Copertina di Il dio disarmato di Pomella

La spirale

«Siamo giunti al punto più buio di questa notte della Repubblica. Le Brigate Rosse hanno deciso di colpire come non mai il cuore dello Stato, lo faranno nella persona di uno dei suoi uomini più rappresentativi: Aldo Moro». Comincia con queste parole la prima di tre puntate di La notte della Repubblica, trasmissione che a fine anni Ottanta Sergio Zavoli aveva ideato e condotto per la Rai. Ed è proprio quel punto più buio, che Andrea Pomella col suo Il dio disarmato (Einaudi, 2022) indaga. A essere precisi, indaga con estrema dovizia un punto: uno solo di quei tragici cinquantacinque giorni nei quali Moro venne prima rapito, poi tenuto prigioniero e infine ucciso; si sofferma infatti tra le 9.02 e le 9.05 di quel giovedì mattina, del 16 marzo 1978. La mattina della strage di via Fani, la mattina del rapimento, la mattina in cui l’incubo che caratterizza l’ora più buia della notte della Repubblica comincia.

Non a caso, il romanzo si apre con uno studente di matematica che pensa allo «schema della tela del ragno [che] riproduce la spirale archimedea», spirale che ricopre al meglio la più ampia superficie, per non lasciare scoperto alcun punto. Peraltro, c’è da notare che La tela del ragno è stato il famoso titolo di un libro di Sergio Flamigni, uno tra i maggiori studiosi dell’affare Moro. Ma al di là della criptocitazione, Pomella con la spirale della tela del ragno ci avverte su come ha impostato il romanzo, la sua struttura, la tessitura con cui ripete e riprende di continuo quei tre minuti in cui tutto accadde. A dire il vero, seppur con le dovute differenze, il congegno messo in atto rimanda al romanzo Apeirogon di Colum McCann, dove non è la spirale bensì il poligono a facce infinite a caratterizzare l’idea narrativa. Eppure alcuni meccanismi sono simili, per esempio certi slittamenti di natura storica o saggistica (come l’inciso su Mario Fani, tanto per dire) o anche degli ingressi autoriali.

Pomella si concentra, dunque, su quei tre minuti e sulla notte precedente a quei tre minuti che deflagrarono sulla Storia d’Italia. Cosa sarà passato per la testa di Moro e dei suoi rapitori le otto ore prima? E agli uomini della scorta? Certo, una parte sapeva quello che sarebbe successo, o perlomeno lo aveva preventivato, un’altra era del tutto all’oscuro, tuttavia è intrigante provare a entrare nella quotidianità, o forse si dovrebbe dire nella normalità dell’attimo prima. «Il compito del narratore è simile a quello di un astronauta in procinto di giungere sulla soglia di una stella morente per osservare ciò che non può essere osservato», scrive Pomella per evidenziare più che giustificare la sua operazione. Ed è quell’osservazione che rende il suo romanzo differente dai pur tantissimi romanzi, saggi, serie, film che in questi quarantaquattro anni si sono succeduti sul caso Moro.

Qualcosa di simile ha fatto solo alcuni mesi fa Alessandro Bertante con il suo Mordi e fuggi: provare a analizzare il prima, in questo caso la nascita delle Brigate Rosse, se vogliamo al crepuscolo di quella giornata della Repubblica, per mantenere l’allegoria zavoliana. Si potrebbe dire che c’è nei narratori italiani nati durante gli Anni di piombo, che quindi non li hanno vissuti ma che anagraficamente c’erano, un desiderio di comprendere qualcosa che ha influito su una generazione – la cosiddetta generazione X – che si è trovata in hangover della famigerata Milano da bere senza averla bevuta, annegata da quell’inarrestabile riflusso degli anni Ottanta, e cresciuta nella strettoia tra la caduta del Muro e Tangentopoli. Il risultato si vede nella nostra politica odierna, ma questo è un altro discorso.

Torniamo al Dio disarmato. Non era semplice l’idea che si prefiggeva Pomella. Scartare i meccanismi del saggio storico, del saggio processuale e incastonare quella vicenda in un romanzo. Doveva entrare, e ci è perfettamente riuscito, nel profondo dell’animo di Moro, di sua moglie Eleonora, dei figli (di Maria Fida più degli altri), perfino del nipote, il piccolo Luca che quella mattina vuole andare alle Capannelle a vedere i pompieri, perché gliel’hanno promesso. Non era facile neanche questo andirivieni temporale, spezzare quella percezione umana per cui, come Pomella stesso scrive a proposito di Oreste Leonardi, «il tempo che lo separa dalla fine, il tempo messo in fila come un’unità inscindibile, un tutto che in questo istante non può ancora immaginare»; e invece riesce bene quella scissione temporale, quello scoprire e ri-scoprire ciò che sappiamo già.

È un romanzo onesto, in cui l’autore non si nasconde, ogni tanto compare e ammette di non poter sapere tutto, seppure finga il contrario. Tuttavia analizza, cerca di comprendere senza schierarsi in modo manicheo, anche se la vicenda spinge fin troppo semplicisticamente chiunque a tirare una linea al centro del campo, per schierare il bene contro il male. Pomella non cede a questa tentazione, tant’è vero che prova altresì a muoversi nei meandri del comando d’assalto delle Br che agisce in quella mattina. È la Storia ad averli sconfitti, Pomella lo sa e lo lascia intendere, eppure prova a capire e interrogarsi. Una delle risposte è nella loro età, «è una guerra tra ragazzi», scrive l’autore, d’altronde solo Moro con i suoi sessantun anni, Leonardi con i cinquantuno e Ricci con i quarantatré sono gli adulti; gli altri, dalla scorta ai brigatisti sono ventenni, salvo Moretti che ha appena superato i trenta.

«È questo in fondo che fa sempre la gioventù», ci ricorda con sagacia Pomella, «subire l’autorità, tentare la rivoluzione, processare i padri e infine estinguersi», per poi ricominciare la spirale, perché il potere da sempre «esercita la più raffinata forma di violenza morale».

Aldo Moro fu una delle figure principali di quella Repubblica uscita dal disastro del fascismo e della Seconda guerra mondiale. Moro ai tempi della Costituente si scontrò con Calamandrei affinché nella nostra Costituzione la persona prevalesse sul cittadino. E l’ebbe vinta. Per Moro la persona veniva prima di ogni cosa, questo era il suo mantra. Pomella ci restituisce appieno la persona, i suoi affetti, i suoi valori, anche le sue paure e dubbi, che andavano al di là della politica, cosa che sbalordì e mise in crisi gli stessi brigatisti durante la prigionia. Si accorsero infatti che quel Moro che per loro era il simbolo politico del male, del Sistema Imperialistico delle Multinazionali (il famigerato SIM dei loro comunicati), nella quotidianità era una persona, un uomo che metteva gli affetti davanti a tutto, che credeva nell’individuo oltre la nebulosa della Ragion di Stato.

E proprio lo Stato pose la sua Ragion davanti alla persona di Moro.

Chissà, verrebbe da domandarsi, se fosse stato rapito un altro esponente cosa avrebbe fatto, come avrebbe agito Aldo Moro alla guida di quello Stato che con lui si mostrò irreprensibile sulla linea della fermezza?

Il dio disarmato è un romanzo che raccoglie attorno a sé tutto questo e molto altro. È metafora del potere e della viltà che lo abita, è allegoria di una notte su cui ancor oggi non si è fatta chiarezza, è osservazione del punto d’origine della nostra attualità.

 

(Andrea Pomella, Il dio disarmato, Einaudi, 2022, 240 pp., euro 19,50, articolo di Fernando Coratelli)

 

La quinta generazione di Arfelli

Storia infinita di Tebe contro Argo

«L’esperienza può parlare in modo più saggio dei giovani. Perché aspiri, figliolo, alla più trista fra gli dei, l’Ambizione? No, non farlo! È ingiusta: in tante case, in tante prospere città s’intrude, e quando se ne va, ha rovinato i suoi devoti. Tu, è per lei che t’esalti. È molto meglio rendere omaggio, figlio, all’Eguaglianza, che sempre lega gli amici agli amici, alle città le città, gli alleati agli alleati: stabile principio del mondo».

Con i magnifici versi di Le fenicie, Euripide ci narra come Giocasta tenti di evitare l’imminente guerra fratricida tra i figli Eteocle, re di Tebe, e Polinice (a capo dell’esercito di Argo), che si contendono il potere e il regno. La mediazione fallisce e i due fratelli vanno incontro a un destino già scritto, trucidandosi l’un l’altro. Quello che resta è una terra devastata dal conflitto dove tutti i personaggi del dramma abbandonano la scena perché morti o esiliati. L’originaria colpa di Edipo, come quella di Agamennone nell’Orestea di Eschilo, si ripercuote sulla prole con conseguenze distruttive. Parafrasando la realtà, ciò è quanto secolarmente accaduto nella storia di tutte le guerre. Mutano gli ambienti, corre ineluttabile il tempo, si abbelliscono le idee, ma i veri vinti sono sempre le generazioni successive.

Ed è questo il tema fondante di La quinta generazione di Dante Arfelli, pubblicato per la prima volta nello sconfortante clima del Secondo dopoguerra (Rizzoli, 1951) e di recente ridato alle stampe da readerforblind. Lo scrittore romagnolo – immeritevolmente dimenticato –, reduce dallo straordinario successo di I superflui (Rizzoli, 1949 – ripubblicato, sempre da readerforblind, nel 2021), racconta qui le vite di due giovani, Claudio e Berto, cresciuti durante il Ventennio in un mai nominato borgo di pescatori, arrestati per la sola colpa di avere padri comunisti, costretti ad arruolarsi come volontari per salvare l’onore della famiglia agli occhi del regime e poi vittime dell’anomia postarmistizio e dell’ancora successivo spaesamento postbellico.

Sebbene le questioni trattate siano riconducibili alla corrente neorealista, imperante in quel periodo, l’opera se ne distacca per l’evidente désengagement: non c’è nulla da ricostruire, nulla da salvare, ogni cosa, letteratura compresa, ha perso senso e valore. Le cinque parti che compongono il testo scandiscono periodi consecutivi in cui i sogni degli attori pian piano si rivelano illusori, le loro speranze si annullano nell’edipica presa di coscienza che la caducità è incombente, che si è fragili, impotenti e inutili di fronte agli eventi. E il vuoto esistenziale non risparmia neppure le parole, perché come Elena avrà a dire a un malinconico Claudio, «la mente ci si ferma sopra come se fossero parole sconosciute. Sembra allora che quelle parole non abbiano più il significato che hanno comunemente, ma ne abbiano un altro che non si riesce ad afferrare. Come se fossero parole dette in un altro mondo, dove si sia vissuto prima di venire qui».

L’indifferenza per i sentimenti altrui che in Moravia costituiva la denuncia del decadimento della classe borghese, in Arfelli diventa resa, rassegnazione, negazione di una possibile rinascita, una disillusione più vicina all’ultimo Pavese. Ed è così che nella penombra di una capanna, una partigiana, sconvolta dalla prematura morte del fratello, definisce il male, come il disinteresse nei confronti di tutto, «fare una vita o un’altra è la stessa cosa», ed è così che Claudio nel separarsi da un giovane, detto “il toscano”, con il quale ha attraversato i boschi, pensa: «Ecco un altro che per alcuni giorni ha tenuto in mano il mio destino e che adesso non conta più niente».

Claudio accetta con arrendevolezza le separazioni definitive prima da Carla e poi da Elena, perché l’amore che provava in passato ora è sospeso nel limbo astratto e frustrante dell’incertezza, e sempre ora tutti i legami hanno quella stessa durata degli storni abbattuti dai cacciatori, nel campo di gara frequentato da Berto. L’entusiasmo delle giovani leve in partenza per il fronte si tramuta nel mutismo dei giorni che seguono l’8 settembre ’43; gli sfollati obbligati a traslocare da una campagna all’altra per sfuggire ai bombardamenti abbandonano i mobili e gli oggetti che un tempo ritenevano preziosi; Claudio che torna al suo borgo sembra il Corrado di La casa in collina: si accorge che nulla è cambiato, a parte l’assenza della torre del municipio, andata distrutta. Su questa c’era un orologio, una volta punto di riferimento per gli abitanti, che adesso si erano abituati a farne a meno.

L’antico desiderio di Marta, madre di Claudio, che si indebita e si umilia per permettere al figlio di continuare gli studi, non ottiene l’esito sperato e la sua triste vicenda appare isolata dal resto del romanzo, finisce nell’oblio, seppellita dal susseguirsi degli accadimenti. Eppure, com’è evidente in Arfelli, anche la memoria è ormai priva del suo potere identitario e salvifico e ci mostra la natura ingannevole di ricordi belli che in realtà belli non furono.

Con una prosa chiara ed essenziale, a tratti epica, con dei dialoghi che progrediscono d’intensità nei diversi tempi della storia fino a raggiungere un’estrema e tragica franchezza, di pari passo con la crescita e la maturità dei protagonisti, l’autore ci svela tutto il disagio e il senso di perenne inadeguatezza di una generazione di sbandati.

E poi, la guerra destinata a ripetersi. Come afferma Claudio nelle battute finali: «Ogni volta che un uomo nasce ritorna a vivere nello stesso modo degli altri prima di lui, ritorna a recitare la stessa commedia, con poche varianti che gli danno l’illusione del nuovo».

 

(Dante Arfelli, La quinta generazione, readerforblind, 2022, 464 pp., euro 19, articolo di Carmine Madeo)
Copertina di Il punto di vista del sole di Grillo

Una raccolta di punti di vista

La raccolta di racconti Il punto di vista del sole nasce dalla penna di Marzia Grillo (Giulio Perrone Editore, 2022) e si colloca sugli scaffali delle librerie in qualità di “integratore letterario”. Viene da chiedersi quale strambo presidio medico sia mai questo, e occorre quindi rispolverare la sopita educazione impartita dalle case farmaceutiche, che hanno sempre sottolineato la necessità di leggere attentamente il foglietto illustrativo.

Ed è proprio da lì che bisogna partire una volta che si ha per le mani Il punto di vista del sole, dal suo piccolo bugiardino, infilato tra la copertina e la prima pagina del libro e che inizia così: «Il punto di vista del sole® Integratore alimentare e letterario a base di Bificarecterium (147mila) Lactoparolbacillus (24mila) e Vitamina D. Diversi fattori come l’abuso di social, l’abitudine alla lettura veloce, gli stati di stress letterario e una cattiva digestione possono alterare il normale equilibrio della flora batterica, con conseguenti problemi intellettuali, dolori cervicali e perdita di riferimenti metatestuali. Il PDVDS contiene una combinazione di bacilli e bifidus tali da riportare l’equilibrio nella mente, confortare l’immaginazione, favorire la concentrazione e riattivare le cellule nervose».

Il bugiardino ovviamente prosegue indicando modalità di assunzione ed eventuali controindicazioni, ma ormai il patto con il proprio lettore-paziente è stato fatto, la fiducia è stata riposta e non resta che estrarre dal blister il primo racconto-pastiglia.

Sono tredici i racconti che Marzia Grillo ha raggruppato, tredici racconti differenti tra loro per stile, forma ed epoca in cui sono stati scritti. Alcuni sono racconti inediti, altri hanno visto una prima pubblicazione su riviste – come accaduto al racconto eponimo, apparso già nel 2015 su «effe» #3 –, e ora si legano assieme per dare vita a quello che a tutti gli effetti è l’esordio letterario di Grillo.

Dopo anni passati a prendersi cura dei libri degli altri in qualità di redattrice e editor, con Il punto di vista del sole Grillo rompe gli indugi e compie una scelta che non è semplice né banale: affidare le proprie parole a mani – estranee ma altrettanto amorevoli – in grado di filtrare la materia da lei creata per affidarla al lettore. Il rovesciamento di prospettiva così messo in atto ha offerto a Grillo la libertà di dar luogo a un personale esperimento letterario: scoprire cosa può accadere prendendo racconti nati singolarmente, da esigenze differenti, talvolta creati per stare di fianco a racconti di altri autori – come nel caso di quelli pubblicati sulle riviste –, e unirli a racconti scritti appositamente per incastonarsi in mezzo a questo materiale preesistente.

Racconti scritti in differenti momenti dell’esistenza della stessa autrice, che ora si stringono vicini, si accendono uno dopo l’altro, per dare vita a una narrazione dalla consistenza eterea, a volte onirica e surreale, caratterizzata da un costante cambio di punti di vista.

Si parte con una gita al lago dove troviamo un lui perennemente concentrato nel chiedere la recalcitrante mano di lei, e poi ci si trova, tra le tante situazioni, a leggere un epistolario telematico unidirezionale che assume la veste di diario intimo, a ragionare sull’equazione equivalente tra case e madri, a imparare a barare a un campionato di backgammon, ad ascoltare la voce di un Doppelgänger che dall’interno guida le mosse di un’ignara – e un po’ brilla – spettatrice di un premio letterario, financo a guardare composti le immagini della caduta del regime di Ceaușescu che passano in televisione durante una cena di famiglia.

Ciascun racconto restituisce in modo chiaro l’amore di Grillo per questa forma letteraria, per la profonda libertà e plasticità che essa offre allo scrittore: la possibilità di avere voci e ritmi differenti, punti di vista differenti – che sia quello onnisciente del sole o quello in prima persona di una figlia, di una sorella o di una madre –, e differenti tipologie di scrittura che spaziano dalla narrazione pura, come nel racconto “Odissea”, al lirismo di “Arrivederci”, fino ad arrivare al noi distopico di “Macchina”.

C’è differenza, però, tra leggere un racconto preso nella sua singolarità e leggere lo stesso racconto collocato in un punto ben preciso all’interno di una raccolta. Se il racconto è una cellula, la raccolta è un tessuto. Allora, l’estrema premura di Grillo nel generare le proprie cellule narrative ora si amplia e accetta la sfida di aumentare di volume, affinché ogni racconto possa beneficiare della presenza delle altre storie collocate accanto, divenendo un organismo unico.

A differenza di un romanzo, che trova il suo baricentro in una fruizione lineare da parte del lettore, una raccolta di racconti può avvalersi di un approccio di lettura multiforme: si può procedere leggendo i racconti in ordine, ma nulla vieta di progredire saltando a piacimento da una storia all’altra; si può leggere in maniera immersiva senza curarsi troppo del quadro d’insieme, oppure deliziarsi a scovare i riferimenti tra un racconto e un altro, dando vita a personalissimi riti di ricerca metatestuale.
E molto più spesso di quanto accade con un romanzo, si può tornare sui propri passi e rileggere un racconto.

Un racconto letto una seconda volta, si sa, potrebbe non restituirci la stessa luce e gli stessi pensieri; anzi, la probabilità che questo avvenga sfiora la soglia della certezza. E sebbene si possa pensare banalmente che questo accada perché si è modificato il lettore che lo fruisce, in realtà val la pena fissare l’attenzione su un altro assunto e ovvero che un racconto – scomodando Whitman – contiene in sé moltitudini.

Proprio su queste moltitudini gioca Marzia Grillo con la sua raccolta, soprattutto nei suoi racconti più lirici, quelli in cui il surreale si mescola al reale creando una commistione di piani e una conseguente stratificazione di significati, come nel racconto “Matrioska”, dove una casa diventa una madre: «Ecco cos’erano le case: madri. E le matrioske: continenti, paesi, città e appartamenti di legno, stanze ammobiliate di madri».

Jorge Luis Borges, in Il filo della favola, afferma che «il nostro meraviglioso compito è immaginare che esistano un labirinto e un filo. Non rintracceremo mai il filo; forse lo incontriamo e lo perdiamo in un atto di fede, una cadenza, nel sogno, nelle parole che si chiamano filosofia o nella pura e semplice felicità».

Anche nella raccolta Il punto di vista del sole, Grillo ha immaginato un filo che lega i racconti; a volte sembra visibile, a volte ha il sapore di una vaga reminiscenza. Di certo l’autrice non dichiara il percorso da compiere nel labirinto di stanze da lei disegnato, il lettore quindi potrà scegliere la strada che ritiene più opportuna, ampliando così il ventaglio dei possibili universi narrativi, le moltitudini che albergano all’interno del libro.

 

(Marzia Grillo, Il punto di vista del sole, Giulio Perrone Editore, 2022, 125 pp., euro 16, articolo di Giulia Eusebi)
Copertina di Animale e Sangue di Giuda

Sul riscatto degli sconfitti

Continuano le conversazioni di Flanerí tra scrittori e scrittrici. Oggi ospitiamo gli autori di due tra i più interessanti esordi degli ultimi tempi: Giuseppe Nibali, con Animale (Italo Svevo Edizioni), e Graziano Gala, con Sangue di Giuda (minimum fax).

Al centro della conversazione il lavoro sulla lingua, il rapporto tra letteratura e provincia meridionale, il significato della sconfitta, lo scontro con i padri.

 

Giuseppe Nibali: Vorrei partire innanzitutto dicendoti che il tuo lavoro con Sangue di Giuda è secondo me (e senza dubbi di fraintendimento) un punto importante della nostra generazione in letteratura.
Mi piace partire da questo non solo per chiarezza, ma perché i due punti su cui voglio soffermarmi sono quelli che lo rendono tale: la lingua e la povera gente.
Partirei da quest’ultimo: entrambi veniamo dal Sud, entrambi sappiamo bene cosa significa l’odore di sudore e di dignità che circonfulge certe figure che possono apparire solo nelle vie del paese, anche della tua Merulana, calco fantastico (e strizzata d’occhio a Gadda) di qualunque contrada, frazione, disperata imitazione di paese che si incontra alle tue latitudini come alle mie.
Ecco, il tuo Giuda ha per me quell’odore, quello delle feste di Sant’Antonio che affollano i miei ricordi di infanzia, alle quali i muratori e i manovali partecipavano dopo il lavoro, conservando, fatta la doccia e messo il vestito buono, quell’odore inconfondibile.
Poi, certo, la lingua. Mi sembra tu abbia lavorato sulla scorta di alcune delle migliori prove del Novecento, c’è tanta letteratura siciliana, il già citato Gadda, Anna Maria Ortese ma anche e soprattutto un lavoro genuino di ascolto e di calco, come in un laboratorio linguistico dove ci si è prefissi di creare una lingua unica meridionale, mai banale, mai monotona ma sempre comprensibile (anche senza il glossario che hai posto nel finale).
Queste due cose, per iniziare.

Graziano Gala: Giuseppe, mi fai emozionare, e io ho visto una parentela nella storia di quell’altro giuseppe, facciamolo minuscolo, quell’altro, spero non si offenda, nel vederlo pellegrino a dover fare i conti con domeneddio, per citare Verga, che deve essere uno nodale per entrambi se ho drizzato bene le antenne. Dai poveri, se sei d’accordo cominciamo da lì: io Animale  l’ho amato, e per un punto chiave che non ha a che fare con lo stile, i personaggi o la narrazione (mi devi scusare, sono un ragazzo elementare): è che io, in quel testo, mi sono riconosciuto. Tu parli prestissimo di odore di sconfitta, ti cedono le ginocchia, non puoi fare altrimenti: l’odore è aspro, ti affonda le narici, e quell’odore – io e te –, senza pietismi, lo conosciamo benissimo. Allora io una domanda voglio farti, a cuore aperto, perché ci terrei tantissimo a sapere la tua opinione: il riscatto di questi sconfitti, esiste? O raccontare queste storie, metterle a parte degli altri, degli indifferenti, è già il riscatto? Basta il sapere che mi ascoltano a rovesciare l’intero gioco? Pe’, ci si salva davvero o la salvezza è l’abbraccio e il lasciar andare le lacrime? Ti chiedo scusa sin d’ora, parlerò a cuore aperto, amico mio.

GN: Quella cosa lì che ti fa tremare le gambe io la conosco bene. Io quello volevo dire, solo quello. Ché se ci pensi noi siamo la prima generazione che parla della propria sconfitta, mi pare si sia fatto poco, e non di parlare della sconfitta, ma della propria, che è una cosa che fa più male, un male, mi pare, senza rimedio. Quel giuseppe lì (mi piace il minuscolo, ma ancora devo capire chi è che se lo merita) la conosce bene l’arte della sconfitta, e mi pare che il tuo Giuda, da subito, dal primo vagito del televisore, la conosce meglio ancora.
Mi chiedi, amico mio, se ci si salva. E io non lo so. Proprio non ne ho idea. Forse qui i nostri testi divergono, nella struttura di disgraziato che propongono. I miei due, Sergio e Giuseppe, hanno dalla loro le città e le università, che sono modi per dirsi superiori e trovarsi, nella miseria, due volte fottuti, ma questo pompa in pancia al testo parte dei drammi del nostro tempo: internet, i social, l’antropocene, i cambiamenti climatici et cetera. Tu, per ragioni di ambientazione e di stile, sei tornato al tempo in cui, al luogo in cui, il vecchio televisore a tubo catodico è ancora un oggetto desiderato e desiderabile, e ti voglio bene per questo, ché mi hai fatto pensare al Telefunken che mia nonna ha regalato ai miei genitori quando si sono sposati.
Ecco, non ci si salva, ma ci si sfoga e, quando va bene, ci si riconosce in questa vita che è tutta una miseria e una sconfitta.

GG: Io ti voglio ancora ringraziare perché mi sono emozionato. Allora penso sia il caso di farci immediatamente male e senza troppa gentilezza: togliamoci il dente, Pe’, che prima o dopo ci tocca. «Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie»: veniamo, letterariamente, non mi permetterò di citare la carne e le ossa, da giganti che cadono, figure paterne enormi e terrificanti con le quali dover fare i conti in un qualche maledetto modo. Come la si risolve, con questi padri? (Scusa Giuse’, carico sempre a briscola, ma è che la soffro, questa parte.) Io non ci sono mica riuscito, il pericolo è rimasto dentro gli armadi. Tu, ai miei occhi, sei stato più solido, più capace. Saremo mai liberi o avremo sempre il peso nello zaino? giuseppe, quello piccolo, come la vede?

GN: Qui chi lo prende prende è un peso, sia se se ne fa carico il piccolo sia se ci pensa il grande. Perciò faccio rispondere Vincenzino Consolo, con quel pezzo di bravura che hai messo in esergo al tuo testo (uno, fra i molti): «Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore». Ecco. Sì. Scrivere questo romanzo quello è stato. Ed è servito anche a tirare via un po’ di veleno dall’animale che qui ti sta scrivendo. Ma i discorsi sempre due sono: fare i conti con il padre e fare i conti con i padri. E sono diversi. Perché il primo discorso riguarda noi come individui e il secondo riguarda noi come autori.
Mi pare poi che ci troviamo un po’ meglio tutti con i nonni e con i fratelli dentro questa generazione. Tu che pensi?
E ancora: c’è una cosa che voglio chiederti, che sempre si chiede e talmente tanto che poi pare banale: come t’è venuto Giudariello? Io questo personaggio qui l’ho amato quanto ho amato il Bonfiglio Liborio di Rapino. Da dove esce Giuda, quello vero?

GG: Tu citi Consolo, con quella frase: pagina tre di Giuda, l’epigrafe. Lo vedi che siamo parenti io e te? Giudariello viene da Antonio Cosimo Stano ferito a morte dall’indifferenza di un paese, da me che lo vengo a sapere e piango come fosse un mio familiare e penso che meritava, in qualche modo, di poterla usare la sua voce, alla stessa maniera di Lelio Baschetti, morto dimenticato per anni in una casa. Io mi trovo bene con gli ultimi, con gli altri, gli ordinati, tendo ad affogare. Con Remo un miracolo: nessuno sapeva dell’altro, minimum fax ci fa incontrare a Genova – dopo cinque minuti ci abbracciamo. Avevamo entrambi gli occhi di bambino. Liborio è fratello maggiore di Giudariellu e quelli se ne vanno in giro mano nella mano, spasulati. Bisogna ringraziare Stassi: gli editor non li si ringrazia mai abbastanza. E so che pure tu ne hai uno molto bravo. Un’ultima cosa, però, un dubbio: Pe’, assodato che i padri sono muri inscalfibili e che a spallarli ti ci ammazzi, dopo, cosa viene? Il mio cuore però vorrebbe chiedere al tuo giuseppe: dopo, cosa resta? Ti abbraccio fratello mio, è stato un piacere.

GN: Questa conversazione mi ha fatto bene. Dostoevskij nei Demoni scrive: «la nostra felicità è in disordine» e così è stato per me qui parlare con un fratello di letture e letterature come sei tu. Quindi, con questa felicità disordinata ti dico che si scrive tutti la stessa storia, chi meglio chi peggio. Il tuo Giuda arriva direttamente da Antonio Cosimo Stano, il mio Sergio viene da una crasi tra tre figure, due padri e un uomo importante per i movimenti extraparlamentari di Bologna e tutto il lavoro è stato farli lavorare, mescolare bene bene col ferruzzo per non farli impazzire e per tenere la mescola coesa.
Spallare i padri è l’ossessione, da sempre, che mi perseguita. Ma non si può fare, è cosa che ci fa ittari sangu e basta. Ma dopo, dopo che ce ne siamo accorti, che abbiamo capito che questo è lavoro da perderci la testa, ecco: dovrebbe venire qualcosa per il nostro tempo. Io questo voglio, in questo spero. In un grande tempo nuovo. Ma è come se i padri, veri e metaforici, spingessero nell’altra direzione. Non lo so. E forse per questo mi sono messo  a scriverle le cose, invece di viverle e basta. Perché non capisco mai cosa resta, dopo.

 

(Giuseppe Nibali, Animale, Italo Svevo Edizioni, 2022, 152 pp., euro 16 | Graziano Gala, Sangue di Giuda, minimum fax, 2021, 171 pp., euro 16)
Recensione di Siccità di Paolo Virzì

Senza l’acqua alla gola

Paolo Virzì riscatta il passo falso di Notti magiche con Siccità, un film coraggioso e fuori dagli schemi capace di guardare a Hollywood e al passato del cinema italiano.

A Roma non piove da tre anni. Il Tevere è diventato un letto di sabbia sporca che taglia in due una città animata da persone alla sbando. Con l’acqua razionata e distribuita per le strade, una moltitudine di esseri umani si affanna quartiere per quartiere per cercare di mantenere una vita normale. C’è Loris, autista a chiamata, che dialoga con i fantasmi di amici e genitori; Antonio, un detenuto evaso suo malgrado costretto a confrontarsi con il passato; Sara e Luca, coppia ricca ma infelice; Alfredo, attore diventato un guru sui social network, incapace di vedere le sofferenze dalla moglie e il disagio del figlio, e tanti altri.

Il cast di Siccità è immenso e variegato, mette insieme Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea, Max Tortora, Elena Lietti, Sara Serraiocco, Silvio Orlando, Tommaso Ragno, Vinicio Marchioni, Monica Bellucci, e l’elenco è ancora lungo. Tutti protagonisti, tutti comparse in una città trasformata dalla mancanza d’acqua.

Quando parliamo del cinema nazionale c’è la tendenza, almeno una volta a stagione, a consacrare un titolo come superiore agli altri perché si distacca dalla media delle produzioni italiane per qualità, originalità e coraggio. È capitato con i film di Gabriele Mainetti, con quelli di Sydney Sibilia e Matteo Rovere, ma anche con venerabili maestri in grado di modernizzarsi come il Marco Bellocchio di Il traditore. Adesso è arrivato il turno di Paolo Virzì. O meglio, è tornato, perché già con Il capitale umano il regista livornese aveva allargato i propri orizzonti artistici. Via dalla provincia per guardare al mondo e, soprattutto, agli Stati Uniti.

Siccità è una riuscita sintesi di aspirazioni di grandezza hollywoodiane e localismi capitolini, di Robert Altman ed Elio Petri. L’enormità del cast rimanda a un’epoca cinematografica ormai persa a favore delle serie tv fatta di grandi affreschi collettivi che si intrecciano, anche solo per un secondo. L’ambientazione con un’Apocalisse in corso è allo stesso tempo metafora e ammonimento sul presente, simbolo e racconto.

Roma è sempre Roma, anche mentre si avvicina alla fine. Centro di potere e di ipocrisia, tentazione e consolazione, metropoli e villaggio. Così mentre il popolo fa la fila per riempire le taniche, i ricchi brindano con cocktail ghiacciati sulle terrazze e riempiono gli alberghi termali di oscuri palazzinari. I media si preoccupano di raccontare la crisi con lo spettacolo, con scienziati trasformati in celebrità e storie che diventano l’attrazione di una sera.

È impossibile non sentire l’eco delle fasi più acute della pandemia in Siccità. La nostra storia recente è stata rielaborata in un contesto nuovo e attuale, in un mondo in cui l’acqua è destinata davvero a diventare sempre di più un problema. Si nota quindi, e molto, la presenza dello scrittore Paolo Giordano al fianco di Virzì nella scrittura del soggetto e nella squadra di sceneggiatori insieme agli ormai consolidati Francesca Archibugi e Francesco Piccolo. Giordano ha svolto un importantissimo lavoro di riflessione sul Covid sulle pagine del Corriere della Sera. La sua capacità di analizzare con lucidità la pandemia ha reso possibile la trasformazione dell’esperienza collettiva in un un film che riesce a mostrare come si conviva con nuove normalità inimmaginabili fino a poco tempo prima. Siccità rappresenta una distopia sempre più possibile, e gli autori lo sanno bene. Non ci sono infatti nel film forzature estreme di ciò che potremmo trovarci a vivere. L’unico elemento che sa di fantascienza è la presenza a Roma di servizi di trasporto in stile Uber in grado di vincere il feroce monopolio dei tassisti.

Dopo aver abusato della nostalgia con Notti magiche, racconto troppo personale per risultare davvero interessante, Paolo Virzì si riafferma con Siccità per il grande narratore che è. Un autore sempre più in grado di sperimentare con i generi mantenendo salda la propria identità. A tratti, nel labirinto dei suoi personaggi, il regista rischia di perdersi e di non dare la giusta dignità a dei momenti chiave (viene in mente soprattutto il confronto Orlando-Serraiocco), ma la tenuta complessiva ricorda che è ancora possibile al cinema una narrazione corale costruita con piccoli tratti, con accenni in grado di mostrare intere storie.

(Siccità, di Paolo Virzì, 2022, drammatico, 124’)

finestra con libri

Cosa è successo negli ultimi mesi in editoria

Settembre è il lunedì dell’anno. È il mese che ti dà la sensazione di un vero e proprio inizio. Sono tante infatti le manifestazioni e le uscite editoriali che pianteranno i semi per qualcosa di nuovo in questa ultima parte del 2022. In pieno spirito settembrino, noi di Flanerí abbiamo deciso di ridare vita alla rubrica DietroLeQuarte, con lo scopo di tener traccia periodicamente di tutto ciò che di interessante accade nel mondo dell’editoria: festival, fiere, premi letterari, nascite di nuove case editrici e collane editoriali, pubblicazioni italiane ed estere. Insomma, tutto quello che dovete sapere per capire in che direzione sta andando l’editoria nostrana e non.

 

Inauguriamo il nuovo corso di questa rubrica con alle spalle mesi floridi di festival che in pieno spirito di ripresa postpandemica sono sorti dopo il Salone Internazionale del Libro di Torino dello scorso maggio. Abbiamo assistito infatti all’arrivo di festival come Lino – Festivalino di Letteratura Indipendente a No.Lo, nato nel quartiere Nolo di Milano, Lettera 423 a Isernia (così chiamato perché la città molisana si trova a 423 metri sul livello del mare), Interzona, incentrato sull’editoria e l’autoproduzione al Pasto Nudo di Roma, Duerive – Festival delle storie, organizzato fra Gallipoli e Tricase. Quanto alle conferme, non solo c’è stato il ritorno di Festivaletteratura di Mantova e Termini Book Festival a inizio settembre, ma per l’editoria indipendente anche quello di Flip – Festival della Letteratura Indipendente Pomigliano d’Arco, giunto alla sua seconda edizione, che ha visto la partecipazione di ospiti internazionali come Alan Pauls e William T. Vollmann, quest’ultimo tornato in Italia dopo dieci anni.

Fondamentale in questo periodo è stato anche il lancio di nuovi progetti editoriali. Dopo la nascita ad aprile di L’invisibile, collana di narrativa breve di Industria & Letteratura curata da Martino Baldi, il genere del racconto lungo ha visto l’annuncio di nuove realtà a esso dedicate: Tetra Edizioni, casa editrice che ogni quattro del mese pubblica a cadenza quadrimestrale quattro racconti di autori affermati nel panorama editoriale italiano, e «Quattro», rivista edita da Nuova Editrice Berti che dà spazio su carta alla narrativa breve e il cui primo numero è uscito a giugno. Da tenere in considerazione anche la nascita di collane come Pennisole, curata da Dario Voltolini per hopefulmonster, black edition di readerforblind curata da Dario Pontuale, Kimochi di Rizzoli per la letteratura giapponese, ma anche la nuova direzione editoriale di La Tartaruga – ora di proprietà di La nave di Teseo – affidata a Claudia Durastanti.

Non mancano le novità nel mondo delle riviste: la prima uscita della nuova serie di «The Florence Review» dal titolo Horizon – Orizzonte, edita da Le Lettere, il primo numero cartaceo di «L’Indiscreto», pubblicato da Tlon, dal titolo Il fine del mondo, il nuovo volume di «Cose spiegate bene», la rivista di «Il Post», questa volta dedicato alle droghe.

In questi mesi sono  stati assegnati i tre premi letterari italiani più importanti: lo Strega, il Viareggio-Rèpaci e il Campiello. Se lo Strega è stato vinto da Mario Desiati con Spatriati, riportando Einaudi a vincere a cinque anni dall’ultima volta, il Viareggio-Rèpaci è stato assegnato a Veronica Raimo per Niente di vero (sempre Einaudi) – che si è aggiudicato anche il Premio Strega Giovani; il Campiello è andato invece a I miei stupidi intenti (Sellerio) di Bernardo Zannoni, diventato a ventisette anni non solo il vincitore più giovane, ma anche il secondo esordiente a vincerlo dall’istituzione nel 2004 del Campiello Opera Prima.

E i premi per gli esordienti? Il citato Campiello Opera Prima è andato a Francesca Valente con Altro nulla da segnalare. Storie di uccelli (Einaudi), e il Viareggio-Rèpaci Opera Prima a Pietro Castellitto con Gli iperborei (Bompiani). Il Premio POP è stato vinto da Maddalena Fingerle con Lingua madre (Italo Svevo Edizioni), mentre il Premio John Fante Opera Prima è andato a Valeria Gargiullo con Mai stati innocenti (Salani). Davide Rigiani ha trionfato invece al Premio Letterario Giuseppe Berto, dedicato sempre alle opere prime, con Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino (minimum fax), e Elisabetta Pierini al Premio Megamark, con La casa capovolta (Hacca Edizioni). Il Premio Calvino di quest’anno è stato assegnato a Nicolò Moscatelli con I calcagnanti, mentre le menzioni speciali sono andate a Greta Pavan con Quasi niente sbagliato, Stefano Casanova con Un chiodo storto e Giorgio Benedetto Scalia con Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo.

Passiamo adesso ai premi internazionali. Se lo Strega Europeo ha visto l’ex aequo storico fra Mikhail Shishkin con Punto di fuga (21lettere) e Amélie Nothomb con Primo sangue (Voland), il Premio Gregor Von Rezzori è andato a Tomás Nevinson (Einaudi) diJavier Marías, scomparso l’11 settembre scorso. Il Premio Pulitzer per la narrativa è stato assegnato a Joshua Cohen con I Netanyahu, edito in Italia da Codice Edizioni, mentre il Women’s Prize for Fiction è stato vinto da Ruth Ozeki con Il libro della forma e del vuoto (Edizioni e/o) e il Premio Principessa delle Asturie dal direttore e autore teatrale madrileno Juan Mayorga. Anche in ambito tedescofono sono stati consegnati importanti premi: il Großer Österreichischer Staatspreis è andato ad Anna Baar, di cui Voland pubblicherà l’anno prossimo Die Farbe des Granatapfels (“Il colore della melagrana”), e il prestigioso Büchner Preis a Emine Sevgi Özdamar, autrice di origini turche e principale esponente della Gastarbeiterliteratur, termine con cui nel mondo tedesco si definisce la letteratura migrante o la letteratura di autori nati in Germania ma di origine straniera. Da tener presente anche l’annuncio della shortlist del Booker Prize, che vede fra i protagonisti autori già conosciuti dal pubblico italiano come Elizabeth Strout, Percival Everett e NoViolet Bulawayo.

E le novità editoriali? Innanzitutto, all’estero sono state annunciate pubblicazioni importanti: il nuovo romanzo di Stephen Markley The Deluge, in uscita a gennaio 2023, e Victory City, il ritorno al fantastico di Salman Rushdie  vittima il 12 agosto di un attentato a un festival letterario a Chautauqua, nello stato di New York –, in uscita a febbraio 2023.

Per ciò che concerne l’Italia, da maggio a settembre sono stati pubblicati tanti libri interessanti, fra ritorni, riscoperte e prime volte. Partendo dalle novità in traduzione, a maggio va segnalato per La nave di Teseo I 75 fogli di Marcel Proust, contenenti il nucleo originario della Recherche e curati dalla pronipote Nathalie Mauriac Dyer. A giugno minimum fax ha riportato in libreria Mark Fisher, filosofo inglese autore di Realismo capitalista e teorico del weird e dell’eerie, con Desiderio postcapitalista, con le sue ultime lezioni prima del suicidio del 2016. A luglio invece Mattioli 1885 ha pubblicato Il tenente, primo e unico romanzo di un maestro del racconto breve qual è Andre Dubus, e Sur ha portato in libreria i racconti del due volte Premio Pulitzer John Updike con protagonista Henry Bech, ovvero Vita e avventure di Henry Bech, scrittore. A fine agosto abbiamo assistito alla pubblicazione per Adelphi di Tessiture di sogno, libro finora inedito in italiano di W.G. Sebald, contenente tra le altre cose il reportage del suo viaggio in Corsica fatto fra il 1995 e il 1996. A inizio settembre invece è giunto in libreria un testo destinato a far parlare di sé per molto tempo: il Premio Goncourt 2021 Mohamed Mbougar Sarr con La più recondita memoria degli uomini (e/o), la storia di uno scrittore che indaga su un libro scandaloso e sul suo misterioso autore. Sempre a settembre, per Mondadori, arrivano per la prima volta in Italia i racconti dell’americana Lydia Davis – vincitrice nel 2013 dell’allora Man Booker International Prize – dal titolo Osservazione sulle faccende domestiche. Da segnalare anche La Tradizione, raccolta poetica edita Donzelli del poeta afroamericano Jericho Brown, che gli valse il Premio Pulitzer per la poesia nel 2020.

Anche per la narrativa italiana sono stati molti i libri notevoli. Maggio ha visto la pubblicazione dei racconti di Giovanni Papini curati da Raoul Bruni per Edizioni Clichy. A giugno invece il Saggiatore ha portato in libreria l’ultima fatica di Filippo Tuena, La voce della Sibilla, incentrato su T.S. Eliot e la scrittura di La terra desolata. Ad agosto è uscito il nuovo libro del Premio Campiello 2019 Andrea TarabbiaIl continente bianco, una sorta di riscrittura alternativa dell’incompiuto L’odore del sangue di Goffredo Parise. A inizio settembre da segnalare il ritorno di Giorgio Vasta con Palermo. Un’autobiografia nella luce per Humboldt books, con fotografie di Ramak Fazel,  e Contemporaneo occidentale, antologia curata da Andrea Gentile per il Saggiatore, contenente racconti di autori internazionali incentrati sull’incontro con l’ignoto. Settembre ha visto anche i nuovi libri di Antonio Scurati, con il terzo volume della tetralogia dedicata a Mussolini, ovvero M. Gli ultimi giorni dell’Europa (Bompiani), incentrato sull’alleanza fra Mussolini e Hitler, e di Marco Missiroli con Avere tutto (Einaudi), un romanzo che racconta di un uomo di provincia alle prese con la fortuna e il destino.

A conclusione di questo lungo excursus sulle novità degli ultimi mesi, ci sembra opportuno dedicare uno spazio a parte agli esordi nostrani. Maggio per esempio ha visto la pubblicazione di I vermi grigi di Francesco Bortolozzo (Alter Ego), Corpomatto di Cristina Venneri (Quodlibet), Il mostro di Alessandro Ceccherini (nottetempo), Una storia vera di Nicola Feninno (Industria & Letteratura) e Non nella Enne, non nella A, ma nella Esse di Mariana Branca (Wojtek). Gli esordi di giugno invece sono stati La raggia di Mattia Grigolo (Pidgin), Chiromantica medica di Alessio Mosca (nottetempo) e Adeu di Ignazio Caruso (Giulio Perrone Editore). Ad agosto va segnalato Uomini di cavalli di Pietro Santetti per Mondadori; a settembre Fazi Editore ha pubblicato Magnificat di Sonia Aggio e Einaudi Tutta intera di Espérance Hakuzwimana, mentre sul finire del mese sono usciti Male a est di Andreea Simionel (Italo Svevo Edizioni) e La società degli uomini-barbagianni di Emanuele Kraushaar (Tlon).

 

 

Foto: John-Mark Smith via Unsplash

Come nella nebbia

Si potrebbe scegliere una strada sicura per raccontare il libro della reporter brasiliana Eliane Brum Le vite che nessuno vede (Sellerio, 2020), ossia affidarsi alle parole dell’avvincente e rigorosa prefazione (scritta dalla stessa autrice), e disquisire sul senso della professione giornalistica, su cosa significhi scovare storie, spogliarsi della propria identità per indossare i panni altrui, «vestire la pelle dell’altro». Sarebbe sicuramente una scelta saggia, quantomeno corretta, se non fosse che l’autrice, ha saputo affrontare l’argomento con una tale dose di audace idealismo, che aggiungere altro sembrerebbe quasi commettere un sacrilegio. Perché questa raccolta di reportage insegna che essere un giornalista significa anche saper usare (e misurare) le parole per raccontare ciò che è al di fuori di noi: il primo passo non è varcare la soglia di casa e calpestare un terreno sconosciuto, ma compiere un «movimento radicale» e interno, «la necessità di disabitare sé stessi per abitare l’altro».

A questo punto ci si potrebbe inoltrare in un territorio più impervio, scrivere della politica di Bolsonaro o di Lula e cercare di avvicinarsi al Brasile, e alle sue lotte, se non fosse che la narrazione di questo Paese è offuscata dallo sguardo intransigente di chi si trova dall’altra parte del mondo. Il sentire comune tende, infatti, a voler costringere in un’unica immagine imprecisa, uno Stato vasto e complesso. Il Brasile, spiega Eliane Brum, è invece un Paese declinato al plurale: per comprenderlo occorre tendere l’orecchio e ascoltare il brusio delle vite minuscole che lo popolano.

A dispetto del titolo, non c’è nulla di visivo in quest’opera: le vere protagoniste sono le parole, le voci, la scrittura. Per rendere giustizia a questi 17 reportage, o meglio alle storie che hanno dato forma alla rubrica che Eliane Brum ha tenuto ogni sabato sul giornale “Zero Hora” alla fine degli anni Novanta, intitolata proprio La vita che nessuno vede, e a quelle raccolte nel settimanale “Época” all’inizio del nuovo secolo, bisognerebbe, forse, partire da una frase, scovata anch’essa tra le pieghe dell’introduzione: «la vita è caos, un caos senza senso. Quello che mi affascina è il modo in cui ognuno inventa una vita, per quanto nudo e con pochissimi mezzi».

In Amazzonia si nasce tra mille donne, come racconta nel primo articolo “La foresta delle levatrici” (sconsigliato a chi non ama Marquez e il realismo magico, dai quali attinge con eccessiva ingordigia, atmosfera e stile). E si muore soli o accanto ai propri figli, in un letto d’ospedale, come Ailce de Oliveira Souza, protagonista dell’ultimo capitolo, che a 66 anni dopo una vita spesa a nutrire gli altri, scopre di avere un tumore e si consuma lentamente, fino a non avere più le forze e la volontà di mangiare, senza pronunciare mai, neppure una volta, la parola cancro. La malattia le appare come un inganno amarissimo, arrivato nel momento più sereno della sua vita, nel periodo in cui, senza più un marito e dei figli dei quali occuparsi, la parola libertà cominciava ad assumere contorni reali: non solo un insieme di sillabe, ma una serie di azioni e di gesti pacificatori ripetuti nel tempo.

Morire nella normalità è ancora possibile: in una società che dimentica la morte, al punto da trovare ogni giorno modi nuovi per nasconderla allo sguardo, Eliane Brum ne descrive i segni quotidiani, le abitudini, i rituali. «Non c’è niente di più triste del funerale di un povero. Perché il povero comincia a essere sepolto in vita»: si muore –  e si vive – senza avere i soldi per la propria tomba o per quella dei propri bambini; si muore di malattia, di vecchiaia. Si muore di lavoro, con sintomi rivelatori della fine che si nascondono ovunque, nel rumore costante del respiro del signor T., che ha trascorso l’intera esistenza a contatto con l’amianto.

 

«Ci raccontiamo storie per sopravvivere», scriveva Joan Didion: frase fin troppo abusata, come gran parte dell’opera della giornalista e scrittrice americana, che però fa giustamente capolino anche nel libro del reporter David Rieff, dedicato alla malattia di sua madre, Susan Sontag (Senza consolazione. Gli ultimi giorni di Susan Sontag, Mondadori, 2008). Molti trascorrono la vita a raccontarsi incessantemente una storia sbagliata e crudele: ossia sentirsi speciali, diversi, talmente eccezionali da essere destinati alla sopravvivenza. Perdere la speranza è un’impresa difficile per chi sta morendo: la maggior parte delle persone, racconta Rieff, si aggrappa a una parola, una percentuale, a uno studio citato distrattamente dal medico. Chiunque abbia letto Sontag sa quanto la singolarità e la comprensione viscerale delle cose siano elementi essenziali della sua scrittura.

Ma comprendere non significa essere immuni alla sofferenza. Per questo gli uomini e le donne di Eliane Brum sono distanti anni luce dalla vita di Susan Sontag e di Joan Didion, perché non hanno la minima traccia neppure dell’illusione di sentirsi speciali. Sanno di vivere una vita che nessuno vede e che l’eccezionalità non esiste. Eppure, non possono fare a meno di raccontarsi delle storie, bellissime e altrettanto crudeli. Come quella di Vanderlei Ferriera, l’uomo che ogni anno si presenta alle fiere di bestiame a cavallo di un manico di scopa: «senza un po’ d’invenzione la vita non ha gusto», risponde quando Eliane Brum gli chiede se sia consapevole che il suo cavallo è, in realtà, solo un pezzo di legno.

Sono uomini e donne nudi, traditi dalla vita, ingannati dalle promesse di un futuro migliore, beffati dalla società: il mondo narrato in questo libro è il racconto intimo e universale di chi sopravvive tra la polvere e il fango, di chi cade e non si rialza, non perché non ne abbia il coraggio, ma perché sa che alzarsi non cambierebbe le cose.

Poster di L’immensità

E ritornare al tempo che c’eri tu

Emanuele Crialese lascia la Sicilia e torna a Roma e al cinema con L’immensità, film di ispirazione autobiografica che lo riporta in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia.

Nella Roma dei primi anni Settanta Adriana cresce con il sogno di diventare Andrea. A supportarla ci pensa Clara, l’adorata madre che si sente stretta nelle rigide maglie della famiglia e della società borghese. In compagnia del fratello e della sorella, Adriana assiste nascosta negli angoli di casa alla crisi perenne che allontana i genitori sullo sfondo di una città in continua espansione. A salvarla ci pensa la fantasia e il desiderio costante di qualcuno – Dio o gli alieni – che la conduca in un mondo in cui sentirsi completa.

L’immensità segna il ritorno al cinema e a Venezia di Emanuele Crialese a undici anni di distanza da Terraferma. Dopo aver concluso la sua “trilogia isolana”, il regista romano si è preso tempo per realizzare il suo film più sentito e intimo.

Un progetto che pesca dalla vicenda personale di Crialese, che ha rivelato di essere nato Emanuela e diventato Emanuele. La dichiarazione arrivata a Venezia ha gettato una nuova luce sulla filmografia del regista. Le sue storie di spaesamento e transizioni geografiche trovano ora una nuova chiave di lettura con questo racconto personale coltivato e rimandato per anni e nel quale, però, la vicenda privata trova meno spazio di quanto avrebbe meritato.

Con L’immensità Crialese sembra soprattutto esprimere il fortissimo desiderio di riprendere le parole di “Rumore”, il brano cantato da Raffaella Carrà che non a caso compare in una sequenza coreografica tra i momenti migliori del film: «Io stasera vorrei / Tornare indietro nel tempo / Na na / E ritornare al tempo che c’eri tu / Per abbracciarti e non pensarci più su».

Presentato come un film sull’identità di genere di un’adolescente che si sogna ragazzo, L’immensità è in realtà l’espressione della nostalgia e dell’amore profondo del regista per Clara, donna esuberante e libera che fuoriesce dagli schemi della borghesia degli anni Settanta. Un personaggio con tratti ricorrenti nel cinema di Crialese, già visto in contesti diversi in Grazia/Valeria Golino di Respiro e Lucy/Charlotte Gainsbourg di Nuovomondo.

La Clara di Penelope Cruz è il motore e allo stesso tempo il limite di L’immensità. L’interpretazione dell’attrice spagnola aggiunge sfumature a ogni singolo dettaglio, dall’amore per i figli alla sopportazione dei comportamenti del marito. Questa figura di donna anticonformista, infelice e in anticipo sui tempi è però ormai diventata uno stereotipo ricorrente all’interno del cinema italiano. Quando si aggiunge all’altra tematica ampia e abusata del viaggio nella memoria personale del regista si ottiene un pericoloso e involontario effetto déjà vu. Un rischio che andrebbe tenuto a bada con la capacità di rendere universale la storia, di prendere la dimensione del ricordo individuale e farne una traccia che chiunque possa seguire.

Crialese finisce invece per rinchiudersi in se stesso, a seguire il proprio flusso di ricordi senza una visione d’insieme. La struttura frammentaria del film amplifica lo smarrimento del pubblico, in difficoltà nel seguire la vicenda di Adriana/Andrea che solo a momenti trova davvero un proprio spazio. C’è la storia d’amore con la ragazzina figlia di operai nel cantiere di fronte a casa, il rapporto con i fratelli, la distanza rancorosa dal padre, ma non c’è un’identità precisa che parli davvero di lei. Così, tra un improvviso abuso di sequenze oniriche pescate dalle teche Rai, con Clara e Adriana che diventano rispettivamente Raffaella Carrà e Patty Pravo, Adriano Celentano e Johnny Dorelli, il pubblico finisce per rimanere indifferente alla superficialità di un film che avrebbe meritato – per usare un termine caro a Crialese – ben altro respiro.

(L’immensità, Emanuele Crialese, 2022, drammatico, 94’)

Copertina di L'eclisse di Laken Cottle di Tiffany McDaniel

Una lettura rodariana di Tiffany McDaniel

In Grammatica della fantasia Gianni Rodari teorizzava – recuperando una provocazione contenuta in un frammento di Novalis – la cosiddetta “Fantastica”, una scienza che si occupa cioè di studiare il funzionamento della fantasia, e di codificarla secondo le regole di una propria grammatica, alla stregua della matematica o della logica. Rodari proseguiva poi fornendo esempi pratici su come lavora l’immaginazione, mostrandone le chiavi di accesso e di ispirazione, i suoi meccanismi occulti, le strade giuste per “fantasticare al meglio”, e quelle da evitare. Al centro del suo ragionamento c’è la nozione di “binomio fantastico”, il tassello base di ogni esperienza immaginativa: la fantasia, per Rodari, nasce quando si mettono vicine due parole – e cioè due immagini, due oggetti o concetti – che sono distanti per significato l’una dall’altra. Questo binomio, questo incontro-scontro, avrà bisogno infatti di una storia che lo giustifichi, di un collegamento inatteso, o straniante; più il divario è ampio, più il binomio funziona: “cane” e “armadio”, insomma, è un buon binomio fantastico, “cane” e “gatto” invece no.

L’ultimo libro di Tiffany McDaniel, L’eclisse di Laken Cottle, pubblicato da Atlantide Edizioni come i precedenti – tra questi va citato soprattutto L’estate che sciolse ogni cosa, ormai praticamente un cult –, è un autentico, anche se involontario, manuale di Fantastica rodariana. La manipolazione della propria fantasia operata dalla scrittrice è infatti sconfinata, sia nel senso che è percepibile in ogni riga del romanzo, sia in quello, ancora più sbalorditivo, dell’ampiezza delle soluzioni narrative adoperate. L’effetto, per il lettore, è di un continuo giramento di testa da immagini – che sono sconfinate, appunto, sia per la quantità che per la qualità.

Prima di tutto, però, un accenno alla trama: Laken Cottle è uno scrittore di successo, che sta tornando a New York dalla California, dove si è recato per un incontro con una casa cinematografica; in città, ad aspettarlo, ci sono moglie e figlia – fin da subito, però, sorgono degli strani problemi a contattarle, ma d’altronde l’assenza di comunicazione, il non sapere, è insieme al binomio fantastico il fondamento dell’immaginazione umana. Come se non bastasse intanto si rincorrono voci su un terrificante fenomeno apocalittico-meteorologico, un buio che pare stia avanzando dall’Antartide verso su, risucchiando ogni cosa nella sua densa consistenza di petrolio. È la fine del mondo? Mentre il pianeta viene – un pezzetto alla volta – divorato da questo buio, Laken intraprende un nostos che ben presto comincia a rivelarsi surreale: in principio si tratta di strane apparizioni, ricordi che si confondono con la realtà, cortocircuiti mentali, poi sulla scena si palesano creature grottesche, personaggi fantasmatici, enigmi indecifrabili; quello di Laken diventa un viaggio nell’assurdo e in un universo sempre più distante da ciò che credeva di conoscere. Nel frattempo, per il lettore inizia anche un secondo viaggio, a ritroso nel passato del protagonista: via via scopriamo la storia di Laken, la sua infanzia caratterizzata dall’abbandono della madre e dalla morte prematura del padre, e poi il trasferimento da una zia dal carattere stravagante… Anche questa parte del romanzo, che inizia in maniera abbastanza “realistica”, si riempie però velocemente di elementi ambigui e perturbanti.

È proprio in questo tipo di evoluzioni narrative che si nota il lavoro sulla fantasia svolto da McDaniel. Una prima tecnica di Fantastica rintracciabile è infatti quella che potremmo definire “rovesciamento”. In che senso? Considerati i tre filoni della trama sui quali è basata anche la divisione dei capitoli (ritorno a casa, passato di Laken, avanzamento del buio), l’unico che per il lettore ha un senso e una logica sempre chiari è, paradossalmente, quello apocalittico. Il racconto della fine del mondo si ritrova così ad avere un effetto normalizzante, ordinatore per il lettore, che d’altronde riesce a raffigurarsi facilmente i suoi sviluppi: le notizie allarmanti, il cielo che si oscura in lontananza, e poi l’attesa, l’incredulità, il coraggio. L’aspetto fantastico-horror è il filo che porta avanti la storia, che non la fa disperdere troppo – un compito che di solito è affidato a parti della trama più realistiche, come dovrebbero essere, in teoria, il racconto di un viaggio o del passato di un personaggio. Ecco il rovesciamento, allora: ciò che è normale (viaggio e passato) diventa assurdo; ciò che è assurdo (apocalisse) diventa normale. (Si tratta anche di una chiara testimonianza di come il racconto apocalittico, in tempi di crisi, sia diventato “più normale della normalità”, ma questo sarebbe un altro discorso, forse riduttivo per L’eclisse di Laken Cottle). A rendere ancora più ordinati i capitoli dedicati al buio va osservato che McDaniel conferisce alla narrazione un andamento geografico: comincia con il buio che assale le periferie del mondo e arriva infine al baricento della storia, gli Stati Uniti. L’apocalisse ricalca così la cartina geografica, non procede a caso: i capitoli sul buio sono quasi un trattato di geografia apocalittica, ed è interessante indagare su come ogni luogo del mondo affronti in maniera diversa l’arrivo della fine. Questi, per esempio, sono alcuni estratti della lunga parte dedicata all’Italia:

«Entra in Sicilia, dove le arance rosse crescono nei frutteti maestosi e dove la frutta martorana, nella forma zuccherosa di fette di melone, banane e pesche, occupa gli scaffali delle pasticcerie vuote. […] Prosegue per Roma, arriva al Colosseo, dove nessun gladiatore coraggioso aspetta di sfidarlo. Prosegue per il Vaticano, per piazza San Pietro e la Basilica dove c’è il papa in piedi, come il buon pastore davanti al suo gregge che s’inginocchia in preghiera. […] A Venezia, la città dell’acqua, c’è un uomo che si accinge a suonare un pianoforte a coda di fronte alla Basilica di San Marco».

I casi di un impiego delle leggi della Fantastica più massicci si trovano però nei capitoli dedicati al viaggio di Laken. Qui la scrittrice dà vita a un vero e proprio universo altro, popolato da «streghe guerriere», «cani a quattro code», «talpe con il naso a stella». A vigere è la mescolanza ininterrotta tra oggetti, corpi e pensieri; una combinazione di elementi discordanti alla massima potenza, dentro un contesto già fantastico di per sé, che rimanda alla fiaba quanto alla tradizione narrativa americana – il libro è stato paragonato infatti al Mago di Oz. Eccolo, allora, il binomio fantastico, con un pizzico però di weird. L’unione di due elementi distanti messi insieme produce infatti effetti non solo fantasiosi, ma anche inquietanti. O meglio, macabri. Chiamiamo allora questa tecnica di Fantastica “binomio straniante”. La descrizione delle streghe guerriere, quasi cubista, ne è un esempio:

«Le sopracciglia a forma di mezzaluna non sono fissate sopra gli occhi ma ai lati, sulle tempie: sono butterate, come se non fossero fatte di peli, ma di roccia di stelle. […] Non sono belle, non con quella pelle che assomiglia a una patata bollita e sbucciata. […] Appeso a una catenina d’argento, arrotolato al mignolo di ciascuna strega guerriera, c’è un campanellino d’argento. Il batacchio di ogni campanellino ha la forma di una piccola lingua con sopra un’incisione».

Già Lovecraft (e poi i suoi emuli e successivamente ancora gli scrittori new weird, a cui McDaniel si potrebbe associare) aveva fatto qualcosa di simile, creando personaggi difficili da immaginare nella totalità delle loro caratteristiche, possibili da descrivere ma impossibili da visualizzare. McDaniel mantiene costante il suo binomio straniante per la maggior parte delle descrizioni del libro, confondendo gli elementi tra loro, oppure inserendo quel dettaglio perturbante che spariglia un insieme che in origine pareva verosimile. Un altro esempio affascinante è la descrizione della terrificante giostra, con rappresentati i quattro cavalli dell’Apocalisse, che ruota intorno alla casa della zia di Laken, ma lo sono anche quelle dei cibi, degli oggetti, delle persone stesse. Le tonalità più presenti sono quelle macabre: sangue, occhi cuciti, ferite particolari; tutto ha un aspetto parecchio corporale, e insieme parecchio metafisico. Si ritorna a Lovecraft – di cui McDaniel è sicuramente una degna erede –, al suo racconto del corpo e delle stelle, delle viscere e del cielo.

Un’ultima tecnica di Fantastica (che è quella che poi racchiude e dà un senso a tutte le altre) risiede di nuovo nella trama, e la potremmo definire, semplicemente, “coerenza finale”. In questo palcoscenico grottesco che è L’eclisse di Laken Cottle il “senso” del romanzo sembra sfuggire più volte. Ma un senso, inaspettatamente, c’è, ed è simboleggiato da una frase: «Chi racconta le storie governa il mondo». La parola “storia” qui è intesa soprattutto nel senso di “collegamento”, unione dei puntini disordinati dell’universo. La storia infatti riunisce i contrari, compie la sintesi del binomio fantastico; o, mettendola in un altro modo, conferisce valore al suo ossimoro, lo rende accettabile, reale. Non è un caso che Laken sia uno scrittore: il concetto di “raccontare una storia” assume infatti un compito sia strutturale (dare voce e coerenza al caos, anche, per lunghi tratti, creandone di ulteriore) sia morale (dare significato alla vita). Nel finale, che – del tutto tradizionalmente in un romanzo per niente tradizionale – svolge il compito di spiegare (quasi) tutto il resto, la storia di Laken Cottle viene chiarita, e anche i più pirotecnici giochi della fantasia risultano giustificati. Un’inaspettata coerenza, che però calza a pennello.

D’altronde, nella teoria della Fantastica, si potrebbe dividere l’atto della creazione in due fasi diametralmente opposte: ideazione pura e sintesi, caos e ordine. Sono il cane e l’armadio di Rodari, che finiscono appunto per sintetizzarsi in una storia: il cane che porta l’armadio in groppa, come se fosse un guscio, e che diventa la sua tana. Il romanzo di Tiffany McDaniel oscilla perfettamente tra queste due fasi, tendendo i suoi binomi fantastici (ma potremmo dire trinomi, quatrinomi e oltre) per poi regalare un senso nel finale, cioè nella storia vera e propria («chi racconta le storie governa il mondo»). Ma perché una storia sia una storia c’è bisogno appunto che questa sia pensata, sviluppata, raccontata: non abbiamo altro strumento per farlo se non la fantasia. Uno strumento che McDaniel utilizza in maniera estrema, quasi avanguardistica. In un momento in cui l’immaginazione sembra starsi appassendo per via dei troppi stimoli, dei troppi discorsi, delle troppe immagini, il successo di un testo simile ha insomma qualcosa di oracolare. Lunga vita ai radicalismi della fantasia, allora. Lunga vita alla Fantastica.

 

(Tiffany McDaniel, L’eclisse di Laken Cottle, trad. di Clara Nubile, Atlantide Edizioni, 2022, 304 pp., euro 18,50, articolo di Claudio Bello)
Copertina di Chiromantica medica di Mosca

Epica di mondi arcaici e brutali

In un passaggio di Guida perversa al cinema (2006), Slavoj Žižek afferma che «un’esperienza troppo traumatica, violenta, o emotivamente forte, smembra le coordinate della nostra realtà. Per questo dobbiamo narrativizzarla».
Questa sensazione di spaesamento, di perdita delle certezze causata dal crollo dei “valori” tradizionali o dall’immersione nelle profondità più misteriose dell’animo umano, sembra caratterizzare tutti i nove racconti di Chiromantica medica (nottetempo), esordio letterario di Alessio Mosca che si rivela essere uno dei più interessanti del 2022.
Abbiamo rivolto all’autore qualche domanda per approfondire alcuni aspetti stilistici e tematici del libro.

 

Prima di questo esordio ti eri già fatto conoscere pubblicando su riviste online e cartacee numerosi racconti, alcuni di questi li ritroviamo anche in Chiromantica medica. Qual è stato il criterio di selezione che hai utilizzato per costruire la raccolta? Avevi in mente un’unità tematica che potesse legare i testi oppure l’hai individuata in un secondo momento, rileggendoli o confrontandoti con l’editore?

Prima di venire pubblicata da nottetempo una raccolta di racconti dal titolo Chiromantica medica aveva ricevuto una menzione alla XXXIV edizione del premio Calvino. Una prima selezione era quindi stata fatta allora. Credo che tutti i miei racconti siano accomunati da un’atmosfera, un’atmosfera pregnante che caratterizza fortemente la narrazione. Se negli altri autori questo è un elemento spesso secondario nel mio caso diventa dominante, è quindi questo il fil rouge che lega tutta la raccolta. È l’atmosfera della chiromantica medica appunto, l’inverosimile che viene preso estremamente sul serio mentre la realtà perde progressivamente di familiarità, è il perturbante freudiano. Avendo quindi un legante chiaro e trasversale a tutti i racconti ho scelto quelli che ritenevo meglio riusciti.
Stesso discorso può essere fatto per la successiva selezione avvenuta insieme a Alessandro Gazoia che in aggiunta, per dare solidità al libro, ha consigliato di eliminare le forme brevi e brevissime che erano presenti nella raccolta del Calvino. E poi c’è stata l’aggiunta di diversi inediti. Ma l’occhio era sempre lì fisso sull’atmosfera.

 

Buona parte dei racconti sono ambientati nel triangolo Roma-Abruzzo-Agro Pontino. La descrizione che fai di queste zone è sorprendente: pur trovandoci in una dimensione contemporanea o nel passato recente, veniamo introdotti in scenari arcaici, legati a rituali e a superstizioni ancestrali che regolano, talvolta in modo brutale, i rapporti tra i personaggi. Per quale motivo hai pensato a questi luoghi? Ti sei ispirato a storie che hai sentito o invece hai voluto calare un tuo immaginario letterario all’interno di un contesto che ti era già familiare?

Sono nato e cresciuto a Roma ma la mia famiglia ha origini abruzzesi, umbre, toscane e marchigiane, alcuni rami si sono stabiliti nell’Agro Pontino durante il periodo delle bonifiche. Le storie di famiglia che mi narravano da bambino avevano come ambientazione sempre il paese, la campagna, la montagna; poi per lavoro ho vissuto a Chieti. Il Centro Italia è la mia casa.
I miei nonni o i miei zii mi raccontavano come si ammazzavano i maiali, come si trattavano le bestie, mi veniva descritto il lavoro nei campi e via discorrendo, ricordo, quando andavo a trovarli, le prostitute sulla Pontina o quelle infrattate nei boschi di Spoleto; la provincia ha quindi esercitato su di me un fascino legato a un mondo perduto e misterioso, sporco, a tratti pauroso. Anche perché se la mia famiglia è di origine contadina io ho avuto una vita borghese in un quartiere residenziale della Capitale, ho quindi sempre visto queste realtà di provincia con uno sguardo distaccato.
Il mondo arcaico contadino rappresenta un immaginario sterminato e poco trattato che in ambito letterario viene prevalentemente rimosso, compatito o al massimo idealizzato, mai epicizzato, a differenza della letteratura statunitense dove gli autori riescono a fare epica della loro miseria. Forse si è tentato di fare qualcosina con il Sud Italia ma è un immaginario già stantio, col feticcio della letteratura del Sud degli Stati Uniti.
A questo va aggiunta la mia passione per l’antropologia, De Martino, Frazer, Devereux, l’etnopsichiatria, la psicoanalisi, il tentativo quindi di ritrovare il senso profondo e mitico di quei costumi liquidati spesso come folcloristici e arretrati. La letteratura italiana sembra vergognarsi dei suoi cenci sporchi, la provincia è per eccellenza il luogo da cui fuggire. La mia intenzione era invece quella di creare un’epica deformando quelle terre in modo grottesco come solo un occhio borghese può fare, un po’ alla Malaparte con Napoli per intenderci, per quanto poi Chiromantica medica sia un libro assolutamente antiborghese, spietato quantomeno nelle intenzioni.

 

L’unico racconto senza appigli temporali o spaziali – potremmo trovarci in territorio russo o in qualche isola sperduta del Nord, ma non viene specificato – è Il canto dei leviatani.
A me ha fatto pensare a On the Silver Globe (1988) di Andrzej Żuławski o ad altri film d’avventura comunemente definiti cannibal. In questo caso non abbiamo a che fare con tribù antropofaghe, ma assistiamo lo stesso a un tentativo, pagato con il sangue, di avvicinarsi a una dimensione misteriosa, quasi religiosa.

Conosco i cannibal e Żuławski ma se qualche suggestione cinematografica c’è stata è venuta più dal cinema russo, Tarkovskij, German, Zvjagincev. Sicuramente c’è Volodine. In questo racconto ho messo da parte la provincia suggestionato dalla scoperta degli Ainu e degli Evenchi, popolazioni autoctone dell’isola di Sachalin e delle Isole Curili, popolazioni di pescatori la cui cultura aveva elementi Inuit, giapponesi e russi. Questi sincretismi, questi cortocircuiti mi appassionano moltissimo, sono quindi partito da lì inserendo per l’appunto la dimensione misterica, di nuovo la chiromantica medica.

 

 Un elemento comune a quasi tutti i racconti è la presenza di una sostanza inebriante e primordiale che rende folli, selvaggi o che fa perdere il controllo di sé (il latte di pecora, il grasso, la resina, la cocaina ecc.). Qualche esempio:
«Solo un vitello era ancora in piedi. Ruminava una brodaglia perlacea che sembrava fuoriuscirgli dal muso senza sosta, che gli impiastrava i denti e gli intrugliava il pelo, colava dalle labbra come il rigurgito di un bambino – gelatina trasparente rigirata in bocca e spremuta dall’omaso, masticata, sbavata, impastata fino a farne un intruglio fermentante».
«Quella notte feci un sogno stranissimo, sognai di essere una creatura dei boschi che si nutriva di resina, stavo lì abbracciato ai pini con le labbra a ventosa poggiate sui tronchi per succhiare quella melma giallastra e appiccicosa e come una lumaca ero lento, stavo così per giorni per poi trascinarmi verso l’albero accanto».
«Un’isola sussurrata nei movimenti dei granchi o nel guscio delle cozze e di un taumaturgico grasso di balena narrato nelle forme dei banchi di pesci o nei moti delle alghe».
Si tratta quasi sempre di un elemento troppo naturale, troppo vitale per essere somministrato senza conseguenze, è come se la sua assunzione risvegliasse negli individui uno spirito dionisiaco.

Sì, senza dubbio la sostanza funge da mezzo per ottenere un’ebbrezza dionisiaca, ebbrezza epifanica e rivelatrice, è l’elemento che mette a nudo le nostre vere pulsioni, la nostra animalità, è come se la sostanza facesse crollare le nostre istanze morali, le nostre false concezioni su di noi e il mondo e facesse parlare direttamente l’inconscio. Anche in questo c’era l’idea di un attacco alla borghesia e alla contemporaneità, a una visione della vita e della propria esistenza così “cognitivista”, in cui gli individui pensano davvero di essere ciò che dicono di essere e vogliono davvero ciò che dicono di volere, in cui crediamo di essere padroni di noi stessi, di essere buoni e giusti, di essere un “Io”. In verità esiste una vita segreta, una vita violenta di desideri inconfessabili, di forze che muovono nel segreto le nostre scelte e il nostro modo di essere, una vita segreta che è più vera di quella superficiale, solo che la maggior parte di noi non ne è consapevole. Volevo quindi che alcuni personaggi si scontrassero prepotentemente con quello che credevano di volere e quello che desideravano davvero. E questa è la psicoanalisi.

 

Ti stai formando come psicoterapeuta. Oltre a citare alcuni psicoanalisti come Géza Róheim e Friederich J. Kraus, credo che la raccolta risenta molto dei tuoi studi. Ogni vicenda narrata potrebbe avere una lettura analitica, il mondo che racconti potrebbe forse essere un mondo interiore ai personaggi. Quanto conta e quale ruolo ha giocato la psicoanalisi nella stesura di Chiromantica medica?

Credo di aver risposto in parte nella domanda precedente. La psicoanalisi occupa un ruolo primario nella mia vita, è l’ambito nel quale mi sto formando e dove vorrei specializzarmi, di sicuro ha influenzato enormemente la stesura dei racconti; non tanto direttamente la scrittura, non scrivo i racconti riflettendo su una possibile interpretazione psicoanalitica, ma ha condizionato la mia persona e la mia visione del mondo.

 

Ragazze che indossano maschere come strap-on, prostitute transessuali, donne che mortificano, più o meno metaforicamente, la virilità degli uomini. Abbiamo una notevole presenza di falli appartenenti a figure femminili. Perché?

Credo che la risposta sia evidente, quello della donna fallica è il simbolo di questo momento storico. Il crollo del patriarcato e la crisi del maschio bianco etero rappresentano la vera svolta antropologica della nostra epoca, un cambio di paradigma culturale enorme che si riversa su ogni aspetto della nostra società, dalla politica, al costume, ai rapporti di potere, alle condotte sessuali e criminali (si pensi al femminicidio). Il problema è che questo fenomeno viene affrontato sempre in termini retorici e pedagogizzanti, mai da un punto di vista filosofico o psicologico. Ed è un peccato perché è così interessante, non capita tutti i giorni di toccare con mano un cambiamento così radicale, i valori portanti del mondo occidentale vengono quotidianamente attaccati e questo mette in crisi molti individui che rispondono cercando di arginare un fenomeno inarrestabile: fascismi, integralismi religiosi, jihad, Popoli della Famiglia sono quasi commuoventi nella loro lotta titanica destinata al fallimento. E dall’altra parte il progressismo, il politicamente corretto: c’è una guerra in atto che comporta una contraddizione continua, viviamo in una società mai così sessuofobica e libertina allo stesso tempo.

 

E qui abbiamo l’occasione di parlare di due racconti che costituiscono un a parte, non a caso aprono e chiudono la raccolta: “Io odio l’Ikea” e “La verità, vi prego, su Tik Tok”.
Tra questi episodi troviamo diverse analogie, sia sul piano stilistico (la scrittura si allontana dagli altri testi ed è in prima persona), che su quello tematico. I protagonisti sono due uomini benestanti – uno di famiglia borghese, l’altro arrampicatore sociale – con simpatie destrorse e una pressoché totale aderenza ai modelli della Roma reazionaria (omofobi, maschilisti, razzisti e compagnia bella).
Eppure a un certo punto li vediamo precipitare. La loro maschera da impostore si squaglia, la crisi identitaria li investe e li porta a soccombere al cospetto delle amazzoni con fallo che citavamo in precedenza.

Fin dai primi tentativi di scrittura iniziavo un racconto in prima persona per poi interromperlo e passare alla terza. Avevo l’impressione che la prima fosse inautentica, avevo bisogno di mettere una distanza dai fatti narrati per farli funzionare. Allo stesso tempo ho sempre avuto la tentazione di parlare di contemporaneità e della borghesia senza mai però sentirmi pronto: sentivo di non riuscire a inquadrarla nonostante il cogliere qualcosa di profondo della propria epoca sia uno degli obiettivi che la letteratura dovrebbe sempre porsi. Questo non sentirmi pronto è uno dei motivi per cui tutti i miei racconti erano scritti in terza persona e trattavano dell’ambiente magico-arcaico della provincia. È stato un modo per fuggire da una contemporaneità ipercomplessa, iperconnessa, estremamente mutevole e piena di contraddizioni, difficilissima da narrare. Poi, finalmente, come per magia, la prima persona è venuta fuori così come la contemporaneità e l’ambiente borghese. Questo è andato di pari passo con una maturazione stilistica: abbandonata l’idea radicale che fossero la lingua e lo stile a definire la qualità di un’opera letteraria, ho abbracciato l’idea che si potesse fare qualcosa di interessante utilizzando un parlato medio. Questi due racconti sono quindi quelli scritti più recentemente e quelli che considero i più maturi.
Nonostante questo, rifacendomi alla prima domanda, il primo e l’ultimo racconto, i racconti “borghesi”, sono comunque impregnati dell’atmosfera magico-perturbante della “chiromantica medica”. In questi due racconti, come in tutti gli altri, la realtà che percepiamo è solo apparente e c’è una verità segreta – forse sovrannaturale – da decifrare e portare a galla.

 

Guardando oltre il tuo esordio: credi di aver trovato nel racconto la tua forma prediletta o stai prendendo in considerazione altre strade per il prossimo libro?

Credo che la forma romanzo sia quella che mi è più congeniale, sono portato più a pensare a forme lunghe che brevi. Il problema è, e vado in controtendenza, che i racconti sono più facili, scrivere un romanzo fatto bene richiede una fatica enorme, una coerenza e una costanza di intenti difficili da mantenere. È vero che i racconti richiedono una perfezione stilistica e di contenuto che un romanzo non richiede, ma allo stesso tempo non è facile trovare romanzi compiuti fra i contemporanei; appellandosi alla maggiore indulgenza della forma lunga spesso vengono pubblicate opere mediocri e carenti in molti punti.
Dal mio canto ho fatto proprio quello che la maggior parte degli estimatori dei racconti condanna: ho iniziato a scrivere forme brevi per affinare la lingua, lo stile, e cominciare ad avvicinarmi a certi temi sapendo però che avrei avuto bisogno di forme lunghe per sviscerarli una volta che sarei stato pronto. Resta naturalmente il discorso che il racconto è una forma indipendente e non ancillare che merita l’attenzione e la dignità del romanzo.

 

(Alessio Mosca, Chiromantica medica, nottetempo, 2022, 144 pp., euro 14, articolo di Martin Hofer)
Libri per l'estate 2022

Libri per l’estate 2022

Mentre caldo, geopolitica e paranoie pandemiche rendono il caos l’ingrediente principale anche di quest’estate, leggere non è mai stato così salvifico, che sia per rifugiarsi in un posto sicuro – oppure familiarmente ignoto –, o per tentare di districarsi meglio nella ragnatela del presente.
Ecco allora, come ogni anno, qualche consiglio e proposito di lettura da parte della nostra redazione.

 

 

Manuela Altruda

Di solito sono una grande sostenitrice delle liste in generale: liste di cose da fare, liste di cose da non fare, liste di cose a caso. È raro, però, che io provi a buttare giù una lista di letture perché ogni volta, puntualmente, non la rispetto. Eppure questa volta forse dovrò cedere: negli ultimi mesi sono diventata una lettrice disordinata, e credo sia giunto il momento di ricorrere a una serie di buoni propositi. Dunque cosa leggerò quest’estate? Tra le uscite più recenti mi incuriosiscono due memoir, uno di un’autrice spagnola e l’altro di una statunitense. Il primo è I nomi propri di Marta Jimenez Serrano, uscito per Giulio Perrone Editore poche settimane fa; l’altro è La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch pubblicato da nottetempo. Mi sono poi ripromessa di vincere la mia personalissima battaglia con il genere racconto e, a questo proposito, un posto speciale sul mio comodino è occupato da Emmanuelle Pagano e il suo Una volpe a mani nude (L’orma), un mosaico di storie, di vite bizzarre e fuori dal comune all’ombra di un lago che non dimentica.

 

Niccolò Amelii

Estate… stagione di bilanci, di timori o di lieti pensieri? Mai come oggi il dilemma amletico si fa più urgente. Sia come sia, sarà per me un’estate, ahimè, di poche e centellinate letture. Tra i libri pubblicati recentemente mi dedicherò a Le perfezioni di Vincenzo Latronico (Bompiani), romanzo che con un linguaggio asciutto e cristallino restituisce narrativamente la crisi generazionale dei millennials, persi nei loro impalpabili desideri di fuga e stabilità, e alla raccolta di racconti Solo storie di sesso (nottetempo), in cui Francesco Pacifico esplora e declina il tema del sesso, tra indagine ed esperimento, assecondando le ampie e sfaccettate potenzialità formali proprie del genere breve. Per quanto riguarda i “consueti” recuperi agostani, la mia attenzione sarà votata certamente a Le piccole vacanze di Alberto Arbasino (autore per me da sempre associato all’estate, chissà poi perché), che da troppi mesi ormai mi scruta polveroso dal comodino al lato del letto.

 

Claudio Bello

La mia estate di letture si muoverà lungo tre linee principali. In primis, voglio approfondire alcune zone parecchio ombrose della Storia del Novecento, dedicandomi a un grande classico come American Tabloid di James Ellroy (cogliendo l’occasione della sua ripubblicazione da parte di Einaudi Stile Libero) e al libro di un esordiente, Il Mostro di Alessandro Ceccherini (nottetempo), che racconta, romanzandola, la storia del più celebre serial killer italiano. Nel frattempo approfondirò un filone che frequento già da un po’ – e per cui ho un debole –, quello delle scrittrici weird sudamericane: per ora ho in lista Nefando di Mónica Ojeda (Polidoro Editore) e i racconti di Mariana Enriquez (Marsilio). Ultima ma non per importanza, la critica letteraria, genere che per qualche motivo ho sempre trovato congeniale ai grandi caldi dell’estate: e quindi vada per L’ultimo bastione del buon senso di Danilo Kiš (Wojtek Edizioni) e La voce della Sibilla di Filippo Tuena (il Saggiatore).

 

Cristina Cassese

Ogni anno, la mia estate comincia con una sorta di rito battesimale: il primo bagno in acque libere. Generalmente brevissimo, gelido ed elettrizzante, scandisce per me il momento di passaggio, l’attraversamento dalla sponda urbana e (di questi tempi) perlopiù domestica a quella più selvatica, alla ricerca dell’addiaccio. La corrente mia bella stagione è iniziata presto e, casualmente, con un romanzo il cui titolo è risuonato didascalico: Quando finisce l’inverno di Guadalupe Nettel (Einaudi), l’autrice del Messico contemporaneo che sta dando un contributo essenziale al processo di  emancipazione della letteratura sudamericana dal realismo magico. In queste settimane afose in cui lavoro e vacanza si alternano ritmicamente, leggo Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione di Lucie Azema (Edizioni Tlon) e Lingua Madre di Maddalena Fingerle (Italo Svevo).  Mi aspettano La torcia di Marion Zimmer Bradley (HarperCollins), I ragazzi di Anansi di Neil Gaiman (Mondadori) e Questi capelli di Djaimilia Pereira de Almeida (La Nuova Frontiera). C’è poi una lettura che ho interrotto ripetutamente, forse perché mi richiede un’esclusività a cui non sono affatto abituata. Che sia arrivato, finalmente, il momento propizio per I detective selvaggi di Roberto Bolaño?

 

Giulia Eusebi

Ho deciso che quest’anno le letture estive ruoteranno attorno ai miei guilty pleasures: misteri, sparizioni, omicidi e – perché no – il soprannaturale. Una volta scelto il fil rouge che lega tutto, la lista dei libri da portare con me in questi mesi estivi si è sviluppata quasi sull’onda dell’istinto (o forse potrei definirlo fiuto da detective?). Prima tappa: Tokyo anno zero di David Peace (il Saggiatore), per addentrarmi nella violenta capitale nipponica post conflitto mondiale e farmi guidare dalla scrittura disinvolta di Peace tra la cronaca nera del Sol Levante. Seconda tappa: Il banchetto annuale della Confraternita dei becchini di Mathias Enard (edizioni e/o), per rimanere ammaliata da un romanzo la cui struttura ricorda la Ruota del Tempo e dove morte, memoria, folclore e reincarnazione si intrecciano in modo indissolubile. Terza tappa: Trovate Ortensia! di Paolo Zanotti (Ponte alle Grazie) per scoprire una Pisa pop, anni Novanta e noiristicamente sovrannaturale, attraverso un romanzo che ha il sapore di una commedia shakespeariana. Quarta tappa: Il conte Luna di Alexander Lernet-Holenia (Adelphi), per perdermi in un giallo metafisico e sparire anche io nelle viscere di Roma per ritrovarmi poi chissà dove.

 

Martin Hofer

Questa estate la dedico al ritorno e alla prima volta di due autori italiani: grande attesa per La colpa al capitalismo di Francesco Targhetta (La nave di Teseo), curiosità anche per la raccolta di racconti Chiromantica medica di Alessio Mosca (nottetempo), un esordiente di cui credo sentiremo parlare. Non basteranno certo due settimane di ferie per affrontare Ferrovie del messico di Gian Marco Griffi (Laurana Editore), ma il volume è sullo scaffale dal Salone del libro di Torino e presto arriverà il suo turno.

 

Carmine Madeo

Come ogni estate, le mie controre d’agosto sono solennemente dedicate ai libri. Sono molte le idee di lettura che mi gironzolano per la testa e siccome il tema “Seconda guerra mondiale” mi attira sempre più di ogni altro, l’epopea Stalingrado di Grossman, pubblicato recentemente da Adelphi, è il primo candidato. Sono enormemente tentato anche da Vivere mi uccide di Paul Smaïl (minimum fax), un romanzo ambientato in Francia che parla delle discriminazioni subite da due fratelli di origine marocchina, cosa che mi ha ricordato il film L’odio di Mathieu Kassovitz, con l’indimenticabile interpretazione di Vincent Cassel. Quando guardo la mia libreria, gli occhi si posano ormai da qualche tempo sulla copertina di Belle Greene di Alexandra Lapierre (edizioni e/o), comprato al Salone di Torino (la mia copia è anche autografata!), una storia vera ambientata a New York nei primi anni del Novecento che racconta l’ascesa sociale di una donna straordinaria in lotta contro i pregiudizi razziali. Tra i saggi, poiché mi interessa la questione siriana e sono un estimatore di Joby Warrick, vorrei leggere La linea rossa (La nave di Teseo). Da ultimo, immaginandomi sotto l’ombrellone penso a Stephen King e a Il miglio verde (Sperling & Kupfer), di cui sono in possesso di una bellissima prima edizione, composta da sei volumetti.

 

Giuseppe Maria Marmo

Ho sempre vissuto l’estate come una sorta di frontiera esistenziale. Il periodo dell’anno in cui le esperienze dei mesi precedenti si addensano e formano un variegato monte di progetti e nostalgie. Ecco perché in genere, perlomeno in questo periodo dell’anno, cerco di evitare i libri particolarmente impegnativi, che di solito sono quelli che preferisco. Ma i propositi sono fatti per essere infranti; così ad agosto combatterò la canicola all’ombra di uno dei più maestosi monumenti della letteratura del Novecento: L’uomo senza qualità di Robert Musil. Oltre a questo grandissimo classico, ho già riposto in valigia due romanzi d’esordio che mi fanno ben sperare nelle capacità autoriali e editoriali dei nostri tempi: La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiere di Alberto Ravasio, edito da Quodlibet e Adeu di Ignazio Caruso, edito da Giulio Perrone Editore. Per entrambi i libri  – leggendo la quarta e sfogliando qualche pagina – ho avuto l’impressione che gli autori volessero comporre dei testi in grado di resistere alla prova del tempo. Non so se ci siano riusciti, ma in ogni caso hanno il merito di aver tentato.

 

Claudio Musso

Il primo desiderio è quello di consigliare una marea di libri. La compulsività lavora spesso per osmosi. E se fosse invece il mare il protagonista delle nostre prossime letture estive, indipendentemente dalla meta che raggiungeremo per riprenderci i nostri spazi e mandare in ferie anche la sveglia mattutina? Con l’occasione di vivere quell’esperienza nuova, per chi lavora durante la settimana ed è costretto a vivere i propri libri la sera o nel weekend, della lettura diurna? Propongo pertanto quattro testi della letteratura internazionale dove il mare è il protagonista e mostra i suoi diversi volti. Si tratta di un percorso a tappe che è anche un’occasione per rileggere con occhi nuovi alcuni testi ma prendendo il mare come bussola e chiave interpretativa al di là della storia e del “come va a finire”. Il mare come psicologo: Herman Melville, Moby Dick o la Balena nella traduzione di Cesare Pavese (Adelphi), per chi ha voglia di pungolare la propria apatia; il mare come stregone: Joseph Conrad, La linea d’ombra, nella traduzione di Gianni Celati (Mondadori), per chi ha voglia di specchiarsi in un nuovo sé stesso; il mare come destino: Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare nella nuova traduzione di Silvia Pareschi (Mondadori), per chi in qualche modo non riesce più a fare buona pesca ma ha bisogno di fratellanza; il mare come mistero: Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, nella traduzione di Luciano Tamburini (Einaudi), per chi ha voglia di scoprire nel calamaro gigante tutto quello che non può spiegare ma nel quale vuole credere. Dopo questa “immersione” un ulteriore stimolo è fare parlare tra di loro questi quattro testi.

 

Alberto Paolo Palumbo

«Vento d’estate / Io vado al mare, voi che fate? / Non mi aspettate / Forse mi perdo». Sì, caro Max Gazzè, anche io vado al mare, anche io mi perdo, ma a differenza tua è certo che lo faccia. Lo farò nei libri, l’unica cosa che mi dà soddisfazione e mi permette di distrarmi dalla noia estiva, ma anche da pensieri nefasti del tipo “a settembre che farò? Ancora inoccupato o forse trovo lavoro?”. Tanti sono i libri che vorrei leggere quest’estate, che sia per semplice formazione letteraria o perché devo recensirli. Se riuscirò a rispettare i miei propositi non lo so, ma l’importante è perdersi. Innanzitutto, vorrei iniziare finalmente ad approfondire l’opera di John Updike, magari partendo da qualcosa di breve, tipo Il centauro (Einaudi), che sembra essere una riscrittura interessante della figura mitologica di Chironte con protagonista il professore americano George Caldwell. Poi vorrei dedicare il mio tempo a qualche esordio nostrano, come Adeu di Ignazio Caruso (Giulio Perrone Editore), che racconta una Sardegna primitiva e selvaggia, quella vera, lontana dal Billionaire, dai fighettini che pranzano con spaghetti alle vongole e calici di vino bianco e dalle spiagge di lusso, e ad altre due interessanti novità: Trust di Hernan Diaz (Feltrinelli), un romanzo nel romanzo incentrato sulle figure di un leggendario finanziere americano e una moglie artefice del suo successo; Il Mago di Riga di Giorgio Fontana (Sellerio), ispirato alla vita dello scacchista Michail “Miša” Tal’, perché le narrazioni su scacchi e scacchisti mi hanno sempre affascinato: hanno spesso un che di esistenziale.

 

Davide Tamburrini

Sarò classico, lo so, sicuramente un po’ scontato, ma quando si parla di estate mi piace immaginarmi al mare, il suono delle onde che cura mesi di inquinamento acustico e qualche racconto al tramonto sotto la veranda, meglio se accompagnato dal suono di un bel brano jazz, di quelli che piacciono a me, un po’ bebop un po’ bluesy, come quelli di Charlie Parker. Se a tutto questo volete aggiungere qualche momento di realtà sospesa, atmosfere variegate e fantasticherie allora vi consiglio vivamente la recente ripubblicazione di Le armi segrete di Julio Cortázar (Einaudi), cinque racconti che trovano in Il persecutore la loro sublimazione perfetta. Una nouvelle che rispecchia tutto l’amore che lo scrittore argentino aveva per Bird, il quale traspare dal controllo assoluto di tempi, accelerazioni e pause che si intrecciano in un beat dal ritmo commovente e sperimentale. E nel caso volessimo proseguire con questo clima fantastico ma anche un po’ grottesco, fra streghe moresche, eremiti e cavalieri erranti, il Manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki (Adelphi) continua a essere ancora oggi una fonte di innumerevoli tesori e perle nascoste. Infine, tornando a qualcosa di più attuale, consiglio un romanzo che ho finito di leggere da poco, Effimeri di Andrew O’Hagan (Bompiani), la storia di un di amicizia ambientata nel Regno Unito fra la fine degli anni Ottanta e i giorni nostri, quella fra James detto Noodles e Tully Dawson, due ragazzi della provincia scozzese che sfidano il mondo con il loro anticonformismo, ribelli a tutto pur riconoscendosi nelle parole dei loro idoli preferiti, come i The Smiths e i New Order, e in un universo di citazioni musicali, cinematografiche e letterarie.

 

Foto: Henry Be, via Unsplash

Copertina di Effimeri di O’Hagan

Insegnami a non avere paura

«Take me out tonight, where there’s music and there’s people and they’re young and alive». Era il 1985 e la scena musicale britannica era infiammata dalla voce melanconica e suadente di Patrick Morissey, che dal palco sputava la sua noia strascicata elegantemente, come se non gli importasse nulla di quello che stava dicendo o facendo in quel momento.

La fine della Beatlemania aveva lasciato dietro di sé i postumi di una generazione delusa, anticonformista, che non si riconosceva più nelle parole limpide e chiare dei baronetti e viveva nei boroughs dispersa fra Londra, Liverpool e Manchester.

Sono gli anni del thatcherismo imperante, dei minatori e degli operai delle fabbriche in sciopero, del postpunk, della rabbia sociale covata sottopelle pronta a esplodere cieca dopo anni di repressione coatta. Migliaia di Zanardi con le mani in tasca e la bocca colma di risentimento che invadono le strade, vomitando nichilismo anestetizzati dall’alcol e il fumo.

Una cultura sotterranea che vive tra i negozi di dischi e cerca di sbarcare il lunario come possibile, all’interno di situazioni difficili che hanno spesso per protagonisti genitori incapaci di comunicare con i propri figli o nel peggiore dei casi totalmente assenti. Un mondo in cui sperare di stabilire un legame di affetto con qualcuno è da considerarsi ancora come qualcosa di prezioso, a cui attaccarsi con tutte le proprie forze in cerca di un sentimento di appartenenza, di rivendicazione sociale.

Effimeri di Andrew O’Hagan, edito Bompiani nella traduzione di Marco Drago, è la storia di un’amicizia, quella fra James, detto “Noodles”, e Tully Dawson, entrambi nati fra i confini dell’Ayrshire, a pochi chilometri da Glasgow. Due vite complicate che si incontrano e si riconoscono consumando la loro adolescenza fra progetti e sogni sussurrati in cima alle bitte dei canali, i cantieri in costruzione che si espandono all’orizzonte.

James è più riflessivo, ama leggere il Bardo e recitare i versi di Yeats, mentre Tully è impulsivo, pieno di spirito e pronto a spiccare il volo, non una farfalla ma «più l’aria che la trasporta», il tipo di persona che è sempre l’anima della festa e non si riesce a trattenere.

E la più grandiosa delle feste si presenta finalmente nel 1986 quando i due ragazzi assieme a una combriccola di amici decidono di partire per un fine settimana a Manchester, per assistere dal vivo al “Festival della decima estate” che si terrà al G-Mex (una vecchia stazione ferroviaria riconvertita in uno spazio adibito a ospitare concerti). L’evento, organizzato da Factory Records – un’etichetta discografica indipendente capace di riunire band del calibro di The Smiths e New Order – è un inno alla vita punk, alla giovinezza, al sentirsi liberi, ribelli e senza regole, l’occasione per molti di un riscatto atteso a lungo. Un’estate che sarà capace di cambiare il loro modo di percepire il mondo, il ricordo fondante di un’amicizia che durerà per sempre, la gloria di aver avuto amici così, come urlano in esergo i versi di Yeats.

La prosa di Effimeri si snoda come un serpente, fra quadri diversi colmi di giochi di parole, citazioni cinematografiche e musicali («il titolo, se non mi sbaglio, era “Love Will Terrace Apart”»), da cui emerge il cuore pulsante di una generazione, quella degli anni Ottanta, la cui identità viene delineata per così dire dall’interno, senza abbandonarsi mai a eccessive descrizioni di contesto.

La prima parte del romanzo si chiude con la voce di Morissey («è più grande di Gesù») che al G-Mex canta del panico per le strade di Carlisle mentre Limbo, uno degli amici del gruppo, qualcosa a metà fra Sick Boy e Jeffrey Lebowski, si arrampica sugli altoparlanti fino a sbucare sul palco, ballando e sorridendo per l’eternità, la folla che lo acclama e spande luce verso di lui, mentre Manchester si trasforma nel «sinonimo di quello che eravamo stati tutti insieme».

Poi improvvisamente la sceneggiatura cambia, e ci ritroviamo nel 2017. Sono passati poco più di trent’anni da quei giorni a Manchester e alla fine come spesso accade la vita ha tolto ma ha anche dato. Limbo è morto, portandosi con sé un intero mondo di risate, James è diventato uno scrittore di successo e Tully ha una cattedra in inglese nell’East End di Glasgow. Tutto sommato le cose non sono andate poi così male per quei due ragazzi nati senza nessuna prospettiva futura allettante. Tuttavia, gli eventi subiscono una decisa impennata quando di ritorno da una cena James riceve una telefonata di Tully che lo informa di essere un malato terminale. Cominciano così mesi difficili, in cui invece di abbandonarsi al vittimismo i due cercano in tutti i modi di riavvicinarsi alla vita, godendosi insieme gli ultimi istanti che il tempo ha concesso loro.

Sono pagine di un realismo denso, dove a situazioni difficili si alternano momenti di delicata leggerezza, immagini che spesso assumono la forma sottile dei ricordi, di due menti che hanno il potere di comunicare su frequenze parallele, distanti dai pensieri comuni della gente. Prima Tully decide di sposarsi, poi insieme alle loro rispettive compagne, Anna e Iona, i due amici decidono di partire alla volta di Taormina, per un’ultima vacanza spensierata. «Induciamo la morte a essere orgogliosa di ghermirci», ripeteva la Cleopatra di Shakespeare, ormai conscia del suo destino funesto. La stessa frase che James e Tully ripetono da quando sono ragazzi, e che ora quasi fosse un mantra guida le loro decisioni e le loro scelte di vita, senza che ci sia più la possibilità di guardarsi indietro.

Alla fine, paradossalmente, sarà la fedelissima di Dio, Gemma, la credente, a schiarire le paure di James, in un incontro-scontro sul tema della morte. «Mi sono concesso il lusso di dimenticarmi che tutto è effimero», si abbandona a dire Noodles, sconsolato. Ma questo non è l’essenziale, sembra dirci Andrew O’Hagan. Questo è un errore che facciamo tutti. Ciò che noi possiamo fare è stare vicini alle persone che amiamo e lasciarci semplicemente andare, senza aver paura di camminare insieme.

Di Effimeri abbiamo parlato con l’autore, in occasione del festival Letterature, tenutosi a luglio a Roma.

 

Mi piacerebbe cominciare dal titolo, Mayflies (“efemere”), che ricorda fin da subito la fugacità di questo insetto e il suo breve stare al mondo. Come ti è venuto in mente di sceglierlo? In italiano, forse per assonanza, il libro è stato tradotto a partire dalla parola ephemeral, “effimero”. Puoi spiegarci questa scelta?

Un’efemera è un insetto che vive solitamente uno o due giorni. Il titolo mi è venuto in mente molto velocemente, volevo un simbolo che rappresentasse la brevità dell’esistenza, e l’ho trovato in quest’essere che fa tutte le esperienze della vita in un tempo estremamente breve, un simbolo che rappresentasse l’uomo (Tully) nel libro. Volevo che questo fosse il tema del romanzo, e il titolo mi è arrivato come un lampo, fissandosi nella mia mente per non lasciarmi più. E oltre a essere un simbolo o una metafora, è anche il correlativo oggettivo dell’uomo, un’immagine che gli dà speranza nell’affrontare gli eventi che gli capitano.

 

Guardando ai tuoi libri precedenti, come Stammi vicino o Bravissima, mi viene la sensazione che il centro della tua attenzione sia spesso focalizzato sull’uomo. Figure umane, ma non maschere, che si trovano ad affrontare delle sfide che spesso le portano a confrontarsi con sé stesse, qualcosa che mi ricorda in un certo senso alcuni dei personaggi nei film di Ken Loach.

Sì, penso ai romanzi di Henry James, a quelli che chiamava the drama of incidents, the novel of problems. Ci svegliamo tutti i giorni affrontando i nostri problemi, piacevoli o dolorosi che siano. Credo che a volte come lettori guardiamo ai romanzi cercando un aiuto per vivere la nostra vita e anche per suscitare risposte e percezioni che altrimenti non si verificherebbero mai. A volte capita che ti approcci a un romanzo cercando una sorta di guida morale e un luogo in cui la vita è drammatica in un’ambientazione e un modo differenti da quelli in cui vivi tu. Amo i romanzi che riescono a costruire questo tipo di architettura e ho cominciato a volerlo fare anche io per avere l’opportunità ogni volta di portare il lettore in un viaggio verso situazioni “scomode”. Voglio che il lettore si immerga nel libro, ma senza dare nessuna lezione, sperando solo che questi apprezzi il libro per la vita che viene rappresentata al suo interno.

 

Una delle cose che ho più apprezzato in Effimeri è il modo in cui sei riuscito a ricreare un contesto, una cultura, che è quella della generazione degli anni Ottanta, senza però indulgere in alcuna spiegazione o descrizione. Qualsiasi generazione crea i suoi miti e quindi le sue battute, il suo linguaggio, e tutta una sua forma di esistere che trae forza dal suo essere incatalogabile. Secondo me il più grande pregio di questo libro è come hai dato vita a quest’atmosfera, al senso di un gruppo che ha e definisce i propri codici senza che questi siano comprensibili alla maggior parte della gente, specialmente alle vecchie generazioni.

Sì, questo per me è un gran complimento perché è stata una questione prettamente tecnica a cui ho lavorato molto. Penso che nessuno voglia leggere un romanzo in cui una persona si colloca al di sopra degli altri descrivendo il mondo e la vita dei giovani come in un saggio. Questa vita deve esplodere da sola nella pagina, con tutta la sua irruenza. Il tuo scopo come scrittore è riuscire a far vivere i personaggi sulla pagina, tutta la loro cultura fatta di citazioni, dalle canzoni ai film, dai The Smiths ai Joy Division. E non è importante se come lettore non riesci a cogliere tutte quante le citazioni, la loro cultura troverà ugualmente un modo per raggiungerti e colpirti. Ogniqualvolta leggo un romanzo, che sia italiano, americano o francese, e mi immergo in un mondo che non è il mio, mi sento felice.

 

Ho letto una tua precedente intervista in cui a un certo punto affermi che la generazione cresciuta negli anni Ottanta sta cominciando a trovare un suo posto, quello giusto, solo ora.

A volte capita che una generazione arrivi in un momento perfetto della Storia creando con questa un impatto fortissimo, così come è capitato ai nostri genitori negli anni Sessanta. Erano stanchi della loro società, dei valori che la dominavano derivati dalla Seconda guerra mondiale, stanchi di tutta l’ideologia; il femminismo cominciava a farsi sentire, la musica era tutto, c’era la coscienza di un’intera rivoluzione. E noi negli anni Ottanta eravamo i figli di quella generazione, arrivati con un senso di sconfitta schiacciante. Ma abbiamo reagito, il thatcherismo invadeva la nostra società e c’era un senso costante di malinconia, di gioiosa depressione, un postindustrial wasteland feeling che credo solo adesso cominci davvero a curarsi.

 

Una delle parti più belle è secondo me il finale. Mi sembra racchiudere un po’ la risposta a tutte le domande che vengono in qualche modo poste nel libro. A parte il bellissimo confronto con la credente Gemma, che scioglie definitivamente tutte le paure di James, sembra quasi che alla fine sia solo l’accettazione di tutto quello che sta accadendo a rendere più pieno il viaggio, la coscienza di quanto tutto sia profondamente effimero. Ma a volte capire non è abbastanza, bisogna accettare, anzi interiorizzare per essere realmente liberi. Proprio ciò che succede a James e Tully, di modo che il romanzo si potrebbe interpretare come un lungo percorso verso la libertà. Che è un po’ il concetto di And make Death proud to take us («Induciamo la morte a essere orgogliosa di ghermirci»).

Sì, quello che James impara in quella scena è che devi affrontare la vita con coraggio. Tra molti anni tutte le persone intorno a noi non ci saranno più, forse questi edifici che ci circondano resteranno ma noi no, e se non lo capiamo vivremo questa vita sotto una falsa prospettiva. Ed è esattamente quello che stava facendo James, fino a quel momento, anche se il libro non ha una chiave religiosa. E alla fine poi la frase di Shakespeare, And make Death proud to take us. Quello che Gemma gli sta chiedendo è: Vuoi vivere per sempre? Vuoi che la morte di Tully sia una tragedia? No, trasforma questa morte in una festa e sii grato del tempo che avete avuto a disposizione per stare insieme. Mi sembra come se questa scena l’abbia scritta per tutta la mia vita, è venuta come un lampo, come se l’avessi avuta dentro da sempre.

 

Andrew O’Hagan, Effimeri, trad. di Marco Drago, Bompiani, 2022, 288 pp., euro 18, articolo di Davide Tamburrini)