Campiello Opera Prima 2020

Premio Campiello 2020: cinquina e Opera Prima

La Giuria dei Letterati del Premio Campiello 2020, presieduta da Paolo Mieli, ha proclamato in diretta streaming, a causa delle precauzioni per il Covid-19, e in contemporanea su Rai 5, la cinquina finale: Sandro Frizziero, autore di Sommersione (Fazi); la poetessa Patrizia Cavalli, con Con passi giapponesi (Einaudi); il cantautore e scrittore Francesco Guccini con Tralummescuro – Ballata per un paese al tramonto (Giunti); Remo Rapino con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax), candidato con lo stesso libro quest’anno anche allo Strega; e Ade Zeno, con L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri).

Il Premio Campiello Opera Prima è invece andato a Veronica Galletta, con Le isole di Norman (Italo Svevo Editore).

A settembre si conoscerà il nome del vincitore, o della vincitrice, del premio Campiello 2020. A votare sarà la giuria popolare. Ancora incerta è la sede della premiazione che verrà comunicata in prossimità dell’evento.

Copertina di L'unica notte che abbiamo di Miorandi

Storia di una famiglia di bestie selvatiche

Il bagaglio personale di un autore è sempre fondamentale nella scelta dei temi da trattare e anche, probabilmente, nel modo in cui li trattano. Così deve essere per Paolo Miorandi, scrittore e psicoterapeuta, che già in Verso il bianco (Exòrma, 2019) si era occupato di arte e fragilità psichica raccontando la vita di Robert Walser, tra i più importanti poeti e scrittori svizzeri, che trascorse i suoi ultimi ventitré anni in un ospedale psichiatrico.

Con uno sfondo diverso ma solo in apparenza, anche il suo nuovo romanzo, L’unica notte che abbiamo (Exòrma, 2020) tratta un tema simile, nel suo svolgere la storia di una famiglia con una «fragilità nervosa» che mina sul nascere ogni tentativo di stabilità, che impedisce a ognuno di essere famiglia per gli altri.

«Sono più che convinta che gran parte dell’esistenza di noi sventurati sapiens sapiens consista nel tentativo, il più delle volte fallimentare, di guarire dagli influssi perniciosi e dalle devastanti patologie provocate dai morbi che si annidano e ingrassano nei focolari domestici».

È da questa urgenza che sembra emergere il romanzo, un racconto corale in cui le voci dei protagonisti si mescolano e si confondono: la voce narrante senza nome e quasi senza storia, che raccoglie una vicenda a lui estranea per via del semplice espediente narrativo dell’incontro con una vicina di casa; la signora stessa, un’anziana solitaria che trascorre i suoi ultimi anni a raccogliere documenti per «dipanare quel confuso groviglio di accadimenti che ha reso la storia della [sua] famiglia simile alla trama di un romanzo d’appendice»; e più di tutto i membri di questa famiglia «mezza matta» – i genitori, i nonni, le maestre che li hanno sostituiti, i complessi rapporti tra tutti loro, sullo sfondo di un Trentino profondo, fatto di valli fredde e di vino.

Fino a quando il racconto non diventa chiaro, è quasi difficile distinguere le parole, le voci, che si affastellano e rincorrono a formare l’affresco – a volte a tinte vivide, scabre, altre lievi di pastello – della saga familiare della protagonista. La storia si dipana per cerchi concentrici usando come base le tracce rimaste, fotografie soprattutto, a partire da cui le voci dei fantasmi dei morti e dei vivi si confondono, e allargando di capitolo in capitolo lo scenario desolante di sofferenze che scorrono nel sangue da un generazione all’altra.

A cominciare dalla nonna paterna, Elena, mai conosciuta e di cui non rimane che un’immagine, una ragazza sola a cui nessuno ha mai insegnato l’amore o il senso della famiglia, cresciuta «come una bestia selvatica assieme alle galline e ai conigli» e che come tale vive fino alla fine, spegnendosi «sola e lontana da tutti, nascosta sotto un lenzuolo giallognolo, senza tante manfrine, come si addice alle bestie selvatiche»: a lei appartiene la prima immagine, quella dell’Ernesto, il padre della protagonista, abbandonato ancora piccolo alla maestra della scuola di un paese su un lago, una donna austroungarica, di forti princìpi, l’unica possibilità per quel nucleo di famiglia di tenere la barra dritta.

Passando per il fratello più piccolo dell’Ernesto, Gioacchino, un erotomane scapestrato; la sua futura moglie, Georgette, una donna debole con vocazioni artistiche mai soddisfatte, figlia delle migrazioni del primo Novecento, cresciuta alle porte di Parigi da due genitori trentini che, nel momento di tornare al paese d’origine a neanche vent’anni, perde i punti di riferimento per non ritrovarli più – una donna incline alla depressione, al lamento, incapace di reggere l’urto della vita, una madre per cui la protagonista avrà fino alla fine parole di disprezzo. Fino ad arrivare alla protagonista stessa, soffocata tutta la vita da un pressante sentimento di vergogna.

Persone scontrose ed egocentriche, maltrattate dalla vita, che non conoscono altro modo di relazionarsi che maltrattare gli altri. Nel caso di Ernesto e Gioacchino, uomini che non cercano mai pietà né perdono, bestie incattivite dall’orgoglio e restie a essere addomesticate.

Personaggi che si avvicendano a raccontare lo stesso vissuto da prospettive diverse: c’è nel romanzo una continua vertigine di punti di vista, come se si girasse intorno a tutte le figure di questa famiglia di «male erbe» e le si guardasse da ogni lato per coglierne un’interezza. Perché nessuno è mai solo ciò che crede di essere, né ciò che un altro, anche la persona più vicina, vede, ma tutte queste cose insieme: siamo ciò che le nostre relazioni ci rendono, ciò che ci accade e come ci comportiamo davanti agli occhi degli altri, siamo il nostro sangue e ciò che decidiamo di farne, quanto decidiamo di assecondarlo.

E infatti Ernesto, che è indifferente alla sua famiglia in modo crudele e accetta solo la compagnia degli estranei dei bar, la sua unica casa, fieramente incapace di lavorare per sostentare la famiglia, è anche un uomo che si porta in tasca le briciole per i piccioni. E alla fine è questo che resta di lui, i passeri che beccano le patatine in un giorno di sole, la solitudine e la tenerezza verso gli animali di un uomo che non ha mai avuto accesso al mondo degli uomini – che forse avrebbe voluto, o invece ha preferito essere come la madre, «una bestia selvatica che guarda il mondo con occhi muti, che non fa altro che scappare per cercarsi ogni volta un nuovo rifugio». E che porta con sé fino alla fine traumi non solo personali ma anche collettivi, come i ricordi spezzati degli anni della guerra, della campagna di Russia, che riemergono solo quando ormai non c’è nessuno ad ascoltare, solo quando farnetica nel letto di una casa di riposo.

La bellezza di L’unica notte che abbiamo sta forse proprio nelle cose perdute. Nel fatto che da una fotografia la protagonista riesca a intravedere un pezzo di storia familiare, ricostruito con la memoria o con le ricerche, ma che sia solo un frammento, una parte minuscola di tutto l’accaduto e dimenticato, del mai registrato, del mai raccontato e portato nella tomba da qualcuno.

È pieno di memorie, di oggetti persi che non c’è speranza di riavere: come i diari di Georgette, in cui una presunta verità era stata messa per iscritto solo per la protagonista, ma che vengono distrutti dal padre dopo la sua morte. Capirai tutto quando non ci sarò più, le dice la madre, ma la protagonista è destinata a chiedersi per sempre quali fossero le sue verità, e se non fossero alla fine solo le sue solite fantasticherie malinconiche.

È la scrittura ricorsiva e ipnotica di Miorandi ad accompagnare in questo viaggio, una scrittura che si spinge in avanti e poi torna a riprendere per mano il lettore, che riavvolge più e più volte il filo di uno stesso pensiero: una nenia inquieta ma ammaliante, come lo sciacquio delle onde.

Con questa voce l’autore riesce a raccontare anche le vicende più crude, le vite più abbrutite, e infondervi quiete – forse quella della patina del tempo. È qualcosa nella sostanza della lingua che usa, venata appena di regionalismi senza che questo ne comprometta mai l’eleganza, che gli permette di dare voce alle persone più basse, agli uomini bruti della valle; e forse nella sintassi, nei gangli della lingua, nella compostezza del pensiero e dell’espressione. Nel tentativo di dare pace ai morti attraverso l’esercizio gentile del raccogliere una storia.

«Mi chiedo se ogni essere umano non sia per caso chiamato a prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano, se ogni vita non debba offrire la propria voce, per quanto flebile essa sia, ad almeno un’altra vita».

È ciò che fa Paolo Miorandi in L’unica notte che abbiamo: dà voce non solo a una donna, ma anche a una povertà spirituale prima che materiale, a un abbrutimento universale ma ancorato in modo indissolubile a un lago sempre sferzato dal vento, a una terra e alle sue uniche circostanze – che forse, soltanto, sarebbe stato meglio non lasciare sospesa nell’artificio di generici Città e Paesi, ma chiamare invece con il suo nome, dandole la dignità della propria storia, per quanto dolorosa. Ascoltare e raccontare, con l’empatia necessaria per perdonare al posto chi non ha mai potuto farlo, e lasciar andare il passato.

 

(Paolo Miorandi, L’unica notte che abbiamo, Exòrma, 2020, 249 pp., euro 16, articolo di Daria De Pascale)

 

Poster di In viaggio verso un sogno su Flanerí

Fughe, wrestling e burro di arachidi

Arriva direttamente in streaming In viaggio verso un sogno – The Peanut Butter Falcon, film d’esordio di Tyler Nilson e Michael Schwartz piccolo caso cinematografico negli Stati Uniti lo scorso anno.

Zak è un ragazzo con la sindrome di Down che decide di scappare dalla casa di cura dove vive per coronare il suo sogno: allenarsi con il suo idolo e diventare un wrestler professionista con il nome Peanut Butter Falcon. Durante la fuga incontra Tyler, un pescatore sconvolto dalla morte del fratello e inseguito da due loschi tizi a cui ha rubato la barca. Tyler e Zak si mettono sulla strada insieme verso la Florida e diventano amici inseparabili, anche quando la tutrice di Zak li rintraccia  e li raggiunge.

Sulla carta, In viaggio verso un sogno racchiude tutte le caratteristiche più scontate e banali del cinema indipendente statunitense. Un diverso in cerca di riscatto, un burbero dal cuore d’oro, un viaggio, un sogno, momenti di comicità, dramma e tenerezza a grappoli. A tutto questo bisogna poi aggiungere il tema. Non è facile parlare con il giusto tono di malattie e handicap. L’eccesso di dramma o di indulgenza è sempre in agguato.

I due registi e sceneggiatori esordienti Tyler Nilson e Michael Schwartz, però, sono riusciti a trovare il giusto equilibrio narrativo. Il merito è anche da attribuire agli interpreti, in particolare la coppia formata dall’esordiente Zack Gottsagen (Zak) e Shia LaBeouf (Tyler). I tempi in cui Labeouf era l’enfant prodige di Hollywood sono sempre più lontani e finalmente sembra aver fatto i conti con se stesso per un rilancio della carriera.

L’interazione dei due interpreti genera le scene migliori, anche quando non fanno nulla, quando stanno seduti ubriachi davanti al fuoco e quando camminano.

I due attori sullo schermo godono di un’intesa naturale che rende la strana amicizia tra Zak e Tyler assolutamente credibile e spontanea.  In una rivisitazione moderna di Huckleberry Finn, il viaggio di Zak per raggiungere il suo idolo – un ex lottatore  di cui ha consumato le videocassette che adesso vive in una baracca – diventa la ricerca di una vita possibile al di fuori della casa di cura.

In viaggio verso un sogno riesce a raccontare il desiderio di Zak senza pietismi o momenti melensi, senza metterlo in ridicolo o cercare a tutti i costi l’empatia del pubblico. Il messaggio che si può leggere è che chiunque può avere la vita che vuole, a suo modo. E la forza di Zak non è quella che gli serve per il wrestling, ma la determinazione contagiosa nel vivere secondo le sue idee, come Tyler. Lo capisce anche Eleanor, la tutrice interpretata da Dakota Johnson, che si lascia conquistare dall’idea del viaggio anziché riportare il ragazzo a casa.

Peccato che la tenuta narrativa non sia sufficiente per reggere fino al finale che mette insieme troppe svolte per risultare coerente e coinvolgente sul piano emotivo. La coppia Zak-Tyler, però, è più che sufficiente per fare di In viaggio verso un sogno un film forte della sua imperfezione.

(In viaggio verso un sogno – The Peanut Butter Falcon, di Tyler Nilson e Michael Schwartz, 2019, commedia, 97’)

Enigma The Suburbs

Quasi dieci anni di The Suburbs. Quasi perché il 27 maggio del 2010 gli Arcade Fire annunciavano l’uscita del loro terzo album, che sarebbe stata il successivo 2 agosto. Già fino a quel momento, la band di Win Butler era sicuramente uno dei gruppi più importanti e dal potenziale più alto nel panorama mondiale. Con The Suburbs il salto in avanti, a livello di immagine e di vendite, è notevole e decisivo.

In un’epoca dove già si stava intravedendo il declino dell’indie rock (Strokes, per esempio), dove il rock si trovava in una fase di continua riflessione su sé stesso, con molte domande e pochissime risposte (i National),  un gruppo come gli Arcade Fire era riuscito a trovarsi un posto completamente suo, andando a ridisegnare e a reinterpretare certi stilemi classici del pop/rock.

The Suburbs è un album labirintico, non facilotto come sommariamente spesso viene narrato, che si pone da dieci anni la stessa domanda. È davvero il loro album più fruibile? Perché già allora, ma anche oggi, ci sono diversi aspetti che potrebbero non relegare The Suburbs come album più accessibile, o più pop, degli Arcade Fire.   Ponte tra la prima fase degli Arcade Fire (Funeral e Neon Bible) e la seconda (The Reflektor e Everything Now), il terzo album della band canadese è il pass verso il successo indiscusso transnazionale, ma non per un suo essere intrinsecamente – musicalmente – più immediato.

Potrebbe semplicemente essere stato frainteso il fatto che The Suburbs, visto l’enorme seguito commerciale che ha avuto, fosse anche quello strutturalmente più semplice. Il classico gioco del mainstream come cosa facile in automatico. Perché a riascoltarlo, le cose non sono così chiare da sintetizzare. Funeral, certamente uno degli album di punta degli anni ’00, è un lavoro molto più fruibile di The Suburbs. Detta così suona come una sorta di bestemmia, perché la storiografia vuole Funeral su un altro livello. Ma Funeral è un album rapido e super agile. Funeral, però, chiaramente, non ha nessun Funeral alle sue spalle. I brani di The Suburbs, che hanno un Funeral e pure un Neon Bible alle loro spalle, invece, andandoli ad ascoltare uno dopo l’altro, hanno bisogno di uno sforzo maggiore per essere letti e metabolizzati.

La sensazione che si ha è che l’enorme successo, non solo di critica, ma anche e soprattutto di pubblico sia stato, dunque, un passaggio inevitabile. Era un po’ segnato il suo destino, a essere fatalisti. Funeral e Neon Bible avevano generato un tensione tale che, azzeccando il successore, avrebbe portato a un successo più che scontato.

La grandezza degli Arcade Fire, poi, ricordiamolo, non deriva esclusivamente dalla produzione di album, ma anche dalle loro performance dal vivo, che concerto dopo concerto hanno acquisito sempre di più un’aura mitologica che negli ultimi anni ha davvero pochissimi eguali. Sarà per l’enorme carisma di Win Butler, per il fatto che siano tantissimi sul palco e sembrino uno spettacolo teatrale coordinato da un Mangiafuoco hipster, per la bravura di Régine Chassagne, o per chissà quale altro motivo: un live degli Arcade Fire è una delle esperienze imprescindibili che hanno a che fare con la musica pop degli ultimi vent’anni.

Già il numero di tracce di The Suburbs, sedici, sono un primo campanello d’allarme: alla lunga, la sensazione che quest’album produce non è quella di lasciarsi ascoltare senza problemi, anzi. Di scorrere come il più fluido degli album pop.

È vero, The Suburbs ha diversi episodi instant classic da manuale. Due su tutti: l’omonimo “The Suburbs” e “Ready To Go“. Ma sono brani immagine che gli Arcade Fire hanno sempre avuto nei loro lavori: prendiamo anche solo “Rebellion (Lies)” (Lilli Gruber potrebbe dirci qualcosa) da Funeral e “Keep The Car Running” da Neon Bible. Bastano questi due rendere l’idea di come questo genere di brani sia parte fondante e colonna vertebrale degli Arcade Fire. Quindi nulla di nuovo. Anzi, a rileggerle oggi, i due di The Suburbs  sembrano ancora meno immediati,  più complessi.

The Suburbs in alcuni momenti è anche stancante, solo apparentemente semplice. Nasconde delle ruvidità, delle incrinature, che lo rendono un percorso più arduo rispetto a quanto eravamo abituati nel pre The Suburbs: possiamo dire che quest’album abbia delle imperfezioni, sì, certamente, ma sono queste imperfezioni che lo rendono così affascinante e potente.

Lo statuto di grande band sarà poi consolidato in maniera definitiva con il successivo The Reflektor, probabilmente la loro opera più matura, stratificata e interessante. Per poi soccombere direttamente alla loro grandezza con il mezzo passo falso di Everything Now . Ma con The Suburbs, gli Arcade Fire sono gli Arcade Fire.

Quella di The Suburbs come album più facile degli Arcade Fire è una storia che non convince. Il terzo album dei canadesi è un grande album imperfetto, che è stato necessario per arrivare a scrivere The Reflektor, ovvero un album da podio degli anni ’10. Riascoltare oggi The Suburbs è ancora più importante di dieci anni fa.

immagine della biblioteca di babele

Il filo d’Arianna del linguaggio

Persi nel caos del mondo, nel groviglio della società troppo satura d’informazioni in cui oggi viviamo, sono andate smarrite le coordinate necessarie a un orientamento che spieghi e renda intelligibile il suo disgregato overload di contenuti, sorta di paralizzante pletora sensoriale che, così come l’immagine opposta all’interezza e alla linearità propria del labirinto – dal greco λαμβάνω (lambàno) che significa prendere ma anche  assumere su di sé o patire una pena, un castigo ρινάω (rinào) che sta per inganno, trappola – si presta al significato tanto dell’intraprendere consapevolmente un percorso frammentato e contorto, quanto dell’esserne involontaria vittima.

Se in ciascun caso l’etimo, che indica ciò che non si può cogliere con uno sguardo solo, cioè che non schiude il suo cammino verso soluzioni facili e immediate, è raffigurazione di difficoltà e smarrimento che tuttavia contiene in sé la propria chiave di volta, anche quella paralisi del pensiero, al contempo misteriosa ma evidente, che è il disagio della contemporaneità, alla pari di un labirinto include la possibilità di una strada accidentata ma percorribile, solo apparentemente senza via d’uscita.

Seguendo l’ermeneutica di Gadamer è il linguaggio – dunque la letteratura – il filo d’Arianna in grado di portarci fuori dai meandri dispersivi dello strabordare delle impressioni, permettendo di ristabilirne i nessi ovvero di dar loro un senso. Contro il collasso percettivo di una società che non sa più parlare, perduta nel flusso continuo del pluralismo della comunicazione, ne costituisce lo strumento privilegiato che ci offre la speranza del riscatto dalla massa oleosa del rumore quotidiano, restituendoci la capacità di leggere, ordinare ed esprimere ciascuno la nostra personale visione delle cose.

Questa funzione, di livello e qualità insostituibile, è resa possibile perché, come osserva Barthes in Il grado zero della scrittura, non vi è letteratura senza morale del linguaggio, senza cioè quella spina dorsale, quel «midollo del leone» di cui parla Calvino in Una pietra sopra commentando l’urgenza, per comprendere la nostra epoca, di vivere sulla linea del fuoco: «noi crediamo che l’impegno politico, il parteggiare, il compromettersi sia, ancor più che dovere, necessità naturale dello scrittore d’oggi, e prima ancora che dello scrittore, dell’uomo moderno».

Ma la letteratura offre infiniti percorsi di orientamento nel magma della realtà, diversi ciascuno per ogni autore. C’è chi, come Faulkner, affida al complesso intrecciarsi di toni e stili della scrittura, che vanno dall’iperbolico all’elementare, quella capacità morale di accedere all’essenza delle cose, di forzare il loro segreto. Diversamente da Hemingway, che trovava il suo stile fastidiosamente retorico – basti confrontare L’urlo e il furore a Per chi suona la campanail linguaggio per Faulkner è corrispondenza metaforica che non si fa carico di essere presenza attiva che agisce direttamente (politicamente, si potrebbe dire) sulla coscienza del lettore.

Posizione intermedia tra le due è la forza salvifica e semplificatrice della parola di cui scrive Musil in L’uomo senza qualità: «la legge di questa vita a cui si aspira oppressi, sognando la semplicità, non è se non quella dell’ordine narrativo, quell’ordine normale che consiste nel poter dire: “Dopo che fu successo questo, accadde quest’altro”. Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l’opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire; “allorché”, “prima che” e “dopo che”! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco».

Prospettiva agli antipodi dell’universo letterario di Borges, distaccato e ironico. Sorta di mandala incompiuto, il ginepraio ingannevole delle infinite combinazioni di frasi prive di senso di La biblioteca di Babele, che senza centro si diramano dalle sue sale esagonali, è insieme modello di conoscenza quanto constatazione dell’impossibilità di una sintesi del sapere, un ordine di significati che, nella realtà povera di relazioni chiare tra le cose in cui siamo oggi immersi, ci orienti nel distinguere la verità dal suo opposto.

Simile alla topografia ortogonale della sua Buenos Aires, frastagliata e imprevedibile, il linguaggio per Borges dunque mostra, non significa. Indica senza spiegare. È struttura labirintica che, con dissacrante paradosso, si fa forza dissestante che anziché tendere alla linearità accetta l’inesplicabilità, il perdersi come destino. Per questo descrive la Storia universale dell’infamia «ambigui esercizi di prosa narrativa» perché, convinto che la proprietà generale del cosmo sia la vacuità, l’apparenza, una sterminata superficie di immagini accavallate senza nesso né significato, è vano tentare di costringere in una forma compiuta la caleidoscopica cacofonia delle impressioni, di dar loro un ordine attraverso la parola.

Ancora diversamente Proust, – nota Spitzer – con il ritmo sinuoso delle sue frasi colme di incisi e parentesi, pur sembrando presentarci la cangiante confusione e l’infinita complessità del reale come un labirinto in cui l’uomo rischia di smarrirsi ed esserne sopraffatto, ci rende invece possibile una spiegazione del mondo che, nel suo ricondurre il molteplice all’uno, ci restituisce l’universale di «una grande pace, un senso di eternità».

La vita, così inconcepibile senza le parole, nell’immenso edificio dell’opera proustiana trova forma e significato non solo per mezzo degli ampi e complessi periodi della struttura sintattica, ma soprattutto grazie alla  metafora metonìmica o diegetica, figura centrale della retorica ampiamente utilizzata nella letteratura moderna – oltre a Proust basti pensare, a titolo di esempio, a Poe, Virginia Woolf e Joyce – che Michel Deguy definisce il genere supremo, la figura delle figure.

Per metafora, dal latino methafora e dal greco μεταϕορά (metaforà) che vuol dire trasferimento si intende, come noto, la trasposizione simbolica di un termine proprio con uno figurato. Per esempio le spighe ondeggiano come se fossero un mare oppure sei un fulmine per dire sei veloce come se fossi un fulmine. Con metonìmia, dal greco μετωνυμία (metonimìa), cioè scambio di nome, si indica invece il nome della causa per quello dell’effetto, ad esempio vivere del proprio lavoro; della materia per l’oggetto, cioè sguainare il ferro; oppure del contenente per il contenuto bere una bottiglia; e anche del simbolo per la cosa non tradire la bandiera, ecc. Dunque il procedimento metaforico opera per somiglianza, mentre quello metonìmico per contiguità.

La metafora metonìmica, anche detta diegetica, dal greco διήγησις (diegèsis) ovvero racconto, è orientata alla diegèsi, cioè all’universo spazio-temporale della narrazione. Questo significa che è fondata sulla contiguità –spaziale, temporale, psicologica, ecc. – di più sensazioni. In sintesi la metafora viene ad agire attraverso quel concetto di contiguità, cioè di rappresentazione simultanea di azioni parallele, proprio della metonìmia, che abolisce la distanza tra passato e presente e unisce avvenimenti disgiunti nello spazio, dove le cose sono insieme vicine e lontane.

 

Ecco allora che nel topos del campanile camaleonte, individuato da Genette in Figure III, la ragione della scelta delle metafore proustiane riposa interamente sul pensiero del bagno, mentre la contiguità del mare orienta verso un’interpretazione acquatica l’intero lavoro della fantasia metaforica: «Saint-Mars, del quale, in quei giorni ardenti in cui si pensava soltanto al bagno, i due antichi campanili d’un rosa salmone, dalle tegole a losanga, lievemente pendenti e come palpitanti, parevano vecchi pesci aguzzi, embricati di squame, spumeggianti e rossastri, che senza parer muoversi, s’alzassero in un’acqua trasparente e azzurra».

Ma l’importanza fondamentale della metafora metonimica non è soltanto quella di rendere il tempo simultaneo, di operare un’analogia tra due o più situazioni. Così come il vero miracolo proustiano non è tanto il fatto che una madeleine inzuppata nel tè abbia lo stesso sapore di un’altra madeleine inzuppata nel tè, e ne desti il ricordo, ma piuttosto che la seconda resusciti con sé una stanza, una casa, giardini, un’intera città, cioè consista in quel fenomeno di seconda vista, nel movimento d’anamnesi, che è l’irradiazione metonimica liberata da tale semplice analogia.

Quindi non solo metafora, non solo analogia ma, attraverso le affinità segrete ridestate a questo modo, soprattutto restituzione di senso, collegamento tra le disiecta membra del mondo. Si può perciò dire che senza metafora niente paragone, niente spazializzazione del tempo, niente ricordi. Però senza che la metafora sia innestata sulla metonimia, niente concatenazione di analogie e di ricordi, niente epifania della realtà.

Tuttavia, se la metafora diegetica è un modo per fare chiarezza nella disarmante ressa di dati della realtà, il linguaggio, aperto a innumerevoli declinazioni, si muove di continuo con nuvolosa leggerezza, immaginando. Ed è proprio per questo suo manifestarsi sotto forma di una serie imprevedibile e sempre rinnovata di risposte, diverse per ciascuno scrittore, che la letteratura è l’invisibile filo d’Arianna disperso, ma presente, nel labirinto della totalità.

Copertina di L'esercizio di Claudia Petrucci

La riscrittura del proprio copione ma dal punto di vista degli altri

Un esordio di spessore che riapre l’interrogativo su un quesito antico: la sovrapposizione tra la persona e il personaggio, su chi siamo, chi raccontiamo di essere, come ci raccontano gli altri. Claudia Petrucci, con L’esercizio (La Nave di Teseo, 2020), ci invita appunto a “esercitarci” sugli schemi identitari che ci definiscono sin dall’infanzia e la narrazione che facciamo della nostra esistenza in modo quasi itinerante.

«Se non fosse successo quel che è successo, lei sarebbe ancora lì, io potrei tornare a nascondermi in ciò che credevo di conoscere, che era tutto ciò che conoscevo: un istante uguale in eterno. Irripetibile, irriproducibile».

La prima parte del romanzo è un corposo antefatto che scatta una fotografia sulla trama che si dipanerà, in uno stile asciutto e al contempo dettagliato. Un ruolo centrale lo svolgono non tanto gli eventi quanto i ricordi che abbiamo di essi – inquadrando la memoria come costruzione – e le relazioni con gli altri che non si capisce se stiano leggendo la storia che desideriamo che leggano, nascondendo anche delle parti fondanti della stessa.

Giorgia, Filippo e Mauro sono i protagonisti di questo romanzo: un triangolo strano, squilibrato verso la vera figura dominante della triade, Giorgia, una ragazza che vive un rapporto instabile, sia con se stessa che nella coppia, con Filippo e che quando rincontra Mauro, il suo insegnante di recitazione, si rituffa nell’ambizioso richiamo del palcoscenico.

A raccontare la storia è Filippo, il fidanzato trentenne e disilluso, che in una prima persona diretta e inquieta, a tratti pervasa di sensi di colpa e intrisa di grande sensibilità, ricostruisce la vicenda della sua fidanzata, dal passato infelice come rivelerà la zia di lei, scoprendo un evento tenuto nascosto, colpita poi da una malattia nervosa, già presente sin dall’adolescenza. Giorgia ricorda la donna di Solaris di Stanisław Lem, Harey, che è insieme amata, idealizzata ma anche in continuo mutamento, dotata di una personalità confusa e misteriosa. Giorgia va in pezzi quando decide di tornare a recitare, studiare e mettere in scena i suoi personaggi: viene ricoverata nel suo delirio tra finzione e realtà e saranno Filippo e Mauro, avversari e al contempo alleati, a pianificare un copione su misura per riportarla fuori dalla clinica. Quindici giorni di stesura per ridare una nuova identità alla donna che li unisce, stesa nel letto di una clinica, in una fase di transizione.

«L’impianto teatrale dello psicodramma vede il paziente portare sulla scena la propria difficoltà esistenziale. Non è molto diversa dallo schema cui Giorgia è abituata: solo che nel percorso terapeutico il regista sceglie la scena da rappresentare», spiegherà il primario della clinica a Mauro che si metterà a riscrivere il plot. Insieme a Filippo. «Abbiamo creato insieme la schiera di comparse, una descrizione breve e fitta di nomi organizzati sullo sfondo, poi i personaggi coinvolti nell’azione: i miei genitori, Amelia, lui stesso, io sono stato l’ultimo a essere inserito: Mauro mi ha definito un co-protagonista».

Il lettore viene trascinato in una domanda insistente: immaginare cosa sarebbe stato di sé, se qualcuno avesse spostato l’ordine degli eventi, se una mano avesse teso gli strumenti diversi, variabili differenti. Ci si chiede quanto conti la prima impressione nello scoccare di certe interazioni: valutazioni istintuali del linguaggio non verbale, archetipi ai quali attingiamo inconsapevolmente, credendo di conoscere il carattere e la storia degli altri.

E quando qualcuno ci parla di una storia di cui ci sentiamo protagonisti il gioco è fatto: ci crediamo.  Il caos che vivono Giorgia e Filippo nel loro rapporto di coppia è dato dal fatto che le loro narrazioni non coincidono più, i loro schemi narrativi piuttosto che modellarsi alla nuova trama, divengono più duri e schematici. L’Esercizio già nel titolo dovrebbe suggerire questa ambivalenza: smaltire i ricordi e le costruzioni e esercitarsi appunto a riscriversi, ma l’autrice si chiede se possiamo essere davvero capaci di farlo. E tra la clinica, i copioni da riscrivere e studiare, le fasi di Giorgia, che talvolta accetta, rare volte rifiuta “la parte”, il romanzo si snoda sulla curiosità di una protagonista che alla fine potrebbe tornare a vivere, a “essere come prima”.

«Riprendo due vite parallele, quella di superficie e quella solo mia, invisibile e profonda, in cui ricomincio a smaltire i ricordi. Stavolta non sono impreparato e inizio il mio esercizio con disinvoltura. […] Più sono esposto alla Giorgia del presente, più fantastico su quella del futuro e, al ritorno, aumento il volume dei miei appunti», dirà Filippo pensando a tutto quello che la nuova Giorgia avrebbe potuto essere e non è stata.

Il potere della narrazione si muove su più piani, attraverso la triade scomposta dei personaggi, ma resta certo che il concetto di identità e il fraintendere i suoi significati domina tutto il romanzo. E come la stessa autrice ha dichiarato: «La capacità che crediamo di possedere, di definire noi stessi, di riconoscermi in uno specchio, mi aveva impedito di considerare una visione più ampia».

L’autrice parte da una storia d’amore spenta, per addentrarsi in un’indagine che ricorda quella di Erving Goffman in La vita quotidiana come rappresentazione, uno studio interazionista della vita di ogni giorno, usando come metafora appunto il teatro, la passione di Giorgia.

Il romanzo è quindi introspettivo, sociologico e coinvolgente: rilancia l’idea della riscrittura del sé e quindi della ricerca del sé.

(Claudia Petrucci, L’esercizio, La Nave di Teseo, 2020, pp. 333, euro 18, articolo di Antonella De Biasi)

 

Copertina di Il disagio della sera di Rijneveld

Il lutto è un sacchetto di biglie vuoto

Dopo aver chiuso Il disagio della sera (Nutrimenti, 2019, traduzione di Stefano Musilli), si è grati al libro per averci illustrato due verità. La prima è che i bimbi tristi crescono anche in Olanda, nel paese dove secondo l’Unicef dovrebbero essere i più felici del pianeta. La seconda è che non possiamo aspettarci il riscatto dalle nostre paure se lo cerchiamo nel focolare domestico.

Altri motivi per essere grati a questo libro disturbante e crudo, e in alcune scene genuinamente rivoltante, non ce ne sono, perché non è pensato per essere piacevole. Non è piacevole Jas, la bimba che ci racconta la storia. Soffre di fobia per i germi, indossa un giaccone che non toglie mai, cova pensieri suicidi e omicidi (a fin di bene, sia detto a sua discolpa). Non sono piacevoli i suoi genitori, allevatori che nella scala delle priorità non hanno ben chiaro chi venga prima tra i quattro figli e le centottanta mucche. Per questi calvinisti di stretta osservanza, è il vertice – Dio – che conta, il resto del creato pascola infiniti gradi di abbrutimento più in basso, per cui ogni classificazione risulta blasfema.

Non è piacevole nemmeno l’evento sismico che fa precipitare nel vuoto un edificio familiare la cui rovina era già in atto da sempre: sotto Natale Matthies, il fratello maggiore di Jas, va a pattinare sul lago e si fida troppo del ghiaccio sottile che lo ricopre «dall’altra parte». Alla notizia della morte, la madre reagisce con la più semplice delle negazioni: «Ma non è morto». La mancata elaborazione del lutto corrode i legami affettivi come una forma di demenza e si estende sotterranea a tutto il racconto, che dal punto di vista dei colpi di scena non ha altro da offrire se non un paio di incidenti prontamente inquadrati come piaghe bibliche (non un paio, dunque, ma dieci).

Benché Jas immagini dei Piani per andare dall’altra parte, l’annegamento del fratello è un interdetto troppo vasto per essere superato. Le è precluso ogni varco per scoprire un orizzonte di amicizie, interessi e valori che potrebbero aiutarla a dare la giusta proporzione alla bolla in cui vive (il tema del soffocamento è variato fino all’ultimo, raggelante stadio).

Sulla base della biografia dell’autore possiamo collocarla all’interno della Bijbelbelt, una fascia di comuni riformati che taglia obliquamente il paese dal Zeeland all’Overijssel. Il cristianesimo predicato con zelo in queste comunità religiose sopravvive benché sia ostile al mondo moderno e alle sue lusinghe. Agli occhi dei suoi membri le polemiche sulle aperture domenicali dei negozi sono superflue, poiché nel giorno del signore non solo è sconsigliato prendere la macchina, ma anche cucinare.

Lasciarsi alle spalle la vita improntata agli insegnamenti della Bibbia e scandita dalla recitazione dei Salmi, in un contesto familiare e sociale estremamente ortodosso, per abbracciare la mondanità in un moto di ribellione e ricerca del proprio io, ha già trovato una forma letteraria in altri romanzi, i più celebri dei quali sono Terug naar Oegstgeest (1965) di Jan Wolkers e Nel giardino del padre (2005) di Jan Siebelink. Di recente il fanatismo protestante è finito più volte sotto la lente di giovani scrittori, testimoniando però un’inquietudine esistenziale che travalica gli steccati confessionali per sciogliersi in un bisogno di assoluto e trascendenza.

Gli accostamenti non rendono però giustizia alla grottesca e fulminante singolarità di Il disagio della sera, che semmai richiama Le sere di Gerard Reve. Vale la pena di riportare un brano, appunto, molto reviano: « “Ancora un giorno e ce ne andremo per sempre”, dico ai rospi per poi tirarli fuori dall’acqua e asciugare con un calzino a righe rosse la loro pelle piena di protuberanze. Sento la mamma che grida al piano di sotto. Lei e papà stanno litigando perché un vecchio cliente della fattoria si è lamentato con la congregazione. Stavolta non del latte troppo pallido o troppo acquoso, ma di noi, dei Re Magi. Io, in particolare, sono pallida e ho anche gli occhi un po’ acquosi. La mamma ha detto che era colpa di papà, che non badava a noi, e papà ha detto che era colpa della mamma, che era lei a non badare a noi. Poi tutti e due hanno cominciato a minacciare di andarsene, ma è venuto fuori che era impossibile: solo uno poteva fare le valigie, solo uno poteva essere rimpianto, e solo uno poteva tornare poi a casa e fare come se non fosse successo niente. Ora litigano su chi se ne andrà. Io, sotto sotto, spero che sia papà, perché in genere lui ritorna verso l’ora del caffè. Se non beve il caffè gli viene il mal di testa».

Raramente, inoltre, il punto di vista di una decenne è stato riprodotto con una tale resa iperrealistica. Abituati ai ragazzini della letteratura americana post-moderna, vittime della farraginosa violenza verbale dei loro creatori – visto che un bambino nomina tutto per la prima volta, io autore ho il permesso di imitarlo, no? – le osservazioni di Jas ci restituiscono tutta la sensualità con cui un uomo fa effettivamente esperienza del mondo a quella età. A dieci anni si è ancora creature ibride, amorfe, a metà strada tra gli animali e gli adulti. Siamo dei cuccioli. La nostra facoltà logica gattona, i nostri istinti ruggiscono – il tutto, mentre i nostri parenti predicano. Rijneveld ricorre a uno stile fortemente connotato in senso metaforico per dire questa indeterminazione. La mente di Jas associa, corrisponde, prende alla lettera, non vede quei colori che ci fanno distinguere la realtà dalla fantasia. Ogni pagina è piena di paragoni originali, sempre alla portata delle conoscenze scolastiche (e biologiche) di Jas, che farebbero impallidire molti poeti visionari e materialistici. Jas tira fuori similitudini per gli organi sessuali che neanche Philip Roth. Di più: la similitudine è così dettagliata che il termine di paragone infesta e si impone sul referente reale. 

L’altro strumento retorico di Rijneveld è appunto il dettaglio. Poiché una famiglia protestante di stretta osservanza presenta poche variabili, si offre egregiamente a uno studio esaustivo della sua Umwelt. Il corpo sensibilissimo e rudimentale del bambino non è otturato da pregiudizi di ordine etico: mette tutto sullo stesso piano, non è ancora pronto per le gerarchie e gli intrecci (da qui l’assenza della trama, ma anche il filone poco felice sugli ebrei nascosti in cantina). Se una cultura molto prescrittiva lo isola e lo reprime, finirà con lo sviluppare un’immaginazione fervidissima ma ossessionata e paranoica, oltre che tendenze incestuose – in queste comunità gli esperimenti tra fratelli non saranno all’ordine del giorno, tuttavia ci sono, e sono più frequenti che altrove: Rijneveld non vuole scandalizzare, le cose stanno proprio così.

Non credo che la scelta sia tra allevare dei geni nevrotici e pieni di bachi mentali o dei decorosi e grigi cittadini. Da parte di Jas non c’è una parola di condanna rivolta alla sua educazione, dal momento che non ha idea di cosa sia l’educazione. La scambia per la natura. Per questo, a differenza dei suoi ribelli antenati letterari, l’unico scenario di redenzione passa attraverso riti sacrificali. E arrivati a questo punto, nessuna scelta è più possibile.

 

(Marieke Lucas Rijneveld, Il disagio della sera, trad. di Stefano Musilli, Nutrimenti, 2019, 256 pp., euro 18, articolo di Giuseppe Cocomazzi)

 

The Last Dance scena del documentario Netflix

Agiografia, bullismo e trionfo

Vale la pena porsi alcune domande dopo aver assistito alla celebrazione di Michael Jordan nella docu-serie Netflix The Last Dance. Celebrazione di Michal Jordan, sì: non c’è margine, infatti, per pensare che quest’opera sia il racconto di una squadra, i Chicago Bulls, che in otto anni sono riusciti a vincere sei titoli.

Vale la pena, ora, non fermarsi a ricordare quanto Micheal Jordan fosse fenomenale in campo. Chi conosce la pallacanestro lo sa e chi non la conosce lo sa comunque. The Last Dance assolve del tutto la questione. In fin dei conti, non era una cosa difficilissima, visto che stiamo parlando proprio di Michael Jordan.

Cos’è stato, quindi, in linea teorica, The Last Dance? Non è stato il racconto incentrato unicamente sulla stagione culminata con il sesto anello per i Bulls, come si pensava, ma una storia con flashback continui attraverso cui è stato possibile capire per quale motivo sia stato così importante quel canestro di MJ dopo il crossover su Byron Russel del 14 giugno 1998.

Ma, appunto, non è stata la celebrazione di una squadra: bensì la celebrazione di un unico giocatore.

La storia stessa della carriera di Michael Jordan è qualcosa di narrabile di per sé. Il cosa accade, oltre al chi la fa accadere. Un racconto che sarebbe potuto uscire su McSweeney’s sull’ipotetico sportivo più forte di sempre se MJ avesse fatto, non so, il contabile.  Dunque, a guardarlo bene, non è solo la grandezza di Jordan l’input da cui parte il tutto. L’ascesa, la popolarità planetaria, la partecipazione a Space Jam, i due ritiri, i problemi con il gioco d’azzardo, l’assassinio del padre. C’è molta carne al fuoco.

Dunque, Jordan che dà l’ok per la diffusione di tutto il materiale inedito che veniva tenuto nascosto nelle stanze segrete di David Stern come fosse (e probabilmente lo era) la cosa più preziosa che potesse gravitare attorno al mondo NBA, deve essere suonata come una sorta di regalo di un Dio alla sua gente. Il problema, però, è che fare un racconto su Jordan senza che Jordan lo cannibalizzi è praticamente impossibile.

The Last Dance è stato, senza troppi giri di parole, cannibalizzato da MJ, allo stesso modo in cui MJ cannibalizzava compagni di squadra e avversari, media, e quant’altro. La sua presenza, soprattutto fisica, è stata schiacciante. È chiaro, di fronte a Michael Jordan è difficile ragionare con le stesse istanze – siamo tutti un po’ succubi del suo talento – con cui ci troveremmo a parlare di chiunque altro (anche altri grandissimi dello sport, da Federer a Maradona, da Schumacher a Valentino Rossi). Michael Jordan non è umano, ce lo diciamo da sempre. Ma proprio per questo è necessario fermarci un attimo e riflettere su ciò che abbiamo visto.

Ho passato l’infanzia e l’adolescenza con il mito di MJ, poster in camera e Air Jordan e quindi metto le mani avanti: non c’è nessun tipo di strano rancore, nessuna voglia di parlar male di un prodotto del genere perché ha preso una clamorosa impennata mainstream, nessun mettersi forzatamente di traverso. La storia dei due three-peat dei Bulls è epica e qui nessuno mette in dubbio il fatto che MJ sia stato il cestista più forte di tutti i tempi. Un’icona, il momento di passaggio della NBA e di tutta la pallacanestro nella modernità etc etc. Vorrei solo cercare di ragionare attorno a un paio di questioni: quella di The Last Dance come una sorta di agiografia on demand, e quanto certi atteggiamenti tirannici di alcuni giocatori nei confronti di altri siano effettivamente tollerabili.

Nel racconto che il regista Jason Heir ci fa, tutto e tutti sono influenzati dalla presenza di Michael Jordan. L’occhio del regista, l’occhio della camera, l’occhio dello spettatore: tutto filtrato da cosa Michael Jordan pensa di quella o di quell’altra cosa. Televisivamente parlando, può avere senso ciò che è stato fatto. È chiaro che il racconto si fa alla potata di chiunque se incentrato prepotentemente su un personaggio del genere, e che MJ tiri (scusate l’ambiguità lessicale) più di John Paxsons o di Luc Longley: basta allora semplicemente ragionare sul fatto che ci troviamo di fronte ad altro rispetto a quello che potrebbe essere un documentario, qualcosa di oggettivo. Ma pensarlo semplicemente come la narrazione di un mito. È folle aver pensato che The Last Dance possa lasciare, ogni tanto, una sensazione simil-inquietante di un “documentario” fatto in Corea del Nord sulla vita di Kim Jong-un ?

Dopo due/tre puntate in cui emergono un paio di altri protagonisti (Pippen e Rodman), il racconto diventa smaccatamente cosa pensa MJ di quello che è successo nella NBA in quegli anni.

Le ombre che sono apparse durante la sua carriera e che sono state fatte vedere in The Last Dance (il processo di Slim Bouler, i debiti per il gioco d’azzardo, il non supporto al candidato afro americano Harvey Gant «Anche i repubblicani comprano le scarpe»), alla fine, hanno finito per avere esclusivamente una funzione narrativa, più che documentaristica. Ogni volta che l’immagine di MJ è stata messa in discussione, nel racconto è stata riabilitata dalla retorica del “Quella cosa lì mi ha dato ancora più forza per vincere”. Ed è stato un continuo per tutto il corso della docu-serie, al limite dello stucchevole.

Tutte le questioni più controverse di Jordan, visto che di fatto non si è parlato esclusivamente dell’ultimo anno dei Bulls, avrebbero magari avuto bisogno di un respiro ben più ampio, più profondo. Non un semplice espediente per mantenere alta la tensione del racconto.

Esemplare, poi, è il discorso che ruota attorno a Jerry Krause. L’ex GM dei Bulls è scomparso tre anni fa. Quindi non ha avuto modo di poter controbattere alle accuse di Michael Jordan. L’immagine che abbiamo di Jerry Krause è quella di Michael Jordan, della sua percezione della storia: una visione fastidiosamente parziale. A passare è l’idea che Krause sia una specie di sadico diavolo egocentrico che faceva le cose un po’ a caso – e infatti Toni Kukoc ha avuto da ridire sulla gestione dell’argomento e, solo nel finale, Scottie Pippen, in zona Cesarini, lo riabilita definendolo il miglior GM della storia.

Il racconto che esce fuori in The Last Dance è, dunque, qualcosa di troppo sbilanciato su un versante, la celebrazione del singolo sul collettivo. In definitiva, la ricerca continua di antagonisti (Isiah Thomas, per esempio) con cui gonfiare ancora di più l’ego spropositato di Jordan, rende The Last Dance più simile a una saga tipo Star Wars e non a un documentario vero e proprio.

Possiamo dirlo, allora: Michael Jordan, quantomeno nella sua dimensione sportiva, è un bullo. Da questo possiamo partire per riflettere se certi atteggiamenti tirannici possano essere tollerabili. E fino a quanto possiamo risponderci: beh, ma è Michael Jordan, lui se lo può permettere. È una risposta, questa, che va in automatico e che è il riflesso di un modo di intendere il successo come un percorso lungo il quale avere atteggiamenti del genere sono accettati nel nome stesso dell’avercela fatta.

L’arrivare in alto si tramuta, spesso, nel termine predestinato, relegando in qualche modo al divino una responsabilità che è solo umana. Michael Jordan incarna pienamente tutto questo. Se raggiungi l’obiettivo, hai il diritto di trattare gli altri sostanzialmente come fossero spazzatura. E finisce per passare che sia giusto così.

Questo ci pone di fronte a una questione che lega lo sport alla vita. E di quanto spazio ci sia tra lo sportivo e l’essere umano. Se, all’interno dello sport, certe situazioni possano essere giustificate in quanto sport, e quindi altro dalla vita stessa. Ma lo sport è un modello popolare, attraverso il quale si possono plasmare le abitudini degli esseri umani.   Siamo sicuri, dunque, che veicolare messaggi del genere sia accettabile?  Perché lo sport professionistico, persa l’accezione romantica di Decoubertin, è un riflesso della società, da cui riesce a prendere il peggio se portato ad altissimi livelli e, con lavori mainstream come The Last Dance, a rivomitarlo nella società. Un circolo vizioso difficile da spezzare.

Michael Jordan ha fatto fare un upgrade al tutto, facendo raggiungere allo sport un punto mai raggiunto prima e a cui neanche lui è sempre riuscito a stare dietro.

La retorica di Jordan del “Quello mi ha fatto quello, ora lo punisco” “Quello non mi ha fatto quello, ora gli faccio vedere chi è il più forte” ogni qual volta che qualcuno ponesse qualche dubbio su di lui, fa spavento per quanto sia netta e decisa, metodica. Meccanica è forse il termine più esatto. Con The Last Dance capiamo una cosa su Michael Jordan: dietro l’immagine pulita che veniva data in pasto al pubblico, c’era (e c’è) un universo contraddittorio, fatto di rinunce, di distanze. L’enorme contraddizione tra il mercato, il mito e l’essere umano. È Michael Jordan stesso a farcelo capire, spesso commosso davanti alle telecamere: a farci capire quanto sia stata dura e disumana una vita del genere.

Copertina di La fossa dei peccati

Racconto di Natale

Nel 276mo reggimento fanteria c’era un maresciallo assai buono e dolce, il maresciallo Constantin. Fosse stato per lui, ciascun soldato avrebbe avuto un cavallo personale e la colazione a letto, ma capiva bene che era impossibile. Il militare non è fatto per un’esistenza di piaceri, al contrario: finisce per rammollirsi. E il dovere di un maresciallo è proprio controllare che nessuno poltrisca, che tutti rispettino la disciplina, sennò tanto varrebbe che non ci fosse l’esercito. D’altronde, se ogni fante avesse un cavallo, non si chiamerebbe fanteria ma cavalleria, e la cosa non sarebbe priva di conseguenze. È una questione di principio. Ognuno deve stare al proprio posto. Per questo il maresciallo Constantin infliggeva molte punizioni. A qualsiasi ora del giorno lo si sentiva gridare nel cortile: «Stanotte la passi in gattabuia!», oppure: «Ti metto di corvée dove sappiamo!», o anche: «Dirò al colonnello di darti quindici giorni di prigione!» Ma, a far piovere punizioni, il cuore gli sanguinava di pietà, e così gli accadeva di mormorare tra sé e sé: «Se solo potessi dormirci io, in prigione, al posto loro!» E quando non lo mormorava, lo pensava. Era un maresciallo davvero buonissimo. Puniva solo quando non aveva altra scelta, ma gli uomini del 276mo non capivano che lo faceva per il loro bene. Dicevano di non avere mai visto un mastino come il maresciallo Constantin, e lui, che di tanto in tanto orecchiava questi discorsi, ci restava così male che la sera, nel letto, non riusciva a trattenere le lacrime. Pensava che i galloni del maresciallo fossero difficili da portare, molto più di quelli del capitano o del comandante.
La testa calda del 276mo era senza dubbio Morillard. Rispondeva ai superiori, non si curava di pulire la ruggine dal fucile, leggeva giornali sovversivi, scriveva «Abbasso l’esercito» sui muri della caserma, usciva senza permesso, tornava ubriaco fradicio e qualche volta restava fuori tutta la notte. E poi, bisogna dirlo, era il più assiduo frequentatore del numero 8 di rue du Vert-Vert; ma su quel che faceva laggiù preferiamo soprassedere. Una sera il caporale Meunier l’aveva accompagnato, e raccontava che era una cosa impossibile da immaginare se non si aveva già una certa esperienza.
A volte, dopo aver lanciato una bestemmia di prammatica, il maresciallo Constantin minacciava Morillard di fargli sputare sangue, ma era un modo di dire, che serviva più che altro a fargli venire un po’ di strizza. In realtà sperava che quella testa calda finisse la leva al più presto, prima di mettersi nei guai per una qualche bravata. E Morillard, d’altronde, non aveva meno fretta del suo superiore, poiché non si fidava di se stesso, né delle sorprese che gli riservava il domani. «Non vedo l’ora di andarmene» diceva. «Figuriamoci se rinnovo la ferma. È più facile che mio zio diventi un maiale!»
Eppure Morillard rinnovò la ferma a un mese dal congedo. Ecco cos’era successo: al numero 8 di rue du Vert-Vert era arrivata una stangona più bionda che mai. Si chiamava nientepopodimeno che José. Perfino i suoi occhi erano biondi, e così dolci e ardenti che le bastava uno sguardo per divorare il cuore di un uomo. Nella guarnigione si era fatto un gran parlare del suo arrivo. Anche gli ufficiali che per distrarsi non avevano bisogno di ricorrere ai servizi delle professioniste andavano a trovarla al numero 8. Lei si limitava a fare quel che doveva, e con aria distaccata. Ci sono donne che non subiscono il fascino della divisa. Fin dalla prima settimana José aveva notato Morillard, ed era per questo che lui aveva rinnovato la ferma. Invano il maresciallo Constantin aveva cercato di dissuaderlo, spiegandogli che non sarebbe mai salito di grado, e che gli conveniva cercarsi un lavoro da civile, piuttosto che rovinarsi la vita per una prostituta da caserma. Tutti i soldi se li bruciava al numero 8. E se quella, poi, se ne fosse andata dalla città, che avrebbe fatto? Avrebbe disertato? Tanto valeva dirlo subito. E, siccome il soldato non rispondeva, aveva aggiunto:
«Sia ben chiaro: se rinnovi la ferma giuro che ti faccio sputare sangue».
Ma l’aveva detto in maniera così affettuosa che Morillard si scordò la sua solita arroganza e si fece tutto pensieroso. In fondo sapeva bene che il maresciallo aveva ragione, e che non aveva senso rinnovare la ferma soltanto per inseguire fantasie da letto. Ma la decisione era presa e la sua uniforme non regolamentare era già stata ordinata. Così, congedata la classe di leva, Morillard era rimasto nel 276mo, e tutti i giorni che non passava in prigione se ne andava al numero 8 a incontrare la sua prediletta. La cosa peggiore era che José non nutriva per lui alcun interesse particolare. Non le passava neanche per la testa di chiedersi come mai lui rimanesse un soldato semplice, e quando seppe che era una pessima recluta non diede alcun peso alla cosa. Le donne di malaffare non sanno che il piacere più grande per un militare è compiere il proprio dovere.
La mattina della vigilia di Natale il maresciallo Constantin pizzicò Morillard imboscato nel deposito equipaggiamenti a scaldarsi i piedi davanti alla stufa insieme al magazziniere invece di esercitarsi nel cortile. Volle prenderla bene e per prima cosa si limitò a evocare la corte marziale. Morillard cercò svogliatamente gli zoccoli con la punta del calzettone fumante, borbottando che c’era sempre qualche faccia da cornuto pronta a immischiarsi negli affari degli altri. Visto l’approssimarsi delle festività natalizie il maresciallo fece finta di non aver sentito. D’altra parte l’espressione «faccia da cornuto», applicata a uno scapolo, non gli pareva poi un insulto così grave. Disse semplicemente, con voce severa: «Morillard, mettiti gli scarponi e scendi in cortile».
Morillard lasciò il deposito, e il maresciallo lo seguì con lo sguardo fin sulle scale. Un quarto d’ora più tardi, passando dalle cucine, lo trovò in zoccoli che faceva una partita a dama con uno dei cuochi. Pensò di non potersi ulteriormente sottrarre all’obbligo di comminargli quattro giorni di prigione, e Morillard sghignazzò: «Eccomi, pronto e vestito. Ha visto? Ho fatto bene a tenere gli zoccoli».
Il maresciallo Constantin, oltre a restare amareggiato per l’incidente, fu tormentato dai rimorsi. Erano tre giorni che, per evitare di trovarsi nella condizione di punirlo, faceva di tutto per evitare Morillard. Aveva perfino ordinato velatamente ai sergenti di mostrarsi più indulgenti del solito: «Visto che ha rinnovato la ferma per gli occhioni di quella ragazza, lasciamogli almeno trascorrere il Natale insieme a lei».
Lui stesso aveva dato prova di tutta l’indulgenza possibile. Al deposito equipaggiamenti, dov’era entrato per puro caso, avrebbe avuto almeno due buone ragioni per punirlo. Quale sergente, o quale caporale, avrebbe lasciato passare sottotraccia un epiteto come faccia da cornuto? Morillard non avrebbe esitato, un giorno o l’altro, a vantarsi della libertà che si era preso con Constantin. Del resto c’era anche un testimone, nella persona del magazziniere. Il maresciallo non poteva neppure biasimarsi per l’eccessiva severità. Quattro giorni di prigione per un rifiuto d’obbedienza erano una sanzione benevola. Tra l’altro avrebbe evitato di mettere nero su bianco il reale motivo della punizione. Avrebbe scritto, semplicemente: «Sorpreso a giocare a dama durante l’esercitazione». Il capitano, a quel punto, avrebbe osservato: «Non le pare di esserci andato giù pesante, Constantin? È solo una recluta». Ma tanto era quello il suo destino: essere odiato dai soldati e rimbrottato dagli ufficiali, che lo vedevano un po’ come un poliziotto astioso. Forse avevano ragione loro, pensava il maresciallo: che bisogno c’era di passare dal deposito equipaggiamenti e dalle cucine? Quale fiuto da segugio l’aveva messo sulle tracce di Morillard?
Poco prima dell’ora del rancio fece una rapida e distratta ispezione delle camerate. Ebbe comunque modo di notare, in una di queste, due pile di effetti personali così scombinati che parevano messi lì apposta per sfidare gli inviti all’ordine. Poggiati di sghimbescio sull’asse di legno bianco, inficiavano del tutto l’allineamento generale. Sembravano mucchi di biancheria sporca. Tanto le uniformi quanto le camicie e le mutande erano piegate a casaccio. Il maresciallo Constantin, scioccato, rovesciò sul letto la pila a portata di mano. Allora, tra gli indumenti sparsi, riconobbe la giacca non regolamentare, con le tasche a toppa, di Morillard. Fece un gesto di rammarico, poi, ricordando che Morillard era in prigione, pensò che non valeva la pena di sistemare il suo equipaggiamento. Temette però che la giacca, per come l’aveva buttata sul materasso, potesse stropicciarsi, così la sollevò con cautela e sentì il rumore di un foglio che si sgualciva. In quel momento un pacchetto sottile e infiocchettato scivolò lentamente da una delle falde. Attraverso la pellicola trasparente il maresciallo Constantin poté distinguere una camicetta da donna azzurro cielo, ricamata di ghirlande di margherite. Restò di stucco. Quello che reggeva in mano era il regalo di Natale che Morillard aveva preparato per la bella bionda e che le avrebbe dovuto portare quella sera stessa. Il rimorso si fece più intenso. Si rimproverò rabbiosamente per la propria mancanza di tatto. «Ho rinchiuso un innamorato, e per di più ora, per colpa mia, una ragazza non avrà il suo Natale». Osservò intenerito la camicetta azzurra, poi scuotendo il capo sospirò: «Che giovane dall’animo delicato. Io non ci avrei mai pensato». Cercò di capire come restituire la libertà a Morillard, ma ormai era impossibile, il capitano era già stato informato. Fece un gesto di stizza e si accusò ad alta voce: «Un maresciallo da guardia… Ecco cosa sei… Un miserabile maresciallo da guardia…»
Fu interrotto da uno squillo di tromba e si accorse che il regalo segreto di Morillard era lì, in bella vista sul letto. Con un movimento rapido afferrò il pacchetto leggero e lo rimise a posto con mille precauzioni. Quindi, per evitare che qualcuno ci infilasse le mani, fece ordine tra gli effetti della recluta e piegò uno per uno abiti e capi di biancheria. Quando ebbe finito indietreggiò di qualche passo per ammirare il proprio lavoro, ma ne restò abbastanza deluso. La sua pila era, tra tutte, quella venuta peggio, e lasciando la camerata pensò: «Certo che è meno facile di quel che sembra, ci vuole un sacco di tempo… Ma poi, a che servirà mai una pila ben fatta?»
Per tutto il giorno fu tormentato dal ricordo della camicetta azzurra con le ghirlande ricamate. Fece un tentativo disperato con il capitano affinché Morillard ottenesse il permesso di uscire, se non fino a mezzanotte, almeno per un’ora dopo il rancio serale. Il capitano non ne volle sapere: «Ma insomma, Constantin, è forse impazzito? Un soldato in gattabuia che se ne va a spasso per la città? Non si è mai visto!»
«Lo so, capitano, ma ha una biondina… o meglio, una biondona, che aspetta il suo regalo di Natale…»
«Sì, sì, ne ho sentito parlare… Ma proprio lei, Constantin, vuole fare il gioco di questo magnaccia, oltretutto andando contro il regolamento? Santo cielo, non la riconosco più! Cosa le è successo stanotte?»
«Ma niente, niente. Che vuole sia successo? Sono sempre lo stesso».
Non ebbe il coraggio di accennare alla camicetta azzurra. La sera, all’ora di cena, andò al posto di guardia e chiese di ispezionare la prigione, con la scusa di controllare che nessuno fumasse. Morillard, l’unico recluso, era già avvolto tra le coperte. Entrando, il maresciallo Constantin fu preso alla gola da un forte odore di tabacco e dovette trattenersi dal tossire. Domandò a Morillard se avesse abbastanza coperte. Il prigioniero gli lanciò uno sguardo infuriato e si girò faccia al muro, senza rispondere.
«È Natale,» proseguì il maresciallo «e diciamo che forse, in via del tutto eccezionale, potremmo… Insomma, se avessi voglia di qualcosa, o una commissione da sbrigare in città, magari per qualcuno in particolare…»
Morillard restò muto, ma il maresciallo Constantin, dopo avere chiuso la porta, lo udì sospirare a lungo.
Dalle undici a mezzanotte il maresciallo Constantin udì rientrare, uno a uno, tutti gli uomini che erano andati in città. Dalla sua stanza, che dava sul cortile, li guardava sfilare sotto la luce della guardiola e a ogni volto assegnava un nome. Li osservava attentamente, nell’assurda speranza che il detenuto fosse riuscito ad accordarsi con il sergente di guardia per scappare un’ora o due. Anche l’ultimo uomo rientrò, ma nemmeno lui era Morillard. Il maresciallo Constantin si mise a letto brontolando contro il sergente per la mancanza d’iniziativa. Non riusciva a addormentarsi e non la smetteva di pensare al prigioniero, alla camicetta azzurra e alla bella bionda che aspettava entrambi. Intorno all’una si alzò dal letto e per ingannare l’insonnia decise di fare un giro di ronda ai piani. A quell’ora difficilmente avrebbe sorpreso qualcuno che usciva, e d’altronde non ne aveva alcuna voglia. Voleva soltanto distendere un po’ i nervi. Si vestì sommariamente, indossò il chepì e prese una torcia. Arrivato al primo piano sentì un rumore di passi leggeri nel corridoio e puntò la torcia in quella direzione. Un bambino tutto nudo, con una cesta in spalla, si bloccò al centro del corridoio proteggendosi gli occhi accecati dal fascio di luce con le mani. Il maresciallo Constantin sorrise. Aveva appena riconosciuto il Bambinello di Natale. Si erano già incontrati una volta. Si avvicinò e domandò gentilmente: «Cosa porta di bello ai miei ragazzi?»
«Niente di che» rispose il Bambinello. «Sono grandicelli ormai…»
«Ma no,» protestò il maresciallo «devono crescere ancora».
«Comunque non sembrano tristi. Ho visto che hanno tutti dei bei fucili».
«Però è un po’ serio come giocattolo, no?»
«Vero, ma io non sono così ricco. Quest’anno, poi, lasciamo stare. Porto loro in dono dei buoni propositi. Ce n’è sempre bisogno. Uniscono l’utile al dilettevole».
Il maresciallo annuì.
«Certo, i buoni propositi fanno sempre comodo. Ma non è che le persone ne vadano pazze, eh. Farli entrare nella testa dei soldati è il compito del sottoscritto; non so se sia utile, ma di sicuro non è dilettevole. C’è da dire che non ho molti strumenti».
«E come fa?»
Constantin indicò il gallone di maresciallo sulla manica del cappotto e disse al Bambinello: «Eccoli, i miei strumenti. Certo, all’inizio sembra divertente…»
«Da quel che vedo lei lavora anche di notte».
«Oh! In realtà lavoro perlopiù di giorno. La notte faccio solo qualche giro di ronda. Se non tenessi sempre un occhio aperto i miei ragazzi taglierebbero la corda, e sa cosa accadrebbe? Andrebbero a donne e si beccherebbero chissà quali malattie».
«Malattie?»
Il maresciallo Constantin s’affrettò a cambiare discorso: «Mi dica, a che punto è con la distribuzione?»
«Ho ancora un pacco di buoni propositi per l’ultima camerata».
«Se vuole posso farle luce. Sarà più comodo».
«Volentieri. E così, intanto, vedrà come faccio».
Il Bambinello precedette il maresciallo Constantin nella camerata. La torcia elettrica illuminò dapprima la rastrelliera delle armi, poi un letto dove dormiva un soldato. Il maresciallo sorrise e mormorò: «È Turier, del secondo contingente. Un bravo ragazzo, sa. Sì, Turier Robert, si chiama così…»
Il piccino prese un proposito dalla cesta, lo fece scivolare sotto il cuscino del soldato e gli rimboccò le coperte con un gesto deciso.
«Pratico» disse il maresciallo. «Funziona davvero?»
«Altroché! Da quando ho iniziato il giro ho avuto modo di apprezzare l’efficacia di questo metodo. Se vuole può provare, le tengo io la torcia».
«Oh, crede che anch’io…»
«Ma certo! Ha visto come si fa, non è difficile».
Il Bambinello impugnò la torcia e illuminò il secondo letto. Il maresciallo tirò fuori un proposito dalla cesta e lo infilò sotto il guanciale di Bérignon Joseph, poi gli rimboccò le coperte da entrambi i lati.
«Ha visto, maresciallo? È semplice. E nulla le impedisce di aggiungere un proposito dei suoi. L’importante è che sia buono».
«Per stasera preferisco usare quelli che ha portato lei, sono più tranquillo così. Domani ne preparerò degli altri. È che non vorrei sbagliarmi».
Il maresciallo volle distribuire tutti i buoni propositi, e ogni volta che rimboccava le coperte a un soldato, gli sussurrava all’orecchio qualche parola gentile.
Il piccolo trovò che ci stesse mettendo troppo e lo incalzò.
«Si sbrighi. Ho ancora molto lavoro, se continua con questo ritmo farò tardissimo. Avanti, passiamo al prossimo».
A quel punto indirizzò il fascio di luce su un letto vuoto nella seconda fila, senza coperte.
«To’», esclamò «manca un soldato».
A quelle parole il volto felice del maresciallo si rabbuiò.
«È il letto di Morillard. Un bravo ragazzo anche lui, ma non ha avuto fortuna. Se solo l’avessi incontrata ieri, adesso quel poveretto non starebbe passando la notte di Natale in prigione. E poi, ci fosse solo lui di mezzo… È una storia complicata».
«Prenda comunque un proposito, glielo darà al suo ritorno».
«Sì, gliene metto uno da parte. Ma questo non risolve il problema».
Restavano ancora una decina di letti, e fu il Bambinello a occuparsene. La gioia che aveva invaso il cuore del maresciallo Constantin era scomparsa, e ora il militare era così in ansia che temeva di fare pasticci. Concluso il lavoro si salutarono sulla soglia. Il piccino già si allontanava correndo a piedi nudi, quando il maresciallo lo richiamò: «Bambinello! Bambinello! Sarebbe tanto gentile da sbrigare una commissione per me?»
«Ma certo, se non è una cosa lunga».
«Ma no, vedrà. Mi dia un secondo, torno subito».
Il maresciallo sparì nel buio della camerata e fece rapidamente ritorno con in mano il pacchetto infiocchettato. Arrossendo, disse: «È un capo delicato, stia attento».
«Dove devo portarlo?»
Il maresciallo Constantin parve imbarazzato, e glielo disse a bassa voce all’orecchio.
«Al numero 8? Si figuri che stavo andando proprio lì! Ogni anno porto un bel pacco di buoni propositi. Le ragazze mi vogliono bene. L’anno scorso c’erano Carmen, Ginette, Christiane, Lili, Marcelle, quella alta, Nana, Léo, Rirette. Ho saputo che Lili è partita per Épinal. Di sicuro José ha preso il suo posto. Stia tranquillo, sbrigherò la sua commissione».
Il maresciallo Constantin lo guardava in adorazione, con le mani giunte. Il Bambinello infilò la camicetta azzurra nella cesta, aprì la finestra e si librò fuori. Quando ormai era in volo Constantin si affacciò nella notte e gridò: «Mi raccomando, le dica che è da parte di Morillard!»
«Va bene, ricevuto! Stia tranquillo».
Il Bambinello prese quota, ma prima di planare verso il numero 8, infilò la mano nella cesta e fece nevicare alcuni fiori del paradiso sul chepì del maresciallo Constantin, che scoppiò a ridere in pieno dicembre.

 

 

“Racconto di Natale” è tratto dalla raccolta di racconti La fossa dei peccati di Marcel Aymé , pubblicato da L’orma editore.

 

Marcel Aymé (1902-1967) è considerato uno dei massimi scrittori fantastici europei e tra le personalità più originali prodotte dalla cultura francese del Novecento. Nato in un ambiente contadino, le fitte letture e i casi della vita lo portano a Parigi, dove nel 1926 pubblica il suo primo libro. Autore prolifico e controverso, sornionamente inclassificabile, ha scritto romanzi, opere teatrali, sceneggiature e saggi, ma sono stati i suoi racconti, dalla spiccata vena umoristica, a renderlo amatissimo in tutto il mondo e a farne un maestro – anche suo malgrado (rifiutò la Legion d’onore e la candidatura a entrare nell’Académie française) – per generazioni di scrittori.
In La fossa dei peccati il lettore troverà testi inediti in italiano e una nuova traduzione de L’attraversa-muri, il più celebre racconto di Aymé.

La fossa dei peccati: Nel mondo di Marcel Aymé le cose non vanno mai come ci si aspetta. Del tempo, per esempio, c’è poco da fidarsi: può capitare di ritrovarsi invecchiati di diciassette anni in virtù di un decreto sconsiderato, oppure fare la fine di quell’innamorato che viveva solo un giorno su due, peraltro struggendosi al pensiero delle voluttà perdute nelle ore in cui non esisteva. E mentre a Montmartre salta fuori che esistono quadri in grado di parlare letteralmente alla pancia delle masse, la polizia di Parigi è messa in scacco da un fantomatico ladro che passa attraverso i muri senza battere ciglio.
Muovendosi da consumato improvvisatore sul- lo spartito del fantastico, Marcel Aymé imbastisce una realtà indisciplinata, sempre sulla soglia dell’impossibile, descrivendo con bonaria e divertita partecipazione le bislacche traversie di uomini d’improbabile eccezionalità.
Dai racconti de La fossa dei peccati – scritti anche per «dimenticare i giorni amari del mercato nero, dell’anarchia, della corruzione, delle tessere per qualunque cosa, della fatica e dello scoramento» – emerge in tutta la sua incontenibile leggiadria il talento mordace e spiazzante di un maestro d’invenzioni e fumisterie.

 

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immagine di Herbert Lawrence

Questo inguaribile bovarismo: Flaubert nell’opera di Herbert Lawrence

Dall’accusa di immoralità e oscenità a una centrale presenza femminile, dalla compulsiva revisione  e diverse stesure d’autore fino alla definitiva pubblicazione: questi sono gli elementi che accomunano l’opera epocale di Gustave Flaubert, Madame Bovary (Feltrinelli, 2014) e quella sensuale di David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley (Feltrinelli, 2013). Tanto distanti nel tempo eppure convergenti nelle figure delle due protagoniste: Emma Bovary e Costance Chatterley.

Cosa hanno dunque in comune una infelice sognatrice borghese ebbra delle proprie letture e una contessa soffocata dal proprio titolo? L’insoddisfazione è certo il primo punto d’incontro. Proviene dalla catastrofe del matrimonio, dalle aspirazioni deluse, dal rovinoso infrangersi dell’utopia. Emma, ferita dalla prospettiva che la propria unione con un medico di provincia non prospetti alcuna avventura romantica né ascesa sociale, sembra ri-sbocciare nel novecentesco profilo di Lady Chatterley, sposata senza amore estranea a un uomo impotente per una ferita di guerra che soffoca il suo carattere fiero e progressista. Intrappolate in convivenze infelici, finiscono per dar nome alla propria epopea romanzesca crocifisse al cognome ricevuto dal marito. Spose e non più donne, senza spiragli di individualità, trascorrono esistenze succubi della loro condizione.

«Da dove veniva, dunque quella insufficienza di vita, quella istantanea marcescenza delle cose a cui si appoggiava? […] tutto era menzogna! Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il disgusto, i migliori baci non lasciavano sulle labbra che l’irrealizzabile desiderio di una voluttà più alta».

La dimensione sociale che entrambe le donne vivono racconta una struggente peculiarità: la desolazione, l’inerzia, il pallore mortale, le lozioni per il sonno. Emma è asfissiata dalla piatta ordinarietà di Charles Bovary che come in una parabola si materializza nell’handicap di Clifford Chatterley, snob, borioso e dai vuoti slanci narcisistici.

In assenza di brio nel matrimonio, Madame Bovary è portata a cercarlo altrove in relazioni con molteplici amanti, conti e giovanotti: un’avventura sentimentale altro non dimostra che una disperata ricerca di stimoli per sfuggire alla mediocrità e evadere da una vita incatenata al marito e alla figlia. Allo stesso modo Constance si trova a fronteggiare una tempestosa passione per il guardacaccia Oliver Mellors, passione sostenuta da un desiderio istintivo ritenuto trasgressivo ai limiti della moralità collettiva.

La tematica amorosa è qui di certo trattata con toni differenti dagli autori: dove, Flaubert con il suo stile maniacalmente curato tratteggia l’amplesso, Herbert Lawrence sfida i tabù di tempi appena più permissivi, descrivendo scene di spiccato erotismo. L’autore dell’Amante di Lady Chatterley non risparmia dettagli al lettore, dimostrando un primo distacco dal suo maestro francese: l’eros nella sua forma più sanguigna viene qui dipinto come valida cura a una vita di oppressione. In accorati monologhi in difesa della sessualità Lawrence calca un tema appena accennato in Flaubert, talvolta sfiorando l’edonismo.

Il sesso è in grado di far rifiorire una donna, è in grado di sanare la psiche e innalzare l’individuo a una dimensione di piena realizzazione. Così nella sua relazione con Mellors, Constance Chatterley emerge dall’oscurità, si manifesta caratterialmente: il suo personaggio a circa metà del romanzo si mostra infine nudo e vivo agli occhi del lettore.

 

 

Flaubert sfiora un simile vertice di pathos negli ultimi capitoli del romanzo. Emma Bovary a differenza di Constance, non trova reale soddisfazione tra le braccia sfuggenti dei suoi amanti, abbandonata alla sua infelicità finisce per precipitare fragorosamente sul granito della realtà fino all’ultima caduta più rovinosa: i desideri infranti, una vita avventurosa agognata e negata, il rifiuto degli stessi amanti al suo grido di aiuto, condurranno Emma alla disperazione tanto da trovare rimedio in una morte lenta e straziante. Neanche la grigia dedizione o le arti mediche di suo marito possono nulla contro quella fame insaziabile e insaziata, quel senso di vuoto interiore proprio non solo dell’animo femminile ma dell’umanità tutta.

Emma Bovary quanto Costance Chatterley non cercano l’amore fine a se stesso bensì una speranza di affermazione nella nelle rispettive società, quella francese del 1856 e quella inglese del 1928, che le ha volute incomplete e accomodanti, dando loro solo l’impressione di una possibilità di scelta. La meta finale in entrambi i casi è quella della ricerca di un appagamento, di una vera ragion d’essere. Quella di Emma, scoperta prima attraverso le letture e compiaciuta da liasons tempestose e sofferte, epiloga nella morte: così Flaubert, figlio del suo tempo, sardonicamente avverte il lettore dell’impossibilità di successo in questa ricerca, compatendo e stigmatizzando allo stesso tempo la sua protagonista.

Non c’è dubbio che Herbert Lawrence abbia ripreso le fila di Madame Bovary, ma nella sua opera si approccia alla materia con spirito diverso: la ricerca di una ragione di vita porta a un risultato ed è insito nella potente riscoperta della sessualità. Con questa chiave di lettura le donne del suo secolo potranno reinterpretare il proprio ruolo e guadagnarsi il diritto a un’esistenza piena, da protagoniste, distanti da qualsiasi tipo di sterilità affettiva incarnata in questo contesto dal personaggio di Clifford Chatterley.

I due romanzi finiscono così per deragliare violentemente verso due finali divergenti e con soluzioni controverse. Eppure resta evidente come dalle ceneri di Emma Bovary nasca una nuova eroina pronta alla battaglia, investita dalla modernità del secolo cui appartiene. Se vogliamo leggere le somiglianze tra le protagoniste, infatti nulla ci vieta di vedere in Costance Chatterley una vittima di bovarismo, ma che, infine, non senza complicanze, ce l’ha fatta.

 

(Articolo di Elisa Bisson)

La grandezza di Perfume Genius

Difficile parlare di uno come Perfume Genius. Difficile parlare di uno che, di fatto, non ha sbagliato un album negli ultimi dieci anni. E Set My Heart On Fire Immediatly non è da meno, anzi. Risulta quasi fastidioso, Perfume Genius. L’ascoltatore è nella posizione scomoda di non riuscire a trovare un negativo che possa anche solo minimo controbilanciare la dose enorme di positivo da cui viene travolto ascoltandolo. Ci si ritrova a parlarne come di un’agiografia, una specie di testo sacro. Perfume Genius risulta qualcosa di non umano nel suo andare a insinuarsi negli angoli più oscuri della farraginosità dell’essenza umana.

Non c’è molto da dire: Perfume Genius ha scritto una serie di album che ti fanno saltare dalla sedia. Un concentrato di ecletticità, di intimismo introspettivo, doloroso e viscerale, che va a fondersi, senza alcuna patina retorica e stucchevole, in questioni civili. Perfume Genius, al secolo Mark Hadreas, omosessuale, ha trovato nel corso degli anni il mezzo per veicolare il proprio messaggio. Un messaggio tanto potente quanto necessario: ognuno è libero di esprimersi nel modo in cui crede. Ed è questo che, poi, emerge a ogni suo lavoro. L’enorme libertà artistica, fuori da schemi preconfezionati, grazie alla quale è uno degli artisti necessari degli anni ’10.

Il suo nuovo Set My Heart On Fire Immediately è l’ennesima riprova dell’eccezionalità di un artista che ha saputo mutare costantemente, alzando ogni volta il tiro. Bellissime linee melodiche che coesistono con dissonanze che lì per lì spiazzano, ma che fanno parte di una coerenza che arriva ascolto dopo ascolto, rendendo quest’album sorprendente nella sua densità. Il glam pop barocco, che sa di glam anni ’70 senza essere posticcio, un glam rivisitato e attualizzato, contestualizzato agli anni ’10 e pronto ora ad aprirsi al nuovo decennio. In questo c’è l’essenza di un artista che ha una sua idea. Un’idea forte metabolizzata nel corso degli anni. Ma soprattutto un’idea onesta. Set My heart On Fire Immediately non è un ricalcare goffamente con una matita spuntata qualcosa fatto da altri.

La questione LGBTQ+ oggi è meno prevaricatrice, ma sempre importante e perno del suo discorso. Tutto l’impianto musicale che è stato costruito in Set My heart On Fire Immediately è lo scenario migliore che sia riuscito a pensare e a disegnare nel corso degli anni, che va a superare anche quello decisivo dell’ultimo No Shape, portandolo a esplorare luoghi irraggiungibili, descritti con intelligenza e sensibilità fuori dal comune.

Dentro Set My Heart On Fire Immediately ci si perde, camminando lungo un percorso fatto di sonorità che mutano costantemente. Un pop barocco, oggi, ancora più controllato. Ballate che sanno di una sacralità mai sperimentata prima (“Whole Life”) che si incontrano con un power pop sui generis (“Nothing At All”), in un ecosistema dove riescono a coabitare elementi differenti, accomunati dall’intento di essere ognuno singolarmente parte di un discorso più ampio che l’artista di Seattle ha bene in mente. L’idea di fondo, alla fine, è che con quest’album, Perfume Genius sia riuscito ad arrivare, se non a un momento di maturità, a un passo decisivo della sua carriera. Un crocevia che segna un punto nevralgico.

Al suo interno troviamo come sempre l’enorme ispirazione derivata dall’ascolto di Antony and the Johnson, con cui condivide sensibilità vocale e di intenti, nella sua modulazione, il tocco leggerissimo, capace di generare attorno a sé una scia di intraducibile che è la misura della propria grandezza. In Set My Heart On Fire Immediately, la voce di Mike Hadreas è una gemma che tiene coesa tutta l’architettura strumentale che si erge alle sue spalle.

Set My heart On Fire Immediately è uno splendido musical della coscienza, dove passione e ragione riescono ad andare avanti insieme senza intoppi. Ritroviamo anche riflessi dei Low: quella capacità di sospendere il tempo nella musica, le pause, i silenzi e quella suggestione di indicibile di cui il gruppo americano è narratore esemplare.

Il nuovo decennio di Perfume Genius si apre, dunque, nel migliore dei modi possibili. Se gli anni ’10 sono stati i suoi anni, immaginare come potrà evolversi la carriera dell’artista di Seattle è un auspicio elettrizzante. È difficile dirlo, come è difficile dire qualsiasi cosa attorno a lui, e forse prematuro: Set My Heart On Fire Immediately è, oggi, il suo miglior album.

Copertina di Permafrost di Eva Baltasar

La proiezione del mondo che è dentro di noi

Permafrost di Eva Baltasar (Nottetempo, 2019) è un romanzo viscerale e riflessivo. Un estenuante flusso di coscienza, di pensieri e confessioni, segue il ritmo cantilenante di un “io narrante” emotivamente instabile e a tratti sproloquiante.

Con urgenza drammatica (Baltasar è una poetessa), in cui ricordi dolorosi e pensieri di morte trovano ampio spazio, l’autrice lavora sulla materia dell’umano esistere, sulle sue miserie e sulle sue rare meraviglie (dagli innamoramenti all’affetto per la piccola nipote).

In questo libro, Baltasar parla della sua vita, del suo essere una donna fragile e insicura, del suo essere fisiologicamente incompatibile con il mondo, del suo sentirsi esclusa da tutto e da tutti, specialmente per i suoi orientamenti sessuali. Con le donne di cui si innamora il contatto è ustionante, a volte drammatico, altre volte, nega sé stessa facendosi ombra con le sue amanti.

La protagonista, alter ego della scrittrice, ha sempre la sensazione di vivere fuori centro e fuori tempo: «A ventitré anni credi che sia troppo tardi per tutto. Solo a quaranta ti accorgi che sei ancora in tempo, se non proprio per tutto, almeno per quello che ti sta a cuore».

Eva è la rappresentante di una generazione che stenta a trovare il suo posto all’interno della attuale società liquida, dove tutto è destinato alla rapida obsolescenza, comprese le emozioni, e al tempo stesso ha un modo tutto suo di criticarla. La sua personale forma di protesta sarebbe, nelle sue intenzioni, boicottare la vita con il suicidio, il cui pensiero la sfiora a più riprese, ma la cui realizzazione è frenata, ora dal timore grottesco dei tragici esiti che il suo gesto potrebbe provocare (lanciandosi dal balcone, ad esempio, potrebbe schiacciare un gatto che, ignaro, si trovasse a passare in quel momento proprio lì sotto), ora dalle bizzarre giustificazioni e scuse che dà a se stessa per differirlo.
Ma per Eva morire, più che iniziare veramente a vivere, diventa un imperativo categorico: «Non che io voglia morire, io devo morire! È la mia certezza. La vita appartiene agli altri, l’ha sempre fatto.»

L’ironia diventa qui uno strumento di salvezza. Lo stile leggero e ironico con cui Baltasar mette in scena il suo “io” scorticato, provocatorio e diviso, è puntellato da battute caustiche, senza mai cedere ai toni cupi. Ne emerge un amaro fondo autobiografico, quello di un personaggio femminile disadattato e inquieto, risentito nei confronti della famiglia d’origine, in particolare della madre.

Per difendersi dalla durezza della realtà, quando si rende conto di star perdendo la propria anima, Eva frappone fra sé e gli altri una corazza, il permafrost del titolo, che la allontana dalle cose e dal coinvolgimento del mondo: «Il dubbio, la crepa attraverso cui si infila il calore del mondo, sfrontata violazione del permafrost.»

Al centro del romanzo ci sono la psicologia umana e un’idea tragica dell’esistenza come una costellazione di piccoli o grandi drammi quotidiani. La felicità è un lungo, rischioso e spesso infruttuoso viaggio alla ricerca di sé: «Nella mia persona abitano perennemente delle inquiline in fedecommesso: la figlia, la sorella, l’amica, l’ex studentessa universitaria, la vicina, la lettrice, la zia, la proprietaria, la cliente, l’utente, la persona sicura, quella insicura, ecc. Tutte queste barbare convivono e rivaleggiano con la lesbica che è in me».

Permafrost è la proiezione di una psiche allucinata ma anche della pluralità dei mondi che abitano dentro ciascuno di noi.

 

(Eva Baltasar, Permafrost, tra. di Amaranta Sbardella, Nottetempo, 2020, pp. 128, euro 16, articolo di Chiara Gulino)