Copertina di La scrittura non si insegna di Santoni

Scrittori a dieta

«Se l’Aspirante è giovane, digli che è troppo giovane, se è vecchio troppo vecchio, se grasso troppo grasso… ma se attende davanti alla porta per tre giorni senza mangiare, senza una coperta né essere incoraggiato, fallo entrare per cominciare l’allenamento».

D’accordo, abbiamo scherzato: nonostante Vanni Santoni possa essere considerato per la sua vena postmoderna e iconoclasta il Tyler Durden dello scouting letterario italiano, il minisaggio La scrittura non si insegna (Minimum Fax, 2020) non assomiglia a un Fight Club né al terroristico progetto Mayhem, anche se l’onestà del suo approccio va dritto come un treno e si segnala come ottimo viatico per chi desidera avvicinarsi all’arte della scrittura. Come si fa, dunque, a buttar giù un romanzo come si deve? Mettendosi a dieta, Santoni dixit.

Non è una trovata da sciamano americano del creative writing (seppur il nostro abbia già nel nome il destino del guru), perché il menu che propone l’autore di I fratelli Michelangelo assomiglia semmai a una grande abbuffata di discreti mattoni (pardon, propedeutiche letture): dalla Recherche proustiana a 2666 di Bolaño, passando per Infinite Jest di David Foster Wallace fino ai tre volumi di Abbacinante di Cartarescu e via di questo passo, per un totale (del tutto provvisorio) che supera le diecimila pagine. Infatti, è solo l’antipasto: il listone completo annovera trenta titoli imprescindibili per chi voglia solo osare mettersi a scrivere, eppure, non è il meglio della letteratura mondiale, come lo stesso scrittore toscano riconosce.

Quindi: via Kafka e dentro Philip Roth, più Austerlitz e meno Gatsby, poiché l’eccellenza stilistica non servirà all’Aspirante quanto i romanzi-mondo, imperfetti contenitori del Tutto, necessari ad alleviare i dolori del giovane lettore con «un paio di schiaffi sul culo… onde aprire i polmoni». Invero, il gioco delle liste è mutevole: La scrittura non si insegna ne propone subito un’altra poche pagine dopo. In fin dei conti, come ogni Dieta che si rispetti, basta che funzioni: l’importante è non correre a casaccio, ma a tappe forzate verso librerie e biblioteche.

E dopo la Dieta? Viene la Disciplina, la quale ha un solo dogma, anzi tre: scrivere, scrivere, scrivere, però tutti i giorni, senza eccezioni (a meno di cataclismi). Mai prendere la scrittura come il calcetto del giovedì sera: deve diventare per l’Aspirante un’attività a cui dedicare una parte precisa delle proprie giornate (tutte, insiste Santoni), anzi, una delle occupazioni principali della propria vita, da cui partire per costruire il resto, proteggendola dagli attacchi del quotidiano (e di fidanzate/i, social e impiccioni vari).

Bene, e dopo? Viene da sé: Santoni prosegue con altri consigli, forte dell’esperienza di direttore editoriale di Tunué, fucina di giovani esordienti di talento, nonché come docente di scuole di scrittura (non è un controsenso, piuttosto il segnale che la teoria è stata sperimentata sul campo); tuttavia, le raccomandazioni risulteranno meno decisive della “doppia D” di cui sopra, perché incentrate soprattutto su ciò che bisogna evitare in fase di composizione, revisione, confronto e pubblicazione.

L’assioma di La scrittura non si insegna non viene tradito: l’apprendistato non riguarda ciò che si scrive, poiché «la vastità infinita delle possibilità di un testo narrativo implica che infinite cose si possano scrivere in infiniti modi». Meglio, propone Santoni, concentrarsi su chi scrive: il potenziale autore deve trasformarsi prima in vero scrittore. Troppo banale? Il buonsenso lo è, chiosa Santoni. Funziona per tutti? Forse no, ma quelli per cui funziona molto probabilmente se ne accorgeranno.

 

(Vanni Santoni, La scrittura non si insegna, minimum fax, 2020, 95 pp., euro 13, articolo di Domenico Ippolito)

 

 

copertina di Il nome della madre di Roberto Camurri

Alla ricerca del nome perduto

A poco più di due anni di distanza dal suo fortunatissimo esordio con A misura d’uomo, Roberto Camurri si riaffaccia sul panorama della narrativa italiana indipendente con Il nome della madre (NNEditore, 2020).

I due libri conducono il lettore nel medesimo universo narrativo: dal punto di vista formale, giacché si può ormai dire a pieno titolo che Camurri ha sviluppato una voce, l’ha svezzata e l’ha fatta propria; ma anche dal punto di vista contenutistico, nel momento in cui i due romanzi condividono un obiettivo di ordine analogo, nonché lo stesso panorama emotivo, oltre che geografico.

L’obiettivo di Il nome della madre è il più antico, difficile del mondo: indagare a fondo i rapporti tra gli uomini e le loro emozioni, e sviscerare il ruolo del tempo, che passa e non guarda in faccia nessuno, che lascia ferite e tracce incomprensibili da decifrare, che a volte richiedono tutta una vita per essere capite. Un romanzo, insieme, di formazione, de-formazione e ri-formazione: la storia della nascita, dello sviluppo e dell’accettazione di una di quelle ferite.

La moglie di Ettore è se n’è andata senza dare spiegazioni, lasciandolo a fare i conti con i ricordi e con Pietro, figlio poco più che appena nato. Lui è un uomo tutto d’un pezzo, un lavoratore d’officina d’altri tempi. Costruisce le cose e le case, ma questo non basta: sente il peso dell’assenza di Lei, lo sente insopportabile perché è dura fare i conti con qualcosa che non ci è stata data la possibilità di capire. Così, Ettore oscilla tra l’assunzione del senso di colpa su di sé e la rivendicazione della propria innocenza, del suo essere vittima; il padre non riesce a lasciar andare il ricordo di Lei, perché rivede i suoi occhi, le sue espressioni in quelli di suo figlio.

Pietro cresce senza la madre, che si trova ad avere, proprio per questo, un’ascendente ancora maggiore su di lui. Lo vediamo, già alle scuole elementari, fare i conti con la solitudine, cercare di capirla, calzarla come un vestito: un’operazione, si sa, molto difficile anche per i “grandi”. Il rapporto padre-figlio non si compensa, perché fondato sulla mancanza e sulla negazione, e si sviluppa tra aggressività e reticenza, tra botte e silenzi. La ferita originaria ne crea altre, come cellule in metastasi, e il resto lo fa il tempo che passa: non serve, come nelle belle storie, a rimarginarla, ma contribuisce ad allargarla.

Una voragine si apre tra Pietro e suo padre, tra Pietro e la realtà: è allora che Pietro inizia a vedere i fantasmi, il fantasma di sua madre, non ne ha paura ma lo insegue. Servirà tutta la vita per lasciarlo andare, per liberarsi.

Il nome della madre è la storia di questo liberarsi faticosissimo. La vita dei due uomini in rapporto tra loro è segnata da un’assenza condivisa, ma Ettore è fuori tempo massimo per agire. Sarà, allora, Pietro a diventare parte attiva nella chiusura del cerchio. Per farlo, dovrà scavare dentro di sé: capire che la Madre che lui ha in testa forse non esiste, se non nella sua testa; capire che tutta la distanza che lo separa dal padre non l’ha creata lui; capire che Miriam, l’amore della sua vita, non è sua madre, ma che ugualmente gli dà tutto l’amore che ha, e che un giorno potrebbe, lei stessa, essere un’altra madre, la madre di suo figlio.

È Pietro il centro di Il nome della madre, tutto si irradia da lui e a lui tutto torna: Camurri scrive la storia di un’interiorità guasta che prova a guarire mentre si scopre. La scoperta avviene grazie a una scrittura analogica e spigolosa, che chiede fiducia e pazienza, che ci chiede di accordarci con calma alla sua voce, per uscirne ricompensati: per farlo, bisogna credere ai fantasmi insieme a Pietro, bisogna guardare negli occhi la Strega di Fabbrico con lui, senza averne paura.

Così, il rapporto tra Pietro e suo padre cresce d’intensità, fino alla catarsi: all’inizio quelle sigarette per atteggiarsi, che ricordano un altro figlio in crisi con il padre, lo Zeno Cosini di Svevo; poi, però, su queste fondamenta si innestano le debolezze e l’umanità di Ettore – un padre che potrebbe essere stato scritto dal John Fante di La Confraternita del Chianti – e allora, per magia, ci ritroviamo a fare il tifo per loro.

Un rapporto problematico, da scalare come un 4000, direbbe il Paolo Cognetti di Le otto montagne, altra storia di un padre e di un figlio che cresce.

Allo stesso modo, è denso e frastagliato il rapporto di Pietro con Miriam, percorso da continue tensioni e riavvicinamenti, spesso narrati in maniera ellittica, come nei racconti di Carver: dal liceo, dalla convivenza difficile, dalla nascita del loro bambino imparano davvero, a loro spese, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Su Pietro aleggia poi lo spettro di Gaia, che rappresenta tutte le altre possibilità – e dunque, anche, nessuna – e che pare proseguire il discorso sulla Fedeltà avviato da Marco Missiroli non troppo tempo fa.

Una cosa che non cambia mai, nonostante il tempo, c’è: Fabbrico. Il paese natale di Ettore, Pietro e Miriam (e, naturalmente, di Camurri) è sempre lo stesso, addirittura tra un libro e l’altro: luoghi come il bar della vecchia Bice, per dirne uno, sono defluiti da A misura d’uomo a Il nome della madre, come fossero i custodi delle storie che Camurri ci racconta. Fabbrico è un magnete che attrae e respinge, ma con cui, in ogni caso, Pietro dovrà fare i conti: esattamente come la Madre.

Così, il paesaggio della Pianura Padana, quei paesi disseminati in mezzo ai campi, quella nebbia e quei colori diventano il correlativo oggettivo di una condizione, di un processo: quello di ritorno e chiusura di un ciclo. Il paesaggio della Bassa parla, ha una sua voce, ha l’espressività e il lirismo delle Langhe di Pavese in La luna e i falò: come Anguilla al suo paese, Pietro dovrà fare ritorno a Fabbrico, dovrà fermarsi per andare avanti.

Le citazioni non sono sterilmente accumulate: servono per capire che, a scrivere l’interiorità, o almeno a indagarne qualche angolo, Camurri non è stato il primo e non sarà l’ultimo; tuttavia, con Il nome della madre, e dopo l’inabissamento fino alle radici dell’amicizia di A misura d’uomo, è nata una nuova voce, forte e vera, che ha già trovato il suo posto d’onore nel coro: nessuno glielo porta più via.

(Roberto Camurri, Il nome della madre, NNEditore, 2020, pp. 176, euro 17, articolo di Emanuele Pon)

Copertina di per antiche strade di Deen

L’Europa di fronte e di profilo

Ci sono questi strani libri fatti soltanto di descrizioni. A prima vista, lo è anche Per antiche strade. Un viaggio nella storia d’Europa di Mathijs Deen (Iperborea, 2020, traduzione di Elisabetta Svaluto Moreolo). Di norma si tratta di sequenze di journal intime, guida turistica e trattato di ecocritica, ripulite da ogni sussulto narrativo. Refrattario a confondere i piani, il viandante-cronista trova volgare seguire le orme eccentriche dell’anima come invece fa con le impronte dei conigli dopo un’intensa nevicata, eppure non si stanca mai di proiettarsi romanticamente nel paesaggio.

Ascrivere questo genere al repertorio delle stravaganze potrebbe rassicurarci; con altrettanto sollievo potremmo vederlo come una sfida lanciata ai lettori forti, che per definizione hanno un Super-io così imperioso da proibirsi di saltare anche una sola riga. Tecnicamente, questi libri sono fatti soltanto di righe da saltare. E invece l’autore ha voluto farlo proprio così, il libro. Siccome di solito è un inglese emaciato che in un momento di calore umano ci confida – ci descrive – la fauna che popola i suoi piedi callosi, possiamo stare certi che se calamiterà tutte le sue risorse narrative su un’unica, emozionante scena allora sarà quella di un uccello che staccandosi dalla roccia si alza in volo e attraversa il cielo, e così, mentre il volatile si confonde con l’aria, grazie allo sforzo bio-geologico dell’autore ora sappiamo nominare nel dettaglio il tipo di uccello, di roccia, di tecnica di volo e di pezzo di cielo che in una frazione di secondo spariranno dal nostro campo mnemonico.

Al netto delle pagine più originali, i resoconti di passeggiate hanno il frustrante difetto di ricordarci a ogni piè sospinto che noi non siamo lì, perché lì c’è lo scrittore, che ci blocca la vista e ci pesta i piedi. La natura dell’esperienza che il libro vuole trasmetterci viene uccisa dal fatto stesso di essere mediata dal libro. Inoltre, il più delle volte l’andare per sentieri è immotivato, un tratto che lo definisce ma che ha pesanti ricadute sulla motivazione del lettore.

Per antiche strade fa bene due mosse: da quanto possiamo dedurre, Mathijs Deen è un tipo moderatamente avventuroso ed è suo merito se non prova mai a convincerci del contrario. Così, ad eccezione delle due brevi cornici personali che racchiudono otto novelle scaglionate nel tempo lungo del bipede europeo, fa parlare personaggi molti più interessanti di lui, e attraverso i loro occhi osserviamo gli scenari in cui si muovono, le strade che percorrono, l’umanità che incontrano.

L’altra mossa che gli riesce molto bene è soffiare la vita negli uomini che con tanta passione storica rievoca. L’effetto è persino paradossale: il «pervicace opportunista» che, inseguendo le sue prede e spinto dalla preistorica curiosità di sapere cosa c’è oltre quella collina, si stabilì oltre un milione di anni fa nella penisola iberica dopo un viaggio millenario cominciato in Africa e proseguito verso est fino al Caucaso, ci viene incontro con perturbante familiarità; e allo stesso modo hanno una consistenza tangibile il condottiero cimbro Boiorix, il brigante Bulla Felix che terrorizza la via Appia, o l’islandese convertita Guðríð che con un gruppo di pellegrini raggiunge Roma e lungo la strada vede dappertutto segni di incuria e presagi nefasti, con una consapevolezza proto-luterana.

Il paradosso sta nel fatto che i protagonisti delle due storie a noi più vicine nel tempo sono al confronto quasi degli ectoplasmi. Anzi, come ammette l’autore, bisogna includere anche le cornici biografiche, lo snodo personale sulla Due Cavalli guidata dal padre. Come si capirà alla fine, la forza del mito stritola un po’ la memoria.

Manca qui la vertiginosa empatia che invece apprezziamo nel magnifico restauro della vita di una compagnia teatrale olandese nel Secolo d’Oro o durante le marce che portano l’asmatico Coenraad, coscritto tra le file del 125° reggimento di fanteria, dalla costa olandese fino a Smolensk, e solo per constatare la disfatta della Grande Armée napoleonica.

Quando Deen, forte della bibliografia più recente, compete con gli storici romani per vedere chi si avvicina di più alla realtà descritta, o intreccia le lettere degli ufficiali d’inizio Ottocento ritrovate in archivi silenziosi alla memoria dei sopravvissuti compie un’opera che lo esalta e ci seduce. Sembra davvero di viaggiare nel tempo.

Persuasivo, emerge poi il principio secondo il quale la risoluzione di enigmi pratici per garantirci il successo nella lotta per la sopravvivenza – come ti comporti nel traffico infernale delle vie romane? Come fa un ebreo sefardita a farsi voler bene da una compagnia di teatranti che usa un magazzino come sala prove? Che si fa per tirare a campare nell’Islanda dell’anno Mille? – è la chiave migliore per farci immedesimare nei nostri antenati. 

In varia misura, è per portare a termine una missione che i nostri viandanti si mettono in cammino. Questa missione è vitale e non è mai revocata in dubbio, se non a partire dal mondo forgiato dalle forze rivoluzionarie di fine Settecento: la devastante traversata verso la Russia, in nome di un sovrano straniero, è per Coenraad insensata e porta alla follia; il pilota Charles Jarrott rischia la vita inseguendo il mito dell’alta velocità così diffuso a inizio Novecento.

Nel terzo millennio, l’Europa è per il marocchino Mohamed Sayem e per molti come lui di nuovo il continente di un cuore itinerante alla ricerca della fortuna, al pari dei progenitori che scrutavano bramosamente la costa al di là dello stretto di Gibilterra. Per gli europei che hanno cominciato a definirsi tali, non lo è più. Da un certo punto di vista, è un bene.

Nemmeno quando ripercorre le peregrinazioni attuali Deen affronta la portata politica delle migrazioni. È un presupposto letterario che non viene mai discusso e pertanto esula della intenzioni del libro. In questo Deen è molto coerente – è troppo accorto per cedere alla tentazione di paracadutare qua e là slogan apologetici sull’identità europea.

Eppure, allo stesso modo in cui c’è un messaggio ideologico nella numerazione delle strade europee – che ha origine nel Regno Unito e si sposta da nord a sud e da ovest a est, in direzione contraria agli ominidi che colonizzarono il continente a partire dal campo base nell’attuale Georgia – e per quanto siano strade percorribili in entrambe le direzioni, così emerge l’ideale un po’ troppo geografico e erasmiano di un’Europa che elitariamente è lì da sempre.

Questo svolazzante spirito europeo va bene tanto per la destra boreale e cristiana che per la sinistra cosmopolita e laica. Nei labirinti delle istituzioni europee, ci mette poco a trasformarsi nel mostro che riduce plotoni di interpreti in una poltiglia di acronimi, o nell’Europa delle multinazionali e dei monopoli, come avvertiva Sicco Mansholt, con la sua coda di lobbisti e funzionari esentasse.

In fondo, già in epoca moderna scienziati e teologi si contendevano il dominio della cultura europea sulla base di descrizioni. Erano modelli per nulla neutri e innocenti, con aspirazioni universali. Come la storia insegna, a dominare non fu chi aveva ragione, ma chi aveva la descrizione più convincente. Forse è ancora presto per crederci, in ogni caso Per antiche strade di Mathijs Deen è una descrizione documentata e avvincente del mito autostradale europeo. Ce ne ricorderemo la prossima volta che incontriamo un cartello con lo sfondo verde.

 

(Mathijs Deen, Per antiche strade, trad. di Elisabetta Svaluto Moreolo, Iperborea, 2020, 480 pp., euro 18,50, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

Una nazione basata sul razzismo

È tornato di grande attualità negli ultimi tempi il documentario di Ava DuVernay XIII emendamento, uscito nel 2016 e disponibile in streaming su Netflix. Il motivo del nuovo successo sono le manifestazioni anti-razziste esplose in tutto il mondo a seguito dell’omicidio di George Floyd da parte di quattro agenti di polizia a Minneapolis.

La tesi del documentario – potentissima e spaventosamente verosimile – è che negli Stati Uniti l’abolizione della schiavitù non sia mai di fatto avvenuta. Semplicemente è cambiata la veste legale che permette allo stato di sfruttare il lavoro delle persone, soprattutto di origine afroamericana. Il perno giuridico che ancora oggi consente lo sfruttamento sarebbe appunto nel XIII emendamento alla costituzione statunitense approvato nel 1865.

Nel testo si legge: «Né la schiavitù né il servizio non volontario – eccetto che come punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute – potranno esistere negli Stati Uniti o in qualsiasi luogo sottoposto alla loro giurisdizione». La parte centrale è l’inciso. Secondo i numerosi attivisti, professori, storici ed esperti di diritto intervistati da Ava DuVernay, dall’approvazione del XIII emendamento è iniziata una crescita continua della popolazione carceraria soprattutto negli stati del sud, privati della forza lavoro gratuita della schiavitù. I detenuti sono diventati in poco tempo la nuova manovalanza da sfruttare a costo praticamente zero.

Dal 1865 inizia anche una sistematica definizione della popolazione afroamericana come pericolosa e violenta. Il culmine di questa mistificazione è Nascita di una nazione di David Wark Griffith, torrenziale film del 1915 che racconta la transizione causata dalla guerra civile americana. Per estrema brevità diciamo che i neri sono rappresentati come belve affamate di carne bianca e il Ku Klux Klan come un esercito di santi.

Nascita di una nazione ebbe un impatto culturale enorme, lodato da presidenti e mostrato a lungo nelle scuole. Oggi è fortemente criticato per i suoi contenuti (basta pensare alla riappropriazione del titolo operata da Nate Parker nel poco riuscito The Birth of a Nation). L’impronta che ha contribuito a lasciare nell’immaginario collettivo statunitense è però ancora profondissima. I neri fanno paura, i neri sono crudeli. Questo sentimento nazionale porta inevitabilmente a un razzismo di sistema che autorizza abusi e incarcerazioni sommarie.

Ci sono due dati riportati in XIII emendamento che fanno riflettere più di tutti gli altri. Il primo: la popolazione collettiva degli Stati Uniti è pari al 5% di quella mondiale, ma i detenuti statunitensi sono il 25% del totale degli incarcerati in tutto il mondo. Il secondo: nonostante i maschi afroamericani rappresentino circa il 7% della popolazione, sono più del 40% delle persone attualmente in carcere.

Ava DuVernay segue la crescita del numero dei detenuti dagli anni Sessanta a oggi attraverso la demonizzazione dei movimenti per i diritti civili e l’esaltazione della war on drugs di Nixon e Regan. C’è spazio, anche, per gli errori di Bill Clinton, responsabile della draconiana “legge del terzo strike” che prevede pene molto severe, fino al carcere a vita, per i recidivi che vengono condannati per tre volte per reati simili, anche di piccola entità.

Questa enorme massa composta da circa 2 milioni e mezzo di persone in carcere lavora per produrre capi di abbigliamento di marchi famosi in tutto il mondo per pochi centesimi l’ora.

Siamo davanti a un documentario sicuramente a tema e che non si fa problemi ad assegnare responsabilità e indicare colpevoli. DuVernay fa cinema politico, più che civile, da sempre (pensiamo a Selma o alla miniserie Now They See Us). La ricostruzione di XIII emendamento, però, è perfetta per mostrare e spiegare il livello di razzismo istituzionalizzato con cui devono convivere i cittadini afroamericani statunitensi.

XIII emendamento è disponibile anche in streaming gratuito su YouTube a questo link, grazie a Netflix

Colapesce e Dimartino, ovvero starsene in disparte

Colapesce e Dimartino escono praticamente nello stesso periodo di transizione della musica italiana. Siamo nei primi anni ’10, ancora non si capisce bene la portata gigantesca dell’avvento de I Cani, mentre Vasco Brondi e l’eredità che si porta appresso hanno già dato il loro meglio. Calcutta è un miraggio. Ci sono quindi questi due siciliani che fanno uscire due album notevoli ma che se ne stanno un po’ in disparte rispetto a quello che sembra accadere realmente. Oggi, dopo una decina di anni, ne scrivono uno insieme, I Mortali.

Starsene in disparte: le cose per Colapesce e Dimartino non sono cambiate poi così tanto. Senza esitare, è palese come la loro scrittura sia certamente più sofisticata della media dei colleghi coevi. Quindi per forza di cose, nel tempo, sono stati un bellissimo fenomeno che ha camminato lungo i bordi della musica italiana, che andava stravolgendosi. Fanno un po’ un micro genere a parte. “Cara maestra abbiamo perso” e “Un meraviglioso declino” sono interpretazioni di un sottogenere pop che in in Italia è stato schiacciato dall’iper disimpegno di quello che è successo intorno al 2015.

Anche se poi, soprattutto per quanto riguarda Colapesce con “Infedele“, un certo approccio dell’universo Thegiornalisti ha sicuramente influito, soprattutto sull’estetica. Farsi influenzare da una cultura (o mercato) dominante, in questo caso, non ha peggiorato le cose. “Infedele” è forse, alla fine, il suo album più interessante e più maturo. Proprio perché lo metteva alla prova con un taglio completamente diverso, una visione del mondo diametralmente opposta.

Dimartino invece è riuscito a non farsi suggestionare e un paio di anni fa ha scritto lo splendido Afrodide, probabilmente il suo lavoro migliore.

Ancora adesso le loro due figure sono quelle di due artisti che possiamo chiamare di nicchia: e avere la possibilità di usare questo termine, oggi, è un miracolo.

Comunque, nel 2020, decidono di scrivere I Mortali. Senza scendere a cliché sui musicisti siciliani che devono qualcosa in maniera primordiale a Battiato, devono certamente qualcosa a Battiato per questo loro primo lavoro insieme. Il pop, o pop d’autore alla maniera del Maestro, è un passaggio necessario con cui confrontarsi.  Vale un po’ per tutti: basta pensare ai Baustelle nei loro ultimi due episodi.

Battiato quindi è nume tutelare di questo lavoro. È un po’ ovunque, anche se pare nascondersi. C’è anche Battisti, ed è Dimartino a dare quelle sfumature alla Anima Latina. I Mortali si apre con un brano-parodia dei brani pop, “Il prossimo semestre“. Un meta-linguaggio un po’ stucchevole, tirato fuori un po’ a caso e curiosamente messo come traccia d’apertura.  Passa per la collaborazione con Carmen Consoli, “Luna Araba”, che dopo un intro davvero Tame Impala, ha una cadenza che può ricordare “Lo stretto necessario” di Levante. In “Cicale” spuntano fuori prepotentemente gli anni ’80  e qualche richiamo di Luca Carboni, mentre in “Parole d’acqua” giocano a fare Moderat. Prima di “Noia mortale” si passa per il baustellismo de “L’ultimo giorno di scuola“, come fosse l’altra faccia dell’orchestrazione cupa e funerea di Fantasma. “Noia mortale“, invece, è il tentativo più evidente di provare a entrare in certi canoni consolidati dal mercato odierno. È palese la direzione Thegiornalisti, fino ad arrivare agli ultimi Ex-Otago (che infatti alla fine sono una proiezione meno macho di Tommaso Paradiso). “Adolescenza nera” è forse il brano più interessante, anche se è eccessivo il riferimento al Bon Iver di 22, a Million. “Majorana” sembra un pezzo di Sufjan Stevens se fosse cresciuto ad Agrigento.

I Mortali è tutto sommato un album discreto, ma francamente da due come Colapesce e Dimartino ci si poteva aspettare qualcosa in più. Perché questo genere di pop impegnato, che qui esce senza una vera e propria direzione, può  essere una lama a doppio taglio. Sarebbe stato meglio un maggior sperimentalismo in un album sorprendentemente canonico.

copertina di imitazion del vero di sinigaglia

La sperimentazione linguistica di Ezio Sinigaglia

Con la sua prosodia e musicalità antica, dallo stilnovistico ritmo ondeggiante de «l’ali del suo ferito amore spalancate battendo», o del «d’intorno la testa movendo siccome i colombi fanno», di richiamo alla sottile eco metaforico-linguistica delle terzine amorose di Paolo e Francesca, L’imitazion del vero di Ezio Sinigaglia (Terra Rossa Edizioni, 2020), non è semplice pastiche di questo o quell’autore della classicità, nostalgico gioco fine a se stesso di una prosa anticheggiante, ma instancabile lavoro di ricerca sulla sintassi non meno che sulle forme e i generi letterari, fucina di uno scrittore che si propone di creare una sua lingua, un italiano coevo in cui l’immaginifico si mischi al popolare, l’aulico al comico, il volgare al latineggiante.

Se, da un lato, l’«alta la fiamma innanzi a sé nella destra levando» di Nerino, il giovanissimo e avvenente garzone di bottega dell’inventore Mastro Landone – il cui personaggio, per aspetto fisico, professione e carattere fa pensare al Leonardo da Vinci descritto nelle Vite del Vasari –  riporta immediatamente alla memoria la cantante armonia del verso dantesco, dall’altro l’onomatopea dei vari «timmetamme», «cricchecracche» o «in più piccol cracche» sono pura invenzione linguistica di divertita ironia, che col loro ossimorico contrasto ben si sposano all’andamento sontuosamente lirico delle frasi.

Come il Manzoni de I promessi sposi o il Gadda di Eros e Priapo, che pur affermando di aver scritto le proprie opere in dialetto fiorentino hanno soprattutto inventato una lingua personale, una particolare costruzione della frase che li rende immediatamente riconoscibili, così L’imitazion del vero si propone piuttosto come un italiano finto antico che, obbedendo alla necessità di scostarsi dall’odierno appiattimento linguistico di una letteratura omologata, schiacciata dal meccanismo stritolante dell’industria editoriale quanto della pressione mediatica, afferma la propria vocazione controcorrente volgendosi alle origini della lingua, tornando alla sonorità cantata della parola, a un suo utilizzo cesellato, studiato, musicale e armonioso.

Infatti, similmente a La passeggiata, che apre la raccolta di Tommaso Landolfi Racconti impossibili (Vallecchi Editore, 1966), riuscitissimo esempio di divertissment linguistico non esattamente riconducibile all’italiano di un’epoca definita con precisione, variandone i termini dal toscanismo quattrocentesco di «scappini delle calze», presente già dalla fine del Duecento nelle pagine de Il Novellino, allo «scaprugginare» del dialetto triestino o al trecentesco «bozzima», anche la lingua della novella di Sinigaglia, ambientata nell’immaginario regno di Lopezia di un’imprecisata era della cristianità antica – forse Medioevo, forse Rinascimento – non ha circoscritte preoccupazioni filologiche e può dunque giocare liberamente con le parole, nell’incessante avventura di una propria inattesa e inusuale modernità.

Ciononostante, a differenza de La passeggiata, che in quanto modello di letteratura criptata si pone come sfida anche per il lettore più colto, Sinigaglia non crea un testo oscuro di affascinante ma difficile comprensione, quanto piuttosto il cadenzato narrare di una favola dal linguaggio mescidato. Come nell’inventivo multilinguismo di Madame Stella del precedente Il Pantarei (1985) – ripubblicato da Terra Rossa Edizioni nel 2019 – non meno che della Mrs. Wilson del più recente Eclissi (Nutrimenti Edizioni, 2016), che mescola un acrobatico ed espressivo italiano all’inglese della propria lingua madre, Mastro Landone, Nerino e gli altri personaggi de L’imitazion del vero sono, nel loro fantasioso miscuglio di termini, da «al postutto» a «ch’immancatamente», «siccom’appunto» o «amendue», perfettamente comprensibili anche da parte di quei lettori che, nel sintetico gergo editoriale, non vengono definiti “forti”.

Discorso sull’innovazione specularmente inverso nel caso del lavoro sulla parola svolto da uno tra i più noti esponenti della sperimentazione linguistica degli ultimi trent’anni – Michele Mari – in Io venìa pien d’angoscia a rimirarti (1990): romanzo che, vedendo protagonista il fratello di Leopardi, utilizza sintassi, vocaboli e stile dell’italiano colto del diciannovesimo secolo, dunque più imitando che inventando una propria lingua. Senza precisa ambientazione storica è invece il successivo La stiva e l’abisso (Einaudi, 1992), viaggio visionario nel linguaggio delle storie d’avventura e di mare quali quelle di Melville, Stevenson, Conrad o Salgari, in cui Mari riproduce il carattere ibrido di una scrittura tra sceneggiatura teatrale, giornale di bordo e trattato scientifico. Qui il sapiente uso della lingua mescidata, tra elementi lessicali inventati e altri – bizzarri e inusitati – di uso dialettale come il lombardo «zabette» o dall’etimo classicheggiante come «la possa», offrono un parallelo agli «amiusante» o ai «polloni» di Mrs. Wilson quanto agli «eugeniale» di Eugenio Akron di Eclissi.

L’opera di Sinigaglia dunque, nel suo sperimentalismo linguistico in divenire, così come nell’interrogarsi sulla struttura stessa della narrazione, ora ridisegnando i confini tra romanzo e saggio, come nella loro indistricabile commistione ne Il Pantarei, ora nella composizione de L’imitazion del vero, in cui si può leggere un riferimento alla tradizione della novella classica, da Boccaccio a Sacchetti a Bandello, ci parla dell’urgenza, oggi non più procrastinabile, di una profonda azione di rivitalizzazione della letteratura che, risalendone alla forza elementare e propulsiva delle origini, si offra come contrasto all’uniformante, ripetitiva banalità di gran parte della produzione contemporanea del nostro Paese, orientata verso più facili e commerciali schematismi.

Operazione di rigenerazione dell’arte attraverso la riscoperta della sua genesi, già svolta dalle avanguardie del Novecento in tutti i campi, da quello figurativo e plastico al letterario o musicale, che ha avuto però esiti maggiori soprattutto nel resto d’Europa e oltreoceano – dal recupero dell’arte primitiva di Picasso all’influenza della millenaria musica etnica africana sul jazz e il blues statunitensi – penetrando assai meno nel trincerato tessuto culturale italiano il quale, specificatamente riguardo alla letteratura, non ha sempre saputo rinnovarsi attingendo alle proprie radici tanto da abbandonare la periferia culturale in cui si trovava, traguardando verso il centro dell’attenzione internazionale.

Perché, sebbene correnti come la transavanguardia, l’ermetismo o il futurismo abbiano nei decenni profondamente innovato il clima culturale nostrano e non solo, di fatto e in particolar modo in ambito letterario è mancata una più duratura e incisiva rivoluzione concettuale, linguistica e formale paragonabile all’impatto spartiacque, a livello planetario, di giganti quali Joyce, Faulkner o Beckett. Dunque si rende oggi più che mai necessaria l’inattuale attualità dell’invito di Sinigaglia, la cui produzione è attraversata soprattutto da le fil rouge di un’eclettica e originale volontà di sperimentazione in fieri.

Appassionato lettore di Gialli, al contrario della vastissima creazione del grande Simenon – quasi l’ossessione di riscrivere incessantemente lo stesso libro, sia pure in un’eccezionale, pirotecnica e inimitabile declinazione di varianti – la sua è piuttosto dominata dalla necessità contrapposta di rinnovarsi costantemente: nell’anticipazione del secondo capitolo del suo romanzo inedito Fifí, Sciofí e l’Amor, di cui sono stati pubblicati due estratti sulle riviste Fronesis e Nuovi Argomenti, le tematiche ricorrenti dell’erotismo e dell’omosessualità dei suoi precedenti lavori si combinano assieme nella direzione della ricerca di un ulteriore, aperto approdo linguistico.

Qui, l’ironia di un timbro espressivo irrigidito nella sua desueta forbitezza accademica, che sembra ripercorrere modi e stili del primo Novecento «avevo suggerito a Fifí di retrocedere di almeno dieci passi dal ciglio dell’abisso perché non corressimo il rischio di precipitarvi nell’offuscamento del risveglio»; «svelando agli occhi assetati e ai cuori inteneriti dei marinai il disegno divino della costa»; «a volte, mentre eravamo là stretti nel buio nel nostro giaciglio di vibranti emozioni e di stupidità incommensurabili, industriosi nel separare senza tregua, sotto il ferreo taglio di una lama manichea, il sacro del voler bene dal profano dell’amare, ci prendeva, con una rarità statistica che sarebbe interessante sottoporre a indagini medico-scientifiche, il desiderio di fumare» si mescola imprevedibilmente, in uno stesso periodo, al più basso tono colloquiale della moderna quotidianità «spessa come una scorza di limone o al più come una fetta di melone dopo che la polpa te la sei succhiata», risalendo poi, in altri momenti, a esiti lirici su un registro di raffinatezza proustiana «per lucentezza palpitante delle punte d’acciaio azzurrato delle stelle».

Coerenti con la sempre insoddisfatta indagine formale, strutturale e linguistica, i brani tratti dal prossimo lavoro di Sinigaglia lasciano intravedere il piglio di uno sperimentatore che, alla continua ricerca di nuove possibilità espressive, apporta alla pagina la confusa freschezza di un esordiente insieme all’entusiasmo dell’erudito. Quasi richiamando alla mente, per il carattere dichiarativo e didascalico e lo stato di sospensione e aggregazione a collage degli elementi linguistici, la resa del grafitismo preciso e tuttavia in collisione delle componenti visive di una tela di Basquiat, Sinigaglia prosegue nel tentativo, sempre rinnovato, di rispondere a una propria, autentica necessità comunicativa.

Mezza luce mezzo buio quasi adulti di Bertocchi

L’età magica del limbo

Ci sono poche cose incontrovertibili che si possono dire sul conto di qualcuno. Perché nel nostro gorgo di specchi deformanti, ogni contorno ricalca già la sua smentita. Ma nel mio secchiello di verità intatte, troneggia un assioma.
E cioè, c’è poco da fare, che sono una figlia degli anni Ottanta. E non solo per motivi di decade, ma per innata propensione verso ciò che hanno prodotto.
Qui potrebbe squarciarsi un emisfero. Di assennati detrattori del periodo indicato.

Perché? Perché sì, è ovvio. Infinite volte. Per l’euforia socio-economica ostentata come un capo alla moda; per la moda stessa, tracotante, posticcia, sguaiata, plastificata e contaminante. Per l’illusione che la “vacanza occidentale” non prevedesse limite, che il mondo fosse un vassoio da cui asportare il capriccio del giorno. Per la catechesi a marchio Fininvest, che ancora oggi semina detriti.

Tutto esatto, almeno senza pretese di approfondire. E io concordo. E apprezzo. La sopraggiunta (e tardiva) presa di coscienza ambientale, il declino imperiale della lacca spacca-ozono, la scomparsa documentata del paninaro, dei parrucchini in puro pelo di castoro e delle imperdonabili pennette alla vodka.
Leggo per sopravvivere e mi nutro di sofisticazioni.

Però, quando m’imbatto in Kiss me Licia, nel plotone di cianfrusaglie dell’ovetto Kinder, in ET o in Daniel San (e potremmo avventurarci ancora più nel becero), per non parlare del carnevale iridescente della musica elettronica, come dire, io sono io. Una bambina affamata di piccolezze. E pronta a raschiarle come fossero perle.

Per cui, incontrando il romanzo Mezza luce mezzo buio, quasi adulti di Carlo Bertocchi (Terrarossa Edizioni, 2019) era difficile deporre le mie bisacce malinconiche. Per di più perché si tratta di adolescenza. Che è sempre tremendamente così dura a morire. Nel tabernacolo di qualunque età.

Siamo dentro l’estate romagnola del 1989, prima del Muro caduto e di un intero arcipelago di troppi altri crolli. Bert si accinge a breve a frequentare il primo anno di liceo, ma sembra che gli importi di più delle nuvole. Il suo universo si condensa in un nucleo di amici, sfide in sala giochi, scorribande in motorino e Matilda, un angelo lentigginoso e alquanto scorbutico. Praticamente un Eden con sottofondo di Lambrusco.

Dovrebbe preoccuparsi della cricca di bulli che gli orbita intorno, uno dei quali è logicamente accoppiato con Matilda, delle duemila lire per un “tutto stracciatella”, delle fughe mattutine da casa per sfuggire ai rimproveri materni.

Ma non può bastare per condire l’ultima stagione da ragazzini. Come profila già il titolo, per un’iniziazione che si rispetti serve un fosso. Un solco infuocato da attraversare. E il rito di passaggio lo aspetta ansimante; si annida nel volto di un albanese, accusato di omicidio e rintanato in un astuccio di tubi tra i campi di granturco. Bert ci si imbatte per caso, così come avvengono le folgorazioni e lì, nel terrore castano di quegli occhi, spetta a lui decidere se far prevalere la paura o l’incoscienza. E poi cominciare a definirla “coraggio”.

Anche perché per lui non può esserci occasione migliore per solleticare il campionario dei suoi mostri, riscattarsi dall’aura di bambinotto al guinzaglio materno, fare colpo sulla sua bella e sdoganarsi (per sempre?) dall’ingombrante infanzia. Capendo che la realtà è più spessa e profonda di un articolo in prima pagina, che basta spingersi al di là del proprio palmo perché la terra ti minacci i piedi e ti costringa a smacchiare per bene il bucato di certezze.

Inevitabile pensare a Enrico Brizzi, Raul Montanari o Niccolò Ammaniti, alla biosfera di microtormenti esistenziali schiantati di colpo con lo sbarco in età adulta. Al confronto tra pari che si erge a tribunale e unità di misura del proprio stare al mondo.

E soprattutto, intenerisce il ritratto di quell’Italia così ancora beatamente analogica, in cui i ragazzini crescevano tra polvere e sudore, infangavano magliette, anelavano un gelato e paventavano con tremito lo sguardo infuriato del padre o il fantascientifico inesorabile ceffone. Perché assieme ai dinosauri, alle mezze stagioni e all’ecosistema delle Maldive o di Venezia, altra suprema estinzione è quella dell’autorità genitoriale. E gli anni Ottanta ogni tanto sgambettano da un’alcova in poliuretano, a ricordarci cos’era ancora possibile. Poi certo, resiste tanto altro di invariato: l’ignoranza cialtrona, la bestia nera della droga e l’immortale caccia allo straniero.

Ma Mezza luce mezzo buio, quasi adulti è una favola per adolescenti speranzosi o per grandi nostalgici, lontana da svisceranti scavi psicologici e garbugli di trama. E il lieto fine è compreso nel prezzo del viaggio a ritroso. Vicenda esile e gentile, volutamente ingenua, pronta ad essere sbranata in due ore di libertà leggera. Creatura della scuderia di una casa editrice giovane e determinata nella sua missione: pubblicare storie scelte con cura e presentate con passione, amando i dettagli che ne scandiscono il peso.

Deliziosa la copertina illustrata da Francesco Dezio; delizioso pensare di avere quattordici anni e una tv con l’antenna e definire amici solo quelli con cui ti sbucci le ginocchia. E non aver bisogno di cento foto al giorno per ricordare quello di cui un giorno potresti anche scrivere. Ora è chiaro, sono ufficialmente anziana.

 

(Carlo Bertocchi, Mezza luce mezzo buio, quasi adulti, TerraRossa Edizioni, 2019, 170 pp., euro 15,50, articolo di Cristiana Saporito)

 

 

Copertina di Biloxi

Essere tutto il mondo di qualcuno

«La mia era sempre stata una vita tranquilla, insignificante, ma ora basta!» Louis Mc Donald, il protagonista del romanzo di Mary Miller, Biloxi (Edizioni Black Coffee, 2020), è un pensionato sessantenne a cui non rimane ormai quasi nulla da perdere: abbandonato dalla moglie, considerato dalla figlia poco più di un estraneo, trascina le sue giornate bevendo birra e guardando discutibili reality alla tv.

Ma un giorno, per un caso bizzarro, nella sua vita fa capolino Layla, una cagnetta meticcia un po’ sovrappeso e scossa da frequenti e inspiegabili conati di vomito, ma che sembra fornire a Louis un pretesto per ricominciare una nuova vita, qualcosa come un’altra chance.

E di cose ne succedono, ma più che di avventure si tratta di vicissitudini che porteranno il protagonista, dopo la comparsa di Layla, a confrontarsi nuovamente col mondo, con le persone che incontra, con i suoi familiari e soprattutto con se stesso.

Il cambiamento sostanziale nella vita di Louis assomiglia più a un rivolgimento di prospettiva, che getta nuova luce sui rapporti umani e sulle infinite possibilità: «A quanto pare nella vita c’era molto di più di quanto mi fossi immaginato, e l’avevo scoperto grazie a un cane». Con Layla al suo fianco, per la prima volta il protagonista non si sente sotto il tiro di giudizi e critiche sprezzanti riguardo alla somma delle sue manchevolezze: come marito, come padre, come uomo.

Sotto lo sguardo disinteressato dell’animale, lo stesso Louis riesce a guardare più chiaramente dentro di sé e a valutare la sua vita con onestà, soprattutto per cercare di superare i sensi di colpa che lo incatenavano a una monotonia ormai quasi priva di significato. Sensi di colpa legati al passato, fondati sulla convinzione di essere stato sostanzialmente una delusione su tutti i fronti.

Ma ora, grazie a Layla, sembra essere arrivato il tempo della totale trasparenza e autenticità: «Non c’era bisogno che le dicessi che non avrei mai amato nessun’altra o che per lei sarei morto volentieri. Però potevo dirglielo, e sarebbe stata la verità. Con un cane era facile. Non l’avrei mai delusa. In quel momento sentii di non aver mai amato nessuno come lei».

Allo stesso tempo, agli occhi di Louis si fa sempre più evidente invece l’ambiguità stridente che caratterizza e inficia i rapporti umani, gli appare così chiaro come le persone si rendano infelici a vicenda proiettando sul prossimo il peso dei giudizi che non possono esimersi dall’emettere, a cominciare dalla famiglia: «Avevo avuto accanto delle persone, prima una famiglia e poi un’altra, ma c’erano stati talmente tanti problemi tra i singoli membri che non eravamo mai sembrati un gruppo, solo un insieme di individui che tentavano di non pensare ai propri grattacapi sottolineando i difetti e le colpe degli altri».

Adesso, però, sembra potersi finalmente mostrare e donare a un essere che non lo giudica e che lo accetta nella sua totalità, incondizionatamente e addirittura con gratitudine: «Non ero mai stato tutto il mondo di qualcuno».

Sarebbe facile e scontato allora, se non addirittura banale, venirsene fuori col trito luogo comune che gli animali, i cani in particolare, ti danno un amore puro e disinteressato accettandoti semplicemente per quello che sei, meritandosi così più stima di tanti esseri umani.

Ciò che invece riveste un’importanza cruciale è il metro di paragone che noi stabiliamo grazie a questi compagni di vita e che rimanda al rapporto che abbiamo coi nostri simili: «Layla era una contraddizione vivente come molti di noi, forte in certe cose e debole in altre. E talvolta certe debolezze somigliavano solo a debolezze ma in realtà erano punti di forza».

Riconosciuta maestra della prosa minimalista americana, Mary Miller ci tratteggia un personaggio che non può non attirare la simpatia del lettore, col suo stile di vita che ricorda un po’ Bukowski per la sua trasandatezza ma soprattutto per la lucida e sconsolata schiettezza, quella di un uomo battuto ma non necessariamente sconfitto, ancora capace di apprezzare la vita per quel che può offrire e ancora in grado di valorizzare i rapporti umani, e non solo.

 

(Mary Miller, Biloxi, tra. di Leonardo Taiuti, Edizioni Black Cofee, 2020, pp. 304, euro 15, articolo di Daniele De Cristofaro)

Copertina di Crocevia dei punti morti di Grilli

L’horror generazionale di Matteo Grilli

Storicizzata la questione meme come la più importante novità linguistica del decennio – e venuti meno sia i timori degli apocalittici che intravedevano il cupio dissolvi della nostra cultura autoreferenziale, sia gli entusiasmi degli integrati che vi riponevano chissà quale fiducia per la mutazione del reale –, possiamo guardare a questa pratica come a una strana addenda dell’arte contemporanea.

Fra gli ingegni italici che si distinguono in questa più o meno nobile arte c’è sicuramente il nome di Matteo Grilli, conosciuto sui social come Pagliare hhhhpostijng, che si è fatto notare per la bravura nel textoposting, un particolare modo di fare ironia che consiste nello scrivere – nel giro di un post – storie strampalate e autoconclusive in grado di mischiare alto e basso, gore e sublime, riferimenti autobiografici e link alla cultura pop. La parola scritta, dunque, rientra dalla finestra in un mondo prevalentemente visuale, e diviene il fondamento di un narrazione esplosa.

Non sorprende allora che Grilli, come già lo Sgargabonzi, si sia voluto cimentare con l’oggetto-libro, scrivendo un romanzo che, pur sfruttando il piccolo capitale d’attenzione guadagnato con Pagliare, non paga debito per forma e contenuti al microcosmo dei meme. In Crocevia dei punti morti (Effequ, 2020) Grilli costruisce una storia che sa stare in piedi sulle proprie gambe e che deve essere soppesata con gli strumenti della letteratura. Al centro della narrazione c’è la provincia, una luogo evocato come sede di disagio metafisico ma anche di amore incondizionato per le proprie radici: il cosiddetto “Pozzo” è una cittadina del centro Italia, poche case tagliate da un fiume, costruite attorno a un pozzo ormai chiuso, nelle cui profondità si dice viva un’entità misteriosa. Il modello più evidente è quello della Derry di It, ma trasfigurato in salsa italica. Sebbene le premesse siano quelle di un horror, in realtà questo elemento arriva preponderante solo nel finale, per tre quarti il romanzo si snoda come una storia generazionale in cui convivono le voci di quattro personaggi diversi.

L’autore dimostra infatti una certa perizia nel differenziare e rendere peculiari i quattro punti di vista che portano avanti la storia. Legate alla cittadina si sviluppano le vicende di un poker di personaggi particolari: Celeste, una ragazza apatica che vive alla giornata, senza uno straccio di idea per il futuro, galleggiando nelle serate di provincia fra sesso, droghe e retrogaming; Massimo, nevrotico sceneggiatore fuggito a Roma dopo una relazione andata male, e che ora ritorna al luogo d’origine per stare vicino all’anziana madre; Leonardo, ragazzo solitario appassionato di horror e vecchie videocassette, tornato anch’esso al Pozzo da Milano, come preso da uno strano istinto di regressione; K., figura sfuggente e prolissa che conosce la storia di tutti gli abitanti del Pozzo, e che si crede in connessione con l’entità che vive sotto di esso.

Ognuna di queste voci esprime un aspetto del precariato dei nostri tempi: fra mancanza di prospettive, isolamento, incapacità di avere relazioni stabili, nostalgismo e retromania. Grilli è bravo a dosare i vari elementi costruendo psicologie coerenti e costellando la narrazione di considerazioni espresse con ironia tagliente: impossibile per il lettore non ritrovarsi in almeno una delle scene di nevrosi quotidiana evocate. A questo poi si miscela, quando le vicende dei quattro protagonisti si intersecano, la capacità di virare verso un finale rocambolesco e orrorifico senza che l’esito risulti forzato.

Il talento affabulatorio dell’autore situano Crocevia di punti morti fra la narrativa d’atmosfera americana – abbiamo già citato Stephen King, ma potremmo citare Thomas Ligotti e la trasposizione televisiva di True Detective – e una certa critica dell’essere giovani nella società contemporanea, vedi ad esempio I fratelli Michelangelo di Vanni Santoni, o anche il di recente ripubblicato Gli interessi in comune. Una fusione che affascina per la naturalezza con cui è stata messa in atto, tanto che non possiamo non segnalare Matteo Grilli come una delle penne più promettenti della nuova leva, anche al di là delle sue escursioni nella “memetica”.

Leggere per credere: Grilli ha messo da parte la sua caustica ironia e ha fatto sì che si intravedesse uno spettro emotivo più ampio, insomma ha dato modo al demone che covava dentro – il demone della letteratura? – di nascere, di vagire.

 

(Matteo Grilli, Crocevia di punti morti, Effequ, 2020, 208 pp., euro 15, articolo di Giovanni Bitetto)

 

Copertina di In occasione dell'epidemia di Francesco M. Cataluccio

«Living in a Ghost Town»

«Questo libretto è stato scritto prevalentemente in cucina, la stanza dell’appartamento dove, a causa dell’isolamento forzato, sono stato relegato col compito anche di preparare da mangiare».

È la frase introduttiva della chiusa del libro intitolata “Chiarimenti e ringraziamenti”, emblematica della situazione creatasi in tante case durante il lockdown, al quale il virus ha costretto gran parte dell’umanità per un periodo più o meno lungo.

Ero titubante e sono ancora perplessa alla vista della mole letteratura già pubblicata e in attesa di vedere la luce sulla pandemia causata dal Covid-19: è opportuno, è arrivato già il momento per tirare le somme di un evento, un fenomeno che ha scosso violentemente il mondo ma che è ben lontano da poter essere considerato compiuto, finito, quindi circoscrivibile? Se però lo si suddivide in periodi e si racconta solo il passato recente, appena trascorso, quella fase almeno si presta alla narrazione con una ragionevole affidabilità, di quel tempo è possibile, e anche utile, fare già il bilancio.

In occasione dell’epidemia (Edizioni Casagrande, 2020) del pubblicista e scrittore Francesco Matteo Cataluccio, autore di ottimi saggi su arte e letteratura e vincitore dei premi Dessì e Kapuściński, viene incontro proprio a questa esigenza: parlare dei due mesi abbondanti del lockdown da angolazioni diverse toccando i suoi vari aspetti, per avere un quadro d’insieme di un flagello dalla portata e dalla complessità straordinarie. Con divagazioni e incisi che rendono il racconto più ricco, più vivace, a volte persino ironico e decisamente istruttivo, fino a farlo sembrare un’opera di un nuovo Umanesimo.

Cataluccio inizia con il raccontare un sogno strano – quei giorni angoscianti, silenziosi e introspettivi ne producevano tanti –, dice cose del Carnevale, perché tutto ha avuto inizio proprio nei giorni del Carnevale, che non molti ricordano, poi racconta di suo padre partigiano, ma poco dopo ci troviamo immersi di nuovo nelle settimane dell’epidemia, nei provvedimenti, nella bulimia di decreti passando per una del tutto condivisile analisi e sintesi del paese Italia.

La narrazione procede con l’abilità di un funambolo sfiorando con delicatezza quasi tutto lo scibile umano ma senza pedanteria. Strada facendo ci imbattiamo persino in Jim Morrison e Lucio Fontana, e invece di far perdere la concentrazione sul tema centrale le divagazioni aiutano a recuperare le forze per affrontare sempre nuovi spunti e cenni, persino gli aspetti spirituali e teologici della sciagura che ci ha colpito.

Lo stile colloquiale e non cattedratico fanno il resto: il lettore non si perde d’animo e non si annoia, può affrontare senza particolare impegno ma con costrutto il breve trattato sul ruolo della vecchiaia in questa pandemia e riceve pure un regalo: la breve presentazione di un racconto pressoché sconosciuto di Franz Kafka, Un vecchio foglio.

Si apprezzano curiosi camei autobiografici come il racconto legato al “teatro povero” di Grotowski, apparentemente fuori tema, eppure la narrazione non procede a scossoni. Per un qualche miracolo, un segreto che non sono riuscita da scoprire, tutto si lega. Il lettore scivola dalla proposta della commissione d’inchiesta sulla sanità lombarda e dalla constatazione della pochissima attenzione dedicata ai bambini e ai giovani in questi tempi sciagurati, al saggio di Millard Meiss sulla pittura di Firenze e Siena dopo la morte nera, e all’ipotesi intrigante che quello che era successo nella storia dell’arte medievale dopo la peste potrebbe in qualche forma e misura ripetersi nella nostra arte dopo il passaggio del coronavirus.

In questo libro di poco più di un centinaio di pagine corredato anche di un ricco apparato, non si fanno previsioni sul nostro futuro. Il libro si limita alla coscienziosa e puntuale ricostruzione, è una testimonianza da poter riprendere in mano quando la memoria comincerà ad affievolirsi, o quando qualcuno vorrà alterare la storia per smemoratezza o per altri motivi. E un punto di partenza per approfondire le curiose riflessioni e scoperte che l’autore ha disseminato con generosità fra un fatto di cronaca e l’altro.

(Francesco M. Cataluccio, In occasione dell’epidemia, Edizioni Casagrande, 2020, pp. 128, euro 14,50, articolo di Andrea Rényi)

Il concept dei Perturbazione sull’amore

Un concept album di ventitré  brani sull’amore. Una mossa un po’ controintuitiva quella dei Perturbazione, che con (dis)amore  tornano quattro anni dopo Le storie che raccontiamo. È controintuitivo perché decidere di scrivere e pubblicare un album di questa mole somiglia a un rischio più che altro. Ragionando con i dogmi della musica come merce, in questi anni in Italia ci siamo ritrovati ad assistere molto spesso alla produzione musicale come omologazione: dunque, il proposito dei Perturbazione è, se non da premiare acriticamente, quantomento da sottolineare.

(dis)amore ha il passo proprio del racconto che, dovendone fruire come ascoltatori e non lettori, lascia spiazzati. Almeno in una prima fase. Qui è declinato in una specie insolita, simile a una nuova visione interpretativa dell’audiolibro. In (dis)amore viene raccontata, lungo le ventitré tracce, la storia d’amore archetipica secondo certi stilemi romantici: il conoscersi, l’innamoramento, la routine, un (sembra quasi necessario) tradimento e i silenzi finali. Certamente una visione cliché dell’argomento e del suo sviluppo, ma comunque funzionale da un punto di vista narrativo.

Senza scomodare De André, viene alla mente un artista che cinque anni fa faceva un’operazione simile ma diametralmente opposta: IOSONOUNCANE con Die. Ci troviamo in un humus culturale musicale diverso. Quello dei Perturbazione è un album organizzato seguendo certi schemi pop, che ogni tanto sterza verso il rock senza perdere mai di vista la strada principale. Die, lo sappiamo, è un album che si muove in un un contesto diverso, molto più libero di spaziare, con un prog rock da denominatore comune.  Lì veniva  raccontata un’altra storia d’amore, una storia di distanza dettata dal mare, inserita in un ecosistema musicale variopinto, oscuro, quasi intelligibile, difficile anche solo meccanicamente da afferrare. È curioso pensare come due tipologie di artisti possano ritrovarsi a trattare in modo diverso un’idea strutturale simile, mossi sembra dallo stesso desiderio di allontanarsi da un fare comune stanco e fondamentalmente reazionario.

Gruppo cult del microcosmo indie (sempre a un passo dal riuscire a emergere completamente), dagli esordi in inglese è passato per un paio di momenti fondamentali: In Circolo, la svolta in italiano, e la partecipazione nel 2014 a Sanremo con L’Italia vista dal bar e L’unica. Nonostante il discreto successo con il sesto posto, la dimensione dei Perturbazione è rimasta quella di sempre.

Una sorta di sindrome che negli anni si è abbattuta su diversi gruppi usciti fuori dal panorama indie che hanno provato il salto-Sanremo, dai Marta sui Tubi ai Marlene Kuntz, fatta eccezione forse per i soli Afterhours (almeno per quanto riguarda la figura di Manuel Agnelli). L’habitat naturale di certi gruppi sembra essere proprio quello che rasenta la superficie di quella parola odiosa e pericolosa che è il successo. I Perturbazione incarnano prontamente il prototipo di questo genere di artista, splendente nei primi anni del 2000 (da ripescare Canzoni allo specchio, ingiustamente sottovalutato), e che oggi sembra faticare a trovare una dimensione reale che non sia filtrata dalla nostalgia.

Discorso racconto a parte, infatti, il substrato musicale, in (dis)amore è un riflesso invecchiato di quello che succedeva in quegli anni. Odora malinconicamente di metà anni ’00. C’è una sofferenza, magari attenuata, del Paolo Benvegnù solista, qualche riverbero alla Moltheni senza la sua indole post rock, una certo disagio dei Virginiana Miller. Oltre ovviamente ai dogmi provenienti dal mondo anglofono (dai R.E.M. agli Smiths) che trovano spazio ancora oggi. (dis)amore sembra, in definitiva, uno dei possibili manifesti di un sottogenere arrivato in ritardo  per problemi burocratici.

Nonostante alcuni limiti, soprattutto estetici, I Perturbazione, scrivono comunque un album piacevole e coinvolgente,  confermandosi dunque un ottimo gruppo che probabilmente ha già dato il suo meglio nel decennio passato, ma che per quella che è la sua dimensione non si tira indietro, sperimenta, rischia.

copertina di passioni di henry green

Sedurre per noia

La borghesia non ama, desidera solo ciò che non può avere. A insegnarcelo sono stati in molti: sicuramente Claude Sautet, che spesso nei suoi film osservò l’intimità della disaffezione alla giusta distanza, quella necessaria a svelare il vuoto senza, però, mai mostrare l’orrore. L’inerzia dei sentimenti raccontata dal regista francese fa arrossire il volto e gela l’anima, ma regala anche l’ingannevole quanto prezioso conforto del distacco. In fondo si tratta di saper misurare gli spazi, di avvicinarsi con discrezione alla vita delle persone, senza mai invadere i luoghi con la propria presenza: una lezione di stile che anche lo scrittore inglese Henry Green ha impartito al mondo.

Il suo Passioni (Einaudi, 1990, ed or. 1952) è un libro di circa duecento pagine, che andrebbe letto come un testo teatrale, tanto è lineare e scarno nella trama. Protagonisti una coppia borghese, i Middleton, il loro figlio Peter, la giovane Annabel e la sua confidente, e infine Charles, l’amico affascinante della coppia: sei personaggi di cui non occorre ricordare i nomi, né tantomeno sapere granché. Tutto quello che è necessario conoscere, è solo quel poco che lo scrittore sceglie di svelare: e lo fa attraverso dialoghi misurati e incessanti, in cui la forza latente del tacere è forse più potente della parola stessa. Arthur Middleton è un uomo di mezz’età annoiato, convinto che la cura al male di esistere sia piacere alla giovane Annabel, invitarla a pranzo e cercare maldestramente di sedurla attraverso il fragile fascino dell’età e del denaro. La terapia funziona finché l’indolenza dei gesti distrae, ma quando i sentimenti reclamano il loro posto, il malessere ritorna.

La pausa pranzo raccontata da Green, teatro di effimeri quanto realistici tentativi di corruzione dell’anima, conserva tutta la leggerezza descritta da Frank O’Hara che del pasto di mezzogiorno ci restituì una fotografia nitida nella sua raccolta Lunch Poems (1964). In Passioni manca, però, la purezza del rituale, tanto cara al poeta americano: i pranzi consumati da Arthur e Annabel, infatti, tradiscono sempre un desiderio artato e vile, capace di offuscare l’innocenza dei gesti. Ritorna alla mente, allora, l’erotismo prandiale di Éric Rohmer nel suo film L’amore il pomeriggio (1972): anche in quel caso la perfezione della coppia borghese, incrinata dal desiderio improvviso, si interrogava sul bisogno di vivere solo di primi amori e di attese lusinghiere; nonché sul desiderio del protagonista maschile di lasciarsi affascinare da tutte le donne incontrate, senza mai dover mostrare le proprie ombre.

In Passioni scompaiono per un attimo le riflessioni morali di Rohmer: la borghesia di Green non conosce né luce, né oscurità: riesce solo a mentire, ritirarsi in casa, e indossare nuove maschere. Nessuno di loro sfugge all’inedia, né tantomeno alle colpe dell’infedeltà. Fin qui potrebbe sembrare una storia raccontata da James Salter, che del male agiato fece anche lui un ritratto intenso e impietoso nel suo Una perfetta felicità (Guanda, 2015): ma da buon inglese Green elimina il disagio e la profondità esistenziale, per concentrarsi solo sull’asciuttezza della forma. Il vuoto, in questo caso, non consuma l’anima, ma si limita a nutrire taciuti rancori. I tradimenti e le bugie, in realtà, non creano dolore: leggendo Green i nostri volti arrossiscono sì, ma per l’imbarazzo: l’inettitudine, i goffi tentativi di simulare la passione (godibilissime le pagine in cui Arthur cerca di sedurre Annabell in salotto), le confidenze velate, le codardie di coppia, lontane quest’ultime dall’essere tradotte in corrosivi dialoghi coniugali, strappano sorrisi sinceri ma discreti. Henry Green è, perciò, in questo senso uno scrittore misurato, abile nel costruire conversazioni precise e intrise di noia.

Non troverete in questo romanzo la carnalità voracemente esposta dal regista Peter Greenaway (anche lui inglese) in Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989), che del tradimento ha saputo restituirci la sua ventrale barocca gravità. Non troverete neppure la violenza, i sospetti e le illusioni infrante. La prosa di Green, infatti, non si lascia mai sopraffare, né contaminare dalla forza della passione, perché osservare l’incapacità di amare esige sempre una giusta, borghese, misura.