Copertina di Turbolenza di Szalay

Le geografie umane di David Szalay

Voli intercontinentali, trasferte lampo, coincidenze, scali. Dopo Tutto quello che è un uomo, con Turbolenza (Adelphi, 2020) David Szalay torna a indagare la geografia esistenziale attraverso alcuni dei temi che sembrano ossessionarlo maggiormente: la globalizzazione, i rapporti tra persone in un mondo all’apparenza senza confini né limiti, il jet lag psicologico dell’individuo contemporaneo.

Turbolenza è composto da dodici racconti brevissimi, ognuno dei quali monitora lo spostamento di un personaggio da una città all’altra, rigorosamente per via aerea. Londra-Madrid, Madrid-Dakar, Dakar-San Paolo, San Paolo-Toronto. La struttura circolare progettata dall’autore allaccia il protagonista di un racconto a quello successivo in un frenetico passaggio di testimone che trova la sua chiusura nell’ultimo capitolo, quando un uomo malato di cancro torna nuovamente in gioco dopo essere apparso nelle prime pagine.

Ciò che interessa Szalay – scrittore di passaporto canadese ma dalle evidenti origini ungheresi, finalista con il suo precedente libro al Man Booker Prize – è documentare la reazione di uomini e donne di fronte alla loro “turbolenza”, quell’evento, minimo o cruciale, nel quale un individuo vede vacillare le proprie certezze: «In un modo o nell’altro era sempre un momento di profondo stupore, quando il muso si sollevava e l’aereo si staccava da terra – o meglio, quando la terra dava l’idea di precipitare sotto di lei».

«Era uno di quegli avvenimenti, pensò, che fanno di noi ciò che siamo, per noi stessi e per gli altri. Cose che sembrano succedere così, senza un motivo, e invece poi restano lì per sempre, e a poco a poco ci accorgiamo che ci hanno segnati, che niente sarà mai più come prima».

Cosa ci potrebbe essere di più straniante dello svegliarsi in una camera d’albergo di Dakar per poi concludere la serata nell’appartamento di una donna appena conosciuta su Tinder a San Paolo? Eppure, i personaggi di Szalay apparecchiano la loro quotidianità su questa superficie irregolare, convinti di poter amministrare, anche e soprattutto grazie al supporto di una tecnologia onnipresente e oramai irrinunciabile, la coesistenza di più vite in simultanea.

In certi casi, questa situazione di costante instabilità genera una tensione trattenuta, pronta a esplodere alla prima turbolenza, in altri, un senso di alienazione e di disorientamento sfibra i rapporti più stretti, riducendoli a un tepido scambio di battute sulla qualità del volo o sulla lunghezza del viaggio. In molte occasioni si osserva come sia «facile, oggigiorno, comprare un biglietto aereo, viaggiare», più difficile appare tornare sulla terra ferma, incontrare dopo molti mesi un fratello al quale chiedere indietro i soldi di un prestito, un padre malato al quale annunciare il proprio matrimonio con un rifugiato siriano, una figlia che ha appena partorito un bambino cieco.

Turbolenze che mettono a dura prova l’integrità degli individui, il cui primo pensiero è quasi sempre lo stesso, prendere di nuovo un aereo, scappare: «Avvertì la propria inadeguatezza di essere umano, e la cosa che desiderò maggiormente fu andarsene».

Per quanto la cifra letteraria sia la medesima di Tutto quello che è un uomo, in Turbolenza Szalay pare soffrire la struttura da lui stesso ideata (il progetto nasce in origine come podcast per la BBC). Il passaggio di testimone tra personaggi rimane un espediente, peraltro già molto utilizzato, mentre la brevità dei racconti lascia spesso un’impressione di incompiutezza.

Ciononostante, Szalay conferma la sua grande capacità di raccontare una storia per piccoli frammenti, catturando, attraverso gesti, silenzi, dialoghi, la pressione esercitata dalla società globale sulla vita dei singoli, quasi a ricordarci, come recita una citazione di Kennedy incorniciata nel bagno di uno dei protagonisti, che «ciò che ci unisce è che abitiamo tutti questo piccolo pianeta, respiriamo tutti la stessa aria, abbiamo tutti a cuore il futuro dei nostri figli. E siamo tutti mortali».

 

(David Szalay, Turbolenza, Adelphi, 2020, trad. di Anna Rusconi, 128 pp., euro 15, articolo di Martin Hofer)

 

Anniversario della rivista flaneri

Dieci anni di
«Frastuoni e Visioni»

Esattamente dieci anni fa, il 18 maggio 2010, Flanerí andava online per la prima volta. È curioso e benaugurante celebrare questo anniversario proprio oggi, nel giorno in cui l’Italia riparte, dopo più di due mesi di isolamento – due mesi fra i più anomali e silenziosi degli ultimi decenni.

Allora ci facemmo ispirare da una celebre poesia di Rimbaud, Partenza, una bussola luminosa con cui tracciare il nostro percorso, che speravamo lungo e proficuo.

A dieci anni di distanza, poter dire di essere ancora in cammino è forse la soddisfazione più grande. Così come l’aver tenuto fede all’impegno che ci eravamo presi, di dare voce alle realtà e alle storie più interessanti, a ciò che colpiva con merito la nostra attenzione, senza vincoli o scelte d’interesse.

In tutto questo tempo abbiamo parlato di migliaia di scrittori e di libri, di album discografici e di film, abbiamo partecipato a festival e incontrato persone da tutto il mondo. Lo scorso anno abbiamo festeggiato effe #10 e tra poche settimane, con qualche ritardo imposto dalla pandemia, pubblicheremo il numero 11 – il primo volume di una nuova decade. Poi in autunno uscirà l’antologia di racconti sportivi in collaborazione con la casa editrice 66thand2nd.

Alcuni progetti ulteriori si sono interrotti per il momento – avevamo in programma di organizzare una grande festa quest’anno, discutevamo dell’idea proprio mentre il virus cominciava a circolare, senza che ce ne accorgessimo –, altri vedranno la luce già dai prossimi mesi. I nostri buoni propositi non finiscono di certo, mossi dalla convinzione di poter fare ancora di più e meglio.

Nell’attesa, ci teniamo a ringraziare tutti i nostri collaboratori per la costanza con cui hanno dato e continuano a dare il loro contributo; le persone della cultura che hanno creduto in noi offrendoci spazio e permettendoci di dire ciò che ritenevamo giusto; i nostri preziosissimi lettori per la stima che ci hanno dimostrato quotidianamente in questi anni.

 

 

Visto abbastanza. La visione si è incontrata in ogni aria.
Avuto abbastanza. Frastuono delle città, la sera, e al sole, e sempre.
Conosciuto abbastanza. Le decisioni della vita – O Frastuoni e Visioni!
Partenza nell’affetto e nel rumore nuovi!*

*(Arthur Rimbaud, Opere, trad. di Ivos Margoni, Feltrinelli, 1964)

 

Poster di Favolacce su Flanerí

Favole del tempo materiale

Nel 2018 i gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo portano al Festival del cinema di Berlino, nella sezione “Panorama”, la loro opera prima, La terra dell’abbastanza, che in Italia ottiene un buon incasso e vari riconoscimenti. Due anni dopo tornano a Berlino con Favolacce, questa volta in concorso, e vincono l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. Breve ma notevole il curriculum da registi di questa coppia di artisti romani.

Favolacce sarebbe dovuto uscire in sala ad aprile, ma l’eccezionalità della situazione ha convinto Vision a distribuirlo on demand su più piattaforme di streaming dall’11 maggio. Una perdita per gli amanti del cinema, senz’altro, ma viste le premesse dell’esordio c’era anche una palpabile attesa per questo secondo film (che, parafrasando Caparezza, sappiamo essere “sempre il più difficile nella carriera di un artista”). 

Entriamo nella narrazione con l’artificio del manoscritto, un diario di una bambina, che la voce narrante (Max Tortora) ci dice di aver trovato e continuato quando questo si interrompeva bruscamente. Protagoniste del diario sono alcune famiglie di un sobborgo residenziale alle porte di Roma: genitori e bambini, giardini, polo, barbecue e invidia e malessere chiusi nelle quattro mura. C’è un respiro da Southern Gothic che permea tutta la pellicola (e il richiamo a certe ambientazioni della provincia americana è evidente specialmente nella casa prefabbricata del più indigente tra i nuclei familiari rappresentati), ambientata in una lunga estate che ha il rumore di fondo del litorale romano, come hanno detto gli stessi registi.

È un film fatto di scene brevi e sospese, ognuna idealmente una pagina di diario, giustapposte magistralmente per passare da un momento all’altro e comunicare quello che si vuole comunicare senza approfittare della pazienza dello spettatore (98 minuti la durata totale). Si stringe spesso sui volti dei protagonisti (ottimi, con Elio Germano in testa), e tanto basta a dirci e farci provare tutto. Anche perché non si parla molto in questo film, e quando lo si fa si biascica. I dialoghi veri e propri sono rari, il resto sono ordini e opinioni imposte.

Un tema fortissimo che emerge, e su cui siamo specialmente invitati a riflettere, è quello dei ruoli di genere degli adulti, in queste famiglie in cui i padri vivono come un’umiliazione dover rasare i capelli con la macchinetta alla propria figlia femmina per i pidocchi e le madri lavorano e perlopiù tacciono. Le dinamiche messe in scena seguono, senza mai sgarrare e senza mai apparirci forzate, un copione immutato da decenni: padri che scambiano commenti osceni su altre donne; madri che preparano il ciambellone; padri che provano orgoglio a insegnare ai figli a guidare; madri che spiegano il nervosismo con il ciclo.

Poi ci sono i bambini, che subiscono la violenza esistenziale dei loro genitori e cercano la loro strada nella sessualità e nel mondo, prima di finire inevitabilmente omologati o di trovare una via d’uscita definitiva. Sembrano essere gli unici che pensano e si interrogano, i bambini, credibili come è raro vedere e perciò diretti alla perfezione. Ed è forse proprio in seguito a queste riflessioni che a un certo punto si accordano per far saltare in aria il microcosmo in cui sono capitati, quasi fossero la cellula terroristica di undicenni di Il tempo materiale di Giorgio Vasta, ma senza politica, i tempi sono cambiati.

La dote principale dei fratelli D’Innocenzo è avere una valanga di idee e l’intelligenza per farle brillare. Basta sentire una loro intervista per percepire un’acutezza fuori dal comune, oltre a una simbiosi tra loro quasi soprannaturale e una vera passione per il cinema. Alla sensibilità per il reale, già mostrata ne La terra dell’abbastanza, in Favolacce aggiungono anche la capacità di giocare con l’intreccio in maniera arguta, spiazzante, una capacità propria di Hollywood e ancora poco penetrata da queste parti.

Ci sentiamo di continuare a scommettere su questi due cineasti, perché si stanno costruendo una strada originale che sembra destinata ad arrivare molto in alto. Con Favolacce hanno portato nelle case degli spettatori un’opera di grande cinema. La prossima volta sarà davanti al grande schermo.

(Favolacce di Damiano e Fabio D’Innocenzo, drammatico, 2020, 98’)

copertina di Tuzzi Nessuno rivede itaca Romanzo

Tragedia avvolta da divertissement

Esistono libri in cui la trama è solo una scusa per entrare nel vivo di ciò che si vuol davvero dire. È il caso di Nessuno rivede Itaca di Hans Tuzzi (Bollati Boringhieri, 2020): Tommaso, un musicista borghese fiorentino, incapace di avere relazioni durature con le donne (si è sposato, però, una volta, e dal matrimonio è nata una figlia, amata e ormai lontana), riceve dopo il suo cinquantesimo compleanno una busta da Massimo, scrittore gay coltissimo, amico di famiglia e suo mentore, morto poco tempo prima. All’interno ci sono cartoline, lettere, ricordi di vario tipo e una chiavetta USB contenente un suo romanzo inedito. Titolo: Nessuno rivede Itaca, eponimo o omonimo del romanzo di Tuzzi.

Comincia così un lungo confronto tra i due protagonisti; una complessa riflessione formata da un mosaico di ricordi diffratti, che scorrono ininterrotti. Tuzzi non racconta; gioca magistralmente con le parole, punteggia, distilla: evoca momenti personali e stralci della storia italiana; accosta aneddoti ironici e taglienti ad alte considerazioni, che arricchisce di dettagli ma non ama sciogliere: quasi un invito a esprimere la nostra opinione. Oppure – suggerisce un’altra voce dentro di me – a precipitare nell’abisso che è in noi (come direbbe Edipo re di Pasolini), a scavare nella curiositas, cercando con piacere tutte le citazioni e i riferimenti presenti nel libro; a leggere con godimento tutti i ricercati accostamenti di parole; a perdersi dentro gli inganni, che partono dal titolo: chi rivede Itaca? L’impressione è infatti quella di essere di fronte a una tragedia avvolta da un divertissement ammonitore: non fa di te un uomo di cultura il sapere le cose, ma la gioia che provi nel cercarle, affiancarle, stravolgerle. In questo senso è quasi un libro settecentesco, da opera buffa.

Ma c’è dell’altro e, se si vuole, si viene trascinati in un vortice hegeliano (o forse schellingiano) in cui a pensieri sulla cultura, l’arte, la musica, la vita, si susseguono senza tregua i ritratti dei luoghi e delle persone, delle città, delle guerre; e riflessioni sull’Europa contemporanea, mai realmente nata, e quindi, forse, incapace di morire.

Se non volutamente la trama, sono i personaggi le colonne del libro. Ed è su di loro – forse più su uno che sull’altro – che vorrei concentrarmi. Protagonista assoluto è Massimo, intellettuale archetipico, classe 1936, a metà strada tra un dandy e un flâneur; condivide con Malraux gli eccessi di vita, il fragile confine tra verità e menzogna, e il desiderio feroce di indagare il mondo. Non a caso, è allo scrittore francese che Massimo affida una delle prime citazioni che si ritrovano nel libro: «“Quando ritorni dall’Asia e trovi tutti i tuoi compagni della Nouvelle Revue Française che scrivono romanzi sull’omosessualità e a essa attribuiscono un’immensa importanza, sei tentato di dire che esistono anche altre cose”. Ecco [prosegue Massimo] per me sono sempre esistite, prima, altre cose. Ma questo non mi ha impedito di essere serenamente frocio, e assiduamente praticante».

In lui, sembrano trovarsi tracce di Pasolini: li unisce, probabilmente, l’attrazione per gli amori difficili; l’avversione per la metafora e, per dirla con Arbasino, «l’idea che una cosa in sé significhi solo sé stessa (per G. Stein: una rosa è una rosa… per Pasolini: un pompino è un pompino)». Ma non ci si inganni, a dividerli accorrono due cose essenziali: la mancanza di ironia dello scrittore romano d’adozione e l’impegno degli intellettuali in politica: «I poeti alla larga dalla cosa pubblica», sostiene, attraverso Platone, Massimo.

Estraneo a qualunque città, il protagonista dice di essere figlio della Venezia oscura e inafferrabile di Thomas Mann e di avere (usando le parole di Fenoglio) «due sangui [che] fanno dentro le vene una battaglia»: un padre mai conosciuto e una madre che «stava al di là dell’acqua, sotto il nero e l’oro dell’aquila imperiale». Si scorge, nitido, un dualismo dagli echi junghiani; una dicotomia costante che si rincorre in tutto il romanzo: due i protagonisti, due gli stili di scrittura, mentre il passato e il presente incombono e il bene e il male sottendono la realtà.

E ancora due sono, infine, le progenitrici mitiche della Grande Fortuna, opera di Dürer che troneggia nella casa avita di Massimo: essa è la dea del destino nata dall’unione della Fortuna romana e della Nemesi greca, e ricorda, con il suo corpo grave e mascolino, la forza che esercita sulle vite degli uomini.

Ma è con Clio che Tuzzi sembra ingaggiare la lotta più ardua: il passato è sempre, quasi ossessivamente, presente, perché se c’è una necessità vitale essa è quella di conservare la memoria dell’individuo, senza mai disgiungere storia individuale e storia collettiva, eventi, epoche. Sono quest’ultime, a susseguirsi impietose. È allora doveroso dar voce attraverso la scrittura «a quanti furono, e neppure una lapide protegge», perché, in fondo, «scrivere è dare udienza ai fantasmi». Ma la memoria, avverte Tuzzi, non è mai del tutto innocente: essa è «soprattutto pietà»; un faticoso esercizio di trascrizione e di occultamento di colpe ctonie, una riscrittura costante, un tentativo di afferrare le cose e i posti dopo la loro scomparsa, come ci ha insegnato Proust.

Allora – sentendo ancora l’eco della Recherche – i luoghi e il tempo abitano in noi, e negli anni rievocati da Massimo, sembra quasi di rivivere la Roma di Moravia e Soldati: i Sessanta, «l’irripetibile decennio nel quale il mondo – o almeno il nostro mondo, di occidentali privilegiati – sembrò davvero un pianeta fresco». Anni nati e cresciuti intorno a luoghi simbolo, come il caffè Rosati, in cui gli artisti trascorrevano ignari un tempo dilatato, sintomo prodromico di un mondo destinato alla fine. Anni in cui tutto era possibile, persino incontrare Nabokov a caccia di farfalle, e in cui «le donne presero a fumare per strada, come un tempo soltanto le donne perdute. Ma per altri costumi la pubblica opinione, qualunque cosa voglia significare, perdurava nell’ostracismo sociale», perché come disse Karl Kraus: «L’erotismo è una corsa a ostacoli. L’ostacolo più seducente e più popolare è la morale».

E c’è naturalmente la Milano dal cielo umido, dal profilo efficiente, con abitanti dei quali Massimo disegna un ritratto preciso e ironico. Inevitabile è la contrapposizione tra l’Italia selvaggia, bella e povera, e quella grigia della Milano ricca, che non smette di nutrirsi dei suoi stessi figli, «classe operaia triste sola e infreddolita». Figli che dal Sud arrivano già disillusi, come nel film simbolo dell’epoca, Rocco e i suoi fratelli, dietro le cui quinte, racconta Massimo, Giovanni Testori rubò per qualche momento Alain Delon a Visconti.

Ma è dell’Italia di oggi il ritratto più impietoso: paese del lavoro svilito e umiliato, della scuola castrata, delle competenze svuotate di conoscenze; dei genitori nati negli anni Sessanta che hanno cresciuto i figli a merendine e cellulari senza mai pretendere da loro uno sforzo cognitivo; paese che ha distrutto il ruolo di sentinella dalla stampa; di certa sinistra che ha contribuito allo spostamento sempre più a destra. Paese in cui nel discorso pubblico «si parla al ventre dei popoli […] e quel ventre partorisce noti mostri che si credevano estinti per sempre».

Con l’altro protagonista, Tommaso (specularmente dongiovanni: circondato da donne e amato dalle donne) la riflessione si proietta sulla musica, sulla contrapposizione tra suono e silenzio, per poi interrogarsi sul potere evocativo della melodia con l’esperienza sinestetica della nota azzurra, descritta da Delacroix nelle pagine del suo diario dopo aver sentito suonare Chopin: il latente emerge attraverso la catartica sensazione di appartenenza e di riconoscimento; come avviene nel jazz, in cui la cosiddetta blue note, riesce a far rivivere la nostalgia: esiste una musica che non crea ma attinge alla nostra memoria, esattamente come accadeva con i campanili di Proust.

Altrettanto evocativa è la digressione che si posa quasi distrattamente sul Don Giovanni di Mozart: opera avversa al silenzio, racconta Tommaso (a dimostrazione che la “leggerezza” mozartiana, criticata da Beethoven, necessita di ricchezza sonora), amatissima da Flaubert, contiene nel finale citazioni e autocitazioni, che si rincorrono, davanti agli occhi complici e compiaciuti dei due protagonisti, Don Giovanni e Leporello. La tavola imbandita, sulle note di Una cosa rara, si trasformerà nel funerale dello stesso Don Giovanni. Il destino e la morte incombono, anticipati, quasi predetti, esattamente come accade ai personaggi di Nessuno rivede Itaca, che a tratti è – ripeto – una moderna opera buffa, in cui la commistione di cose alte e leggere tanto amata da Mozart è anche il segno distintivo di questo libro (enorme è la disinvoltura con cui si passa dalla vita sessuale degli animali a Chopin; dal Chupa Chups come rievocazione del sesso orale al Faust).

L’arte può essere sì salvifica, ma ogni cosa è destinata a finire, a non tornare, a lasciarci soli e spaventati: la malattia che segna le nostre esistenze, e la morte che ci coglie sempre impreparati. Siamo in balìa del destino: «Ogni vita è quello che doveva essere», scrisse Pavese sul suo diario. Lo scrittore piemontese passò gran parte dell’esistenza a rievocare la dolcezza perduta dell’infanzia, senza riuscirci. Morì suicida come David Foster Wallace, di cui Hans Tuzzi ricorda queste parole: «siamo minuscoli e alla mercé di forze immense». Talmente potenti che non riusciamo a vederle neanche.

Sono tali forze invisibili a governare la vita, spiega Tuzzi in una delle molte pagine in stimola il nostro immaginario culturale e visivo: il musicista Tommaso è in tournée in Australia e aprendo il rubinetto nel bagno dell’albergo vede l’acqua defluire in senso antiorario. Allora ricorda una conversazione avuta a 12 anni, a tavola con i genitori, quando il padre gli parlò della forza di Coriolis. Nella sua mente di ragazzino s’era subito formata la figura di un supereroe, non sapendo, invece, che l’unica azione eroica di Gaspard Gustave de Coriolis fu quella di dimostrare una terribile verità: si può immaginare di sì, ma «non si torna mai esattamente là dove si è partiti», con buona pace di Nietzsche e dell’eterno ritorno.

 

(Hans Tuzzi, Nessuno rivede Itaca, Bollati Boringhieri, 2020, 250 pp., € 15.00 | Articolo di Gabriele Sabatini)

10 anni di High Violet

Nel 2008 i National erano in tour con i R.E.M., aprivano i loro concerti portando in giro anche il materiale dell’ultimo Boxer. A un certo punto, Michael Stipe pare avergli detto: perché non scrivete canzoni pop? La domanda del leader dei R.E.M. deve aver iniziato a girare nelle teste di Matt Berninger e compagni.

Strana domanda quella di Michael Stipe. Cosa intendeva con canzoni pop? Non erano canzoni pop neanche quelle di Boxer? Possiamo capire Alligator, ma Boxer? Probabilmente no, almeno per uno che ha costellato la propria carriera di brani squisitamente pop che sono rimasti nella coscienza collettiva. O meglio ancora, deve aver capito che i National erano un gruppo dalle potenzialità enormi, che poteva conquistare ancora maggior spazio, espandendosi senza andare a perdere la propria essenza. Possiamo immaginare, dunque, che no, la claustrofobia intrinseca di Boxer non era l’unica arma di cui disponevano i  National e che Michael Stipe avesse intuito che il gruppo di Cincinnati avrebbe potuto fare le cose molto più in grande.

Il suggerimento di Michael Stipe deve aver avuto un discreto peso sullo sviluppo dei National e su quelli che poi sarebbero diventati i nuovi pilastri. Matt Berninger lo ha detto in una recente intervista per NME: all’epoca, volevo che i National diventassero un grande gruppo, volevo raggiungere tutti. Matt Berninger voleva un pubblico sterminato. Voleva le arene, voleva essere l’headliner dei grandi festival. Perché fino a qual momento i National erano sì un gruppo dal talento cristallino, ma relegato in una posizione di nicchia.

Nonostante Boxer fosse un primo step in avanti per la loro carriera, dove a livello di qualità assoluta di scrittura si raggiunge probabilmente l’apice, è con High Violet che i National riescono a mutare pelle e a farsi conoscere nel modo in cui oggi li percepiamo. Senza vendersi, mantenendo comunque quel tocco autoriale e quell’imprinting post punk che li ha sempre contraddistinti. La cifra stilistica dei National di oggi ha origine dal passaggio Boxer-High Violet. In quel periodo i National vivevano un impeto artistico eccezionale (non senza dei problemi, come i litigi furiosi che per poco non furono motivo dello scioglimento) e nel 2010 capirono come declinarlo in modo pop.

I National si aprono completamente al mondo e raggiungono quel complicatissimo equilibrio tra ricercatezza e mainstream. Il suono si fa più ampio, muscolare. Le chitarre sono ancora più tarate, la batteria è una martello educato e leggerissimo, mentre i ritornelli sono più immediati ma non per questo ridondanti. Con High Violet i National smettono di essere una cosa bellissima per pochi e iniziano a essere una cosa bellissima per tanti.

Per rendere chiara la cifra a cui si tendeva, andiamo a vedere un altro aspetto di questo 2010. In quell’anno gli Arcade Fire escono con un lavoro fondamentale: The Suburbs. La band canadese domina senza ombra di dubbi a livello planetario. È il gruppo di punta, il massimo. Un gruppo che, ricordiamolo, solo tre anni dopo sarebbe poi uscito con The Reflektor. Nel 2010 l’indie rock degli Strokes e degli Artic Monkeys perdeva tutta la sua efficacia e gli Arcade Fire dominavano. The Suburbs confermava la spinta elegante e popolare che avevano i suoi predecessori, Funeral e Neon Bible.

Ai National mancava un brano che potesse aiutarli a fare quel balzo in là, su cui far ruotare una nuova prospettiva. In Suburbs c’era – esempio più immediato – “Ready to Start”. Qui gli Arcade Fire davano sfoggio di tutte le loro qualità e palesavano ancora una volta il motivo per cui sono riusciti a diventare gli Arcade Fire, senza rimanere un fenomeno indie isolato e di nicchia. È un brano che riesce a legare tra loro gli ascoltatori, a trascinarli e a renderli parte di qualcosa che va altre il semplice fatto di ascoltare gli Arcade Fire.  Una ritmica secca e assillante che sa quando fermarsi e ripartire, dove le chitarre si mescolano all’interno di una melodia vocale che non sbrodola mai nel banale e che si apre – qui l’intuizione fondamentale che rende i canadesi gli Arcade Fire – in un ritornello che di base non arriva mai: un esempio di canzone da stadio destrutturata.

Ed ecco che in High Violet abbiamo due brani che possono stare al passo in questa competizione: “Terrible Love” e, soprattutto, “Bloodbuzz Ohio“. Si potrebbe contestare che anche Boxer avesse dei pezzi di questo tipo, uno su tutti “Fake Empire”. Ma la traccia d’apertura, in tutto il suo essere sofisticata, pare nascondersi e non volersi sbottonare più di tanto, contemplandosi sotto l’ombra della propria bellezza . “Bloodbuzz Ohio”, invece, riesce a viaggiare su più livelli –  cosa che High Violet fa per intero -, senza paura di mostrarsi nel suo essere accessibile. “Bloodbuzz Ohio” è il pezzo di cui i National avevano bisogno: coadiuvato da un video in bianco e nero con Matt Berninger assoluto protagonista, emerge in pieno quello che i National saranno da ora in poi: creatori di brani con tutti i crismi del pop e infarciti di sbuffate rock, dove l’obiettivo principale rimane sempre quello di raggiungere il maggior numero possibile di ascoltatori.

Dal 2010 i National, dunque, con High Violet riescono a raggiungere quei livelli, mantenendo le proprie peculiarità. E questo stigma è rimasto lì da allora. Il suo successore, Trouble Will Find Me (“Sea of Love”, altro brano che incarna perfettamente il nuovo-oramai vecchio corso dei National), continua sulla stessa scia, portando in avanti il discorso di High Violet, mentre con Sleep Well Beast abbiamo la possibilità di esplorare territori più scuri, pieni di nuove contaminazioni elettroniche.

Partendo dalla prima rivoluzione Boxer, passando per la seconda e decisiva di High Violet, i  National mantengono per più di dieci anni un livello di qualità e intensità altissimi.  Non inseriamo l’ultimissimo  I Am Easy To Find, dove Matt Berninger e soci non riescono a portare avanti un’idea del tutto convincente.

High Violet rimane ancora oggi, dieci anni dopo, un miracolo di balistica. I National sono riusciti a trasformare sé stessi in qualcos’altro, senza dimenticarsi chi fossero. I suggerimenti di Michael Stipe hanno contribuito alla trasformazione di un gruppo enorme, che sul perno di un intrinseco disincanto si è aperto a mondi fino a quel momento sconosciuti.

copertina di osvaldo soriano di La pianura degli scherzi

La sfida immortale
di Osvaldo

Di lui si è detto molto. E letto molto poco. Quel poco che ha scagliato come bordi di lametta lungo vent’anni di letteratura. Contenuti a stento nell’astuccio dei suoi quarantacinque. Osvaldo Lamborghini, scrittore argentino morto appena adulto nel 1985, ha generato brevi libri di brevi pagine. Che sono stati sufficienti per imbalsamare una leggenda pronta non solo a sopravvivergli, ma a guardarci ancora oggi con occhi saettanti, con quel lampo che sfugge alla caccia e che resta bestiale. La casa editrice Miraggi Edizioni, in un’epica avventura chiamata traduzione, ci ha di recente restituito una raccolta dei suoi testi migliori intitolata La Pianura degli scherzi (2019).

E la nota dei traduttori Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto ha da subito puntualizzato il rischio. Quello di affastellare dizionari, note biografiche, aneddoti e spunti come pietre insofferenti all’incastro. E restare tramortiti da cocci che s’ignorano. È possibile documentarsi, apprendere ciò che asseriva di lui César Aira, che lo ha conosciuto senza mai riuscire a circumnavigarlo, accettando il fatto che esistessero coste aliene e intemerate sepolte sotto le lenzuola dove Osvaldo mangiava, scriveva e stemperava le sue notti.

Sappiamo che si autodefiniva una “donna con il pene”, che verniciava di rossetto la sua etero-bocca con cui ingollava psicofarmaci e alcol per fornire al suo stomaco una trama di altri appetiti. E comunque non basta a tracciarne un contorno. Non rimane che affogarci nell’acquario dei suoi scritti. Sfiorare l’ipossia a poi tornare a prendere aria. E comunque non afferrarlo mai. Ricominciare all’infinito e stordirsi di magia.

Sì, perché Lamborghini è un autore molto poco “incantevole”, ma capace di sortilegi. Le sue frasi sono emissioni proteiformi, immediate e virulente, come reazioni organiche.

Un altro elemento raccontato di lui era che non correggesse mai quello che componeva, che la forma primigenia fosse soltanto la migliore possibile, la sola pensata e rovesciata sulla carta. Tradurlo ha significato avere a che fare con detonazioni continue. Materia piroclastica e non maneggiabile. E leggerlo vuol dire altrettanta fatica. Vuol dire scontrarsi con le schegge della sua lingua classica e infernale, in grado di attingere ad ogni tipo di registro per poi sbrecciarlo e vederlo tremare. Lamborghini erode le forme espressive, le intacca, le consuma, le lascia esplodere e si diverte a giocare con i suoi residui. Imbratta ogni stanza del dire con la mattanza della sua creazione.

Alcune parole vengono invertite, rivoltate, altre coniate, altre segate a metà per rendere autonome entrambe le parti. Per tranciare la coda alla lucertola e sapere che si muoverà ancora. Per questo non è affatto semplice offrire una sinossi dei suoi testi. A bordo dei quali ci si lascia fluttuare, perché non c’è quasi nulla che sia addomesticabile, che rientri nell’involucro di un riassunto lineare.

Si inizia con La causa giusta, forse quello con l’impianto narrativo più evidente da poter agganciare. La storia tragicomica, cruenta a paradossale di un povero impiegato condannato dalle sue enormi natiche a subire umiliazioni di ogni tipo. Ma è anche la storia assurda e disturbante di una partita di calcio tra colleghi d’azienda che si converte in disastro e omicidio, tutto a causa di uno scambio dialettico preso alla lettera.

Due dei giocatori si provocano in termini espliciti, promettendosi “scherzosamente” prestazioni sessuali omoerotiche e un terzo di loro, il giapponese Tokuro, non può comprendere che si pronunci un impegno e poi non lo si assolva, perché l’onore di un uomo passa attraverso la lealtà del suo fiato. Bisogna tenere fede a quanto affermato, una volta per tutte, altrimenti Tokuro, campione conclamato di karate, sarà costretto a ucciderli. E così si scatena il grottesco, lo sconcio, l’orrido e il meschino. Ma sotto un mantello di liquame e detriti, oltre il cencio oleoso di un paesaggio molesto, si nasconde un barlume superstite, un fondo d’amore irrisolto che resta protetto fino al sacrificio. Per non permettere che sia sacrificato.

Si prosegue poi con Il fiordo, narrazione indigeribile di un’orgia ostetrica. Una partoriente viene violentata dal Signore Padrone Rodriguez mentre gli altri partecipanti sprofondano nei corpi altrui con veemenza da guerriglieri. In questo caso, come anche in altri per Lamborghini, il sesso, ingrediente possente, mostruoso, indagato ed esposto ben oltre il turpe, viene impiegato come allegoria del potere. Ogni attante di questo baccanale (e su questo lemma Lamborghini si sarebbe divertito a inframettere un trattino) rappresenta un protagonista della compagine politica di quei suoi ultimi anni. Da cui è infattibile prescindere. Di cui le immagini s’impregnano come spugne a digiuno.

I riferimenti a Perón (di cui l’autore si professava sostenitore convinto), al sindacalista assassinato Vandor, alla base di militanza delusa che non riesce a godere dalla carne orbitante, diventano la filigrana con cui approcciarsi alla scena e assaggiare il potenziale della sua rivoluzione. La sua strattonata paradossale Argentina, la sua capitale con l’«aria buona» sono sempre lì, a scalciare sugli angoli. Come si evince in ogni passo di questa raccolta. Rimanendo costantemente sul filo tra il fastidio e lo sgomento. Tra l’oltraggio e la delizia.

Il bambino proletario è un’altra perla tagliente di questa collana. Vicenda devastante di un devastato. Un perenne sconfitto dalla sua povertà. Cavia eccellente per i fervori borghesi. Bersaglio da spogliare all’altare, eletto dal mondo alla sottomissione. Tre ragazzi si avventano su di lui, lo stuprano e lo massacrano frementi dell’estasi di chi sa che avrà sempre ragione, che è così che accade il destino.

Si schiude (perché non si apre mai) lo scrigno di Sebregondi retrocede. Personaggio inquietante e luciferino, brutalmente slegato da una logica sequenza dei fatti. Marchese cocainomane e affamato di uomini («pazienza, culo e terrore non mi sono mai mancati, dice»), con un membro «falangineo» e una mano ortopedica, è protagonista di un poema in prosa, altro intrepido atto di traduzione. Fu l’editore di Lamborghini a bandire la sua originaria forma poetica, a imbracarlo in una scatola che la sua lingua anguiforme rifugge e offende. Per quasi tutta la sua produzione si può dire che fiutarlo e assorbirlo come poeta permette non solo di aggirare l’illeggibile, ma di inalarlo come un vapore e assuefarsi alla sua suggestione.

«Questo cane che beve acqua dal mio bicchiere ha sulla faccia uno stupore che assomiglia alla mia faccia. Forse è un lampo del cane della mia faccia, un altro stupore del mio specchio in cui appare l’acqua (bevuta) e il cane cancellato per miracolo». Oppure «Io ero una donna giovane anche se con le tette un po’ mature. I miei capelli neri s’impigliavano nei miei capezzoli. La mia bocca maschile li succhiava. Si nutriva con tepore e lentezza. Anche se con un certo, un certo tocco di disperazione: il balenio rosso delle gengive e certe, certe finte come per conficcare i denti nelle terminazioni, capezzoli dei seni. Io, donna giovane, mi allattavo traboccando di tenerezza: non tanto riferita a me stessa, quanto al sogno che stavo sognando dall’età in cui il sogno mi aveva invaso».

Basterà questa manciata di righe per addentare una delle sue briciole? Basterà la polveriera di autori che lo hanno designato maestro o da cui lui stesso è stato influenzato, come per esempio Rodolfo Fogwill, Adolfo Bioy Casares o Horacio Quiroga?

È già certo, non sarà mai abbastanza. Ma pulseranno ancora queste gemme estreme, insopportabili e sfiancanti. Questo «romanzo che comincia qui o non comincia» mai, questa «musichetta» che scuote le ossa alla sua brevità. Questo lucido sventrare il senso delle cose. Che ci allena all’eccesso e alla sua strage. Per lasciarci sfiniti, sedotti e abusati, con il marchio sprezzante di una folgorazione.

(Osvaldo Lamborghini, La pianura degli scherzi, trad. di Vincenzo Barca e Carlo Alberto Montalto, Miraggi Edizioni, 2019, pp. 192, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
Copertina di Inventario di alcune cose perdute di Schalansky

Tutto ciò che ancora esiste è semplicemente ciò che è rimasto

«Mentre lavoravo a questo libro la sonda spaziale Cassini si disintegrò nell’atmosfera di Saturno; il lander marziano Schiaparelli si schiantò sul roccioso paesaggio color ruggine del pianeta che avrebbe dovuto analizzare; un Boeing 777 scomparve senza lasciare tracce mentre volava tra Kuala Lumpur e Pechino; a Palmira vennero rasi al suolo i templi di Bel e Baalshamin, antichi di duemila anni, la facciata del teatro romano, l’arco di trionfo, il tetrapilo e parti del colonnato».

Judith Schalansky, quarantenne scrittrice e designer tedesca, inizia con un lungo elenco di cose appena scomparse la nota che in Inventario di alcune cose perdute (nottetempo, 2020) precede la prefazione.

Conosciuta soprattutto per il suo Atlante delle isole remote, un bestseller in Italia pubblicato da Bompiani e venduto finora in trentamila copie, in questo volume elegante e ingegnoso dal genere impuro – un misto di memoir, saggio, catalogo e novella –, erige un monumento a dodici cose scomparse fra elementi naturali e opere dell’uomo in tempi epici o ben concreti e in circostanze immaginate o testimoniate. Come a dimostrare che è possibile rimpiangere o piangere non soltanto quello che ci manca perché è stato perduto lasciando indietro una traccia qualsiasi, quindi la consapevolezza di essere stato, ma anche ciò della cui esistenza non ci è rimasto nulla, ma che percepiamo come probabile esistenza nel passato.

«Il mondo in sé è, per così dire, l’immenso archivio di se stesso – e tutta la materia animata e inanimata sulla Terra è il documento di un immane e oltremodo laborioso sistema di scrittura, pieno di tentativi di trarre insegnamenti e conclusioni dalle esperienze passate».

Judith Schalansky è nata a Greifswald, una cittadina della Pomerania sul mare Baltico, che diede i natali anche a uno dei pittori tedeschi più apprezzati: il romantico Caspar David Friedrich. Rappresentante del “paesaggio simbolico”, dipinse quel Viandante sul mare di nebbia che restituisce lo spirito di questo libro: uno sguardo in un altrove che vede e può raccontarci in immagini solo il viandante di Friedrich e con le parole solo Judith Schalansky. La quale in questo libro dedica infatti una storia poetica anche a Greifswald, al suo porto.

Inventario di alcune cose perdute è un libro organizzato con molta cura: la lunga prefazione dell’autrice ne spiega le ragioni e la filosofia, i capitoli sono corredati di inserti grafici e introdotti con un asterisco e una croce che narrano la nascita e la morte dell’oggetto ricordato. Dopodiché giunge la narrazione, che a volte è strettamente legata allo smarrimento, altre volte si tratta invece di un excursus, l’oggetto comunque fedelmente rievocato è quasi un pretesto per un racconto che può portarci anche lontano.

Judith Schalansky è munita di tutti i mezzi necessari per un intrattenimento scientifico, storico e letterario di eccellente livello. Dà dimostrazione di una preparazione che sfiora l’inverosimile, padroneggia più stili e linguaggi dando più volte l’impressione di volersi mettere alla prova, superandola sempre; come per confermare di essere in grado di usare tutte le chiavi narrative con disinvoltura, ovvero se in qualche caso lo stile è aspro lo è per scelta, e se è ridondante lo è per mostrare un lessico fin troppo vasto.

Queste dodici storie non costituiscono un filone, non vi è uniformità né nei temi né nella forma, l’unico denominatore comune è il principio di base che ha guidato Judith Schalansky, ovvero mettere insieme un repertorio, un catalogo non sentimentale eppure a tratti addirittura molto coinvolgente, e sfoggiare una bravura impressionante in tutto quello che tocca. In ogni caso questo libro è una delle creature stampate più originali oggi in circolazione, frutto di una mente che già con le precedenti produzioni ha saputo stupire.

Corro il rischio di suonare contraddittoria, in particolare dopo la fila di lodi appena pronunciate, ma proprio tutta questa bravura, questa capacità di ricerca, quest’attitudine di mettere in fila cose fra le più disparate, di legarle e di fare nodi invisibili, questo talento scientifico e letterario, insomma quest’insieme alla fine crea un effetto debordante, l’impressione di aver fatto una magnifica scorpacciata che però lascia dei postumi. Quindi Inventario di alcune cose perdute è un pasto luculliano da consumare a piccole dosi: un capitolo alla volta.

 

(Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute, trad. di Flavia Pantanella, nottetempo, 2020, 258 pp., euro 19, articolo di Andrea Rényi)

 

Unorthodox recensione

Il coraggio di fuggire dalla propria storia

Per capire fino in fondo il senso di alienazione di Esty, la giovane protagonista di Unorthodox, miniserie in quattro puntate disponibile su Netflix da marzo 2020, basta arrivare a metà del primo episodio. In un giorno d’estate sulle sponde del Großer Wannsee, uno dei quattro laghi di Berlino, Esty è l’unica vestita. Quando decide di farsi il bagno si toglie solo il maglioncino e le calze ed entra in acqua con ancora addosso una maglia a collo alto e la gonna lunga. Solo quando è lontana dalla riva si toglie la cosa che più di tutte la nasconde al mondo: la parrucca.

Esty, diminutivo di Esther, è una ragazza di diciannove anni proveniente dalla comunità ebrea chassidica di Williamsburg, a New York. Il chassidismo applica in maniera ultra-ortodossa la dottrina della Torah, con una serie di fortissime limitazioni per i suoi membri: regole rigide sull’abbigliamento, niente accesso alla tecnologia, chiusura al mondo esterno. Per le donne, in particolare, valgono i dettami più duri, come il divieto di ascoltare e suonare musica, di leggere i testi sacri, di un’educazione scolastica tradizionale e di mostrare i propri capelli, tagliati corti e coperti sempre da parrucche.

Dopo aver sposato in un matrimonio combinato il giovane Yanky, Esty sente crescere sempre di più una frustrazione che già aveva iniziato ad avvertire. A pesarle più di tutto è l’opprimente presenza della famiglia del marito e l’aspettativa angosciante che lei adempia in fretta al suo ruolo di donna e di moglie. Da qui nasce la decisione di fuggire, verso la Germania, come sua madre aveva fatto anni prima.

Unorthodox è basato sul libro di memorie del 2012 di Deborah Feldman, ebrea newyorkese in fuga come la protagonista della serie. Le due autrici Anna Winger e Alexa Karolinski hanno guardato con attenzione alla comunità chassidica cercando di rappresentarla  senza pregiudizi. È incredibile, dall’esterno, vedere la rappresentazione di un mondo così arretrato e misogino secondo i canoni contemporanei all’interno di una delle città più moderne e vitali al mondo.

Il merito della serie è proprio quello di riuscire a rappresentare il dolore delle scelte di Esty. Se è facile leggere Unorthodox come una storia di rinascita – in cui il bagno nel Wannsee ha una chiara funzione simbolica di battesimo –, non va sottovalutata la riflessione ampia, e più profonda, sul concetto di appartenenza.

L’appartenenza è un legame viscerale, a tratti invincibile, spesso doloroso. Esty si strappa dalla sue radici con paura per lanciarsi in un mondo di cui non conosce nulla, in cui non sa come camminare. Per liberarsi dalla sua comunità ha bisogno di trovarne una nuova: la musica. E per raggiungere la liberazione finale, nella scena più potente della serie di cui non riveliamo nulla, trova la forza nella sua tradizione che le è negata solo perché donna.

Non è solo Esther a combattere con l’appartenenza. Anche il timido e debole Yanky sente il richiamo di un’altra vita possibile. Anche il cugino Moishe, incaricato di riportare la ragazza negli Stati Uniti per espiare alle sue colpe di fedele imperfetto, lotta con il legame che lo opprime e di cui non vuole liberarsi.

Esiste un piccolo filone cinematografico dedicato alle comunità ebraiche ortodosse di cui fanno parte film come Gigolò per caso di John Turturro e Disobedience di Sebastian Lelio (tratto da un romanzo di Naomi Alderaan). Netflix ha introdotto nel suo catalogo anche Shitsel, una serie israeliana con toni di commedia nera, e One of us, un documentario su tre ebrei “evasi” da Williamsburg.

Unorthodox, come Disobedience, riflette soprattutto sul ruolo delle donne e sulla loro liberazione da una società che di fatto le tiene prigioniere di un passato dispotico. Lo fa, soprattutto, grazie alla protagonista, la giovane attrice israeliana Shira Haas, che riesce a comunicare con il corpo tutto il conflitto psicologico di Esty. Come quando galleggia nel Wannsee, sospesa tra due mondi e due tempi, il suo passato e il suo futuro.

copertina di Gli impiegati di Kracauer

Tutti sostituibili

«Perché essi alla proprietà non arriveranno mai, nonostante tutti i loro sforzi, anzi si dovranno contentare di ammirare il loro ufficio e se stessi dentro quell’ufficio, fino al punto di confondersi con esso; non sapendo che l’ufficio è di mia proprietà e che essi, confondendosi con quei cristalli, quei mobili e quell’aria condizionata, ma quel che è più importante, coll’essenza di tutte queste cose, automaticamente diventano miei, appunto come quelle cose».

Era il 1964 quando Goffredo Parise scrisse queste righe nel suo romanzo dimenticato Il padrone: l’Italia viveva i suoi anni lievi e seducenti, quelli del miracolo economico, della bianchina parcheggiata sotto casa, dei tacchi costretti a far rumore sull’asfalto umido; dei tram affollati nella Milano grigia e perduta, punteggiata di finestre chiuse e di luci indebolite dalla fatica. Gli anni delle città dalla doppia anima, che celebravano il daffare agitato delle monadi terziarie aspramente descritte anche da Luciano Bianciardi, ma arrossivano di fronte alla «borgata allagata dalla pioggia» tanto cara a Pasolini nel suo Una vita violenta. Fu allora che gli oggetti abbandonarono la reputazione di cose e presero vita: iniziarono silenziosamente a invadere le case, a definire le nostre esistenze, a dar loro un peso, un valore, un’identità.

Il mondo raccontato dal lessico tagliente e crudele di Parise, è l’immagine diffratta di una storia che affonda le radici in luoghi e tempi diversi. Nel 1930, infatti, vent’anni prima di Mills e del suo lavoro sociologico Colletti bianchi. La classe media americana, un giovane architetto tedesco scrisse un libro di un centinaio di pagine dal titolo esplicito Die Angestellten (Gli impiegati), ora ripubblicato da Meltemi (2020). A essere precisi, Siegrfried Kracauer non era solo un architetto: si avvicinò al mondo culturale tanto da scriverne sul quotidiano Frankfurter Zeitung e diventare uno dei più illustri critici e teorici del cinema; restò ammaliato dalla sociologia e dalla filosofia, o meglio, da chi in quegli anni, tentava di ridefinire gli incerti confini di entrambe. Amico di Georg Simmel e allievo di Husserl, Kracauer cominciò a gravitare intorno alle carismatiche figure di Adorno e Benjamin, e divenne, in poco tempo, un osservatore sottile e paziente. A Benjamin, in particolare, lo univa il gusto per le contraddizioni, l’attrazione irresistibile per la compresenza negli uomini di alienazione e aggregazione e, soprattutto, l’abilità di svelare l’ingannevole seduzione del sistema.

Gli impiegati è una pionieristica indagine sociologica sul campo: Kracauer ha vissuto con i lavoratori, li ha osservati in ufficio, al cinema, al bar; ne ha raccolto i pensieri e i disagi. La Berlino degli anni Trenta è una metropoli in espansione, che brulica di questa nuova classe media stipendiata dalle grandi aziende: «i posti non sono professioni che siano fatte su misura per determinate personalità, ma posizioni nell’azienda che sono create secondo le necessità del processo di produzione e distribuzione».

Assumere un impiegato significa allora scandagliarne il corpo e tastarne la psiche: «Il candidato viene osservato: in che modo dispone le fatture che deve mettere in ordine? Si fanno esami fisiognomici e grafologici». Si valutano il Leib e il Körper, ossia il corpo vivente e il corpo oggetto teorizzati da Husserl; un aspetto «gradevole» e una «carnagione moralmente rosa» sono indicatori essenziali. Occorre sembrare «perbene» e «simpatici», concetti difficili da definire e tantomeno da riconoscere (la simpatia è immanente all’oggetto di indagine, o è solo la proiezione del soggetto esaminatore?).

I segni ominosi della vecchiaia riducono le possibilità di essere assunti: gli impiegati trentenni per paura di diventare desueti, ricorrono allo sport e alle tinte per capelli, contribuendo a creare il nuovo mercato dell’estetica. La razionalizzazione elargisce sempre più potere a nuove posizioni di kafkiana memoria, come il caporeparto, ossia il subordinato che ha conquistato la fiducia del superiore, divenendone di fatto un emissario.

La massa impiegatizia si muove al buio, senza sapere né dove sta andando, né perché: a differenza di quella proletaria, è, infatti, «spiritualmente senza tetto». Non ha un’identità, né tantomeno consapevolezza: vive nell’illusione di possedere un’anima borghese e, perciò, ne conserva con cura le abitudini e i rituali. Non sa neppure di appartenere a una massa, perché crede fideisticamente nel potere morale dell’individualismo: non si riconosce come singolo oggetto sostituibile, ma si illude di essere indispensabile all’azienda e di meritare il posto che occupa.

La classe media tedesca si rifugia nei bisogni culturali, spendendo il denaro guadagnato in mostre e cinema, ma non per trovare risposte: il loisir, incoraggiato dalla società, serve a far credere «agli impiegati che una vita svagata sia insieme quella che ha più valore». Occorre dissimulare il reale, attraverso il fascino dello splendore: ma, come ci ricorda Kracauer, «non appena il cameriere spegne la luce subito ricompare la giornata di otto ore». D’altronde, scriveva Parise: «Com’è lento e duro gettare luce in se stessi. E quante ombre e quante false sagome di salvazione attraversano quel fascio di luce mostrando sembianze che paiono vere e umane quando invece sono irreali e illusorie!».

Non bastano, allora, le parole sussurrate dalla coscienza per convincere gli impiegati che le lusinghe nascondono, in realtà, solo una taciuta condanna. Chi osa alzare lo sguardo, è destinato paradossalmente a vedere l’abisso: «Trentanove anni, sposato, tre bambini (quattordici, dodici, nove anni). Non guadagno nulla da tre anni. Prospettive? Lavoro, manicomio o gas». È solo una delle sei risposte a un questionario sulla disoccupazione riportate da Kracauer: è la Germania degli anni Trenta ma sembra il mondo di oggi. O quello crudele raccontato nelle pagine memorabili di Parise; e di Bianciardi, quando nel suo La vita agra descrive con una nitidezza disarmante lo sterile processo di licenziamento: l’aria è diversa, i colleghi non sono più gli stessi («paiono vuotarsi della loro sostanza spirituale»), arriva una lettera, sempre uguale, sempre la stessa, cambia solo il nome e, in un attimo, si diventa fantasmi. O barattoli, secondo Parise. Le tracce del proprio passaggio vengono rapidamente cancellate attraverso un rituale di pulizia e occultamento simile alla damnatio memoriae. Basterebbe questo a far capire la forza e l’universalità del pensiero di Kracauer, che in poche pagine non ha solo svelato un mondo, ma ha saputo creare una vera fenomenologia del lavoro.

 

(Siegfried Kracauer, Gli impiegati, Meltemi, 2020, 160 pp., € 14.00 | Articolo di Elisa Carrara)
copertina di Buzzati Deserto dei tartari

La casa come la fortezza Bastiani

Inesorabilmente, nella vita di ogni essere umano, sorge prima o poi l’annoso quesito su quale sia il senso del percorso terreno. Tale interrogativo cominciò a interessare le riflessioni degli intellettuali esistenzialisti nella prima metà del ventesimo secolo, i quali riflettevano particolarmente sull’insensatezza e sull’assurdità della vita umana nonché sulla solitudine dell’uomo, soprattutto quello moderno. Tra i principali esponenti di tale corrente letteraria e filosofica è indubbiamente da annoverare lo scrittore e giornalista Dino Buzzati, non a caso definito Kafka italiano, conosciuto prevalentemente per il suo capolavoro Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940. Dacché, com’è noto, le vicende autobiografiche influiscono sempre sulla poetica degli scrittori, è necessario ricordare che anche il capolavoro di cui trattiamo è inestricabilmente legato al lavoro compiuto dallo scrittore nella redazione del Corriere della Sera, iniziato alla tenera età di ventuno anni, nel 1928, e condotto fino alla sua dipartita, datata 1972.

Il protagonista Giovanni Drogo, infatti, prende servizio, con l’incarico di tenente, presso la fortezza militare Bastiani, posta di fronte a un deserto ai confini dello Stato, la cui esistenza è dovuta alla salvaguardia dall’invasione dei famigerati Tartari. Pur sentendo inizialmente l’esigenza di fuggire da quel luogo inospitale, improvvisamente decide di trascorrervi anno dopo anno, fino a invecchiarvi, con l’obiettivo di ricercare la gloria in combattimento contro il famigerato esercito dei Tartari. Le riflessioni e le speranze del protagonista sono assimilabili a quelle dell’autore, che, non casualmente, aveva usato lo pseudonimo di Giovanni Drogo per firmare precedentemente un racconto: anche Buzzati era arrivato a un’età simile presso la redazione del Corriere della Sera, ricercandovi, come i colleghi, una grande occasione (come la chiama Buzzati in un’intervista rilasciata anni dopo, relativa alla genesi dell’opera) per la propria carriera, che tuttavia stentava ad arrivare, rendendo la vita un qualcosa di vuoto e privo di senso.

Gli anni trascorrono implacabilmente per il protagonista all’interno della fortezza militare, tuttavia la grande occasione della battaglia gloriosa persistentemente vagheggiata non arriverà: due sono i momenti in cui essa sembra in procinto di arrivare, ma nella prima occasione il protagonista si illude invano, nella seconda, quando il tenente Drogo intravede i nemici all’orizzonte col cannocchiale, l’uso di tale strumento viene vietato inspiegabilmente dai superiori. La fortezza Bastiani si rivela quindi un’allegoria dell’esistenza di ogni essere umano (e non solo di Dino Buzzati), il quale attende incessantemente qualcosa che non si realizzerà mai, e che, anche qualora accadesse, non potrà essere raggiunto dall’uomo. Il tempo trascorre speditamente, senza che il singolo se ne accorga e, anche qualora l’occasione vagheggiata arrivasse, tuttavia sarebbe troppo tardi per coglierla: alla fine del romanzo, l’invasione dei Tartari si manifesta quando Giovanni Drogo è oramai anziano e impossibilitato tanto alla battaglia quanto ad assistere a tale momento così bramato, poiché il tenente colonnello Simeoni, fino ad allora ritenuto un amico, destina la sua stanza a soldati pronti per il conflitto, ordinando che il protagonista si allontani dalla fortezza. Drogo muore isolato, in una locanda, e affronta la morte a testa alta, senza timore.

In un mondo che, rispetto al 1940, si ritrova ancor maggiormente in crisi di ideali, la lettura del capolavoro di Buzzati (accomunato in ciò a Salvatore Quasimodo che sviluppa la medesima tematica nella celeberrima Ed è subito sera: «Ognuno sta solo sul cuore della terra / trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera») non potrà dare alcuna risposta a un lettore che vi si imbattesse per caso, anzi porrà probabilmente nuovi interrogativi: tuttavia, potrebbe indurre il fruitore dell’opera, possibilmente un «uomo che se ne va sicuro / agli altri e a se stesso amico» (tanto deplorato da Montale), a cercare di indirizzare verso un intento utile la propria caduca esistenza. Del resto, Buzzati ha il merito di aver scritto un romanzo che, rendendo assolutamente non tediosa la monotonia della vita del protagonista, immerge il lettore in un’atmosfera rarefatta e senza alcuna connotazione spazio-temporale; tutti noi potremmo essere Giovanni Drogo.

Specialmente se riflettiamo sui nostri giorni, che vedono la maggior parte della popolazione reclusa nella propria abitazione per via del Coronavirus, Il deserto dei Tartari potrebbe indurre il lettore a ripensare alle priorità e agli scopi della propria vita radicalmente mutata in pochi giorni; anche per tale motivo, un classico come questo libro, sempre di stringente attualità, dovrebbe essere una delle letture privilegiate tanto dagli Italiani quanto da tutti gli altri Paesi che affrontano una dura quarantena.

 

Il cinema degli Other Lives

Fare meglio di Tamer Animals, per gli Other Lives, non sarà facile. Non parliamo solo di oggi, ma di domani. Tra cinque anni. Sempre. In quest’album, infatti, c’è tutta l’intensità e l’equilibrio di un gruppo che vive del contrappesarsi di libertà espressiva e levigatura metodica, dove la sensibilità artistica di ogni singolo componente riesce a esteriorizzarsi al meglio. Raggiungerlo e magari superarlo sarà, dunque, un’impresa. Rituals non ce l’ha fatta. For Their Love è un buon lavoro che affonda le proprie radici nello stesso humus di sempre, con alcune sterzate interessanti, ma che non riesce a stare al passo del suo antenato.

I brani degli Other Lives sono pregni di drammaticità. For Their Love tende a esporre la propria drammaticità attraverso espedienti cinematografici. Gli Other Lives hanno sempre avuto un legame con il cinema, a livello di suggestioni, non nello specifico, ma qui sembra ancora più evidente, e la cosa è forse il suo limite più grande. For Their Love pare influenzato da impulsi visivi di un western alla Clint Eastwood riuscito a metà e girato nel 2050 al centro di Manhattan.

C’è una sorta di epicità mitigata nei brani degli Other Lives, caratteristica che li lega ai Midlake. Prendiamo ad esempio The Trials Of Van Occupanther, magnifico lavoro di una band che troppo spesso viene sottovalutata e poco citata. Le canzoni di questi due gruppi hanno un’origine comune, che si ritrova nelle sfumature delle due voci e in un’educazone prog che viene trasfigurata in un pop in minore con aperture al limite del sognante. Gli Other Lives devono chiaramente molto ai Radiohead, ma non bisogna dimenticare quanto l’ex gruppo di Tim Smith sia stato fondamentale nel loro processo di maturazione.

For Their Love parte benissimo: le prime quattro tracce girano alla grande. C’è coerenza, pensiero e carica emotiva. L’eccezionale capacità compositiva del gruppo americano sembra riportarci indietro a Tamer Animals. Da “Nites Out” le cose iniziano a farsi più confuse: un brano che ha degli spunti alla Mew (Mew and The Glass Handed Kites soprattutto) che vanno a confluire in richiami dei Get Well Soon (gruppo  che condivide con gli Other Lives certi contorni nella modulazione della voce),  ma che spezza la tensione creata, trattenuta momentaneamente nella ballata voce e chitarra “Dead Language“.

Da qui For Their Love va perdendosi, senza più riuscire a ritrovare il filo. Ed è un peccato:  un album con dell’ottimo materiale, ma troppo sbilanciato. Siamo lontani dall’esser affondati insieme a tutta la nave, ma la paura l’abbiamo percepita.

For Their Love ci ricorda comunque che Tamer Animals è uno degli album di punta degli anni ’10, che non ha forse avuto il seguito che meritava, ma che può essere rivisto e riletto. Abbiamo bisogno che la prossima volta gli Other Lives si superino.

Cover di Lezioni di anatomia

Quindici buoni motivi per riconoscersi sotto la pelle

Quanto costa togliersi l’appendice a New York? Perché Lowell pensava di aver scovato dei canali d’acqua su Marte e invece, nella lente del telescopio, aveva visto i vasi sanguigni dei suoi occhi? Perché nella cultura ebraica i reni sono sacri? Perché le Madonne dei quadri rinascimentali hanno il collo rigonfio? Dopo aver letto Lezioni di anatomia. Il corpo umano in quindici storie (AA. VV., 2019, minimum fax), conosceremo le risposte a queste e ad altre decine di piccole o grandi curiosità: alcune sono cose imbarazzanti, che abbiamo sempre sospettato, altre sono domande che non ci sarebbero mai saltate in mente! Di sicuro non immaginavamo che ce lo avrebbero spiegato i quindici illustri autori di questi brevi saggi, provenienti dalla narrativa e dalla poesia internazionali.

Pensavamo che la zavorra della vita materiale fosse un intralcio per uno scrittore ma ci sorprendiamo nel ricevere questo bagaglio di sapienza anatomica, ricucito in un bellissimo progetto grafico (di Patrizio Marini e Agnese Pagliarini) e tradotto in italiano da Veronica Raimo. Gli scrittori ci ricordano che siamo progetti solitari, confinati in un corpo: chi può dire cosa ha determinato ciò che è stato delle nostre imprese singolari? La memoria di questi racconti è impressa sistematicamente nel punto di vista di torsi, busti, budella.

La cifra – prevedibile – dell’affascinante/disgustoso è un minimo comune denominatore che certo allontana i lettori ipocondriaci o quelli con un approccio troppo platonico alla vita. E alcune delle descrizioni dei meandri delle nostre interiora risultano troppo impressionanti e ciniche. Ma, pur mantenendo la precisione dello scienziato, lo sguardo sulla componente fisica della nostra esistenza è sottile, ogni autore ci offre in dono il conflitto che si porta dentro. Talvolta risolto, talvolta dolente. I sensi, il dolore. I sentimenti risiedono nel corpo e imparare a soffrire è la chiave.

Il titolo inglese, Beneath the skin, rende bene questo esercizio di disvelamento della tensione umana, che avviene attraverso una serie di livelli dell’esperienza mediati dalla penna. «Vivo nella macchina più complessa e intricata che ci sia» (p. 109), fatta di organi più intelligenti di noi. Gli organi diventano chiave di accesso per comprendere un’età della vita, uno stato d’animo, un desiderio, una paura. O il rapporto di sangue, e lessicale, che ci lega ai genitori. Ecco di seguito alcune dimostrazioni del fatto che sappiamo già più di quanto pensiamo.

Cibo, giovinezza e sesso ci ossessionano, come se il primo giorno di primavera durasse per sempre, anche se siamo refrattari alle diete. Ma quando ci rendiamo conto dell’organizzazione labirintica dell’Intestino, secondo Naomi Alderman ci domandiamo: allora chi diavolo sono?

L’acne – ci fa notare Christina Patterson – non è nulla di tutto ciò che può succedere alla Pelle, universo simbolico di bellezza, innocenza, infanzia (le guance di bambino come pesca) ma anche simbolo delle cicatrici dell’esistenza.

Il Naso non solo ci fa respirare ma è direttamente collegato con l’amigdala, permettendo i ricordi più profondi e le reazioni emotive del sistema limbico. A.L. Kennedy fa una rassegna delle barzellette su queste strane appendici, che ci aiutano a formare le espressioni del volto. Anche se come esseri civilizzati abbiamo preferito i profumi neutri o il non odore.

Quali sono le nostre parti necessarie? Sull’utilità dell’Appendice e della Cistifellea forse ci siamo già interrogati. Ned Beauman e Mark Ravenhill ci aiuteranno ad accettare la statistica di casi di appendicite a cui ci condanna il convivere con queste «pioniere fuori tempo massimo» (p. 39)? Ci interessiamo a certe cose solo quando non funzionano più.

A partire dal ricordo dell’intimità della visita oculistica, il racconto di Abi Curtis sugli Occhi è il più spassoso di tutti. E così via, attraverso il Sangue zambiano dei genitori di Kayo Chingonyi, le Budella di William Fiennes e il Cervello di Philip Kerr, impressionanti. Nei versi delle canzoni di Jane Birkin, Eminem o Al Jarreau comprendiamo i Reni con Annie Freud. La madre di Imtiaz Dharker è portatrice di quella saggezza popolare che colloca nel Fegato, il tramite delle divinazioni greche e romane, l’affetto ma anche la rabbia. Cultura di tutti, dal sacro al profano, i modi di dire legati al corpo ci restituiscono ad un’esistenza specifica umana, che è anche letteraria e artistica. Lo scopriamo passando per le ragioni dell’avvelenamento dell’Orecchio di Amleto, con Patrick McGuinnes, e per lo stupore suscitato dal rosso ruggine (dentro) e i rigonfiamenti (fuori) della Tiroide secondo Chibundu Onuzo. Fino ad approdare ai Polmoni di Daljit Nagra, «gli organi leggeri»: la poesia come sistema respiratorio contemporaneo.

Siete abbastanza incuriositi? Potete continuare a domandarvi, con i quindici autori dei racconti: allora l’io equivale al mio corpo? Sicuramente queste Lezioni di anatomia ci rimettono in contatto con noi stessi per esporci all’altro, conosciuto o sconosciuto, che ci cura, che ci riconosce, che ci disgusta o ci ama, anche per la manifestazione fisica del nostro essere.

 

(AA. VV., Lezioni di anatomia. Il corpo umano in quindici storie, trad. Veronica Raimo, minimum fax, 2019, pp. 126, euro 22, articolo di Martina Pietropaoli)