bordeline che campeggia in copertina, un impasto di suggestioni visive di matrice eterogena che la rendono una sintesi tra iconografia cristiana, l’iconicità degli sciamani pellerossa e un’allucinata metamorfosi kafkiana, ci proietta subito in quello che sarà un viaggio di confine, dove è l’ombra a tenere banco, aggregandosi e disgregandosi ai margini del nostro subconscio come le particole che il bambino del secondo racconto osserva ipnotizzato: «Queste invece si muovono, sbattono una contro l’altra, vanno a finire sul muro. A quest’ora, qui a casa è come la fine di tutto l’universo».

Scioccante affermazione da parte di un fantolino. Chiaramente questo bambino, come altri più avanti, è una concrezione, rappresenta quel che di ignoto e di vagamente allarmante gli adulti percepiscono nell’infanzia, una fase troppo spesso dipinta a sole luci, ma nella quale sono ben presenti le tenebre.

La bambina di “Davanti al bosco”, per esempio, non vuole entrarvi non per la paura, ma per amor della paura, del suo diritto di averla: «Non ci voglio venire, disse gridando, lo so che dentro il bosco è bello, e lo so che ci sono le fragole e gli scoiattoli. Ma a me il bosco piace guardarlo da qui, quando ancora mette paura».

Si coglie in questo racconto come altrove in Piccole apocalissi il gusto per la chiusa che spiazza, ma anche il gusto per la creazione della situazione-limite, quella che costringe a uscire dal seminato, a ribaltare il senso comune. Ad accettare che non è tutto filato, e che anzi la maggior parte delle cose prospera e risplende proprio nello sbaglio, nella stranezza, nella non consequenzialità.

Tra le pagine appaiono e scompaiono figure come Meloscato, il demone delle deiezioni, La gatta proverbiale (costretta a comportarsi come recitano i detti popolari), il Sesto senso (che è quello di colpa), molta inquietante religione, una tremenda Epidemia che invade e divora man mano la città (sono i turisti).

Oppure, in “Nelle vuote stanze”, cose che «quando, di nuovo fuori, richiudiamo la serratura, ebbene lì dentro, nelle vuote stanze, quelle cose sono di nuovo infinite, di nuovo infinite».

Poi ci sono conflitti edipici – figli che bruciano le città dove da bambini passeggiavano coi padri –, storie d’amori impossibili tra la donna invisibile e l’uomo trasparente, o tra il ragazzo che guarda solo le nubi e la ragazza che guarda le radici dei fiori lì dove entrano più a fondo nel suolo; ci sono donne-farfalla, donne dagli occhi tanto grandi che potrebbero cader giù e perdersi per sempre tra il selciato, ci sono nomadi e vichinghi che traversano l’Europa (nella realtà? Sulla carta?), ci sono vecchi mulini che racchiudono l’ignoto e vecchie signore che sanno ancora guardare, anche da una panchina sperduta, come in “Porta Maggiore”.

«Notando che nemmeno mi aveva rivolto uno sguardo, le ho domandato indiscreto cosa ci fosse da guardare lassù, sulle rovine delle Mura. Osservi, mi ha detto con l’indice puntato, lì c’è l’esuberanza dei capperi fioriti; la tenacia di quel fico che cresce orizzontale, radicato alla siccità delle mura; la superbia violacea delle bocche di leone, che tendono al cielo. Se permette, io nel frattempo preferisco guardare lassù».

La sensazione è quella di scoperchiare uno scrigno di paure, di addentrarsi in un regno liminare di presenze inspiegabili che permangono giusto il tempo di turbare l’aria. La deformazione è decisamente nella materia narrata più che nell’occhio di chi la avvicina, eppure l’insolita scelta stilistica, di un buon italiano ornato di tratti arcaici, lieve e arguto ma anche didascalico, da cronista dell’orrido, dopo qualche pagina può indurre l’impressione che la deformazione sia in realtà una componente abbastanza inevitabile dell’esistenza umana.

E uno stile così sorvegliato, preciso, una lingua sbrigativa e colta dal sapore quasi medievaleggiante, non fa che amplificare l’idea che Piccole apocalissi sia un minuscolo labirinto retto da leggi ferree dentro il quale può palesarsi di tutto, pesante per la sua densità.

Il mio gusto personale va più verso i dialoghi da asciugamano di “Pietre” e “La lunga estate” che verso le legioni di diavoli di “Settembre s’adombrò d’un tratto”, e mi piace pensare che un autore che ha scritto una frase come «l’esuberanza dei capperi fioriti» possa regalare al lettore, se vuole, tutta una nuova gamma di suggestioni che trovano linfa nel mondo naturale, proprio come in Piccole apocalissi, questa volta, si sono nutrite di buio.

 

(Livio Santoro, Piccole apocalissi, Edicola, 2020, 88 pp., euro 11, articolo di Teodora Dominici)

 

Poster di Da 5 Bloods su Flanerí

Reduci di una guerra infinita

Girato nel 2019 e scritto ancora prima, Da 5 Bloods – Come fratelli del prolifico Spike Lee, disponibile dal 12 giugno su Netflix, avrebbe il sapore dell’instant movie uscito per sottolineare il momento tumultuoso che stanno vivendo gli Stati Uniti e di riflesso anche il resto del mondo. Tuttavia Lee ha un curriculum che parla da solo, le disuguaglianze sociali nel paese di Frederick Douglass sono il grande problema irrisolto e Black Lives Matter non è uno slogan trendy dell’ultima ora.

Giusto il tempo di premere play e vediamo Muhammad Ali spiegare senza giri di parole perché non andrà a sparare ai vietnamiti. È un’immagine di repertorio del 1967. Ne seguono altre, accompagnate dalla strepitosa voce di Marvin Gaye (che costituirà la colonna sonora di tutto il film insieme alle musiche originali di Terence Blanchard), in cui si alternano le battaglie dei cittadini afroamericani contro la discriminazione razziale e le violenze della guerra del Vietnam, in cui quegli stessi cittadini combattevano e morivano per tenere alto il nome del paese che in patria li chiamava “negri”.

L’uso di filmati e foto reali è un classico dei film di Spike Lee. Qui non si limitano all’apertura, ma spuntano all’occorrenza come tagliente contrappunto storiografico alla finzione messa in scena. Altro grande classico di Lee sono i titoli in slang; Da 5 Bloods può barrare anche questa casella. Qui si allude a cinque soldati afroamericani (i cinque fratelli) che nel 1971 in Vietnam avevano seppellito una cassa di lingotti d’oro, destinata originariamente a pagare l’aiuto dei sudvietnamiti, per spartirsi la fortuna in un secondo momento che mai arriverà. Dei cinque commilitoni solo quattro faranno ritorno a casa, perché Norman, il caposquadra e di fatto leader politico del gruppo, è ucciso sul campo di battaglia. Proprio di Norman era stata l’idea di tenere i lingotti come giusto risarcimento per i soprusi subiti dal loro popolo.

Il momento propizio per tornare e disseppellire il tesoro, e recuperare i resti dello sfortunato fratello, si presenta quarant’anni dopo, quando i quattro reduci ormai imbolsiti si ritrovano nell’ex Saigon per una ultima avventura nel sud-est asiatico. Il battello che avanza sul fiume per portarli verso il cuore della giungla è spinto dalla Cavalcata delle Valchirie, per una delle tante citazioni e autocitazioni (non manca il tormentone di Isiah Whitlock Jr, nato proprio con La 25a ora di Spike Lee).

La guerra fa schifo e lascia abissi a volte insondabili dentro chi ne ha dovuto far parte. I quattro fratelli lo sanno e nonostante vite e convinzioni diverse sono legati per sempre. Le scene sono forti, specialmente nei flashback degli anni a cavallo tra i Sessanta e i Settanta, in cui cambia il formato e i bloods, tranne Norman, sono interpretati dagli stessi attori sessantenni, senza l’ausilio di tecniche di ringiovanimento. L’esperienza del regista nato ad Atlanta e cresciuto a Brooklyn traspare nella precisione e nell’estro di ogni inquadratura.

Tanto è girato bene e tanto è contundente la tesi politica quanto è inconsistente la sceneggiatura. Il problema di Da 5 Bloods sta proprio nel mezzo, quando vediamo la compagnia dei quattro, alla quale per la verità si aggiunge anche David (Jonathan Majors), figlio di Paul (Delroy Lindo, il migliore), cercare di recuperare l’oro e portarselo via. Proprio Paul, unico sostenitore di Trump con tanto di cappelletto MAGA, è il personaggio più interessante, sebbene le sue azioni diventino presto troppo mutevoli e impulsive per essere giustificate fino in fondo dal disturbo da stress post-traumatico di cui soffre.

Due degli altri tre amici sono caratterizzati a malapena, mentre il figlio è in un’età tra i 25 e i 30 ma si comporta per qualche motivo come se ne avesse tra i 10 e i 15. Completano il cast alcuni personaggi minori e un Jean Reno in versione trafficante internazionale.

Lasciateci anche dire, per chi vedrà il film in versione doppiata, che ci troviamo di fronte a un altro sciatto adattamento di Netflix. È vero che quasi tutti i dialoghi del film sono nell’ostico inglese vernacolare afro-americano, ma quando a un certo punto ci viene sparata in faccia la doppietta «sputa il rospo» + «vuota il sacco» uno di seguito all’altro, capiamo che c’è un limite a tutto.

Inconsistente, dicevamo, è la sceneggiatura. Molti colpi di scena sono più che prevedibili, mentre altre volte gli eventi prendono una piega così irrazionale e casuale da essere il massimo dell’imprevedibilità, in senso negativo. Difficile sia seguire la logica dell’intreccio sia provare empatia per le vicissitudini fisiche e morali dei protagonisti. Qualche lampo, pur nella sua discutibile volubilità, ce lo regala Paul, con tanto di monologo (altro marchio di fabbrica di Lee) guardando dritto in macchina.

Se due anni fa BlacKkKlansman aveva proposto una struttura narrativa analoga, in quel caso l’intercalare di immagini di repertorio e la tesi politica facevano da supporto a una vicenda comunque coinvolgente e coerente. Avendo oggi negli occhi le dure immagini della brutalità dei vari corpi di polizia statunitensi e il brevissimo ma potentissimo cortometraggio 3 Brothers – Radio Raheem, Eric Garner and George Floyd, viene da pensare che, lasciando perdere interamente l’epica sbilenca messa in scena, Da 5 Bloods avrebbe potuto essere un grande documentario.

Il cinema di Spike Lee da sempre racconta che cosa significhi essere afroamericani in un «paese costruito sui corpi dei neri uccisi», in cui la storia si ripete tragica dal 1619. La lotta per i diritti civili e per il pieno riconoscimento nell’identità nazionale collega i campi minati del Vietnam e il balcone del Lorraine Motel di Memphis in cui fu ucciso Martin Luther King.

Mostrandoceli in apertura e in chiusura, Lee ci dice che sono i leader che devono dare forma concreta e proficua alla lotta, alla rabbia e alle proteste. Malcolm X, Kwame Ture, Angela Davis, Bobby Seale. Sembra dircelo proprio ora, mentre guardiamo le immagini delle città americane in rivolta dopo l’omicidio di George Floyd da parte di agenti della polizia di Minneapolis.

Il film si congeda sulle immagini di Dr. King, come è comunemente chiamato, un anno esatto prima di essere assassinato. Lo ascoltiamo prendere in prestito i versi di una composizione dedicata agli ultimi scritta nel 1935 dal poeta Langston Hughes: Let America Be America Again.

(Da 5 Bloods – Come fratelli di Spike Lee, drammatico/guerra, 2020, 154’)

 

Musiche per ristoranti

Nell’area metropolitana di Los Angeles c’è Culver City. Qui svetta un ristorante che si chiama Vespertine.  2 stelle Michelin, chef Jordan Kanh. Fascia altissima, prezzi proibitivi. Uno di quei posti dove si parla di “esperienza”. L’edificio in cui si trova è uscito dal un sogno di un archistar, forme irregolari, architettura sperimentale: lo puoi trovare in una città futuribile, in un romanzo. In un museo. All’interno delle pareti, che sono delle enormi vetrate, la musica dei This Will Destroy You.

Vespertine, quindi, esiste in due momenti: quello specifico del ristorante in California e quello epurato dal suo spazio fisico originale e che è arrivato a noi. C’è differenza, dunque, tra i due? È un lavoro auto referenziale che si piega e si ripiega su sé stesso?

La questione sembra sfociare in un discorso che si lega al  mondo dell’arte concettuale, installazioni artistiche, e non prettamente con quello della musica. Due universi che qui, comunque, per forza di cose, devono incontrarsi.

Perché l’ascolto che possiamo chiamare impuro, quello con cui noi comuni mortali facciamo i conti,  sicuramente spiazza. Sto realmente ascoltando un lavoro dei This Will Destroy You? Vespertine è in tutto e per tutto un album ambient, un territorio mai esplorato con tanta dedizione dal gruppo di Austin. La questione legata al fatto che si tratti di musica fatta nello specifico per un ristorante (i nomi delle tracce sono “Kitchen“, “Dining Room“, “Rooftop” etc) è forte e chiaramente decisiva. Non può non influenzare l’esperienza immaginata, o non-esperienza.

Il post-rock degli esordi e il capolavoro omonimo This Will Destroy You, o quello sperimentale kraut/post rock dell’ultima fase, non ci sono: non pensiamo più ai lunghi crescendo stile Explosions in the Sky o a quelle scariche di rumore di Tunnel Blanket.

Con Vespertine ci troviamo più vicini ad altro. A Brian Eno, per esempio. E non è un caso. Ripensare a Music for Airports per capire Vespertine. L’idea di riempire i luoghi di musica, o ancora meglio i non-luoghi. Disegnare un’altra dimensione, cercando di andare oltre l’aspetto materiale della contingenza. I This Will Destroy You hanno certamente avuto lui e il suo lavoro in mente nella scrittura di questo ultimo album (esempio forse più lampante “Kitchen“). Sono molte infatti le somiglianze che li accomunano: più di concetto e di ambizione rispetto a un principio estetico. Perché da questo punto di vista, invece, ci ritroviamo negli intrecci sonori degli Stars of the Lid, in particolare “Their Refinement Of The Decline“. Il calore dell’ambient drone e la nostalgia di uno dei tanti futuri possibili.

Il viaggio dei This Will Destroy You ci porta a  vagare all’interno di un ristorante upper class della California, ma a lungo andare il discorso si espande, andando a raccontarci altro. Le varie stanze del Vespertine diventano quindi luoghi della mente, distese senza tempo. I This Will Destroy You, nel loro ennesimo mutare pelle, riescono ancora ad avere la meglio. Vespertine è un lavoro che, in definitiva, funziona a prescindere da Vespertine.