Nina Companeez

Proust e il cinema

Non può non stupire che di Alla ricerca del tempo perduto, l’opera più importante di Marcel Proust (1871-1922) e uno dei massimi capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, le trasposizioni cinematografiche o televisive si contino appena sulle dita di una mano. Eppure la fama di quest’imponente romanzo, articolato in sette volumi pubblicati tra il 1913 e il 1927, non soltanto è indiscussa e planetaria ma in costante quanto inarrestabile crescita. Proust ci ha dato «la formula magica per rendere sensibile attraverso le parole ciò che dentro di noi si agitava informe e nostalgico di luce», scrive Giacomo Debenedetti in un saggio del 1946 rimasto inedito fino a quando, nel 1982, Mondadori lo pubblicherà in Rileggere Proust e altri saggi proustiani. Alla qualità della sua scrittura dobbiamo infatti, prosegue il grande critico letterario piemontese, «l’incognita psicologica e sensibile, quella della nostra personale equazione con la vita, che tutti abbiamo sulla punta della lingua ma si dilegua non appena tentiamo pronunziarla». Non a caso, vero protagonista di quell’unica e multiforme narrazione che costituisce la Recherche è difatti il Tempo, tessuto invisibile, fuggevole e inafferrabile che sottende al nostro universo interiore, animandolo. Ma è proprio questa peculiarità che, se da un lato fa di Proust uno dei maggiori scrittori del Novecento, dall’altra contribuisce a rendere particolarmente complicate le trasposizioni cinematografiche della sua opera.

Eppure, la parola «cinematografo» deriva dal greco κίνημα «movimento» e γράϕω «scrivere, disegnare», dunque il suo significato è proprio quello di «definire, descrivere ciò che è in movimento» almeno in teoria prestandosi, meglio della stessa letteratura, a rappresentare il senso del tempo e del suo incessante divenire. Il disegno di una resa filmica della Recherche viene tentato da Ennio Flaiano a partire dal 1964, quando a New York — dove si trova per la nomination all’Oscar della sceneggiatura di Otto e mezzo, scritta con Fellini, Pinelli e Rondi — lo raggiunge la proposta di un film di René Clement per Un amore di Swann, che avrebbe visto Marcello Mastroianni nella parte di quest’ultimo e Jeanne Moreau in quella di Odette. Flaiano, pur accettando con entusiasmo, non nasconde la difficoltà nel selezionare il materiale adatto, come commenterà in una conversazione con Luchino Visconti: «ma Proust è spaventoso (…). Quando lui dice: “Poiché l’amore è una scelta, non può essere che una cattiva scelta”, non è possibile sfuggire da questo assioma, non puoi fare che cattive scelte ed anche quelle che tu ritenevi buone, sono cattive, quindi ha ragione lui». L’anno successivo, difatti, scrivendo Progetto Proust (Bompiani, 1989) Flaiano ribalta l’impostazione originaria proponendo come testo centrale dell’adattamento Sodoma e Gomorra, con gli amori paralleli del barone di Charlus per Morel e del Narratore per Albertine. Ma nonostante la sostituzione venga accolta con favore, di fronte alle difficoltà la produzione e il regista si arrendono e tra ritardi, interruzioni e problemi pratici, la pellicola non verrà mai realizzata.

 

 

Quattro anni più tardi il Progetto viene ripreso dallo stesso Visconti, che ne aveva apprezzato le linee principali compattate intorno alle figure di Charlus e Albertine, nella significativa alternanza di due differenti usi del tempo: l’uno che corrisponde al ritratto lineare e cronologico del Barone, dunque obbediente a leggi fisiche e temporali, l’altro a quello circolare e psicologico della ragazza, vale a dire imposto dalla memoria del Narratore. Ciononostante, la concezione del cinema del regista milanese diverge troppo da quella di Flaiano perché la collaborazione possa continuare, e ancora una volta il film non si farà. Infatti l’estremo realismo e precisione della ricostruzione ambientale, cifra peculiare alla sua cinematografia, rischia di renderlo quel tipo di pellicola storica che mal si sposa al tentativo di creare personaggi che sembrino vivere fuori dal tempo, come era invece principale intenzione dell’autore del Progetto. Pertanto Visconti ne passerà l’adattamento a Suso Cecchi D’Amico la quale, pur realizzando un ottimo script, a sua volta lo vedrà accantonare. Dell’intero piano di lavoro non restano che il volume fotografico di Claude Schwartz sulle località francesi dove si sarebbe dovuto girare, alcuni bozzetti del grande costumista Piero Tosi e poco altro, a testimonianza dell’oggettiva difficoltà di raccontare in forma filmica quel cosmo mobile, cangiante ed extratemporale che costituisce l’essenza della Recherche.

Il problema di ricomporre l’enorme quantità di elementi del puzzle proustiano, trasponendolo dalla carta all’immagine in movimento, è difatti proprio quello dell’essere costretti a operare la “cattiva scelta” di cui avverte Flaiano, con il rischio di restituirne solo un affresco convenzionale, una sorta di carrellata della Belle Époque circoscrivente la portata a spettacolo mondano, dramma personale o storia di amori infelici — quello di Swann per Odette, di Charlus per Morel, del Narratore per Albertine — tralasciando così le fondamentali tematiche relative al tempo perduto e ritrovato, all’enigma della felicità o alle riflessioni sul significato di arte e letteratura. Del resto, se sullo schermo non è possibile che tradurre una piccola parte del capolavoro di Proust — basti pensare all’esigua durata di un film — si può far sì che ciò che viene rappresentato sia almeno fedele all’andamento diegetico del romanzo e al metodo della ricerca, come per Joseph Losey riuscì Harold Pinter nel 1973 con Proust. Una sceneggiatura (Einaudi, 1978). Ma anche in questo caso Losey non ce la farà a realizzarne la regia, abbandonando il proposito perché, per quanto entusiasta all’idea di Pinter di incorporare in un insieme unico i temi principali della Recherche, il tentativo si andrà in seguito rivelando come un’impresa titanica e irrealizzabile.

Il 1984 vede l’uscita nelle sale di Un amore di Swann di Volker Schlöndorff, ma perfino la firma al copione di autori come Peter Brook e Jean-Claude Carrière non varrà a riscattarne l’esito mediocre. Sebbene infatti vi si riscontri una certa volontà di eleggere a protagonista non i personaggi e nemmeno il Narratore, bensì il tempo, la struttura segue un andamento troppo lineare che nulla restituisce alla profondità concettuale del romanzo. Schlöndorff, preso dalla ricostruzione di atmosfere d’epoca e costumi, così come per interpretare Odette sceglie Ornella Muti in base alla somiglianza fisica con la figura letteraria, allo stesso modo si accontenta di dirigere un macchiettistico Alain Delon nel difficilissimo ruolo di Charlus. Seguono Il tempo ritrovato del cileno Raúl Ruiz (1999), che se per un verso è un sentito omaggio al genio dello scrittore francese, dall’altro non è in grado di esprimere né l’estrema sottigliezza di quella cattedrale del pensiero che è la Recherche, né del mondo aristocratico della Parigi di fine secolo. Nel 2000 Chantal Akerman presenta La captive, liberamente tratto da La prigioniera e ambientato in epoca moderna, specie di detective story non priva di un suo ipnotico fascino ma, nuovamente, che poco indaga e sa manifestare della complessità dell’originale, finendo per essere solo la vicenda di un uomo morbosamente geloso. Dello stesso anno è How Proust can change your life di Peter Bevan, film documentario per la televisione che ne ricostruisce la biografia attraverso i contributi di vari scrittori, tra i quali il premio Nobel per la letteratura Doris Lessing.

 

 

Nel 2003 esce Le intermittenze del cuore di Fabio Carpi — già Nastro d’Argento per la sceneggiatura del potente Diario di una schizofrenica di Nelo Risi (1968) — storia di un regista che, intento alla realizzazione di un film su Proust, per mezzo delle sue pagine viaggia nel passato dei propri ricordi personali, abbracciando e rievocando tanto la sua vita quanto, indirettamente, quella dell’intera generazione cui appartiene. Ispirandosi, con questo doppio e trasversale sguardo, al nucleo fondante della scoperta della memoria involontaria, Carpi evita a priori tutti quegli scogli che arenarono Flaiano, Clement, Visconti, Cecchi d’Amico, Pinter e Losey, arrivando a creare un interessante e malinconico esempio di cinema nel cinema. Il 2011 vede l’accurato lungometraggio per la televisione À la recherche du temps perdu di Nina Companeez, il cui limite è però quello, attraverso il ricorso con eccessiva insistenza allo stratagemma della voce di sottofondo a “spiegazione” delle sequenze, di non sfruttare adeguatamente le potenzialità espressive del mezzo filmico, per un risultato finale che, per quanto affascinante, è poco più di un audio-libro con immagini.

Compito davvero arduo quello di un’adeguata trasposizione della dimensione proustiana, probabilmente più adatta al documentario — di cui valido esempio è il sottile, coltissimo Alla ricerca di Marcel Proust che Attilio Bertolucci realizzò nel 1966 per la Rai — piuttosto che al linguaggio propriamente cinematografico. Nondimeno, la serialità di una fiction televisiva potrebbe essere lo strumento in grado di trasferire il ritmo fluente del suo ininterrotto racconto, a partire però dalla prospettiva di restituirne l’irrinunciabile substrato concettuale. Il vero pericolo, infatti, è quello di cedere alle mode culturali — o pseudo tali — del momento che, attirando lo spettatore con un prodotto dal facile richiamo, ne riducano l’essenza a telenovela di perversioni sessuali, sfilata in costume fin de siècle o, peggio ancora, ne forzino i temi dell’omosessualità e del lesbismo nell’ambito di un opportunistico politically correct. Cinema e televisione devono impegnarsi a tradurre l’incognita sfuggente di cui ci parla Debenedetti, quel misterioso quid che giace al fondo di noi stessi, inespresso, che Proust ha saputo portare alla luce nelle sue pagine. Sfida difficile, ma possibile, di rendere visibile quell’invisibile protagonista delle nostre vite che è il Tempo.

Copertina di Sono fame di Natalia Guerrieri

“Sono fame”: corpi affamati e lavoro ai tempi dell’iperproduttività

Scriveva Byung-Chul Han in Psicopolitica (nottetempo, 2016) che con l’avvento del neoliberalismo «ciascuno è un lavoratore che sfrutta se stesso per la propria impresa. Ognuno è padrone e servo in un’unica persona. Anche la lotta di classe si trasforma in una lotta interiore con se stessi». Oggigiorno, infatti, il lavoro viene percepito come lotta contro se stessi, una questione di sopravvivenza più che di dignità per la quale chiunque è disposto a tutto pur di restare a galla, anche a rinunciare ai propri affetti, anche al dolore. Questo aspetto è centrale in Sono fame (Pidgin Edizioni, 2022), secondo romanzo di Natalia Guerrieri. Qui la protagonista è Chiara, una “rondine”, figura che grossomodo corrisponde a un rider dei giorni nostri. La ragazza deve spostarsi di casa in casa trasportando cibo per conto di Envoyé, l’azienda per cui lavora, e deve essere disponibile a ogni ora del giorno, poiché più consegne realizza più punti riceve e più viene considerata una rondine efficiente. Alle rondini come Chiara viene sempre detto di sentirsi libere, di prendere la propria attività come un gioco, e che il potere è nelle loro mani, anzi, nelle loro ali.

Si può tranquillamente definire Chiara un’eroina di questa era iperproduttiva: non solo è schiava di sé stessa e delle costrizioni del “potere”, ma vive il lavoro come sopravvivenza e con grande senso di precarietà, arrivando persino a rifiutare il dolore e la sofferenza del proprio corpo. D’altronde, mentre, come scriveva Sarah Jaffe, il lavoro non ti ama (o meglio, «Work won’t love you back», ovvero non ricambierà l’amore), Chiara deve mostrarsi sempre compiacente ed entusiasta, rigettando dunque ogni forma di negatività. Di questo e di altri temi abbiamo parlato con l’autrice.

 

Vorrei iniziare parlando con te di un argomento che nella nostra letteratura sta prendendo sempre più piede e che sembra interessare anche il tuo modo di fare letteratura: il weird. Una volta, parlando con dei conoscenti, uno di questi mi ha detto che il discorso sul weird si è ormai esaurito. Che cosa ne pensi?

Per quanto riguarda il discorso sul weird, in generale qualsiasi etichetta mi sta sempre un po’ stretta. Sicuramente (e per fortuna) il modo di narrare il presente – quantomeno nei libri che si pongono domande su come narrarlo – cambia costantemente e attinge da qualsiasi campo, anche al di fuori della letteratura. Ora, per esempio, sarebbe difficile separare il mondo della narrativa da quello della serialità perché lə autorə delle “nuove generazioni” scambiano molto con questo bacino di idee, soluzioni narrative e spunti stilistici. Credo che anche il weird stesso sia cambiato nel corso del tempo, ci sono grandi differenze, per esempio, fra il “montaggio” dei dipinti surrealisti, la “weird fiction” di Lovecraft e alcune opere considerate proto-new weird di Stephen King. Poi, tutte le definizioni sono per loro natura approssimative, si pensi al fatto che spesso categorie più generali come quella del fantastico comprendono anche il weird.  Se, per dirla con Fisher, «il weird è qui un segnale del fatto che i concetti e i sistemi di riferimento di cui ci siamo serviti in precedenza sono ormai obsoleti», penso che in gran parte della letteratura esistente ci sia da sempre una piccola componente weird che trovo interessante. Se proprio dovessi dare una definizione alla mia scrittura sceglierei – includendo in parte anche il weird – questa: ibrida. Ibrida all’interno di ciascun testo ma ibrida anche nel rapporto fra un testo e l’altro. Una mia caratteristica è quella di annoiarmi abbastanza in fretta del modo di scrivere che metto in atto volta per volta. Per questo cerco sempre di sperimentare qualche scarto –anche piccolo – rispetto a ciò che ho scritto in precedenza.

 

Questo tuo nuovo romanzo mi sembra diverso rispetto a Non muoiono le api. Se quest’ultimo era distopico e, se consideri la presenza delle “luci”, anche weird, trattandosi di soglie fra due mondi non appartenenti alla stessa dimensione, Sono fame sembra reale, anche se il weird un po’ permane: quella di Mario, per esempio, il superiore di Chiara a Envoyé, sembra una presenza eerie, nel senso che esiste, ma in realtà si ha la sensazione che sia assente, e le case e i palazzi dalle atmosfere tetre dove Chiara consegna il cibo assomigliano a soglie verso altri mondi. Cos’è cambiato fra i due romanzi? È giusto dire che ora stai parlando della realtà perché non c’è più un futuro da immaginare, in quanto quest’ultimo lo stiamo già vivendo?

Non muoiono le api è stato definito in molti modi diversi, sicuramente si può parlare di distopia per il legame che instaura con il nostro contemporaneo, tuttavia dentro ci sono anche la fantascienza, l’horror e il paranormale. Sono fame crea ancora più problemi di definizione perché è ambientato nel nostro presente ma mi sono permessa di infilarci dentro tutto ciò che mi serviva per raccontare davvero la mia storia. Quindi sono andata avanti senza troppi veti per vedere dove la scrittura mi avrebbe portato. Così in alcuni punti compaiono corde di carne, teschi riflessi nello specchio, cumuli di pezzi di corpi che prendono la forma di una città. In altri passaggi invece ci sono strade e palazzi che possiamo riconoscere, pizzerie, fast food e cimiteri dove forse siamo statə davvero. Vorrei citare un’altra frase di Fisher: «Il capitale è a ogni livello un’entità eerie: comparso dal nulla, esercita cionondimeno maggiore influenza di qualsiasi entità che sulla carta dovrebbe essere concreta». Viste le dinamiche che il capitale mette in atto nel libro, potremmo osservare le sue conseguenze eerie. I due libri sono molto diversi ma hanno anche dei punti di contatto, lo scenario della capitale, per esempio, e alcuni temi, come quello dell’iperproduttività. Per quanto riguarda la capacità di immaginare il futuro, non ne ho più di chiunque altrə. Il mestiere di chi narra, anche di chi scrive fantascienza, non è quello di prevedere il futuro ma di immergersi fino in fondo nel presente. Per dirla con Le Guin «la fantascienza non prevede; descrive».

 

Sono fame è un titolo che ha due significati: posso essere io come singolo ad aver fame, ma anche gli altri. Una fame, se ci pensi, contagiosa. Se ti ricordi, durante la presentazione milanese del libro è stato detto da una delle relatrici che «la fame è la nuova pandemia». Sono d’accordo con questa affermazione: la fame riguarda tutti i personaggi del romanzo. C’è la fame nel senso letterale del termine, come dimostra il personaggio di Ovoman e i suoi video in cui mangia qualsiasi cosa (e che tanto ricorda il compianto YouTubo Anche Io), ma anche in senso metaforico, inteso come lotta per realizzarsi, come Chiara che cerca da un lato di fare punti con le sue consegne e dall’altro aspira a pubblicare articoli accademici di filosofia. Che tipo di fame racconti? È veramente una fame pandemica?

Questa è una riflessione davvero interessante e un’osservazione che mi è stata fatta anche da Davide Spinelli di Marvin rivista. Mi piace molto come chiave di lettura ma ammetto in tutta sincerità che la metafora della fame come malattia o addirittura come pandemia non era intenzionale. Sono rimasta tuttavia – anzi per questo ancora di più – davvero affascinata da questa lettura e la accolgo con piacere. La fame a cui pensavo io mentre scrivevo è duplice. La fame del mondo neoliberista dell’iperproduttività – «loro sono fame» – è una fame smodata e cannibalica. La fame di Chiara, invece – «io sono fame» –, protagonista antieroica del libro, è la fame giusta di chi cerca un posto nel mondo e non lo trova, una fame che chiede nutrimento perché il corpo non muoia.

 

Centrale è il mondo del lavoro. Questo romanzo potrebbe benissimo rientrare nel filone della letteratura del lavoro. Se ci pensi, siamo passati da La chiave a stella di Primo Levi, dove il lavoro per Libertino Faussone è un mezzo per raggiungere la dignità e la libertà, al tuo romanzo e a Nina sull’argine di Veronica Galletta, dove il lavoro è ormai sopravvivenza e costringe le persone a compiere scelte difficili. Quali scelte compie Chiara? E quanto è difficile per lei sacrificare le cose per mettere il lavoro al primo posto?

L’arrivo nella capitale di Chiara è una non-alternativa. Dopo la laurea, lo stage e la rinuncia all’idea del dottorato, non le resta che trasferirsi nella famelica e immensa città, vista come meta in cui tutti i sogni si realizzano, luogo del successo, dell’autoaffermazione. Nella narrazione tossica che la circonda, quella del se vuoi puoi, se non sta ottenendo quello che vuole dalla vita è colpa sua, è necessario che si rimbocchi le maniche, che lasci il nido famigliare, che prenda una cameretta in affitto e che dimostri cosa è disposta a fare pur di – e qui cito Han – «realizzarsi, ottimizzarsi». Tuttavia nella capitale vivere di scrittura, farsi notare sulla rivista di filosofia per la quale ambisce a scrivere non è semplice. Dopo aver distribuito a destra e a manca il suo cv, l’unico impiego che trova è quello di “rondine”, un mestiere che assomiglia a quello di rider ma che non coincide perfettamente con esso. Da questo momento in poi Chiara continua a non scegliere, svolge la sua mansione spronata dai messaggi del tutor di Envoyé, Mario, che le scrive per guidarla e monitorarla costantemente. Per gran parte del libro Chiara è alienata, per questo i passaggi in prima persona si alternano a quelli in terza persona, in cui lei viene osservata dall’esterno. I brevissimi “flash” introdotti dai trattini rappresentano gli attimi in cui pensieri e ricordi del passato la fanno uscire dall’apatia e la spingono a riappropriarsi della propria identità. Da un certo punto del romanzo in poi, quando inizia a prendere cognizione di ciò che realmente la circonda, capisce tutto ciò a cui sta rinunciando per rientrare dentro il sistema della capitale e ricomincia a provare il dolore legittimo della mancanza, mancanza della propria identità, del passato, degli affetti.

 

Tra i numi tutelari di Sono fame, citati esplicitamente all’interno del libro, figurano Byung-Chul Han e Mark Fisher. In Realismo capitalista il filosofo inglese scrive: «Lavoro e vita diventano inseparabili […] per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta». Questa instabilità influisce molto sui rapporti umani: dai dialoghi scarni e dalla tua prosa asciutta si capisce che Chiara non ha tempo per coltivare dei legami, al punto che nel corso del romanzo affermerà di «non avere idea di cosa significhi stare insieme e amarsi». È ancora possibile in un mondo così instabile stabilire dei legami?

Secondo me sì, e anzi credo che i legami siano l’unica via di salvezza, a maggior ragione in questo contesto.

 

Mi è piaciuta molto l’immagine che hai usato per parlare di quelli che alla fine sono dei rider: la rondine. Come nasce questa idea? Quanto è rappresentativa, parafrasando Gianluca Didino in Essere senza casa, di questi «tempi strani» che viviamo?

Volevo raffigurare un corpo al lavoro, per scostarmi dal luogo comune per il quale la maggior parte dei mestieri sono ormai smaterializzati. In più cercavo un lavoro adatto a rappresentare la fame esagerata della capitale ed ecco qui le rondini, che nel nostro immaginario sono gli uccelli che portano il cibo al nido per sfamare i più piccoli. Ho distorto questa immagine bucolica per mostrare esseri umani adulti che portano cibo ad altri adulti. Il tutto nel contesto di una piramide sociale dove chi sta alla base viene de-umanizzato, come le volpi e i quokka del romanzo per esempio, riproducendo la dinamica di sfruttamento tra la razza umana e le altre.

 

In La società della stanchezza Byung-Chul Han ci parla di come dalla società disciplinare di Foucault siamo passati a quella della prestazione, che genera «soggetti depressi e frustrati». Quella del potere, infatti, è una costrizione illimitata. Il lavoro di Chiara per Envoyé è senza limiti, addirittura considerato un gioco in cui sono i lavoratori stessi a stabilire le regole. Il problema, però, per dirla à la Fisher, è che vivono costantemente un’«ansia da esame», sempre attenti a performare e a concentrarsi sul lavoro in qualsiasi momento della giornata. Al giorno d’oggi, anche a causa dello smart working, siamo sempre in balia del lavoro. Chiara, allora, subisce o agisce il lavoro?

Chiara subisce completamente il suo lavoro. Ogni scelta che crede di aver fatto, ogni libertà che crede di aver acquisito sono in realtà azioni obbligate, per il paradosso secondo cui se lavori quanto vuoi lavori sempre.

 

Leggendo Sono fame ho avuto l’impressione che quello che hai raccontato in Non muoiono le api si sia concretizzato realmente. Azzardo col dire che Envoyé sia lo stadio ultimo di Nuvola, una sorta di panottico digitale. Mi è venuta in mente questa idea per tre elementi ricorrenti: il ricorrere alla terminologia dell’occhio, le parti narrate in terza persona in cui vediamo Chiara consegnare il cibo e le chat fra la protagonista e Mario, che rivelano un controllo sempre più ossessivo nella vita di Chiara. Lei sembra volersi staccare dalla tecnologia, ma a questa è sempre richiamata. Quello che successe ad Anna e Stefano in Non muoiono le api ora è realtà. È così? Siamo veramente prigionieri della tecnologia?

Grazie per aver sottolineato la ricorrenza di questi elementi, in particolare dell’occhio di orwelliana memoria. Per me, Sono fame appartiene allo stesso universo di Non muoiono le api ma si colloca, sulla mia immaginaria linea del tempo, qualche decina di anni prima. È difficile rispondere alla tua domanda perché ci sarà sempre chi sventola slogan progressisti in difesa della tecnologia. Non so darti una risposta universale e che sia valida per ogni persona in ogni parte del mondo. Quanto a me, sì, mi sento eccessivamente prigioniera della tecnologia.

 

Per concludere ti vorrei parlare del corpo e del dolore. L’entusiasmo e la performatività richiesti a Chiara la portano da un lato a resistere alle mestruazioni e dall’altro a ignorare inizialmente la notizia delle rondini uccise. Chiara, però, giunge a una verità: quella di essere «uno scheletro ferito con ciuffi di capelli in testa». Un corpo nudo, ferito, ma ancora in vita, e a poco a poco cercherà di accettare la sua corporeità. Così facendo, Chiara intraprende la strada della non conformità: per tornare a Byung-Chul Han, la via dell’«idiota eretico», della negatività. La libertà di Chiara passa, dunque, dal corpo e dall’accettazione del dolore?

A mio parere la libertà di Chiara è una libertà che si conquista a seguito di un percorso doloroso – anche in senso fisico – ma non necessariamente attraverso l’accettazione di quel dolore. Forse in questo caso si può dire che Chiara sfugga all’anestesia psicologica e fisica che l’iperproduttività le richiede per scappare verso una dimensione altra e sicuramente più umana.

 

(Natalia Guerrieri, Sono fame, Pidgin Edizioni, 2022, 260 pp., euro 15, articolo di Alberto Paolo Palumbo)
Copertina di Che razza di libro! di Mott

Razzismo e letteratura: affinità e divergenze

Dalla tragica morte di George Floyd, avvenuta nel maggio del 2020, il movimento Black Lives Matter è balzato agli onori della cronaca internazionale: da quel momento, in Occidente e non solo, il faro dell’opinione pubblica è puntato sul cosiddetto razzismo sistemico negli Stati Uniti e, sotto la luce dei riflettori, le macchie di sangue continuano a moltiplicarsi tristemente.

Non a caso, la schiavitù, l’apartheid, la criminalizzazione delle comunità e la conseguente lotta per il riconoscimento dei diritti civili sono i temi ricorrenti della letteratura afroamericana, le cui radici affondano storicamente nel Rinascimento di Harlem e nel Civil Rights Movement. Si tratta di un filone ampiamente riconosciuto come parte integrante del canone letterario statunitense, che annovera voci di grandissima rilevanza, da James Baldwin a Toni Morrison, da Alice Walker a Colson Whitehead.

Al contempo, tuttavia, c’è da chiedersi fino a che punto, per scrittori e scrittrici afroamericani, debbano essere necessariamente questi i confini del perimetro narrativo. È proprio su questo limite – ideologico ma anche esistenziale – che si posiziona Jason Mott con il suo ultimo romanzo, proponendo un punto di vista atipico sul binomio composto da letteratura e razzismo

Che razza di libro! (NN Editore, traduzione di Valentina Daniele) è, infatti, un metaromanzo che si sviluppa sull’intreccio progressivo di due piani narrativi. Il primo è il racconto diretto di uno scrittore all’apice del successo che, nel bel mezzo di un tour promozionale, incontra un ragazzino dalla pelle scurissima: niente di speciale, se non fosse che questo bambino lo vede solo lui e il romanzo in questione s’intitola, appunto, Che razza di libro! Il secondo piano, invece, interamente declinato in terza persona, è incentrato sulla storia di Nerofumo, un bambino che, a seguito della perdita del padre, ucciso dalla polizia, decide di diventare invisibile.

Uno scrittore afroamericano attraversa il paese portandosi appresso un disagio profondo: alcolizzato, fatica a distinguere la realtà dai suoi stessi sogni e vive costantemente in balia della sua agente e di un consulente editoriale che lo sollecitano a esporsi sulla questione razziale. Incapace di rispondere alle aspettative, avviluppato com’è in una morsa paralizzante fatta di apatia, indecisione e narcisismo, costui instaura una relazione misteriosa con il Ragazzino che lui solo può vedere e sentire. 

Come una sorta di controcanto in parallelo, il racconto di Nerofumo restituisce, invece, tutta la drammatica complessità dell’essere neri nella società statunitense: c’è l’umiliazione subita di continuo, la paura ansiogena di morire per caso, la rabbia nei confronti di un sistema talmente radicato da sembrare inamovibile.

Pagina dopo pagina, i due piani si intersecano, a tratti si confondono; non si può fare a meno di chiedersi chi sia Nerofumo, se coincida con il Ragazzino che appare allo scrittore o se quest’ultimo non sia, piuttosto, una proiezione della sua coscienza. E ancora, chi è davvero questo scrittore e che relazione c’è tra il personaggio e lo stesso Mott? L’identità appare così come un processo permanente che ha a che fare con la percezione e la memoria del singolo individuo e, al contempo, con la dimensione collettiva e con le dinamiche sociali e relazionali. 

Mott costruisce un crescendo narrativo che si spinge ai limiti della tenuta d’insieme: a tratti sembra quasi perdere il controllo delle sottotrame e dei personaggi, anche per via di un’oscillazione vertiginosa e costante della scrittura che mescola ripetutamente i registri linguistici, alternando pagine di cinica ironia a momenti di altissima intensità emotivaLa nebbia si infittisce e, come un pungolo, sollecita ad accelerare la lettura: nelle ultime righe, infatti, ruoli e relazioni emergeranno chiaramente. 

Premiato nel 2021 con il prestigioso National Book Award, Che razza di libro! mantiene fino in fondo la promessa inerente al suo titolo (in inglese Hell of a Book!) raccontando non solo gli effetti ma soprattutto i dissidi – interni alla comunità e interiori ai singoli – che il razzismo sistemico continua a generare. 

 

(Jason Mott, Che razza di libro!, trad. di Valentina Daniele, NN Editore, 2022, 320 pp., euro 19, articolo di Cristina Cassese)
Copertina di Storia aperta di Davide Orecchio

Sputare fuori il “gigante d’inchiostro”

Ci sono libri che sorprendono, innanzitutto, per ambizione artistica e risoluzione formale. L’ultimo lavoro di Davide Orecchio – Storia Aperta – pubblicato da Bompiani l’anno scorso, è certamente tra questi. Opera mondo o, che dir si voglia, romanzo massimalista, Storia aperta porta a compimento quella ricerca storico-romanzesca iniziata dall’autore undici anni fa, con la raccolta Città distrutte, opera d’esordio che lasciava già presagire il talento compositivo, la qualità combinatoria e il germe poetico sviluppatisi poi progressivamente in una traiettoria narrativa che trova ora il suo luminoso apogeo. Storia aperta è, infatti, un romanzo realmente onnivoro, che vampirizza e si nutre di documenti, lettere, articoli di giornale, fonti storiografiche, diari, materiali editi e inediti, per rielaborarli entro un ampio spazio diegetico. La complessità del meccanismo che fa reagire, come fossero contraenti duttili e sapientemente maneggiati, fiction e non fiction in un costante andirivieni polifonico, capace di intersecare la voce narrante e le numerose voci (anzi, le parole) storiche ri-narrate, non appesantisce però la struttura soggiacente, saldamente studiata e congeniata (confessa lo stesso Orecchio, nella Nota finale, di aver pensato e lavorato a questo libro per circa vent’anni).

Storia aperta si configura, allora, come un romanzo stratificato, al contempo ostico, ostinato e affascinante, che sembra rispondere internamente a interrogativi urgenti di natura diversa ma complementare. La biografia “infedele” di Pietro Migliorisi, uomo-tipo del Novecento, appartenuto al secolo breve e dal breve secolo traviato, malmenato, vessato, funge da pretesto (con accezione positiva) per inaugurare uno scavo eziologico di matrice archeo-filiale: in altri termini, un’indagine a ritroso per risalire all’origine di un secolo, il XXI, e all’origine di un padre, Alfredo Orecchio. La sua figura storica abita, attraverso le sue stesse parole e i suoi documenti – utilizzati come fonti primarie dal figlio narratore-storico –, il suo alter ego fittizio (come accadeva anche nel racconto presente in Città distrutte), in quanto baricentro costitutivo, parte integrante del suo “doppio” romanzesco, con cui però non arriva mai a combaciare totalmente.

Alle fondamenta del libro s’inscrive dunque il tentativo di riattivare un’eredità negata, fatta di silenzi, ellissi, mistificazioni, che si esplica nella ricostituzione puntigliosa dell’enigma paterno, effettuata non solo dentro le pieghe della Storia “ufficiale” di un’intera nazione, ma anche all’interno dei pieni e soprattutto dei vuoti di una storia famigliare che inevitabilmente si dipana, oscillando tra verità e contro-verità, nel sottofondo dell’opera. Del resto, nel perimetro trasfigurativo garantito dall’invenzione romanzesca è possibile ridare vita ai morti, tornando a interrogare le azioni e i pensieri che hanno caratterizzato quei morti quand’erano vivi; è possibile anche nominare le ansie, le paure, le disgregazioni rimaste mute, forgiarle in seno a una nuova veste, utilizzando contestualmente – come fa Orecchio con piena sicurezza – la memoria, propria e degli altri, e le fonti scritte, come strumenti ausiliari atti a ispessire il portato epistemico dell’opera.

Storico di formazione, Orecchio parte da un paradigma fattuale e referenziale – il materiale messo a disposizione da un’approfondita ricerca documentaria che si esplica nell’ingente e capillare apparato bio-bibliografico posto a conclusione del romanzo –, ma vira verso una postura autoriale da appassionato bricoleur, ampliando la principale vena storico-interpretativa, anche per stemperare l’ossessione monocentrica che informa la sua recherche letteraria, mediante le soluzioni arricchenti innescate dalle operazioni puramente romanzesche: ad esempio l’utilizzo caleidoscopico di un’onniscienza narrativa che mescola senza soluzione di continuità la prima persona singolare, la seconda persona singolare e la prima persona plurale, in un carosello di geometrie relazionali (autore-lettore-testo) che trova perfetta aderenza alle maglie di un discorso romanzesco costruito a mosaico, in cui le virgolette, siano esse alte o caporali, rivestono un ruolo fondamentale per comprendere quando l’afflato immaginativo, sempre però dominato da intenti di verosimiglianza, lascia il posto alla ricognizione storiografica e viceversa.

A partire da questo doppio movimento contrastivo e speculare, coniugato su più livelli di senso – storia e Storia, fatto e fittizio, individuale e collettivo –, Storia aperta diviene un vero e proprio palinsesto biofinzionale, una macchina narrativa profondamente inter- e macro-testuale, che indaga i chiaroscuri di un secolo che non ha mai smesso di finire attraverso le verità – costruite e decostruite, apparentemente cristalline e poi improvvisamente sbugiardate – di un uomo che rappresenta una sorta di “figlio archetipico” di questo stesso secolo, uno tra i tanti, uno come tanti: da ragazzo aderenza convinta all’ideologia fascista, arruolamento spontaneo nella guerra d’Etiopia, poi a poco a poco il ripensamento radicale delle proprie convinzioni politiche, la susseguente fedeltà alla causa dell’antifascismo e della Resistenza, sino alla devozione totale verso una nuova fede ideologica, quella comunista.

Figlio archetipico, dunque, Pietro Migliorisi, ma anche figlio spezzato, da tutti ingoiato e poi rigettato, “bambino diacronico” incapace di scrivere seppur abitato da un’immarcescibile urgenza d’espressione, incapace di sentirsi parte di una comunità seppur completamente dedito a quella stessa comunità, preda di rimorsi e nostalgie furenti, circuito da fantasmi che si riaffacciano senza chiedere permesso e ne minano la già precaria fisionomia identitaria, padre di un figlio mai visto e marito di una moglie che gli impone il divorzio per supposte divergenze politiche (non gli perdona d’essere diventato comunista) e si rende invisibile ai suoi occhi, custode di una verità così tragica da non poter essere rivelata, pena una sofferenza ancora maggiore.

In Storia aperta Orecchio (ri)costruisce una storia fatta di più storie – la sua personale, in quanto figlio di un padre che assume le sembianze multiformi del personaggio principale; quella di un secolo, che ha sacrificato la libertà degli uomini sull’altare di ideologie violente, dogmatiche e repressive; quella di una nazione, irretita dalla propaganda fascista, ferita dalle continue lotte intestine, contaminata dalla malapolitica, incapace di rivoluzionarsi, affezionata alla propria secolare decadenza – partendo dalle omissioni, dalle mancanze, dalle bugie, insomma, dall’amara constatazione di un ampio deficit di conoscenza che invece di invalidare alla radice ogni possibilità di riavvicinamento postumo costituisce l’innesco primario della quête romanzesca. E in questa storia le imperfezioni non vengono imbellite e sublimate secondo i dettami imperanti dello storytelling, che tutto e tutti vorrebbe rendere empatici e rassicuranti, ma rimangono esposte così come sono. Orecchio non rifinisce le aporie emergenti tra fatti e controfatti, non smussa le incertezze sorte sul limine incerto verso cui collidono versioni differenti di un’unica verità potenzialmente accertabile, non “chiude” la sua opera, consegnandola a quella unidirezionalità che di certo viene consigliata nei corsi di scrittura, ma asseconda il disegno acuminato messo in forma dalle smagliature, dalle ferite ancora aperte, dalle abrasioni, dalle asprezze, dai traumi della memoria, introiettando nell’architettura formale dell’opera i tormenti e le lacerazioni di un uomo che finalmente, in virtù dell’operazione demiurgica compiuta dal figlio-scrittore, ha potuto sputare fuori il suo “gigante d’inchiostro”.

In tal senso, Orecchio compie un’abile operazione da ventriloquo per ridare voce a un passato muto, sbiadito su documenti impolverati che riempiono archivi che non interessano più a nessuno, e per ri-scrivere e ri-significare la biografia di un padre-sfinge, che poteva essere molto di più di ciò che è poi realmente stato, per vagliarla e soppesarla, restituendole spessore tragico e piegandola alle proprie mire conoscitive. Questo mediante un lavorio romanzesco che ne moltiplica le implicazioni narrative, ingrossando il valore artistico di un’opera a tutti gli effetti neomodernista (come ha già sottolineato Andrea Cortellessa), che non si preoccupa di adottare, per oltre cinquecento pagine, uno stile liricizzante, altamente figurativo, sfranto e compulsivo, fondato su frasi brevi, a volte nominali, spesso ridondanti, semanticamente pregne, rigorose nella loro ritualità quasi liturgica (la frantumazione della sintassi, del resto, sebbene conferisca al dettato un respiro poco arioso, permette di evitare i rischi insiti nella prolissità, nella verbosità, nell’affastellamento). La sfida alla Storia è anche una sfida al lettore, non potrebbe essere altrimenti.

 

(Davide Orecchio, Storia aperta, Bompiani, 2021, 672 pp., euro 22, articolo di Niccolò Amelii)
immagine di Julia KRISTEVA

Altri stranieri, quelli di Julia Kristeva e Paula Fox

Cosa significa essere o sentirsi straniero? Cosa si prova ad essere estranei ai luoghi, invisibili agli altri, senza possibilità di parola, perché ridotti a un silenzio innaturale, tanto le parole appaiono diverse a chi le ascolta?

«Lo straniero è dentro di noi», scrive Julia Kristeva nel lontano 1988, «E quando fuggiamo o combattiamo lo straniero, lottiamo contro il nostro inconscio – questo improprio del nostro impossibile proprio». Una definizione affascinante e complessa proposta dalla semiologa e psicoanalista francese, nata a Sofia nel 1941 e poi trasferitasi a Parigi nel 1966, per continuare gli studi all’École pratique des hautes études. Ma è solo il punto di arrivo di una riflessione lunga e articolata.

Stranieri a noi stessi. L’Europa, l’altro, l’identità (Donzelli, 2014) inizia delineando i contorni dello straniero («figura dell’odio e dell’altro») attraverso gli ostacoli che incontra lungo il suo cammino; o meglio attraverso l’esperienza stessa dell’estraneità. L’esclusione sociale, linguistica, politica e affettiva è un esercizio quotidiano che modella e rafforza l’indifferenza, unica arma a disposizione dello straniero: la distanza, infatti, non è solo la misura dell’odio, ma anche lo spazio della resistenza agli attacchi esterni.

Il mondo dello straniero non esiste: è un non luogo sospeso, privo di presente e di futuro, in cui il ricordo di un passato che non c’è più scandisce un nuovo tempo. Non ci interroghiamo mai su cosa significhi diventare stranieri, dice Kristeva, tanto la nostra identità è costruita e radicata intorno alla profonda certezza di appartenere a un luogo e di non essere diversi. È l’altro con la sua differenza a spaventare, minacciare, a spezzare l’illusorio equilibrio della comunità, della famiglia, della coppia. E Julia Kristeva è da sempre interessata alle figure altre, alle voci dissonanti, alle vite irregolari: da Céline a Melanie Klein, da Hannah Arendt a Simone de Beauvoir, da Dostoevskij a Teresa d’Avila. È ciò che vive e sopravvive nell’ombra, nel limite, a essere oggetto delle sue analisi: ma anche le forme, il linguaggio, le idee che hanno plasmato, o meglio ossessionato, la coscienza collettiva e individuale.

Da queste premesse nasce la suggestiva riflessione intorno all’estraneità, culminata con Del matrimonio considerato come un’arte (Donzelli, 2015), in cui attraverso il racconto del suo legame con Philippe Sollers, scrittore e filosofo francese, descrive il vincolo affettivo come l’incontro/scontro tra due alterità.

Nel suo Stranieri a noi stessi (pubblicato nel 1988 e uscito in Italia due anni dopo) Julia Kristeva ricostruisce le tappe dell’atteggiamento della cultura occidentale nei confronti delle «figure storiche dell’estraneità»: dall’origine della parola onomatopeica barbaro, usata per sottolineare la lingua incomprensibile di chi non era greco, al cosmopolitismo ellenistico, fino ad arrivare all’apertura globale dello stoicismo. È poi attraverso la religione monoteista che si fa strada l’idea dell’estraneità come eccezionalità e come scelta: dalla definizione di popolo eletto, alle teorie di San Paolo e Sant’Agostino, fino alla nozione di caritas cristiana. Filosofia e religione oltrepassano il concetto politico di estraneo e concedono gli stessi diritti ai non cittadini, ma in un mondo altro, futuro, diverso da quello attuale. È solo con la Rivoluzione francese e l’abolizione dell’albinaggio che si comincerà a tratteggiare un vero e proprio diritto dello straniero in seno alla società, attraverso due principi cardine, lo jus soli e lo jus sanguinis. Ma Kristeva è interessata soprattutto alla rivoluzione culturale successiva, che a partire da Hegel e passando per Kant, giunge a Freud e al riconoscimento dell’estraneità come caratteristica che dimora in ognuno.

Si è stranieri sempre, agli altri e a noi stessi, come ha raccontato in modo diverso ma in parte speculare anche Paula Fox, scrittrice spesso trascurata dal mainstream, che ha saputo restituire attraverso i suoi romanzi il significato del sentirsi stranieri, anche all’interno della coppia. Come Otto e Sophia, i protagonisti del suo lavoro più fortunato, Quello che rimane (Fazi, 2018), sposati da tanti anni eppure estranei (a loro stessi e al mondo). Tutta la storia, come spiega Jonathan Franzen  nell’introduzione, si regge sul mistero e la paura. Ma cosa c’è di misterioso in una coppia borghese, la cui vita quotidiana viene incrinata dall’arrivo di un gatto? È l’incontro con l’altro (un animale, il marito, un vicino di casa, la nuova società che avanza) a destabilizzare Sophia. E un morso dato senza motivo, da un gatto randagio, è la ferita che fa affiorare nella vita di una coppia qualcosa di oscuro e latente.

 

 

Come scrive Julia Kristeva in Stranieri a noi stessi «l’altro ci lascia separati, incoerenti; più ancora può darci l’impressione di mancare di contatto con le nostre sensazioni, di rifiutarle o, al contrario, di rifiutare il nostro giudizio su di esse». Una nota, sempre nel libro di Kristeva, spiega che il termine freudiano unheimlich, universalmente tradotto come perturbante, sia riportato in francese con le parole inquiétante étrangeté (inquietante estraneità). Ed è proprio questa inquietante estraneità ad emergere nell’opera di Paula Fox.

«Si viene trascinati dalla vita e ci si incaglia qui o là. Un giorno ti trovi incagliato in un luogo in cui vuoi rimanere. Tutto lì. Destino, caso, fortuna»: si diventa stranieri per caso, come dice il padre di Luisa, la protagonista di Storia di una serva. In lei Paula Fox fa confluire le caratteristiche più aspre dell’estraneità: Luisa è una domestica, una presenza silenziosa che si aggira nelle case di New York. Il suo unico desiderio è mettere da parte del denaro per tornare nell’isola di San Pedro e rivedere luoghi e volti famigliari. In America si parla una lingua diversa, fatta di suoni duri e spigolosi, che tracciano in poco tempo una linea d’ombra tra lei e la madre. È vero, come scrive Julia Kristeva, che non potersi più esprimere nella lingua materna, ossia la lingua dell’infanzia e dei sogni, significa diventare orfani e avere la certezza che la propria voce non sarà mai ascoltata: «la vostra parola non ha passato e non avrà peso sull’avvenire del gruppo». Nel mondo e nella vita di Paula Fox c’è una relazione quasi simbiotica tra la parola e la figura materna, tra la ricerca semantica e il distacco dalle persone care e dai luoghi.

Esiste davvero un noi/altro? No, ci dice Julia Kristeva riprendendo Freud: «lo strano è dentro di me, quindi siamo tutti degli stranieri. Se io sono straniero, non ci sono stranieri».

Scritto prima della caduta del muro di Berlino, della fondazione dell’Unione Europea, della crisi dei rifugiati dell’ultimo decennio, prima delle guerre in Jugoslavia, dei migranti di Calais e del conflitto in Ucraina, il saggio di Kristeva anticipa il tema della diversità, che traccerà un solco profondo nella storia europea. È lei stessa ad avvertire il bisogno di aggiungere alla nuova edizione del 2014, un’introduzione che tenga conto del tempo presente e delle critiche che le furono rivolte: il problema dell’identità, che da anni ossessiona la coscienza del Vecchio Continente, può essere risolto solo accogliendo il diverso, che è in noi e fuori di noi. Non si tratta di annullare le differenze, precisa Kristeva, ma di riconoscere nella singolarità il senso ultimo del nostro essere e, perciò, dei nostri diritti.

Copertina di Se tutti i danesi fossero ebrei di Evtušenko

«E nessuno è più cinico di un ex-idealista…»

Se tutti i danesi fossero ebrei (Lamantica Edizioni, 2022), questo libretto con la copertina bianca e le pagine azzurre, stampato in appena centocinquanta esemplari numerati e prodotto da un’associazione culturale bresciana, è una splendida pubblicazione per contenuti e cura.  Si tratta della traduzione italiana di una pièce teatrale praticamente inedita di Evgenij A. Evtušenko, il “Maestro del disgelo”, nato in Siberia novant’anni fa, il 18 luglio 1932, e morto negli Stati Uniti il primo aprile 2017, e di due apparati che offrono importanti approfondimenti.

«Nipote di rivoluzionari e figlio di geologi, restò sempre un inarrivabile minatore dell’animo umano», dice di lui Francesco De Napoli. Evgenij A. Evtušenko è stato uno dei più grandi della letteratura del Novecento, un vero e proprio idolo dell’Est e dell’Ovest per quella sua capacità di unire una straordinaria espressione artistica alla funzione sociale, e di opporsi a qualsiasi inganno che portasse al declino e alla rovina dei suoi ideali. Un poeta che con i suoi recital riempiva gli stadi, divenuto intoccabile in patria per la sua immensa popolarità internazionale e per la sua indomabilità di fronte a qualsiasi forma di censura o persecuzione. «Nel mentre squarciava i sepolcri imbiancati di un sistema in decomposizione, Ženja / Evtušenko arricchiva i suoi scritti con metafore coinvolgenti e straordinariamente condivisibili da tutti, il che spiazzava l’apparato, composto per lo più da burocrati di bassa cultura e statura», leggiamo ancora nel poderoso saggio di De Napoli, lo studioso che era anche amico personale del poeta russo, e il miglior conoscitore italiano di Evtušenko. Un saggio lungo e generoso che non solo serve da introduzione al dramma teatrale ma fornisce anche una panoramica completa dell’uomo e del letterato.

Di lui molto è stato tradotto e pubblicato in italiano; non però Se tutti i danesi fossero ebrei che, pur essendo stato portato sul palcoscenico in Italia, Danimarca, Germania e forse anche altrove, era uscito in edizione cartacea solo su una rivista russa nel 1996. Questo volume è quindi un’anteprima mondiale, come evidenziato dal curatore Lorenzo Gafforini nella sua nota, e la traduzione rivista e integrata dalla redazione è sempre della compianta Evelina Pascucci, la voce italiana di tutti i libri del poeta siberiano.

L’opera teatrale Se tutti i danesi fossero ebrei, terminata nel 1996 e tradotta l’anno successivo da Evelina Pascucci, è composta da diciotto quadri. Nella trama si intrecciano la prigionia della principessa danese Leonora Cristina Corfitz Ulfeldt, che per cultura e personalità fu per anni figura di spicco della corte danese, e una storia del Novecento. Due vicende infelici, una reale e persino documentata, che la principessa narrò in un diario pubblicato anche in italiano, e l’altra fittizia, simbolica, verosimile, che si fondono nella sintesi delle sorti dell’umanità di tutti i tempi. Due storie con due donne molto colte come protagoniste, due vittime che sfidano le circostanze, che non si arrendono. Una trama incentrata sulla cultura, piena di sorprese, di colpi di scena, mentre le lancette del tempo vanno avanti e indietro di tre secoli con continui e vertiginosi mutamenti di scena. Nulla di complicato, però, per l’allestimento teatrale, perché la scenografia è estremamente semplice, cosa che rende agevole anche la lettura.

Un teatro dell’assurdo saldamente ancorato alla realtà, che rispecchia la mostruosità insita nelle vite ordinarie, e dimostra quindi che non è sempre necessario ricorrere a elementi fiabeschi. Un teatro che tuttavia ci insegna anche la fiducia nel domani, nella seppur remota speranza. Anche in questo pezzo il “Maestro del disgelo” si rivela essere un mago delle parole, un grande scrittore, che fa brillare la sua vena poetica: «Ogni generazione – nella polvere e nel sangue – depreca i propri errori amari; ma le nuove di ripeterli mai saran stanche…»

Ora Se tutti i danesi fossero ebrei è finalmente inserito nel catalogo italiano, e anche mondiale, di Evtušenko, l’insuperabile enfant terrible, un poeta che ha saputo incarnare i fenomeni sociali e culturali del suo tempo con una smisurata creatività e una carica di umanità e saggezza pari a pochi intellettuali del Novecento.

 

Foto di Mario Martinazzi.

 

(Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei, trad. di Evelina Pascucci, Lamantica Edizioni, 2022, con un saggio di Francesco De Napoli, a cura di Lorenzo Gafforini, articolo di Andrea Rényi)
Poster della serie tv Notte stellata

Le stelle sotto terra

Sebbene nel contesto degli sci-fi sia ormai difficile scovare qualcosa di davvero originale, Notte stellata sembra essere un’eccezione. La serie Amazon, lanciata sulla piattaforma digitale a maggio scorso, propone infatti uno sguardo alternativo sulla fantascienza. Una coppia di anziani, Irene e Franklin, osserva il cielo stellato di un pianeta sconosciuto dalla finestra nascosta nei sotterranei del loro capanno in giardino. Da quella stanza con vista sull’ignoto arriverà Jude, il ragazzo dal passato oscuro che, sconvolgendo la stabile quotidianità dei due, riuscirà a scardinare anche vecchi silenzi, forse non toppo innovativi a livello narrativo, ma comunque funzionali allo svelamento della trama.

Notte stellata (in italiano Night Sky) si regge, senza alcuna ombra di dubbio, sulla solida e alchimica interpretazione dei due premi Oscar protagonisti della storia, Sissy SpaceK e J. K. Simmons. I due veterani di Hollywood si calano nei panni di Irene e Franklin, una coppia provata dalla vita e dalla malattia, che non perde, però, la speranza nel futuro. Sorretti anche dal piccolo grande segreto che condividono, la camera con vista sul cielo stellato e spaziale, riescono ancora a sentirsi parte di un mistero più grande dell’esistenza stessa, uniti dall’affetto che condividono e dalle doti che mettono a frutto. Irene, infatti, a conferma del nome che porta, incarna la “pace”, quella buona e accogliente, che incoraggia e guarda al domani. Franklin, invece, pur essendo più burbero e istintivo, è un uomo dai saldi principi, che affonda i piedi nella terra, consapevole che il presente non potrebbe essere altrimenti senza il passato. Due anziani, insomma, che si tengono sempre per mano, nonostante il lutto, il dolore e l’arrivo di una strana creatura misteriosa. Jude è il dono che li aiuterà a ritrovarsi, perdendosi un po’. Per loro non è il traditore e l’apostata, non a caso chiamato Giuda, che i cattivi alla fine andranno a cercare. Per Irene e Franklin diventa quasi un “ringraziamento a Dio”, come ricorda l’etimologia del nome, per la figliolanza ritrovata dopo averla persa.

Notte stellata racconta del cammino verso le stelle, che sono nel cielo nascosto sotto terra, ma si incarnano anche nelle persone care: quelle che si sostengono lungo il cammino – Jude e Franklin; o che si riscoprono – insieme con la nipote Denise, bambina provata dal dolore che cresce con coraggio; o che diventano familiari – come Jude e il suo passato burrascoso. Nonostante il cammino assai lento delle prime puntate, e gli accenni a eventi e situazioni spesso difficilmente comprensibili, la serie ha un carattere interessante, a tratti affascinante, soprattutto per quel che riguarda la modalità di osservare lo spazio direttamente dalla Terra, facendo a meno di telescopi o navicelle spaziali.

Il mistero extraterrestre arriva tra gli umani senza troppe catastrofi o sconvolgimenti naturali. Entra nel quotidiano mostrando la sua faccia terrena. Lasciandoci poi così, in attesa di una seconda stagione che riveli dove sia quel pianeta misterioso, da quale luogo provenga Jude veramente, se Byron, il vicino di casa, sia ancora vivo, e risponda ai tanti interrogativi rimasti in sospeso, incluso cosa accade a Jude e Denise dopo aver avuto accesso al teletrasporto. Sì, perché il passaggio verso la camera con vista prevede che ci si sposti a una velocità pari o addirittura superiore a quella della luce, come viene raccontato nel video-cortometraggio “Oh Baby” degli LCD Soundsystem, che, guarda caso, ritrova la stessa Sissy Spacek nei panni della protagonista, insieme con David Strathairn.

A chiara ispirazione di Notte stellata, la clip musicale del 2018 mette al centro sempre una coppia, questa volta di scienziati alle prese con la formula del teletrasporto. Anche qui c’è un capanno e un segreto nascosto, la tranquillità di una lunga vita trascorsa insieme, la certezza degli affetti che non trascende dagli eventi tragici. Ma in Night Sky il teletrasporto è solo un elemento scenico a sostegno di una fantascienza che vuole raccontare di mondi paralleli e collegati fra loro, più vicini e simili di quanto possa realmente essere, pieni di mistero e di bellezza, dove i sentimenti hanno la meglio sulla scienza e i cosiddetti alieni sono in tutto e per tutto dei semplici uomini. Almeno stando a questa prima stagione. La prossima, sicuramente, riserverà delle sorprese.

Copertina di Kornél Esti di Dezső Kosztolányi

Vita della tua ombra

Scrittore di spicco della letteratura ungherese ma anche mitteleuropea del primo Novecento, Dezső Kosztolányi torna nelle librerie italiane con Kornél Esti (Mimesis, 2022, traduzione di Alexandra Foresto). Si tratta di una serie di racconti pubblicati dall’autore sulla stampa magiara tra gli anni Venti e Trenta che hanno tutti come protagonista il personaggio del titolo. Mimesis, a differenza di altri editori, soprattutto esteri, che hanno operato una selezione arbitraria all’interno del corpus delle novelle, nella presente edizione si attiene alla cronologia di pubblicazione e manda alle stampe i diciotto racconti del primo ciclo.

Ne risulta un’operazione interessante che da un lato colma una lacuna nel nostro panorama editoriale, dall’altro consente anche al lettore italiano di avere un quadro più completo dell’opera di Kosztolányi, già apprezzato in passato in Italia con opere quali Nerone, Allodola o Anna Édes. La raccolta di Kornél Esti sigla infatti la svolta estetica di uno scrittore che, approssimandosi alla fine della propria esistenza, abbandona il romanzo classico a favore del frammento e di una scrittura più discontinua che sfiora il picaresco e il metaletterario. Questi testi ci offrono l’autoritratto di uno scrittore che si racconta al proprio pubblico ammiccando allo humour sovversivo e a un gusto per il non ordinario alla Alphonse Allais, e che, al contempo, lo fa in maniera speculare attraverso la figura del suo doppio, Kornél Esti, appunto.

Esti è qualcosa di più del classico Doppelgänger. Ha lo stesso viso di Kosztolányi, i suoi stessi occhi e persino il modo di dividersi i capelli, è nato il suo stesso giorno e come lui è uno scrittore, ma si è costruito una vita completamente diversa. Infatti, mentre l’autore rimaneva protetto dalle mura di casa in Ungheria, lui si dava all’avventura per il mondo volando sopra le nazioni, improvvisandone gli idiomi, e garrendo l’eterna rivoluzione. Perché quello che Kosztolányi ha represso a causa dei suoi costumi borghesi, l’altro lo ha gridato comportandosi meno da gemello malvagio e più da ombra junghiana. Di conseguenza Kornél Esti si configura come una sorta di parodia del sé emotivo e civico dell’autore, è al contempo tutto ciò che non è o comunque non ha mai voluto essere, è la metà oscurata che viene lentamente riscoperta e apprezzata mentre si avvicina il crepuscolo della vita. È colui che sin dall’infanzia ha sempre consigliato a Kosztolányi di essere altrimenti. Per questo l’autore lo ha respinto e allontanato, per poi cercarlo e stringerci un patto, pur di non perdere questo outsider, acuto osservatore e perspicace cronista del loro ambiente.

Dunque i due si ritrovano e si mettono in società per scrivere un libro in cui è Esti a portare ricordi della sua esistenza ed episodi di viaggio, nei quali la minima banalità della vita di tutti i giorni diventa pretesto per una storia straordinaria; Kosztolányi –  che rimane anonimo in tutti i racconti – nel frattempo stenografa e poi edita sottraendo una buona dose di aggettivi e metafore di cui il compagno è particolarmente prodigo.

Il risultato sono brevi scritti, a volte anche aneddotici, con qualche incongruità – si tratta di testi pubblicati lungo un decennio –, alcuni con maggiore presa sul lettore di altri, quando le pennellate narrative si fanno più vigorose nel penetrare lo sguardo e i pensieri di Esti. Questo racconta storie ed esperienze passate con sguardo retrospettivo e ci offre una cronaca, a volte nostalgica, altre critica, di una Budapest, o forse di un mondo, che non c’è più. La frammentarietà delle vicende narrate dà vita a un mosaico vivace di storie e situazioni che annidano al loro interno un sottotesto che guarda alla contemporaneità e, in modo particolare, alla scoperta dell’essere umano dietro l’essere umano, scrutandone le incongruenze e denunciandone la natura profondamente contraddittoria che lo rende incostante.

Ne risultano ritratti senza concessioni ma privi di condanne: oramai Kosztolányi è diventato, nonostante l’ironia e la vivacità che irrorano il testo, spettatore consapevole e insieme stanco di queste debolezze. Per queste ragioni la prosa è sempre espressiva, apparentemente lieve e mimetica, capace di accumulare dettagli con grazia nonostante la disordinata e variopinta emotività di chi racconta. Kosztolányi allora funge da zavorra che bilancia l’estrosità del narratore e, da homo aestheticus qual è, la traspone in una forma più confacente alle peculiarità della propria scrittura.

Kornél Esti è come l’uomo del bar che racconta storie altre ma che è così coinvolgente nel farlo che non interessa dove finisce la verità e comincia la bugia, si vuole solo che continui a parlare. Tra i tanti racconti ci piace ricordarne alcuni soprattutto per via dei messaggi di cui si fanno latori. C’è il racconto dedicato a quanti fuggono spinti dal desiderio di conoscenza: Esti prende un treno per l’Italia nel desiderio di liberarsi delle insoddisfazioni e di vedere per la prima volta il mare; arrivato a Fiume può gridare finalmente, come i protagonisti dell’Anabasi di Senofonte, «Thalassa! Thalassa!», come se nominare il mare lo rendesse più vero. È la felicità di chi può diventare un altro o comunque mettere in moto un altro sé a lungo soffocato.

C’è il racconto dedicato a chi ha bisogno di autenticità: Esti e Kosztolányi visitano – con Swift che intrama le pagine – la “città degli onesti”, in cui la verità non viene più nascosta sotto il moggio e l’autocritica non viene più praticata. Sulle vetrine dei negozi campeggiano infatti scritte da pubblicità inversa che affermano che le scarpe fanno venire i calli, le pietanze sono immangiabili, i libri sono noiosi, mentre i giornali invitano a non prendere per oro colato quello che scrivono. Nonostante ciò, i negozi sono pieni di clienti per quel bisogno dell’uomo di accedere a un consumismo dichiaratamente nocivo ma di cui vuole essere comunque fruitore.

C’è il racconto che rievoca i caffè di Budapest come enclave culturale, frequentata tanto da Esti quanto da Kosztolányi, dove si danno ritrovo scrittori, collezionisti d’arte, medici, decoratori, studenti, fotografi, tutti accomunati dalla fretta di penetrare, nelle loro conversazioni brillanti, spesso malinconiche – che vanno dal libero arbitrio dell’uomo alla paga media in Inghilterra –, il senso di ogni cosa. Un luogo dove si parla di tutto, una sorta di finestra sul mondo che osserva e si interroga.

Di particolare rilevanza è il racconto-ritratto di una certa idea di Germania. Esti, nel suo girovagare,  narra di essere stato in terra tedesca e di averne apprezzato la pulizia e il rigore, oltre alla proverbiale precisione. Tuttavia a colpirlo maggiormente è l’anziano presidente di un’associazione culturale tedesca che organizza instancabilmente conferenze in ogni dove. Il relatore di turno però non fa in tempo a prendere la parola che, senza dare nell’occhio, il presidente si addormenta in modo consapevole e composto. Un sonno che, a ben guardare, non disturba i presenti perché viene percepito come forma di rispetto della cultura, libera in questo modo di prendere la parola senza interruzioni, indipendentemente da chi ne è il portavoce in quel momento sul palco. Quel sonno è per Esti l’approvazione definitiva. Il presidente ha inoltre la capacità straordinaria di svegliarsi nel momento esatto in cui l’oratore termina il suo intervento per i ringraziamenti di rito e passare al successivo. Il racconto è stato pubblicato nel 1933 e non pare un caso che Esti individui la presenza a queste conferenze di quei “nuovi poeti” che, irritati dal sonno presidenziale e comunque tenuti in poco conto, alla luce della lanterna della vanità e rovistando come i profanatori di tombe, cercano lo scandalo per denigrare quell’uomo a loro dire incapace di guidare in modo vigile la nave culturale della nazione. Lo sguardo di Kosztolányi è chiaramente rivolto con preoccupazione a Ovest e al nazismo oramai al potere.

L’ultimo capitolo, con il quale Kosztolányi e Esti si congedano dal lettore, ci racconta una corsa quotidiana in un tram affollato di Budapest che appare come la metafora della vita umana. Esti cerca di salire per trovare un posto, un buon posto, benché venga spintonato da altri mossi dal suo stesso intento. Alla fine ce la fa, suscitando le ire dei passeggeri invidiosi del suo successo. Da uomo perennemente in fuga prova subito disgusto e non vede l’ora di uscire, perché stare seduto su quel tram lo fa sentire rigido e immobile come un burattino solitario lasciato a sé stesso. Sceso dal tram, dove andrà? La destinazione è ignota, da Esti c’è da aspettarsi di tutto, ma ci piace immaginarlo che, come scrive Péter Esterházy nella postfazione di questa edizione, «gioca e si ribella. Si ribella contro la noia e la noiosità, e si ribella in nome degli afasici, di coloro che non sanno parlare». È il ribelle che è in noi e che prende la parola.

 

(Dezső Kosztolányi, Kornél Esti, traduzione di Alexandra Foresto, Mimesis, 2022, 300 pp., euro 18, articolo di Claudio Musso)
Copertina di Fra le tue dita gelate di Tario

Un sogno misterioso e interminabile

Tra le molte bizzarrie che possiamo pescare dalla biografia di Francisco Tario (Città del Messico, 1911 – Madrid, 1977), la più singolare è probabilmente legata alla sua esperienza di calciatore professionista negli anni Trenta, periodo durante il quale difese i pali del Club Asturias.

Pseudonimo di Francisco Peláez, Tario è stato una delle voci più nitide della letteratura fantastica messicana, ma, nonostante ciò, in vita non ha mai raggiunto la piena consacrazione, forse a causa di quella che il critico Alejandro Toledo ha definito la sua «vocazione di fantasma».

E proprio di fantasmi – o, per meglio dire, di presenze – è popolata la sua ultima opera, Una violeta de más, che l’editore Safarà propone al pubblico italiano con il titolo Fra le tue dita gelate (2022, traduzione di Raul Schenardi).

Il 1968, anno della sua prima pubblicazione con la casa editrice spagnola Joaquín Mortiz, è un momento particolarmente difficile per l’autore, reduce dalla perdita della moglie Carmen Farell, a cui la raccolta è dedicata.

Presenze, si diceva, più che fantasmi, perché il fantasma è per natura una figura presente ma non esistente, mentre i personaggi di questi racconti sono perlopiù figure assenti ma esistenti, entità fantastiche eppure tangibili, persone disperse la cui scomparsa abita i vuoti di chi rimane. Non a caso in “Un orto di fronte al mare”, alla notizia del naufragio del padre marinaio, il figlio commenta: «Ebbi l’impressione che quell’uomo cominciasse a esistere veramente».

Differenti per temi, ambientazioni e tono – si va dai classici stilemi della letteratura dell’orrore a episodi quasi parodistici del genere – questi sedici racconti conservano come trait d’union un universo narrativo all’interno del quale si confondono realtà e soprannaturale, quest’ultimo da intendersi, a seconda dei casi, come esperienza onirica o ultraterrena. I personaggi di Tario sembrano agire nell’orizzonte ovattato di una fase REM perenne e inconsapevole che legittima i più strambi avvenimenti.

Nel primo capitolo della raccolta, “Lo uistitì”, un protagonista solitario accoglie senza troppo clamore l’arrivo di un minuscolo ospite espulso dal rubinetto del lavandino, e così la notizia di essere gravido. È forse questo il racconto in cui Tario riesce a esprimere il meglio del suo campionario di misteri, avvicinandosi per ambiguità e misura della prosa a un altro grande esempio di letteratura fantastica messicana: “Mosés e Gaspar” di Amparo Dávila (In L’ospite e altri racconti, Safarà, 2020). Sulla falsariga di Dávila, è palese la volontà dell’autore di oscurare i passaggi più importanti del racconto per generare in chi legge un sentimento di angoscia e di familiare estraneità.

Allo stesso modo, anche i personaggi, anziché respingere l’ignoto, sembrano volerlo accogliere, forse a causa della loro incapacità di stabilire rapporti e legami con il mondo “là fuori”. Sono infatti individui solitari – uomini in fase di trapasso, famiglie emarginate, bambini dalla testa enorme – i protagonisti di queste storie. La loro inadeguatezza li porta a distaccarsi dalla realtà e  familiarizzare con la figura sinistra, a volte un doppio che agisce nell’universo del sogno, altre volte un essere ibrido, tra umano e non umano, che incarna in maniera esemplare l’elemento perturbante (scimmiette che gridano «Mamma!», cavalli seduti a tavola, cani gialli, eccetera).

Chi è veramente morto e chi veramente vivo? Chi è l’apparizione di chi? Tario ci confonde di continuo, ma la chiave per comprendere questo rapporto di reciprocità risiede con tutta probabilità nella funzione salvifica attribuita al ricordo. È colui che ricorda a richiamare a sé le presenze, a tenerle in vita, più o meno consapevolmente, attraverso un disperato lavoro della memoria.

«Quasi nessuno la ricordava; era vero. E perciò moriva. Soltanto un ultimo ricordo, disperato e preciso, la teneva in vita da lontano. […] E non appena quel pensiero si fosse estinto, non appena quel ricordo avesse smesso di esistere, anche lei avrebbe smesso di esistere».

Di contro, nell’universo tariano, il sogno pare avere molto a che fare con la morte, come avviene nel racconto eponimo “Fra le tue dita gelate”. In questa storia, lo strano sogno di uno studente che non riesce più a svegliarsi si rivela essere una sorta di dimensione postmortem nella quale la voce narrante è chiamata a immergersi nelle profondità della propria psiche per fare i conti con i suoi desideri repressi e con la profanazione di un tabù. Un’evoluzione circolare, dove la dimensione onirica sconfina in una morte che continua a influenzare la realtà attraverso il sogno, e così di nuovo all’infinito.

Per quanto certi racconti non superino ormai la prova del tempo per stile di scrittura e intuizioni narrative, Fra le tue dita gelate ci regala alcuni pezzi di bravura (“Ortodonzia”, “Lo uistitì”, “Fra le tue dita gelate”) e ci consegna una lezione da non dimenticare, l’invito a coltivare ciò che noi soli riusciamo a vedere, fuori e oltre il senso comune:

«Finché un essere umano non ha imparato ad accettare tutte le magiche possibilità che la vita ci offre – anche quelle che potrebbero sembrarci più inammissibili e remote – non si può avere la certezza che quell’essere esista pienamente».

 

(Franciso Tario, Fra le tue dita gelate. Racconti fantastici, trad. di Raul Schenardi, Safarà, 2022, 232 pp., euro 18, articolo di Martin Hofer)
copertina di Proust, Corrispondente misterioso

Marcel Proust fra autofiction e allegorismo animale

Il discorso sulle forme della narrativa breve comprende le molteplici intersezioni tra finzione narrativa e dato autobiografico, il cui annoso rapporto non solo investe svariate componenti di una stessa opera ma può anche originare scritti di generi differenti: l’approdo postmoderno, ad esempio, consiste nell’autofiction, di cui Troppi paradisi (Einaudi, 2006) di Walter Siti costituisce celeberrimo esempio.

Per indagarne i molteplici aspetti è utile il caso dei racconti, per lungo tempo rimasti inediti, di Marcel Proust. Dalla prima raccolta narrativa, Les Plaisirs et les Jours (1896), l’autore venticinquenne esclude infatti alcuni scritti: L’Indifférent (1896), novella sulla «passione dell’indifferenza» (come nel saggio prefatorio di G. Agamben, Introduzione a M. Proust, L’indifferente, Einaudi, 1987, pp. 7-22) e nove testi brevi poi editi postumi (Le Mystérieux Correspondant et autres nouvelles inédites, Éditions de Fallois, 2019; in Italia per Garzanti, 2021).

Di questi brani (quattro racconti, un apologo, un monologo, un dialogo dei morti e due frammenti che molto contribuiscono a un più preciso inquadramento del profilo proustiano grazie a frasi o interi segmenti poi confluiti nella Recherche, come ad esempio l’ode dedicata ai giovanotti sportivi di Cabourg cui forse s’ispirano le jeunes filles en fleurs, o a citazioni di autori così presenti anche negli scritti epistolari da autorizzare un ampliamento del numero di avant-textes, letterari e non) interessa qui il dramma messo in scena di volta in volta: la dimensione individuale dei singoli personaggi riflette infatti la sofferta condizione dell’autore, scisso nel rapporto e con la morale cristiana (la cui tradizione omiletica questi testi a volte parodiano) e con la propria omosessualità (il confronto con l’epistolario rivela talora corrispondenze biografiche con i personaggi dei racconti).

 

Il corrispondente misterioso: l’enigma del sé

Chiara esemplificazione di questo processo in cui si alternano rispecchiamento e camuffamento di sé è rintracciabile nelle dinamiche del racconto Le Mystérieux Correspondant. La storia s’avvia la sera in cui, già turbata dopo aver appreso della singolare «malattia di languore» (p. 45) che affligge la cara amica Christiane (eloquente scelta onomastica), Françoise si allarma ulteriormente a causa di una lettera anonima: «Signora, è da tempo che vi amo ma non posso né dirvelo né non dirvelo […]. Nella mia disperazione e nella mia frenesia scrivo questa lettera per calmarmi […] Il pensiero che potrebbe essere possibile e che è impossibile mi brucia in eguale misura» (p. 46). Alla prima missiva ne seguono altre, nelle quali lo sconosciuto si dichiara pronto a farle visita volendo approfittare dell’assenza di suo marito, in viaggio per affari. La donna, decisa a fronteggiare per conto proprio la minaccia di quella profferta, non ne parla ad anima viva, ma per non rimanere completamente sola in casa invita a cena l’amica Christiane, dopo aver provveduto a serrare ogni ingresso. A sera inoltrata però Françoise rinviene un biglietto sul tavolo del salotto (p. 47): «Vi supplico. Permettete che vi veda ma se lo ordinate me ne andrò subito». La presenza dell’amica non ha dunque impedito al misterioso corteggiatore di entrare, non visto, nell’abitazione. La replica, vergata su un secondo biglietto che repentinamente Françoise sostituisce al primo, appuntandolo sullo stesso tavolo («Andatevene subito ve le ordino», p. 48), sembra utile, in termini narrativi, ad arginare l’insistenza dello sconosciuto, ma si rivela in realtà chiave di volta per la risoluzione dell’enigma. Qualche tempo dopo, infatti, Françoise è informata di un grave peggioramento della malattia di Christiane e le fa visita, scoprendo fortuitamente che l’aggravarsi delle sue condizioni di salute dipende dal dolore provocatole dal secco rifiuto ricevuto con quel secondo biglietto: è così smascherato il vero nome del(la) corteggiatore(-trice). Compreso l’amore nutrito dall’amica, Françoise consulta un sacerdote al quale pure nasconde l’identità dell’innamorata perpetrando volontariamente l’equivoco di genere (p. 52): «Padre, se un uomo morisse d’amore per una donna, […], se soltanto l’amore di quella donna potesse salvarlo da una morte imminente e certa, lei sarebbe scusabile se glielo offrisse?».

Il clericale, personaggio che nella cornice narrativa agisce in osservanza della morale cristiana, condanna senza appello l’ipotesi di adulterio (p. 53): «[Quella] è una bella morte e agire come dite voi significherebbe precludere il regno di Dio a chi l’ha meritato trionfando […] sulla propria passione».

Proclamata la vera natura del rapporto tra Françoise e Christiane (nomi che Proust spesso confonde e inverte nei manoscritti, sì suggerendo un’ideale sovrapposizione dei loro ruoli ma anche minando l’attendibilità del narratore), l’intreccio precipita impietoso (p. 53): «Vennero a chiamare Françoise e il sacerdote, Christiane stava morendo, chiedeva la confessione e l’assoluzione. Il giorno dopo Christiane era morta. Françoise non ricevette mai più lettere dello Sconosciuto».

 

 

Il corrispondente misterioso: zoomorfismo autobiografico

Intuibile precedente letterario del racconto in questione è costituito da The Purloined Letter (1844) di Edgar Allan Poe, che Proust elogia nel proprio epistolario e al cui modello sembra rifarsi anche nella raffigurazione allegorica del noto gatto-scoiattolo bianco (variazione iconografica del più tipico animale da bestiario). L’immagine è figura d’amore, e cioè della suddetta «malattia di languore», per il protagonista-narratore dell’apologo La conscience de l’aimer (pp. 100-1):

«Non ero più triste, non ero più solo, e la mia felicità era tanto più profonda perché segreta […]. L’indifferenza e la noia che pervadevano ogni cosa intorno a me erano dissipate da quando vi si appollaiava sopra con grande eleganza […] il bianco scoiattolo-gatto che mi seguiva ovunque. Caro amabile animale silenzioso, quanto mi avete tenuto compagnia durante questa vita che avete misteriosamente malinconicamente adornato».

L’eco contrastiva dal verso onomatopeico di The Raven (1845) di Poe («Quoth the Raven “Nevermore”») risulta dopotutto evidente già nell’incipit (p. 99): «Mai mai mi ripetevo queste parole che lei mi aveva detto e che con il silenzio spaventoso dell’attesa che le aveva precedute e della disperazione che le aveva seguite per la prima volta mi avevano fatto sentire il mio cuore che pronunciava […] le parole sempre sempre».

 

 

Il corrispondente misterioso: ritratto dell’io

Insomma, il rapporto con il proprio io sembra costituire motivo strutturale (pur certamente non esclusivo) di questi testi, variamente declinato ma tuttavia sempre anticipato da un’introduzione di carattere generale che si sviluppa su due moduli. Il primo propone un’associazione di idee tra la riflessione del narratore (ora omodiegetico ora eterodiegetico) e l’episodio via via messo a fuoco. Si pensi all’esordio di Après la 8e symphonie de Beethoven (p. 91):

«Sentiamo talvolta la bellezza di una donna, la gentilezza o la singolarità di un uomo, la generosità di una circostanza, prometterci la Grazia. Ma ben presto la mente intuisce che quelle promesse deliziose, l’essere che le ha fatte non fu mai in grado di mantenerle […]. Una sera io mi sono fatto ingannare dei vostri occhi, dalla vostra andatura, dalla vostra voce».

Il secondo si configura invece quale incipit in medias res, come nell’apologo sul memento mori intitolato Pauline de S. (p. 35): «Appresi […] che la mia vecchia amica Pauline […], da tempo malata di cancro, non avrebbe superato l’anno».

Già solo questa rapida rassegna rivela sottotraccia il ritratto di un autore tormentato, restituito da Proust attraverso quelle numerose variazioni sul tema che di lui assemblano una «biografia psicologica» (L. Fraisse, Introduzione a M. Proust, Il corrispondente misterioso, Garzanti, 2021, pp. 9-25: 15). La presenza ricorrente, quasi ossessiva, di tale motivo è anzi stata additata dalla letteratura critica (e ribadita nel corso del recente Convegno Internazionale organizzato a cent’anni dalla morte) come una delle ragioni alla base della consapevole esclusione di questi testi dalla raccolta originaria; lo scrittore avrebbe cioè così scansato «il rischio di un’eccessiva messa a nudo della propria intimità», come ricordato da Ilaria Vidotto nei «Quaderni Proustiani».

Cionondimeno i nuclei narrativi, i quadri e i bozzetti caratteriali alla base di questi frammenti veicolano un messaggio ben lontano dalla resa; malgrado i toni più malinconici e talora persino cupi di cui ciascun frammento è pervaso, infatti, il narratore riesce sempre a «esprimere la meraviglia di fronte alla bellezza, lo spessore di vita che racchiudono il mistero, l’enigma da risolvere e la ricchezza inalienabile che ognuno possiede e che è l’esplorazione del proprio mondo interiore e […] alternativa alla disperazione» (p. 25).

 

 

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Nel testo riproduzioni della copertina di M. Proust, Il corrispondente misterioso (Garzanti, 2021); di A. Watteau, L’Indifférent (1717, Louvre), cui spesso l’omonimo racconto di Proust è stato posto in relazione; di D. Klöcker Ehrenstrahl, Scoiattolo bianco nel paesaggio (1698, Museo Nazionale di Stoccolma) e di V. Oakley, Study of a Squirrel (ca. 1933, Pennsylvania Academy of the Fine Arts).

OLTRE DI MACE

Parlare di un album come OLTRE di MACE senza dover per forza aggiungere la postilla della storia che una cosa del genere in Italia è una vera e propria rarità pare difficile. Sembra quasi obbligatorio muoverci in questa direzione, semplificando, nutrendoci della retorica dell’erba del vicino e cose simili. Per quanto possibile, proviamo a farlo senza per forza doverci raccontare questa storia, sforziamoci, stacchiamoci: non è un surplus il fatto che sia uscito un lavoro del genere nonostante sia italiano.

OLTRE è un grande album che mischia l’elettronica, i club, l’ambient, la new age, la psichedelia. Bisogna scordarsi il precedente OBE, scordarsi il pezzo con Blanco e Salmo, “La nostra canzone“, Guè Pequeno e compagnia. Quello che esce fuori oggi è un linguaggio complesso, stratificato, colto. Cercare di vederlo nell’ottica di costruzione di pezzi che funzionino come canzoni in senso lato – con quel piegarsi spudorato a certe necessità di mercato – non funziona. Qui non c’è nulla di tutto questo, e quell’oltre del titolo, suona mano a mano sempre meno pretenzioso, sempre più attento e in linea con quello che va a raccontare.

Non esiste un vero e proprio discorso che leghi OLTRE, lavoro  intrinsecamente non coerente nelle intenzioni; il concept narrativo ricade tutto – questo sì – in una coerenza estetica che riesce a non subire alterazioni, a non cedere sotto i colpi del proliferare di generi, degli input, il loro susseguirsi ossessivo, il loro ondeggiare. Non ci sono appigli strutturali con cui relazionarsi, schemi. Lì è impresso lo snodo di quest’album, che ha risvolti notevoli.

La forma canzone è stata presa e ripensata. Ripensata per non essere più pensata. Non esiste, è qualcosa di non immaginabile. Bisogna partire da questo presupposto per accettare OLTRE.  Non c’è voce, un unicuum strumentale, campionamenti e loop, melodie robotiche: è riduttivo relegare questo lavoro alla sola etichetta di album elettronico. Dalla prima suite di quasi 20 minuti, per passare alla lounge e all’influenza di SBTRKT in “Ologramma“, a Moderat e Burial che pensano insieme a nuovi codici,  allo sguardo stile Jon Hopkins (il secondo brano forse non a caso si chiama “Singularity“) che si combina con quello di Floating Points, si arriva fino a sfumature Bon Iveriane con i fiati di “Volo Celeste“. Impossibile non citare poi Caribou o Jamie XX (i suoi Oh My Gosh sembrano possano spuntare da un momento all’altro) e il successivo sfociare in zone-trance (“Impeto” , “Serpente Cosmico“). Un vero e proprio viaggio, nella sua accezione più alta e più ridondante.

OLTRE è, oggi, un album necessario.

 

 

 

 

Riproduzione di Ian Williams

Quando un libro si fa corpo

Nel mondo esistono un numero pressoché infinito di generi di lettori, ma a voler sintetizzare e restringere il campo si potrebbero identificare due tipologie: ci sono lettori che eludono i paratesti del libro timorosi di guastarsi una qualche sorpresa e così sfogliano veloci frontespizi e occhielli e arrivano dritti dritti al “capitolo uno”, vero uscio del romanzo appena preso in mano; altri, invece, indugiano tra copertina e risguardi, come a voler entrare nel nuovo mondo che di lì a poco conosceranno con il giusto bagaglio di informazioni che – ritengono – permetterà loro di affrontare il viaggio con maggiore consapevolezza. A ogni modo, che uno appartenga al primo o al secondo gruppo, che lo scopra a pagina 532 o aprendo le bandelle ancor prima di iniziare il libro, chi entra in contatto con il massiccio parallelepipedo intitolato Riproduzione (Keller, 2021) e partorito dalla mente di Ian Williams verrà sorpreso da una frase granitica: «Non tutti sono fatti per riprodursi».

In un periodo storico, quello attuale, che si interroga nuovamente e ancor più a fondo su temi quali l’aborto e la complessità dei legami famigliari, l’apparente cortocircuito tra il titolo dell’opera e l’affermazione presente al suo interno non fa altro che portare allo scoperto la tensione emotiva e narrativa che scorre dentro quello che a ragione si può definire un esperimento letterario di pregevole fattura.

Riproduzione è il romanzo primogenito di Ian Williams, poeta e scrittore, nato a Trinidad e cresciuto nella canadese Brampton, che proprio a Brampton ambienta la sua complessa prova narrativa, la quale gli è valsa il prestigioso Giller Prize, nello stesso anno (2019) in cui era in lizza anche la veterana e amata Margaret Atwood con I testamenti.

Riproduzione racconta la storia di una famiglia atipica in modo altrettanto atipico. Una famiglia che si origina dall’incontro fortuito di Felicia ed Edgar in una stanza di ospedale, mentre attendono che le loro madri muoiano. Felicia Shaw, giovane nero virgulto caraibico, appena arrivata sul suolo canadese, si trova a condividere lo stesso ossigeno – o più precisamente a respirare la nicotina – di Edgar Gross, rampollo indolente di una bianchissima famiglia tedesca, svogliatamente avviato verso la mezza età e con una pigra inclinazione predatoria.

Siamo a metà degli anni Settanta, e cosa succede quando due persone, quasi loro malgrado, uniscono i propri patrimoni genetici? I ventitré doppi capitoli della prima parte di Riproduzione lo raccontano in modo cromosomicamente chiaro: ne viene fuori un bambino che nelle intenzioni vorrebbe essere un punto fermo, una tregua, e che per questo è benedetto con il nome di Armistizio, ma che poi nella quotidianità viene chiamato Army: allora il lettore non si deve stupire se il suo ingresso nella storia sarà tutt’altro che pacifico.

E se Army è il primo frutto di questa sgangherata famiglia, il libro ci accompagna lungo un arco di tempo che copre all’incirca quarant’anni e ci permette di conoscere anche il lascivo Oliver, proprietario della casa in cui Felicia si ritrova ad abitare, e i figli di lui Heather e Hendrix, fino ad arrivare all’ultimo in questa linea genealogica – che non per forza interessa legami di sangue – ovvero il sovversivo Chariot detto Riot, il cui nome parla ben prima delle sue azioni.

Una famiglia allargata e complessa, quella raccontata da Williams, i cui legami possono apparire contorti, disfunzionali e, talvolta, imbevuti di una buona dose di anaffettività. Eppure i personaggi sanno parlare anche di amore, di attrazione, di amicizia, di accudimento – seppur non in modo convenzionale –, portando nelle pagine del libro un senso del vero che permette loro di non cadere mai in alcuna forma precostituita che possa stereotiparli: l’incapacità di Edgar di entrare in connessione emotiva stabile con gli altri, la fede grossolana e risoluta di Felicia, la frettolosa bramosia di Army di “svoltare” nella vita non hanno alcunché di banale, di già sentito, di ascrivibile a qualcun altro.

Di saghe famigliari è piena la letteratura, ma quella di Ian Williams è una saga famigliare suo malgrado. Stando alle intenzioni iniziali, nessuno dei protagonisti aveva il proposito di riprodursi e ancor meno di dar vita a un proteiforme nucleo famigliare. Stando alle loro intenzioni, quindi, il libro non sarebbe mai dovuto esistere.

«Non tutti sono fatti per riprodursi». Eppure tutti, alla fine e in vario modo, si riproducono, con una puntuale passaggio di padre in figlio di tratti somatici e di abitudini comportamentali, soprattutto di queste ultime.

A ogni modo, così descritto, Riproduzione sarebbe accostabile a un numero pressoché infinito di altri romanzi, che negli anni hanno scandagliato matasse aggrovigliate di relazioni parentali, patrimoni genetici che per partenogenesi trasmettono la medesima capacità di sbagliare, fino ad arrivare alla comprensione che non è necessario avere legami di sangue per poter parlare di famiglia. Se Riproduzione fosse solo questo, sarebbe come fermarsi alla presunta, e mendace, vasectomia che Edgar racconta a Felicia di aver fatto e che dà il via a tutto il romanzo. Riproduzione potrebbe essere solo questo, se non si decide di seguire la biologia di questo libro.

A questo punto, quindi, val la pena tornare un attimo alla questione esposta all’inizio, quella riguardante i tipi di lettori, perché per godere appieno di un romanzo come quello di Ian Williams, anche il lettore poco incline a “leggere” le strutture e le sovrastrutture di un libro deve arrendersi. E Riproduzione val bene la resa.

Per leggere quest’opera è necessario sposare l’idea e l’intento del suo stesso creatore: «I wanted to write a book that would reproduce itself». E così Ian Williams ha plasmato un organismo vivente e lo ha affidato al lettore, il quale nella prima parte lo vede riprodursi sotto ai propri occhi, poi osserva le cellule di questo essere proliferare e crescere in modo esponenziale nella seconda e terza parte, e infine lo veglia quando nella quarta parte, ormai malato di tumore, il libro farnetica e la narrazione si frange, mescolando materialmente – tipograficamente – più flussi narrativi. A fare da intermezzo a una simile struttura, ci sono poi delle “confidenze”, nuclei condensati dove la narrazione procede velocissima e per lampi di notevole impatto lirico.

Definire Riproduzione un romanzo sperimentale potrebbe essere riduttivo, e bisogna ben guardarsi dal bollare l’opera di Williams come esercizio di stile. In un’intervista rilasciata dall’autore a Rivista Studio, lui stesso alza lo scudo contro osservazioni di questa risma, mettendo ben in chiaro che il suo obiettivo non è pavoneggiarsi con della «ginnastica mentale», né essere ricordato come «quello delle trovate». Il suo è il tentativo, profondamente poetico, di spingere un libro oltre i soliti confini, di farlo divenire carne. L’energia necessaria per un simile poderoso dispiegamento di forze inventive si può avere soltanto se si ha uno scopo genuino. E la bontà di tale affermazione, ovvero che questa solenne impalcatura narrativa non ha nulla a che fare con artificiosità letterarie, trova conferma nell’estrema facilità e godibilità con cui si legge questo libro. A tal proposito, un plauso va anche alla alla traduttrice, che con altrettanta maestria e naturalezza ha saputo veicolare gli infiniti guizzi dell’autore.

Con Riproduzione, Ian Williams fa un patto con il proprio lettore: se accetti di metterti in gioco, di andare oltre la superficie, di cogliere tutti i piccoli Easter egg lessicali disseminati nel libro, verrai ricompensato da una lettura capace di avvolgerti, facendoti prendere parte a tutti gli effetti al processo narrativo. E questo è forse il più grande regalo che un autore può fare.

 

(Ian Williams, Riproduzione, traduzione di Elvira Grassi, Keller, 2021, 696 pp., euro 20, articolo di Giulia Eusebi)