Copertina del New Yorker con Zooey di Salinger

See more glass: Zooey

Un romanzo, nove racconti e quattro novelle raccolti in quattro libri usciti tra il 1951 e il 1963: è tutto ciò che Salinger scelse di affidare a un editore, opponendosi tanto ai tentativi di riesumare i racconti apparsi su riviste prima dell’esordio, quanto alle proposte degli interessati alla stampa della sua ultima novella, che occupa quasi interamente il numero del 19 giugno 1965 del New Yorker.

Davide Coltri prosegue il suo percorso nella produzione produzione breve di J.D. Salinger. Leggi il primo articolo dedicato a L’Uomo Ghignante.

Un’avvertenza: è probabile che ci siano spoiler, se questa parola ha un significato quando si parla di Salinger.

 

Seconda Puntata
Zooey

Zooey, apparsa sul New Yorker il 4 maggio del 1957, è una delle otto storie che Salinger dedica alla famiglia Glass: sette fratelli (Seymour, Buddy, Boo Boo, i gemelli Walt e Waker, Zooey e Franny) dall’intelligenza precoce ed eccezionale – sono tutti ex protagonisti di un programma radiofonico per bambini prodigio – figli di due attori di vaudeville (Bessie e Les).

Dopo un preambolo in cui Buddy afferma di essere il narratore, la vicenda inizia tra le mura dell’appartamento dei Glass a Manhattan, dove Bessie e Zooey sono alle prese con l’esaurimento che ha colpito Franny due giorni prima e che Salinger racconta nella storia eponima del 1955. Franny, studentessa e talentuosa attrice in conflitto interiore col mondo accademico e dello spettacolo, sta cercando di mettere in pratica gli insegnamenti di un mistico russo del diciannovesimo secolo, secondo il quale sarebbe possibile pregare Cristo ininterrottamente.

Franny è proprio in crisi, non mangia quasi nulla e la madre, non sapendo più a chi rivolgersi, irrompe nel bagno dove Zooey, mezzo immerso nella vasca, sta leggendo una lettera che il fratello Buddy gli ha spedito quattro anni prima. Si capisce che Zooey è esasperato dalle soluzioni proposte da Bessie; per di più ha già provato a parlare con la sorella, senza ottenere nulla, e appare restio a ritentare. Si intuisce tuttavia che la lettura della missiva di Buddy è un tentativo di trovare il modo di aiutare Franny.

Partendo da questo nucleo, e mantenendo il racconto dei fatti entro coordinate spaziali e temporali ristrettissime (quattro stanze, qualche ora), lo scrittore newyorchese orchestra un andamento a spirale che ingloba sia riflessioni estetiche, morali e spirituali, che interventi dei membri assenti o morti della famiglia Glass – Seymour e Buddy in primis –, e che spazia nel tempo a recuperare eventi dell’infanzia. Al centro di tutto questo, ovviamente, c’è Zooey: è lui che a poco a poco si trasformerà in una persona in grado di prendersi cura della sorella.

Il lettore è immerso in una giornata speciale per la famiglia Glass, durante la quale Zooey, in un lento avvicinamento, sviscera alcuni dei traumi e nodi irrisolti che si porta dentro. C’è il suicidio di Seymour, l’assenza di Buddy, l’inadeguatezza dei genitori di fronte allo stato di Franny, l’istruzione zen impartita dai fratelli maggiori che lo ha trasformato in un fanatico. Zooey è carico di rabbia, che esprime prima sarcasticamente contro la madre durante le due sequenze in bagno, poi contro Franny inchiodata al sofà. Franny, da parte sua, non sopporta più né la vita accademica, con tutte le piccolezze e trivialità di professori che sono interessati a tutt’altro che alla ricerca della saggezza, né quella da attrice, perché indulge ai desideri dell’ego. Da qui il suo ricorso alla preghiera a Gesù.

 

Teatro di Zooey di Salinger

 

Il primo incontro/scontro con la sorella è un dialogo in cui Zooey di fatto parla soprattutto a sé stesso, o alla parte di sé stesso che ritrova in Franny, e lo fa con un astio che non lascia scampo e che non ha pietà nemmeno delle lacrime. Sarà una lunga tirata su Gesù Cristo e l’epifania di una scena alla finestra a permettere a Zooey di uscire dall’impasse e diventare il guaritore di Franny e di sé stesso. La scena alla finestra risveglia in Zooey la consapevolezza della bellezza immediata di un mondo purificato dalle intrusioni dell’ego; Gesù Cristo è uno di coloro che sanno quanto la differenza tra le cose è pura mistificazione, perché afferma di essere uomo e Dio allo stesso tempo. Zooey inizia quindi un cammino di lenta ma sicura ascesa: entrerà nella stanza di Buddy e Seymour, vi passerà del tempo a riflettere e a leggere, riesumerà il quadretto familiare descritto in un diario di Seymour. Infine, prenderà il telefono e chiamerà Franny nell’altra stanza, spacciandosi per Buddy.

L’elemento della comunicazione filtrata è cruciale e attraversa tutta la novella (e si ritrova spessissimo nelle storie dei Glass): all’inizio Zooey legge una lettera di Buddy; nel bagno, Bes e Zooey discutono prima attraverso la tendina tirata della vasca e poi guardando i propri doppi nello specchio; durante la telefonata a Franny, Zooey verrà smascherato ma non per questo opterà per proseguire la conversazione di persona e continuerà a parlare nella cornetta. Usando il telefono, accettando le modalità comunicative della propria famiglia, Zooey si riconcilia coi fratelli maggiori: è Seymour ad aver installato la linea, ed è Buddy ad aver lottato perché non venisse rimossa.

Di più, spacciandosi per Buddy, Zooey tenta di incarnare l’assenza di differenze esemplificata da Gesù Cristo. Su questa scorta, una volta smessa la falsa identità, potrà finalmente parlare davvero a Franny (e non più solo a sé stesso) e rivelarle che il brodo di pollo che Bessie le propina per curarla è sacro, e che deve sapere riconoscere il sacro in ogni cosa, anche in quelle che sembrano più inadeguate. In caso contrario, la preghiera a Gesù non è altro che fuga dal mondo, desiderio (desiderio!) dell’ego di accumulare purezza.

Nelle ultimissime battute, Zooey e Franny scoprono di aver ricevuto da Seymour la stessa esortazione, una sorta di imperativo categorico morale ed estetico, secondo il quale qualsiasi cosa dev’essere fatta per la Signora Grassa. All’insaputa l’uno dell’altra, l’hanno immaginata simile: «La facevo sedere su una orribile sedia di vimini. E aveva il cancro anche lei, però, e faceva andare la radio a tutto volume tutto il giorno! Anche la mia!».

Zooey è ora pronto a consegnare alla sorella il tesoro che ha conquistato: la Signora Grassa è Gesù Cristo, e Franny, facendo quello che desidera e che le riesce meglio (recitare, Buddy e Zooey sono andati a vederla di nascosto e sanno quanto sia brava), non fa altro che pregare, secondo l’inclinazione che le è data. «In qualche stadio della tua evoluzione, in una delle tue maledette incarnazioni, se preferisci, tu non hai sentito soltanto un desiderio intenso di fare l’attore o l’attrice, ma di farlo bene. E adesso, ormai, ci sei dentro. Non puoi sottrarti così alle conseguenze dei tuoi desideri». Non importa se Franny reciterà per il pubblico di un teatro di provincia, a Broadway, o alla radio: «Non c’è nessuno là dentro che non sia la Signora Grassa di Seymour. Professor Tupper compreso, sorellina. E tutti i suoi balordi cugini. Non c’è nessuno, in nessun luogo, che non sia la Signora Grassa di Seymour».

Per Salinger, Zooey è l’occasione di inserire in una cornice narrativa una summa delle proprie riflessioni in materia di religione e di estetica, e per raggiungere, nelle ultime pagine, la proposta di una sintesi in cui vita spirituale e vita artistica si presentino come la stessa cosa. Eppure, come scrive candidamente Buddy nella lettera che Zooey legge all’inizio della novella, questa storia resta anzitutto una storia d’amore, «d’un amore multiplo o composito», in cui un fratello affronta gli ostacoli più insidiosi (l’orgoglio, il risentimento, i traumi familiari) per riconciliarsi con la realtà e diventare una persona in grado di prendersi cura della sorella sofferente, di sé stesso e, potenzialmente, del mondo intero.

 

(“Zooey”, in Franny e Zooey, J.D. Salinger, Einaudi, 1963, pp. 168, euro 10, articolo di Davide Coltri)

 

Copertina di Hostia di Bonadonna

L’innocenza del male

Presentato per la fase finale del premio Strega 2019, Hostia. L’innocenza del male (Round Robin, 2018) di Federico Bonadonna ha un titolo tra l’antico e il moderno, con un termine che nella sua definizione latina appare contraddittorio: non è il male a essere innocente, ma chi lo subisce.

L’autore, classe 1966, non è nuovo ad avventure letterarie di rilievo: è suo Il nome del barbone, pubblicato nel 2001 da DeriveApprodi da cui Citto Maselli ha tratto il film Civico Zero. Con Hostia dà conferma della propria capacità di raccontare in modo schietto, duro e senza filtri la periferia romana degli anni Ottanta, per nulla lontana da quella di oggi.

Nel suo romanzo, degrado, disagio e violenza distruggono il rapporto più prezioso che esista, quello tra genitori e figli, che dovrebbe essere fatto di affetto, sicurezza e fiducia indiscutibile ma che si trasforma invece in tradimento e perdita di punti fissi. Per i genitori di Hostia, i figli sono una proprietà, trattati alla stregua di oggetti, e la violenza – fisica, psichica e affettiva – è l’unica forma di linguaggio.

È in questo quadro instabile e senza riferimenti che si muovono paralleli i protagonisti, Martino ed Emma: il primo psicologo quarantenne di un centro diurno, la seconda una bambina di sette anni lasciata nello stesso centro dalla madre, con l’obiettivo di sbarazzarsene. All’apparenza due personaggi senza alcuna affinità, ma i passaggi violenti della vita della bimba diventano, con il fluire della narrazione, chiavi e grimaldelli per aprire le molte porte chiuse dei ricordi di Martino.

Attraverso un rapporto che diventa quasi simbiotico, i due percorrono seppure in modi diversi la strada dell’accettazione resiliente della violenza subita – un male nascosto, dall’aspetto innocente, che ha impedito loro persino di vivere il proprio essere vittime.

Certamente una lettura che lascia spazi a molte domande, che ho rivolto all’autore.

 

Direi di iniziare dalla genesi del romanzo. Da cosa ha avuto origine la narrazione?

Seppure in forme diverse, questa è una storia che ho in mente da una quindicina di anni. È il caso di due sopravvissuti all’abuso, un adulto e una bambina che si incontrano per caso. Martino scopre che Emma è il bambino che lui non è potuto essere, e riconosce nell’altro la sua parte interrotta. Questo lo aiuterà anche per comprendere le sue fratture interne.

 

Martino ed Emma sono in effetti diversi, ma simili nel dolore. Vittime diversamente parallele…

Sì, sono due casi di minore abusato, dove per abuso non si intende solo quello sessuale, ovviamente. L’unica differenza è che Martino appartiene alla media borghesia e non al sottoproletariato da cui invece viene Emma: l’abuso su minore è interclassista e trasversale.

 

Martino Carli è un personaggio quasi fuori controllo: ha una dimora sui generis, balbetta quando dialoga con il padre, fuma moltissimo, ha attacchi di panico e sogni che lasciano intuire un violento scompenso affettivo, si rosicchia le unghie nervosamente. È un po’ l’archetipo di un personaggio disturbato, forse borderline?

Martino ha certamente dei comportamenti bordeline, ma non è mai stato diagnosticato, anche perché questo è un romanzo, non un saggio. Nella prima stesura aveva quarant’anni e faceva il neuropsichiatra infantile.

 

Anche Emma Solpetti ha difficoltà nel relazionarsi con il suo sé, che relega o alla violenza pura (la masturbazione a sangue) o all’identificazione con l’altro. Penso all’orsacchiotto a cui copre gli occhi, ad Annalisa, la sorella immaginaria, o al modo in cui rappresenta la violenza subita nel “gioco con le lumache”. Una sorta di maschera per nascondersi dal male?

Annalisa, senza svelare il finale, è il doppio di Emma e allo stesso tempo una parte del suo abuso. Emma usa ogni tipo di maschera a disposizione per riuscire a interporre uno spazio fra sé e la realtà.

 

Nel tuo romanzo sono soprattutto i genitori a perpetrare la violenza, che ha diversi livelli oltre quello fisico. Essi vedono forse nel proprio figlio una proiezione di sé, la possibilità di una nuova vita, di una rivalsa o magari di una vendetta?

In Hostia è quasi solo Carlo, il padre di Martino, a vedere il figlio come una proiezione di sé: infatti lo iscrive nella sezione più difficile del liceo e poi lo obbliga a scegliere scienze politiche. La madre, Luisa, non lo vede affatto: Martino per lei è una sorta di vibratore, di stimolatore sessuale da accendere e spegnere a suo piacimento o, peggio, addirittura una parte fisica di sé, un frammento del suo clitoride.

Per quanto riguarda Emma, è un peso enorme per Valeria, sua madre, che vuole liberarsene – ma non solo per questo, come si scopre alla fine. Ma lo stesso vale per il padre, Sandro. In Hostia i figli sono trasparenti: lo sguardo dei genitori li attraversa, e questo è il loro problema. Ogni persona ha bisogno di essere riconosciuta, e per un bambino è vitale.

 

Le madri sono in simbiosi più o meno definita con i propri figli. Possiamo definire Luisa e Valeria due diverse facce del lato oscuro dell’essere madre?

Certamente. Luisa e Valeria esprimono quello che molte madri non dicono: l’odio verso i propri figli, il peso insopportabile di averli messi al mondo. Nel loro caso interviene però una patologia psichiatrica – anzi una doppia diagnosi perché sono ambedue dipendenti: Luisa è un’alcolista, come anche Valeria, che fa uso anche di droghe.

 

Nessuno di loro fa apparire sotto una buona luce il valore della famiglia, che non è più immutabile ma fatto di fili sottili a rischio di rottura. È un modello ormai superato?

La famiglia è mutabile per definizione: solo nel famoso spot del Mulino Bianco, che si continua a portare come esempio, la famiglia non cambia mai, ma quella famiglia non è mai esistita, e quando «i mulini erano bianchi» la famiglia era un luogo terribile dove i bambini iniziavano a lavorare prestissimo e i genitori erano distrutti dal troppo lavoro.

Non esiste un modello unico e universale di famiglia, ogni cultura e ogni epoca storica ha il suo. L’anno scorso è uscito un film giapponese bellissimo, Un affare di famiglia di Kore’eda Hirokazu, che mostra come i rapporti d’amore e d’affetto esistano a prescindere dai vincoli famigliari e sociali.

 

Mi ha colpito un’affermazione di Martino: «Ho la sensazione di fingere, addirittura di non essere reale, quasi invisibile». Il dolore, la violenza dilaniano al punto da annullare l’identificazione di sé, finendo invece quasi con l’identificarsi con l’autore dell’atto violento.

Martino si sente irreale perché ha vissuto tutta la vita con una madre “pazza”, disfunzionale, che viveva in una bolla perché terrorizzata dalla realtà. La madre ha creato intorno a Martino, ma soprattutto dentro di lui, un campo con un reticolato. La violenza ha una doppia valenza, in questo caso: da un lato fare male e farsi male lo aiuta a percepirsi, far sentire a se stesso di esistere; dall’altro la violenza è la riproduzione coatta di quello che ha vissuto per tutta la vita.

Il rapporto conflittuale dei genitori di Martino è una forma di abuso su minore. Martino si accorge dell’esistenza dell’altro non con la fidanzata Lorenza, ma quando Emma irrompe nella sua vita. La cosa che gli risuona si chiama fratellanza: tra di loro le persone abusate, nei gruppi, si chiamano sopravvissuti.

 

La letteratura è da vedersi come una speranza terapeutica?

Sartre diceva che «la libertà è ciò che fai con quello che ti è stato fatto» ma, aggiungo io, per capire cosa ci è stato fatto dobbiamo indagare, e ogni indagine è una forma di viaggio. Hostia, che tratta di trauma intergenerazionale, cioè dei traumi trasmessi da una generazione all’altra, è un’indagine nella mente e nella storia dei due protagonisti e dei rispettivi genitori.

A me scrivere serve, o meglio, non ne posso fare a meno. Ho iniziato a scrivere racconti dell’orrore a otto anni, poi sono passato alle poesie che scrivevo su una Olivetti Lettera 22, proprio come quella che Martino eredita da sua madre Luisa, quindi ai saggi. Più che terapeutico, scrivere mi aiuta a pensare, mi aiuta a chiarirmi.

 

Un terzo personaggio centrale si rivela l’ambientazione, in cui è visibile l’alienazione dell’uomo: le residenze comunali, gli alveari.

A Roma, i residence comunali sono nati per accogliere quelle duemila famiglie che non hanno usufruito dell’assegnazione della casa popolare tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, quando le giunte comuniste buttarono giù i borghetti – le baraccopoli sorte tra il dopoguerra e il boom economico per accogliere gli abruzzesi, i marchigiani e gli umbri che si riversavano a Roma.

Sono luoghi di concentrazione e segregazione dei più poveri, come spesso accade nelle case popolari, ma per via del progressivo processo di impoverimento, della carenza di soldi pubblici per la manutenzione degli immobili e dell’arretramento dello stato, si sono trasformati in zone di spaccio, ghetti urbani degradati e violenti che in Hostia assumono la forma di un personaggio, più che di uno sfondo in cui si svolge l’azione.

Quartieri come quello in cui vive Emma rappresentano il fallimento della pianificazione urbana, luoghi buoni per la retorica del politico, o del sociologo, che ha la fortuna di non doverci abitare. Nessun sindaco – che per mandato dura al massimo 10 anni, se viene riletto dopo 5 di governo – ha interesse ad intervenire nella riqualificazione urbana, che non crea consenso elettorale, ma al contrario scontenta tutti: i residenti non collusi con la criminalità perché non si fidano delle promesse dei politici, i residenti collusi perché hanno interesse che nulla cambi per poter proseguire indisturbati con i propri traffici, i politici perché devono faticare nella mediazione…

Anno dopo anno le situazioni peggiorano fino a trasformare i quartieri in terra di nessuno, o meglio in terra del più forte. In Hostia il controllo del territorio non è ancora in mano alla criminalità organizzata, ai clan che di lì a poco emergeranno. Siamo nella fase embrionale raccontata nel film L’odore della notte di Claudio Caligari, che sfocia poi in Suburra di Bonini e De Cataldo. Hostia però non parla di criminalità.

 

A ben guardare anche l’idea di “casa” come luogo di protezione è messa in discussione. Penso alla casa sull’acqua di Martino, che ha in sé la non fissità, oppure il centro diurno, totalmente asettico, senza un aggancio che sappia di casa, o anche la casa di Emma, malodorante, senza luce e acqua. Manca l’idea di casa come rifugio, non ha canoni di protezione.

Hai colto bene quello che volevo dire: in Hostia nessuno ha una casa stabile (nemmeno chi ha un tetto sulla testa), sono tutti precari, in un certo senso senza fissa dimora. Solo nell’epilogo si trova una soluzione a questa condizione, esistenziale prima ancora che materiale.

 

Colpisce, all’inizio del testo, la pagina con “i personaggi e interpreti” della storia. Le ragioni sono solo editoriali oppure c’è dell’altro?

Volevo mostrare fin dalla prima pagina che uno dei personaggi del romanzo è il fiume Tevere. Anche il mio romanzo precedente in fondo era ambientato in parte sul Tevere. È un fiume che amo, come l’Aniene del resto, e mi sarebbe piaciuto vivere in un’epoca in cui era balneabile. Oggi ci fanno il bagno e ci pescano solo i marginali, ma fino a cinquant’anni fa il fiume di Roma era vivo. In Hostia, Martino vive su una barca in disuso e si sposta con un gommone. Per esempio, per raggiungere il centro di Roma, Martino risale il Tevere.

 

Curiose e originali sono le citazioni sonore, sia radiofoniche che musicali: hanno certamente un valore narrativo importante nel racconto. Ce ne puoi spiegare l’intento?

Le citazioni radiofoniche sono tratte da Pronto? l’Italia censurata delle telefonate di Radio Radicale (Mondadori, 1987). Nel 1986 Radio radicale rischiava di chiudere e Pannella, per protesta, lasciò aperti i microfoni offrendo a chiunque volesse esprimersi un minuto per poter dire quello che voleva. Una segreteria telefonica registrò non so quanti messaggi di questo genere: Volevo darvi una notizia ricevuta direttamente dal Kgb, è una bomba peggio del Watergate. La moglie di Ronald Reagan, Nancy, è un travesta brasiliano. E non è stato nemmeno a Casablanca. Bip Sono un cacciatore e ne sono orgoglioso. Meglio un figlio cacciatore che drogato o culattone come voi. Bip

Da queste telefonate emerge un dato per me interessante: non sono i social ad aver trasformato le persone, è il semplice fatto di potersi esprimere senza filtri (e con la garanzia dell’anonimato o almeno della distanza) che porta molte persone a tirare fuori alcune parti di sé altrimenti celate. I social sono solo un amplificatore di qualcosa che c’è già. Avendo fatto iniziare il romanzo nel 1986, ho approfittato per raccontare anche questa storia.

Le canzoni invece sono la colonna sonora di una stagione, quella degli anni Ottanta, che ha visto tanta creatività, a mio avviso non sufficientemente apprezzata sul momento. Tutto è partito perché volevo inserire a tutti costi un tormentone della mia adolescenza, Tarzan Boy di Baltimora. Adoro quel pezzo, mi infonde gioia ed energia, con il suo richiamo della giungla metropolitana e il coro delle scimmie.

Ho voluto inserire le mie piccole passioni dell’epoca, che erano anche quelle della gente comune che non voleva apparire raffinata a tutti i costi. Ci sono così canzoni come Please, please, please, let me get what I want degli Smiths e soprattutto Reel around the fountain, in cui Morrisey dice: «It’s time the tale were told of how you took a child and you made him old» («È ora che si racconti la storia di come hai preso un bambino e mi hai fatto diventare vecchio») ovvero dell’abuso che ferma il tempo, per blocca la crescita dell’abusato: Martino, che ascolta il pezzo, si riferisce indirettamente al padre e alla madre. Ogni canzone si riferisce ad un momento preciso del romanzo: non ha solo una funzione di accompagnamento, ma è legata alla storia narrata.

 

Anche se collocate negli anni Ottanta, le vicende non hanno il sapore del tempo quanto un profumo di contemporaneità: quasi a dire che la violenza prima era presente ma celata, ora lo è meno.

Hostia ha la pretesa di raccontare una storia universale, che potrebbe essere ambientata nella contemporaneità in qualsiasi parte del mondo occidentale.

 

Sul testo si sta lavorando per una trasposizione scenica, che vedrà tra gli interpreti dei nomi di spicco. Stai collaborando anche tu o ti limiti a esserne spettatore? Credi che saranno necessari dei tagli o delle rimodulazioni del racconto?

Sì, sto lavorando anche io alla sceneggiatura: l’obiettivo è realizzare una serie televisiva anche se sta prendendo piede l’idea di una trasposizione teatrale. In ogni caso certamente saranno necessarie rimodulazioni perché sono linguaggi differenti.

 

copertina di Lontano dagli occhi di Paolo Di Paolo

Accettare il ritmo dell’esistenza

A poco più di dieci anni di distanza, con questo Lontano dagli occhi (Feltrinelli, 2019) Paolo Di Paolo sembra voler riprendere, rendendolo insieme più fantasioso e più esplicito, lo spunto di un suo felice, svelto romanzo precedente: Raccontami la notte in cui sono nato, uscito originariamente presso Perrone e poi ripubblicato, più di recente, sempre da Feltrinelli.

Torna, infatti, nel nuovo romanzo, accampandosi in un luminoso, calibrato gioco di “variazioni sul tema” di una “vita che non è – ma anche, ad un tempo, è…– la mia”, il nucleo segreto e ulcerante che era stato appena alluso, nel romanzo precedente, con una specie di pudico understatement ma insieme con una spericolata abilità affabulatoria, attraverso lo spunto narrativo della propria vita “messa in vendita”, per far subentrare un quasi sconosciuto studente padovano al proprio posto, fra le proprie amicizie e i propri parenti: ritratti, questi ultimi, in una scintillante scena matrimoniale, con un realismo, si direbbe, affettuoso, ma che fa venire in mente le parole di Aristotele sugli organismi repellenti che, visti però nell’arte, ci appaiono belli.

Ebbene, questo scambio da favola mitteleuropea (Peter Schlemil, o Il naso di Gogol’, per non citare che i primi in punta di lingua) era, in realtà, assai meno implausibile di quanto potesse sembrare a una prima, frettolosa lettura di quella storia, quasi misteriosamente conclusa sull’apparire di una enigmatica figura di donna «che non conosco»e il suo dare alla luce un bambino: a una «luce di giugno»che sembrava farsi rifrazione di quella dell’August di Faulkner.

E lo comprendiamo, finalmente, dal libro che possiamo leggere oggi: quel bambino nato in giugno, e poi venuto, lui sì, a prendere un posto che non era previsto per lui, in quella vita e fra quei parenti, nel saldarsi della casualità di un infermiere del turno di notte che scopre un fagotto di calore umano perso in una oscurità su cui comunque risplendono vaghe, forse non leopardiane, stelle, e della capacità di donare amore di alcuni altri esseri umani, quel bambino altri non era, nella realtà, che colui che ha scritto oggi il libro.

Libro in cui però, con ancor maggiore, ormai scaltrita, abilità affabulatoria, dalla singola figura femminile su cui si chiude il primo libro, gemmano quelle delle tre giovani, o giovanissime, donne, Luciana, Valentina, Cecilia, colte tutte da Di Paolo nello sconvolgente discrimine del proprio sentirsi diventar madre; e accostate, a dar loro un tacito, eppur soverchiante rilievo, a quelle degli altrettanto giovani uomini, l’Irlandese, Ermes, Gaetano, rapportati al trauma dell’essere padre in una progressione, si vorrebbe dire, discendente di canaglieria: dal primo, atterrito dalla perdita del preservativo, all’ultimo, quasi-innocente,un po’ nel senso che il termine ha in russo, in Musorgskij, in Dostoevskij.

Nessuna, al contrario, delle tre le figure femminili ha – da subito: o quasi subito, Cecilia – dubbi circa il tenerlo, il bambino; ma è probabile che qui operi, inconsciamente, opportunamente non sottoposto, in sede di struttura narrativa, a nessuno scandaglio di analisi interiore, e perciò con effetto ancora più “eloquente”, il substrato cristiano delle tre ragazze (non cattolico, attenzione!, non pesantemente penitenziale, chiesastico: “cristiano” qui vuol dire a-confessionalmente “umano”), se non, anche, dell’Autore stesso.

Il che porta a un’altra osservazione. Non è chiaro fino a che punto la cosa sia intenzionale, ma la figura di Gaetano, il suo accettare, con tacita, silenziosa immediatezza – «“Sì”, risponde Gaetano, “sì”»– la paternità di cui non può essere sicuro, fa irresistibilmente pensare alla figura evangelica di Giuseppe: l’iniziale del nome (vorrà dire qualcosa?) del resto è la stessa.

Certo, Di Paolo si è premurato, col suo solito, elegantissimo understatement antiretorico, di fare in modo che le mani si bagnassero d’olio e di pomodoro (ma quel rosso, quel rosso sulle mani: “…questo è il […] mio sangue”, no?, et pour cause: la pizza avrebbe potuto essere una quattro formaggi, o la «mozzarella, funghi e salsiccia»celebrata qualche pagina dopo, no?), ma Gaetano è l’unico personaggio cui sia associata la similitudine del pregare, proprio nell’atteggiamento dell’orante catacombale, sottolineato, se non bastasse, da un sobrio, gozzaniano endecasillabo: «Un santo con le mani aperte e unte».

E se queste rischieranno di sembrare illazioni illegittime, si rimanga allora sul piano “materialistico”, diciamo pure di un Verismo di ritorno: come quello che – eco pasoliniana? – impronta, con una felicissima mimesi, tanto l’alta voce quanto il monologo interiore dei personaggi più giovani. Oppure, ancora meglio: i punti in cui più la grande ombra di Verga, e quella – lo si concederà – un tantino minore di Pasolini, vegliano, protettive, sulla pagina, quelli in cui fanno mostra di sé, senza neanche il lusso sinonimico del Belli, gli organi sessuali: chiamati proprio, pane al pane e vino al vino, come li si chiama dal Cenisio alla balza di Scilla. E certo, non potevano non accampare diritti di presenza, quelle parti lì, in un libro che ruota intorno al tema del concepimento, della vita nascente: e non rifiutata, comunque.

Perché in definitiva, e nel libro di oggi ancor meglio che nel precedente, vi è in Di Paolo un’accettazione, caparbia, realistica e tutt’altro che garrula e bamboleggiante, un’intrepida accettazione del ritmo dell’esistenza, con tutto quello che d’impuro – che altro vogliono dire, le molte notazioni sul degrado degli ambienti: ma, soprattutto, ed elettivamente, le “parole sporche” con cui si esprimono quasi tutti i personaggi? – quello che di fangoso contiene «il mare della realtà […], immenso, stupefacente e spaventoso». Ma in cui, pure, ci sono le api… e i cani, che però non fanno più tanta paura.

Proprio quello, in fondo, da cui tutto il libro riceve la sua incisività: non di exemplum da predicozzo bassamente retrivo, ma proprio nel senso di richiamo alle radici affondate nel vivo dell’esistenza, nelle regioni stesse a cui finiamo, prima o poi, per venire richiamati.

E in questo senso, davvero felice risulta l’invenzione del personaggio, apparentemente poco più di una comparsa (neanche il lusso di un nome, gli viene concesso!), dell’infermiere del turno di notte, dilettante d’astronomia, di cui si è fatto cenno sopra; è a lui che viene affidato, lasciando finalmente «scivolare via» se non proprio le molte mutande tolte davanti a Ilona Staller, certamente «le maschere» (e che altro è, un romanzo?), è affidato, si diceva, un monologo interiore tutt’altro che smandrappato come quelli degli scapati padri e madri adolescenti, anzi attentamente puntato a culminare in: «È sbagliato supporre che lassù, oltre il mondo, niente parli»; dove, naturalmente, il primo livello di lettura autorizzato è quello, diciamo così, da E.T., di un semplice, leopardiano sguardo sul firmamento: ma la felice ambiguità della frase consente, quanto meno, se proprio non autorizza, anche quell’altra lettura, pudicamente sottaciuta, che sembra di capire non stia meno a cuore, a Di Paolo.

Né diversamente, a lettura conclusa, l’impressione più profonda non la lasciano tanto le tre “incognite” su una uguale, possibile maternità, col loro groviglio d’imperfezioni e slanci, e debolezze – soprattutto dei maschi, gli adulti quasi allo stesso livello dei ragazzi: «I padri […] non si vedono mai»–, e quel senso di umanità indifesa, dell’essere «Inchiodati», certo, «alle necessità della specie», o, forse nel modo più vivacemente esilarante, nella scena di Capocotta, alla propria “svergognata” animalità; piuttosto, le pagine meglio convincenti del libro sono sicuramente quelle di «Vita 2»; anche perché forse il dover parlare finalmente con la propria voce ha permesso a Di Paolo di ritrovarne la naturale eleganza, la cadenza del lessico squisito e nitido, lo spezzarsi e il comporsi delle frasi, ognuna con la sua lunghezza giusta, con la sua levità sostanziata sempre di concretezza poetica.

Del resto, anche prima, nel corso delle storie in cui viene prestata, questa voce, alla travolgente immaturità delle tre madri-per-caso e dei loro paredri, non manca, qua e là, di riemergere una incoercibile tendenza alla clausola poetica che chiude un periodo. Gli esempi sarebbero tanti («sicura no, ma protetta, in maschera»; il respiro «più profondo, come quando si piange»,o, splendido, nella stessa pagina, «si è portato via il firmamento come un telo per fare cinema»; «una porta diversa e la chiave che la apre»; la pioggia che cade «in un modo […] malato e feroce»; altra gemma: «La voce delle strade riprende il suo discorso»; le lacrime pescate «da un pozzo remoto […] quelle che da anni bisognava finire di piangere», o ancora, in presenza di un referente liberty, i due quasi-dannunziani endecasillabi «e dai salici. L’ocra delle mura […] avvampa in questi giorni di solstizio»), ma farne un elenco minuto sarebbe, fuori da ogni dubbio, abbastanza idiota (e senza neanche Dostoevskij alle spalle).

In conclusione: un libro che prende, ma sì, perfettamente in bilico fra l’impudica sincerità autobiografica del maschio-medio (la Roma dei cori urlati in strada, gli armeggi con il proprio aggeggio, ecc.) e la quasi chirurgica sapienza (ancora, si pensa al D’Annunzio del parto nell’Innocente…) del punto di vista di una donna in sala parto, o dal ginecologo; ma soprattutto, che morde nella carne viva dell’esistere, e si avventura, nel punto in cui più assurdo sembra farsene l’infuriare caotico, a trovargli una qualche plausibile ragione.

(Paolo Di Paolo, Lontano dagli occhi, Feltrinelli, 2019, pp. 192, euro 16, articolo di Mario Massimo)

 

Poster italiano del film Parasite

L’odore della lotta di classe

Lo scorso maggio Bong Joon-ho l’ha spuntata contro due mostri sacri come Almodóvar e Tarantino al Festival di Cannes, aggiudicandosi la Palma d’oro con il suo Parasite. Il film è stato anche scelto per rappresentare la Corea del Sud ai prossimi Oscar, nella categoria riservata al miglior film internazionale, secondo la nuova dicitura. Nel frattempo Parasite è uscito in Italia, conservando il titolo inglese e le grandi aspettative dei cinefili.

Essendo anche co-produttore, autore del soggetto e co-autore della sceneggiatura, nonché ovviamente regista, il cineasta coreano Bong Joon-ho è il genitore unico di questo film. Gli spettatori che escono dalla sala al termine dei 132 minuti però avranno la sensazione di averne visti almeno due o tre, di film, e non è una questione di durata.

Per farci vivere quest’esperienza, Bong ci porta a Seul e ci fa conoscere due famiglie. Si parte, metaforicamente e non, dal basso, da un periferico seminterrato fetido in cui la famiglia Kim – padre, madre e un maschio e una femmina sulla ventina – sopravvive con pochi soldi e ciuccia il Wi-Fi di qualcun altro. Quando un amico chiede al giovane Kim di sostituirlo come insegnante privato d’inglese di una ricca adolescente, saliamo sulla collina di un bel quartiere residenziale e, all’interno di una mega casa di elegante architettura moderna, conosciamo i Park. Qui non ci accoglie la madre ma la governante.

I Park vogliono solo il meglio e hanno il mito degli Stati Uniti. Il padre è sempre in ufficio; la madre è ingenua e suggestionabile; la figlia è timida e risponde a una vita sotto la campana di vetro cercando storie d’amore con i suoi tutor; il figlio è piccolo e fa un po’ quello che gli pare, in fondo consapevole di essere considerato il genietto di casa. A prescindere dal respiro internazionale che questa famiglia alto-borghese di Seul cerca con insistenza e ostenta con discrezione, con i Park ci si dimentica di essere dall’altra parte del mondo e ci si lascia convincere dalla storia. Quando il lavoro di caratterizzazione è così esemplare non serve alcuno sforzo per sospendere l’incredulità.

Anche i Kim sono credibili, se non che, prima il ragazzo, poi il resto della famiglia, tirano fuori una soprannaturale capacità mimetica che permette loro di passare per dei professionisti impeccabili e sostituire gradualmente tutti i ruoli al servizio dei Park (insegnanti, autista, domestica). Mentre ci si chiede come facciano delle persone capaci di un’applicazione così lucida e indefessa a essere poveri in canna, il film fila sicuro, mosso da questo fantastico espediente narrativo.

A questo punto lo spazio abitativo dei ricchi è invaso surrettiziamente dai subalterni, e molti avvenimenti sono destinati ad avere luogo. Il palcoscenico principale diventa la super casa dei Park, nei cui corridoi scorrono come sul velluto i carrelli di Bong e nelle cui sale risuonano gli archi della colonna sonora originale e a un certo punto anche “In ginocchio da te” di Gianni Morandi.

I fatti ci mostrano che i quattro Kim si aggrappano ai Park, gli ospiti, per trarne beneficio. Sono dei parassiti, tecnicamente, sebbene questa parola non sia la prima a venire in mente guardando l’intreccio del film. Uno sciocco controllo con il traduttore di Google conferma che il titolo originale coreano si traduce in inglese come helminth, elminta, verme parassita. Zoologia a parte, gli scaltri sottoproletari sembrano essere le ombre dei loro omologhi benestanti, ma se in Noi di Jordan Peele gli ultimi venivano a (ri)prendersi il posto dei primi, qui le linee sono nette e il ruolo di chi è in cima non è messo in discussione; i sostituiti sono i penultimi, che ritornano quindi sul fondo in attesa di un illusorio momento di riscatto. Bong declina la lotta di classe secondo canoni contemporanei: una guerriglia tra esclusi, schermaglie per accaparrarsi le briciole che cascano dal tavolo. O per succhiare un po’ di vita dagli ospiti, va bene Bong.

Si possono intravedere temi alla Ken Loach, ma ci mette poco questo film, che parte come una commedia nera e attraversa con disinvoltura altri tre o quattro generi, a scrollarsi di dosso facili etichette. Non mancano scene pulp (ah, allora è tarantiniano!) e altre in cui il regista indulge in lampi di idealizzazione romantica. L’effetto generale è un insieme coeso di sequenze che rende la visione di Parasite un’esperienza cinematografica di alto livello.

Alla soddisfazione dello spettatore contribuiscono momenti carichi di metafore visive, perché l’occhio della camera è sapiente e mai casuale. E se anche i personaggi riescono a ingannarlo con i migliori trucchi per passare dalla parte buona e giocare con i limiti, ci sarà sempre un odore, una puzza, a ricordare a tutti chi sono i sani e chi invece gli elminti.

(Parasite di Bong Joon-ho, thriller/commedia/drammatico, 2019, 132’)

 

Willie Peyote scrive il suo album migliore: Iodegradabile

Willie Peyote esce oggi con il suo quarto album, Iodegradabile. Facciamo però una premessa: il 23 aprile del 2017 va in televisione su Raiuno a Che tempo che fa. Manca poco meno di un anno al governo di fatto guidato da Salvini, la cui ascesa è inarrestabile. Il germe del razzismo trova sempre più spazio sui vari social e nella vita di tutti i giorni.

L’artista torinese canta di fronte a Fabio FazioIo non sono razzista ma”. Una canzone che va a colpire la retorica del mettere le mani avanti di chi dice di non essere razzista, ma che manipola il tutto con un avverbio avversativo, lavandosi di fatto la coscienza per vomitare odio e ignoranza senza troppi problemi. Scopre un nervo delicatissimo in diretta nazionale, tanto che Maurizio Belpietro in un editoriale sul suo giornale, La Verità, non ci sta e se la prende con lui: non è giusto dire che il popolo italiano è xenofobo. Per Willie Peyote è una grande conquista aver fatto «incazzare» un giornalista del genere.

Ecco, trovarsi di fronte qualcuno che attraverso la musica, oggi, riesca a far smuovere un certo sentimento, seppur in minima parte, è grasso che cola. La musica è sì melodia, ricerca, sperimentazione, banalmente musica insomma, ma può e deve essere anche veicolo per procurare delle fratture politiche. Cosa che sembra esser stata cancellata dalle nuove generazioni, salvo rare eccezioni. In un momento storico in cui ciò che rimane dei cantautori si accontenta di scrivere quello che viene dettato dal mercato (itpop e simili) – per tacere di un vero movimento indie praticamente inesistente -,  è sempre più convincente l’idea che ciò che anni fa era ad appannaggio della musica pop, oggi sia materia dell’universo hip hop/rap – Salmo, per esempio. Nonostante il fatto che Iodegradabile non sia prettamente né hip hop né rap.

Iodegradabile è uno strano mix di cose vecchie, ma ringiovanite e rese moderne. Ci si ritrova più di qualche spunto alla Jovanotti o J-Ax (non gli orribili nuovi generatori di hit estive): “Quando nessuno ti vede” sembra preso direttamente da Così com’è degli Articolo31. Un atteggiamento musicale che sa di un paio di decenni fa, a cui aggiungere delle deviazioni alla Ex-Otago. Rap e aperture melodiche. Un humus culturale in comune con Caparezza. Sprazzi di Jamiroquai anni 2000 e quella strana violenza gentile del cantato. Chitarre che sembrano uscite da certi album fusion jazz, che sono le uniche chitarre che possono far funzionare quest’album. E un groove, da inizio alla fine, davvero notevole.

L’immagine in copertina è riassuntiva del contrasto che Iodegradabile produce: come la sua testa dentro una confezione del supermercato ci inquieta e allo stesso tempo risulta ironica, ci fa sorridere, così quello che ci dice – che è molto serio e dovrebbe atterrirci – sguazza in un mood costantemente allegro che che alla fine attenua lo sconforto, facendoci divertire. La mercificazione di tutto è digeribile. O degradabile.

A impressionare non è la forza poetica in sé, in cui aleggia comunque della retorica funzionale in questo contesto, ma la combinazione tra le indubbie qualità meccaniche da scioglilingua e un apparato strumentale costruito con grande qualità.

Willie Peyote, qualsiasi cosa ne pensi Belpietro, con Iodegradabile scrive il suo album migliore.

Copertina di Favole della dittatura di Sciascia favole politiche

Favole politiche

Perseguendo le tracce dell’evoluzione propria della forma favola, si scopre la natura carsica della critica sociale, la quale, sin dalle origini del genere, alimenta la struttura di molti racconti, al punto che, talora, si fa riferimento a una tipologia a sé stante, costituita dalle cosiddette favole politiche.

Infatti, pur non costituendo l’unico fattore distintivo della produzione favolistica, il monito di tipo sociale si articola in declinazioni assai variopinte, conformandosi di volta in volta alle norme linguistico-letterarie predominanti.

Tuttavia, una fisionomia specificamente socio-politica sembra caratterizzare una buona porzione della produzione favolistica novecentesca. Se infatti talune forme narrative possono essere adottate, in seguito alla loro originaria pubblicazione, anche come medium propagandistico mediante rielaborazioni in chiave ideologica (per cui si rimanda all’articolo Il confine della favola), altri racconti vengono intenzionalmente strutturati dai propri autori come favole politiche, e dunque quali allegorie sociali di più o meno ampia estensione, volte alla critica dello status quo. Non di rado, inoltre, l’impianto satirico è accompagnato dal recupero della tradizione esopica, per sua natura assai incline all’ammaestramento ironico e, persino, mordace.

A questo proposito, risulta interessante indagare uno tra gli scenari propri del panorama narrativo siciliano, ripercorrendo un’ideale linea diacronica che lega Le favole della dittatura (Bardi, 1950) di Leonardo Sciascia alle Favole del tramonto (Edizioni dell’Altana, 2000) di Andrea Camilleri, il cui esordio da favolista risale nondimeno al testo, recentemente ristampato da Mondadori, La Magaria (fiaba commissionata da una cooperativa di detenuti ed ex detenuti del San Vittore di Milano, in seguito musicata da Marco Betta e pubblicata sull’Unità del 18 dicembre 2005).

 

Favole della dittatura

Il solo titolo delle favole scritte da Sciascia ne indica con immediatezza iconica l’origine esopica; la raccolta, infatti, si apre con una citazione di “Il lupo e l’agnello” di Fedro («Superior stabat lupus», Favole, I 1, 2), la quale, oltre a rimarcare l’ascendenza classico-letteraria, sembrerebbe sancire una prospettiva incentrata sulla contrapposizione tra il superior e, conseguentemente, l’inferior.

I racconti, non indicati da titoli, si strutturano su una tale brevità testuale da assumere la forma di precetti aforismatici, come nel caso della quinta favola: «Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignuolo per tutta la notte tacque di paura».

I personaggi, animali con attitudine umana posti in interazione con altri animali e, in sporadici casi, con uomini che però non risultano mai i soli protagonisti della scena narrativa, riproducono allegoricamente le dinamiche tipiche del regime fascista, rimarcandone articolazioni ideologiche e meccanismi emotivi.

Il quadretto narrativo, infatti, non mira alla pur dialettica rappresentazione esistenziale degli uomini membri della società, o, più generalmente, dei fattori antropici inevitabilmente coinvolti nell’equilibrio della comunità, ma alla descrizione allegorica del contesto politico-sociale: sono infatti frequenti le allusioni a fatti coevi. Valga come esempio l’incipit del secondo racconto: «Le scimmie predicarono l’ordine nuovo, il regno della pace. E tra i primi entusiasti furono la tigre il gatto il nibbio. Poco a poco, tutti gli altri animali si convinsero e fu una fraterna agape vegetariana». E così anche l’esordio della ventiquattresima storia: «C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono».

Pertanto, la definizione di «favole politiche», in questo caso, designa un impianto non tanto volto alla raffigurazione polemica di personalità storicamente identificabili quanto soprattutto alla denuncia di più ampie e assai frequenti categorie dicotomiche che descrivono i rapporti tra classe dominante e classi subordinate – sebbene, in alcuni casi, non sia da escludere l’allusione a precisi personaggi storici: ad esempio Pasolini, che analizza molto lucidamente le Favole della dittatura in La libertà d’Italia del 9 marzo 1951 (successivamente confluita nel Portico della morte, Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1988), intravede nell’«uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore» del venticinquesimo racconto le figure di Galeazzo Ciano o di Achille Starace.

 

Copertina di Favole del tramonto di Camilleri favole politiche

 

Favole del tramonto

Peculiarità molto simili caratterizzano le Favole del tramonto (Edizioni dell’Altana, 2000), illustrate da Angelo Canevari, anticipate per piccola parte su Micromega nel 2003 con la precisazione d’autore «dieci favole politicamente scorrette», data la palese allusione polemica berlusconiana.

Come esplicitamente rivelato dall’autore, il titolo dell’opera costituisce una citazione alfieriana relativa all’influsso del cosiddetto «umor nero del tramonto», simbolo della disillusione predominante nell’impianto narrativo delle sue favole.

Effettivamente, ogni racconto sembra essere permeato da un disincanto morale che, lungi dall’esorcizzarsi nel graduale svolgimento narrativo, culmina anzi in un epilogo malinconico – molto raramente infatti l’epimitio conclusivo esprime una prospettiva ottimistica, benché l’autore non rinunci ad istanze pedagogiche. Poiché però il registro adottato risulta estremamente mordace, la risultante consta di un black humour spesso declinato in freddure epigrammatiche, relative anche in questo caso a dinamiche squisitamente sociali piuttosto che antropologiche oppure esistenziali.

Pur in un contesto di sostanziale affinità strutturale-tematica con le favole di Sciascia (l’implicita allegoria sociale, spesso anche oggetto di un rovesciamento parodico; i bersagli critici che pure concernono il potere della classe dirigente; la ripresa della tradizione esopica), la principale differenza che distingue i due corpora, oltre alla scelta dialettale perseguita da Camilleri, pertiene agli obiettivi polemici: essi, infatti, non additano figure sociali tipiche, di volta in volta identificabili con personaggi diversi, ma, al contrario, restringono molto frequentemente il punto di vista, attraverso dei riferimenti neppure troppo camuffati, come nella favola “Il Cavaliere e la mela”: «Quand’era picciliddro, e quindi non ancora Cavaliere, il futuro Cavaliere vide un compagnuccio che stava a mangiarsi una grossa mela. […] si accostò al compagnuccio, gli strappò la mela e la pigliò a morsi. […]. “Non sono stato io a rubare la mela”, ribatté il picciliddro continuando a dare morsi al frutto, “La colpa è tutta del mio compagno che se l’è lasciata rubare”».

Questo esempio mostra anche che molte delle Favole del tramonto condividono una struttura e un intreccio assai brevi, e che il protagonista dell’azione narrativa è più volte rappresentato, in chiave antifrastico-parodica, dal medesimo personaggio, Il Cavaliere, la cui descrizione allude piuttosto chiaramente allo scenario politico coevo, come in Il pelo, non il vizio: «In Italia ci fu un Cavaliere che, in pochi anni, accumulò una fortuna immensa. Un giorno alcuni magistrati cominciarono a interessarsi dei suoi affari. E cominciarono a piovergli addosso accuse di falso, corruzione, concussione, evasione fiscale e altro ancora. […] Nell’aldilà venne fatto trasìre in una càmmara disadorna. C’era un tavolino malandato darrè il quale, sopra una seggia di paglia, stava assittato un omino trasandato. “Tu sei il Cavaliere?”, spiò l’omino […]. “Io sono il Giudice Supremo”, disse a bassa voce l’omino. “E io la ricuso”, gridò pronto il Cavaliere che aveva perso tutto il pelo, la carne, le ossa, ma non il vizio».

In conclusione, è bene aggiungere che alcune di queste favole possono definirsi come delle contemporanee rielaborazioni in chiave politico-satirica di racconti tradizionali dalla manifesta origine esopiana, come ad esempio “Il Cavaliere e la Volpe”, che evoca la celeberrima “La Volpe e l’Uva”: «Un giorno il Cavaliere, nascosto, vide che la volpe voleva mangiarsi un grosso grappolo d’uva alta sopra un pergolato. […] A un tratto si fece persuasa che quel grappolo era, per lei, irraggiungibile. “Perché sto qui a sprecare energia?”, si domandò, “Oltretutto sicuramente quell’uva è troppo agra”. E se ne andò. Il Cavaliere, nel suo nascondiglio, immediatamente si convinse che quell’uva era buonissima e che la volpe aveva detto che era agra solo perché non era riuscita a prenderla. Così […] agguantò il grappolo e ne fece un solo boccone. S’attossicò. L’uva era veramente agra».

 

Copertina di Canto di D'arco di Moresco

«Non sono uno scrittore di pura lana vergine»

Nella sede milanese della casa editrice SEM Antonio Moresco ha presentato il suo nuovo romanzo Canto di D’Arco. E ha iniziato dicendo: «Non sono uno scrittore di pura lana vergine. Non bisogna essere schizzinosi: nella letteratura non si butta via niente». Perché Moresco, per la prima volta, ha scritto un thriller. La fascetta editoriale lo definisce «thriller metafisico».

Canto di D’Arco incorpora nella prima parte, ora intitolata “Il male”, il romanzo L’addio (Giunti, 2016) e poi si espande nella seconda parte, “L’amore”, e nella terza, “Le città di confine”. Il nome “D’Arco” sembra avvicinare il protagonista a Giovanna D’Arco, oppure rimandare all’inglese dark.

È Moresco a fornire una risposta diretta: D’Arco è il nome di un palazzo di Mantova, sua città natale, in cui viveva una vecchia marchesa folle e da bambino l’autore entrava con la complicità di un’amica della madre. Eppure quanto più sensato sarebbe stato collegare D’Arco con il buio (dark), poiché D’Arco è un investigatore dagli occhi bianchi che vive nelle città dei morti, o con Giovanna D’Arco e le sue profezie di rinascita e di riscatto sia morale che religioso, perché questi sono i compiti che D’Arco si pone: comprendere chi profana i bambini nella città dei vivi, e porre rimedio a tanto male? Un modo per spiazzare.

Il termine “canto” si rifà invece ai Canti del caos (Mondadori, 2009) e ai diversi “io” che in quel contesto prendevano direttamente la parola creando tanti assolo. Dato che nel nuovo romanzo tutta la narrazione è in prima persona, ma a parlare, pensare e agire è D’Arco, il titolo è Canto di D’Arco.

D’Arco è una specie di cavaliere errante che attraversa città dei morti e dei vivi e dei confini per completare la sua quête.
Qual è la sua quête? Scoprire chi uccide i bambini e, in un significato molto più ampio, perché c’è il male. L’opera di Moresco prende di petto la questione e non retrocede davanti al quesito radicale ed estremo: perché si soffre?

Sembra impossibile vivere: «I vivi sono morti perché vivi e i morti sono vivi perché morti». Allora tutto è morte. Però Moresco non si ferma qui. Non rinuncia. Non abbandona la presa. Il male deve essere combattuto. D’Arco, l’investigatore morto e dagli occhi bianchi, fa vedere ciò che gli uomini (vivi e con gli occhi) non vedono. Lo scontro è gigantesco.

Moresco accetta la sfida di unire lirismo ed epica, seguendo la lezione dei grandi autori del passato, e inserisce, come un altro dei temi dominanti del romanzo, l’amore e la figura femminile di Quella: «E allora, in quel nido segreto, con i nostri due corpi soli che si stavano continuando a cercare e a riconoscere nell’oscurità più profonda del mondo, ci siamo amati per la prima volta o abbiamo ricominciato per la prima volta ad amarci anche nella città dei vivi».

D’Arco ha incontrato Quella in un cassonetto dei rifiuti. L’ha salvata. Hanno iniziato un sodalizio che li vede uniti e poi separati e poi uniti. Il romanzo è un vorticoso movimento di persone e di cose, e proprio in “Le città di confine”, la terza parte del romanzo, si capisce meglio come il fluire nello spazio e nel tempo costituisca la salvezza e la condanna degli uomini. I confini cambiano di continuo e D’Arco scopre di essere lui confine, e che spostandosi sposta confini.

Il movimento è incessante fino alla fine, quando si dice, nelle ultimissime righe: «E allora mi metto di nuovo a camminare nel buio, con le mie scarpe da ginnastica scalcagnate, con il mio liso giubbotto di cuoio, con le mani affondate nelle tasche fin quasi a sfondarle, con il mio corpo pieno di ferite e di cicatrici, con il mio cuore che pulsa forte attorno alla sua dura perla di buio, seguendo quella strada o quella costellazione di luce che si è accesa solo per me al di sopra di questo abisso, che non so da dove viene, verso dove mi sta guidando». Il caso è chiuso, ispettore D’Arco, ma le strade da percorrere ci sono ancora e sono infinite.

Il romanzo di Moresco unisce l’alto e il basso, le scene d’azione tipiche del genere thriller e la riflessione sull’uomo e sul suo destino, tipiche dei romanzi-saggio. Ci sono dentro Salgari, Deaver, Connolly, Agatha Christie, Evangelisti, il feuilleton ottocentesco, ma pure Cervantes, Dante, Leopardi, Dostoevskij.

I grandi scrittori non hanno avuto paura di inserire le loro storie ad alta verticalità entro un genere. Gli esempi sono molteplici e per citarne solo alcuni, e i più noti, potremmo fare i nomi di Dickens, Hugo, Balzac.

Un vizio, e un difetto, di tanta narrativa italiana contemporanea è di ritagliarsi uno spazio protetto di cosiddetta pura letterarietà, un piccolo pascolo sereno ed elegiaco in cui coltivare belle parole.

No. Letteratura non è questo. O almeno non lo è la letteratura moreschiana, che è piuttosto un’ascia, che spacca e che entra di prepotenza nel genere, ne assume la potenza immaginifica e la meravigliosa macchina narrativa.

La voce di Moresco ribadisce cosa significa scrivere e cosa deve e vuole essere la letteratura. Il postmodernismo ha ridotto ogni forma di sapere (compresa la letteratura) a gioco di citazioni, a debole copia di copia di copia della realtà, a semplice discorso autoreferenziale. Al contrario Canto di D’Arco, e tutti i romanzi di Moresco, spingono verso la conoscenza e l’esperienza.

La letteratura è esordio, quindi. Non a caso il libro Gli esordi apre la famosa trilogia (Gli esordi, Canti del Caos, Gli Increati, ripubblicati negli oscar Mondadori col titolo Giochi dell’eternità). La parola “esordio” significa un inizio e un ingresso nel mondo per scardinarlo e conoscerlo, e perché si possa vedere ciò che ci sta intorno ma che non vediamo, e per esperirlo con sensi ravvivati. La letteratura è politica, è resistenza, è lotta.

In Il Grido (Sem, 2018) Moresco aveva spronato l’uomo a vedere l’abisso verso il quale stava andando. Come un nuovo Giovanni Battista, «che grida nel deserto», metteva in guardia dall’estinzione a cui l’uomo giungerà se continua nel suo sfruttamento cieco della natura.

Moresco è uno dei sostenitori (e fondatori) di una repubblica nomade che, attraverso il cammino a piedi, in Italia e in Europa, recupera il valore della non-stanzialità. Il dinamismo che caratterizza D’Arco in questo romanzo è in qualche modo il fluire degli uomini che creano e spostano confini e si perdono e si ritrovano in un nuovo contatto con l’ambiente, non più sfruttato brutalmente, ma attraversato con delicatezza.

Leggere Canto di D’Arco produce quel senso di meraviglia di cui parlava Aristotele per spiegare la nascita della filosofia. Meraviglia in quanto consapevolezza della propria ignoranza e inizio di una ricerca.

La meraviglia che si prova a leggere Canto di D’Arco ha origine dal magma interno da cui il romanzo nasce. Direbbe Freud: «L’uomo non è padrone a casa propria». Ci sono meccanismi inconsci che, una volta governati e formati, si trasformano in opere d’arte.

Meraviglia, allora, perché il lettore accede a luoghi oscuri della psiche, in generale, e della sua psiche, in particolare.

 

Copertina di Animali non addomesticabili

Quelle bestie di scrittori non fanno altro che parlare di noi…

In principio fu Cortázar, figlio famelico di altri inizi che principiarono molto prima di lui. Diciamo che io sono partita da Julio. Dal suo Bestiario, che è un pugno amaro di dinamite. E ogni volta che la testa mi formicola penso ancora sia tutta colpa delle mancuspie, astrusi mammiferi in grado di trasmettere la cefalea come fosse uno starnuto.

Ma dentro quel titolo (Bestiario, appunto) pulsa tutta una giungla mugghiante di testi con addosso secoli di inchiostro. Cataloghi miniati dell’immaginario, in cui ogni fiera, più o meno esistente, ha diritto d’asilo nella nostra memoria, nei corpi cavernosi di angosce e giudizi morali. Animali placidi e virtuosi, altri avidi e satanici, spettri del meglio e del peggio dell’umano lettore nell’orizzonte medioevale. E perché no, anche dei seguenti.

E dal primo esemplare, sfornato da redattore anonimo fra il II e il IV secolo dopo Cristo ad Alessandria d’Egitto, sono scrosciati infiniti altri epigoni, oltre a quello fatalmente reinterpretato dallo scrittore argentino.

Insomma, il regno animale, per la bestia parlante che vi appartiene e che si proclama ultimo anello della creazione, è materiale altamente infiammabile. Forse perché, al di là di supponenti primati, sotto la vecchia cuticola di branchie e di artigli, il bipede sapiens si riconosce fin troppo negli infimi istinti di carne e sopraffazione dei suoi “molto simili” e parlarne diventa un impulso.

La domanda, rimpallata da pagine e millenni, è sempre la stessa: quanto di noi c’è negli altri (animali) e quanto di loro ospitiamo nelle nostre umanissime anime? Saperlo costa troppo, costa tutto il nostro tempo, ma tentativi di ipotesi interessanti sono scivolati in libri recenti come Gli animali che amiamo del visionario Antoine Volodine, Animali domestici di Letizia Muratori o Come una bestia di Joy Sorman.

Altre voci, o forse sarebbe più appropriato dire altri versi, sono quelli espettorate da Animali non addomesticabili (Exòrma, 2019), lavoro corale firmato da Giacomo Sartori, Paolo Morelli e Marino Magliani.

La promessa con cui si debutta è quella di «riconvertire il nostro immaginario», deponendo le solite pretese di umanizzare le “belve” dirimpettaie e provando piuttosto a rovesciare la lente, così che accada di «caninizzarsi, dromedarizzarsi», polipizzarsi, insomma di inselvatichirsi al punto giusto di cottura narrativa.

Certo, viene sempre da chiedersi, considerando che la scaturigine di questa inversione di rotta prospettica è sempre tremendamente umana, quanto di realmente praticabilmente sradicato da se stessi sia possibile ideare e incollare addosso a esseri squamati o unicellulari. Ma insomma, la volontà è chiara. Incarnata da ogni autore in modo differente.

Giacomo Sartori ci propina la sua carrellata di protagonisti impensabili e ripensati: monologhi sfiziosi, perfetti per un adattamento teatrale, di cui alcuni sono più efficaci di altri.
Malinconico il bruco, che nella sua umiltà di miti zampette interroga la smisuratezza del cielo, deliziosamente ansiosa l’ameba, minacciata dalle correnti e dai presagi oceanici, come chiunque senta di vivere sul filo; perseguitato il canarino, dal gatto, dal freddo e dall’ungulata indifferenza di tutta la famiglia, che lo vede pendere dentro una gabbia come un arredo scomodo. Ci si aspetterebbe un’ironia più sferzante, dalla formica guardona, dall’eposilla (scoperta grazie a questo racconto) tutta racchiusa in un battito, dal dromedario polemico e inaridito da un deserto ominiforme. Gli spunti alla brace sono parecchi e non tutti sfruttati a pieno.

È poi la volta di Paolo Morelli, che si cimenta in un’operazione decisamente più ardita: cucire intorno ai bestiali perimetri una veste dialettale, una vera e propria lingua, popolare, terrigna, ad alto contenuto regionale. Ne risulta un «parlamento animale […], un coro di animali insolenti, critici, romantici, folli, curiosi, stupefatti, invasati, presuntuosi, nostalgici, soprattutto maleducati».
Nel caso della Sorca del Bronx, che bestemmia creativamente più spesso di un portuale livornese, la definizione si attaglia a dovere, anzi, suona quasi eufemistica, ma con l’orso Vincenzo o Maria la sogliola il dialetto dilaga e lascia poco margine di godibilità. Magari anche qui il lato interpretativo aggiungerebbe sale alla tessitura d’insieme.

Molto più intellegibile (per ovvie ragioni) il cigno beffardo di Villa Borghese, ma nessuno di questi scorci selvaggi lascia un segno durevole. Prova di caratterizzazione vernacolare di certo originale, dove tutto animalescamente si relativizza («Si fa presto a dire puzzola… Eh, sì, si fa presto… E chi è che lo dice? Lo dicono quei lì che si credono di metter nomi a tutto. Ma è a me che mi puzza, non mi sta bene per niente») e dove tutti i nostrani intenti predatori raschiano solo la miseria che meritano, ma resta ancora l’attesa per un testo più incisivo.

Che potrebbe arrivare con Marino Magliani. La terza parte si affaccia con il racconto Il cane e il mare. La storia è quella di Cobre, portato a sperdersi dal suo padrone alla fine di luglio. Esalato come un affanno, trattato come facciamo con ciò che inevitabilmente ci pesa troppo addosso. Lasciato andare dentro una sera di vento, mentre già lo presentiva, fiutando l’abbandono come un tartufo in superficie. In quel punto si avvia il suo viaggio, l’ostinato tentativo di tornare a casa, o verso qualcosa che le somigliasse.

Le pagine offerte da Magliani sono quelle con a bordo il più alto tasso poetico. Cobre si torce di fame e i paesaggi che solca sembrano quasi carnosi: «Spogliato dalle unghiate di sole, il fondovalle diradava le sue segrete frescure. Si andava incontro a spazi sempre più aperti e chiari, anche se tutto quel dilatarsi assomigliava ancora così poco a cosa aveva in mente. […] E pensava a come si sarebbe messo a correre se al posto di tanta fronda e pietra, passata una di quelle curve, l’avessero sorpreso le vele bianche che vedeva dal collo delle palme».

Ci sono bocconi di bellezza nei luoghi e negli incontri, ma la trama si diluisce più del necessario e allora serve il secondo testo, Il figlio del cane e le colline per addensare e sussumere il senso del precedente. Il figlio spiega il padre, lo comprende, lo trascende e cerca di abbeverarsi a un destino diverso. Il pezzo è il migliore di tutta la raccolta e basterebbero pochi brandelli a confermarlo: «Distinguo i miei passi nel risciacquo, se mi fermo mi pare di mineralizzarmi, divento la cantilena dei rumori sotterranei del molo».

E soprattutto: «Vi dà fastidio riconoscere la mia voce, vero? Immaginate quando riuscirete a sottoporci a trapianti, l’esperimento dei denti umani al posto dei canini, le mani come estensioni degli arti. Cosa faremo quando ci regalerete un cervello? Vi adoreremo o vi odieremo?»

Prima che esista una risposta, dovremmo provare noi a lasciare che siano, a disinserire smanie, a non trattarli come persone o come accessori della nostra solitudine. Continueremo a scriverne. Continueremo a leggerne. E loro (si spera), molto felicemente, non lo sapranno affatto.

(Aa. Vv., Animali non addomesticabili, Exòrma, 2019, pp. 288, euro 16,50, articolo di Cristiana Saporito)
Poster del film Il re su Flanerí

Il potere come condanna del destino

Non è facile trovaremodi nuovi di trasportare al cinema i drammi di Shakespeare, ma Il re, arrivato su Netflix il primo novembre dopo la presentazione a Venezia, è riuscito a evitare alcune delle trappole più comuni dei film shakespeariani recenti. Negli ultimi trent’anni le strade seguite sono state sostanzialmente due: l’attualizzazione – vedi Romeo + Juliet di Baz Luhrmann – o la fedeltà adattata ai canoni del cinema contemporaneo – vedi il Macbeth di Justin Kurzel.

Quello che hanno fatto il regista David Michôd e il suo co-sceneggiatore Joel Edgerton non è stato semplicemente trasferire al cinema con Il re gli Enrico IV ed Enrico Vdi Shakespeare, quanto riscriverne da capo le premesse. Già l’idea di partire da un insieme di suggestioni di Shakespeare, più che da un singolo testo, ha lasciato agli autori maggiore libertà di creare e immaginare.

Il giovane Enrico, Hal nella vita di tutti i giorni, rifiuta il suo ruolo di principe e odia il padre, Enrico IV, despota sanguinario responsabile delle divisioni del Regno Unito (vago riferimento a Brexit?). Odia quello che il padre rappresenta, la sua natura guerrafondaia, a cui cerca di porre rimedio anche con sacrifici personali. Per questo sceglie la taverna e il vino, le feste e la compagnia di Falstaff, veterano di mille battaglie. Quando il padre e il fratello muoiono, Hal è chiamato al trono. Potrebbe e vorrebbe essere un sovrano differente, ma in breve verrà risucchiato dalle dinamiche del potere.

I due sceneggiatori mettono in chiaro dalle prime scene che la dissolutezza non è piacere, per Hal. Non viene mai mostrato in festa, ma solo nei postumi, mentre vomita, o stramazza sul letto. La sua vera natura è quella di sovrano, che si rivela un po’ alla volta dopo l’incoronazione.

Il re è una riflessione sul potere come vincolo e sulla chiamata innaturale ma irresistibile alla guerra e al conflitto. Il giovane Enrico V, animato dalle migliori intenzioni, si lascia trascinare verso il suo ruolo di sovrano conquistatore e spietato. Rifiutava il trono, e in poco tempo diventa come il padre. Forse è proprio la ricerca continua di una figura paterna in cui riconoscersi e da cui farsi guidare – Enrico IV prima, Falstaff e il consigliere poi – a farlo sbandare sulla strada del suo destino, e forse si emancipa alla fine, quando affida tutto alla richiesta di onestà alla sua giovane sposa.

David Michôd è riuscito a conciliare le riflessioni dei drammi storici shakespeariani con le esigenze di un cinema più spettacolare. Eccessivamente spezzato in due parti, Il reparte lentamente nel ritratto dei tormenti del giovane Enrico per poi accelerare sul campo di battaglia. Tra i pregi indiscutibili c’è la verosimiglianza degli scontri, parenti lontani di duelli coreografati o di trionfi scacchistici di tattica, ma più simili a zuffe faticose appesantite dalle armature. La battaglia di Azincourt – momento di svolta della Guerra dei cent’anni tra Francia e Inghilterra – viene restituita in tutta la sua asfissiante crudezza, con un debito evidente nei confronti della Battaglia dei bastardi del Trono di spade.

Timothée Chalamet guida il cast con un Enrico V fragile e tormentato, personaggio che sta diventando una specie di marchio di fabbrica dell’attore. Gli si muovono intorno Ben Mendelshon, Joel Edgerton, che si ritaglia il ruolo di Falstaff e i momenti più intensi, e in piccoli ruoli Robert Pattinson e Lily-Rose Depp.

(Il re, di David Michôd, 2019, storico, 140’)

 

Copertina di Orbán di Bottoni

Orbán, un precursore del “brave new world” che potrebbe attenderci

«Come riesce un giovane ungherese di provincia a diventare il dominatore incontrastato della scena politica interna e uno degli uomini più discussi d’Europa? Perché trasforma l’Ungheria in un laboratorio illiberale? Come costruisce e rafforza il consenso interno al suo sistema? Quale partita geopolitica gioca stretto fra le alleanze continentali e le potenze globali? E non da ultimo: perché la democrazia liberale è implosa in Ungheria prima che altrove nell’Unione Europea?».

A queste ed altre domande risponde Orbán. Un despota in Europa (Salerno Editrice, 2019) un saggio accurato, analitico e allo stesso tempo sintetico, dello storico italo-ungherese Stefano Bottoni. Con un linguaggio fluido, trasparente, e scevro da ogni politichese, organizzato in nove capitoli, dotato di una ricca bibliografia e di una indispensabile e molto ben congegnata prefazione, il volume si sviluppa lungo il discorso complesso sul fallimento dell’occidentalizzazione politico-culturale della società ungherese. Ne tratta ogni singolo aspetto come per esempio il controllo sociale delle autorità locali, il ruolo di condottiero spirituale assunto da Orbán, l’interdipendenza della politica europea, la questione migratoria, quella dei rom, della massiccia emigrazione degli ungheresi, in particolare dei giovani, e del rapporto del potere con il mondo ebraico.

Assumendosi l’impopolare compito dell’Orbán-Versteher, «colui che lo critica senza sconti evitando condanne a prescindere», Bottoni ricostruisce la storia ungherese dalla caduta del Muro in poi, presenta il ritratto dell’uomo Viktor, descrive le sue trasformazioni «convinto che la sfida politica e culturale che il sistema Orbán rivolge al mainstream europeo richieda da parte dei suoi avversari uno sforzo di analisi che si sono fino ad ora risparmiati di avviare». Naturalmente il libro offre anche una panoramica degli avversari politici e le ragioni delle loro sconfitte: quadri che vengono trattati senza partigianerie e mistificazioni.

L’autore mette a fuoco la diversità di Orbán rispetto agli altri dissidenti dell’Est che agivano da testimonianza morale, mentre il leader magiaro puntava fin da subito alla conquista di un spazio egemone tramite attività razionali. Chiarisce il ruolo del sistema elettorale misto, maggioritario e proporzionale, che già ben prima dell’avvento del Nostro favoriva i partiti di maggioranza relativa. Sottolinea l’importanza del fattore tedesco e prende in esame il passaggio della politica di Orbán da filoatlantica a filorussa.

E narra la storia intrigante del suo sodalizio con Lajos Simicska, proprietario di un impero mediatico, e le conseguenze della fine della loro collaborazione gomito a gomito. Bottoni delinea tutti gli elementi e le circostanze che hanno contribuito, a partire dal 2010, a tre vittorie elettorali consecutive di Viktor Orbán. Successi e mantenimento dei voti dovuti in gran parte alla straordinaria coesione del gruppo dirigente e della base di Fidesz, il suo partito, che quindi ha permesso di porre fine all’imperfetta democrazia postcomunista e ha generato il sesto modello autoritario ungherese in appena un secolo, il cosiddetto NER, acronimo che in italiano sta per Sistema di cooperazione nazionale.

Stefano Bottoni, già autore di numerose pubblicazioni, è stato testimone diretto, oculare, del processo politico ungherese. Fino a qualche mese fa era anche membro dell’Accademia delle Scienze Ungherese, e quando il governo con un decreto mise sotto controllo l’attività, il budget e i temi di ricerca dell’Accademia, partecipò attivamente alle proteste, abbandonando l’Accademia per andare a insegnare Storia dell’Europa Orientale Firenze, quando si rese conto che le proteste non avrebbero portato frutti.

Con questo libro fornisce un contributo essenziale per la storiografia del modello Orbán, che propugna un’idea alternativa di Europa rendendosi l’avamposto della crisi della democrazia liberale. Sono questioni che ci riguardano molto da vicino, lo testimoniano queste parole pronunciate dal capo di governo ungherese pochi mesi fa: «Nel 1990 l’Europa era il nostro futuro, ora siamo noi il futuro dell’Europa».

Orbán. Un despota in Europa è l’analisi comparata del passato recente, il lucido racconto della nascita di un regime autocratico nel cuore della democrazia europea che credevamo inscalfibile; in poche parole un case study fondamentale non solo per comprendere che cosa è successo e sta succedendo in Ungheria, ma per acquisire consapevolezza dei limiti dei nostri sistemi politici, e per capire che potrebbe accadere anche altrove.

(Orbán. Un despota in Europa, Stefano Bottoni, Salerno Editrice, 2019, 304 pp., euro 19, articolo di Andrea Rényi)

 

Magmamemoria: se Levante avesse avuto un po’ più di coraggio

Tutto è cominciato nel 2013 con “Alfonso” e la sua vita di merda. Levante è uscita dall’anonimato con una canzoncina facilona, al limite dello stucchevole e con l’ukulele trasformato oramai in arma proto indie, che le ha dato la possibilità di aprirsi una strada in quel caos imprevedibile che è il mondo della musica che in quegli anni iniziava a mutare sfruttando appieno le potenzialità dei social. Col passare del tempo, soprattutto attraverso il secondo lavoro Abbi cura di te, la cantautrice siciliana ha sicuramente migliorato il tiro, arrivando in questo 2019 con un lavoro, Magmamemoria, che è  il suo più complesso e maturo, ma che lascia comunque qualche perplessità.

Anche qui, infatti, ci troviamo di fronte a qualcosa che strizza l’occhio all’universo radiofonico – senza dover per forza dover demonizzare questo fenomeno, si intuisce che Levante potrebbe prenderne le distanze e scrollarsi di dosso quest’etichetta. In Levante però, per ora, è insita una marcata predisposizione a un iper orecchiabilità acchiappa Like, anche se oggi l’ipotetica bilancia che oscilla tra mainstream e spinta autoriale potrebbe tendere leggermente verso quest’ultima, ma il confine è davvero labile.

Perché se Magmamemoria avesse mantenuto le promesse dell’omonima traccia iniziale, forse staremmo parlando di qualche altra cosa. Imbevuta di Homogenic di Bjork, soprattutto “Joga”, e in aggiunta qualche movimento radioheaddiano da In Rainbows, “Nude” per esempio, “Magmamemoria” è il brano più interessante dell’album, dove la voce riesce a emergere e a splendere senza oscurare nulla, in un’architettura sonora che non è certamente rivoluzionaria, ma che si staglia su molta produzione contemporanea. Insomma, senza troppi giri di parole, se Levante avesse osato di più, Magmamemoria sarebbe stato tra le cose migliori di questo 2019.

Ma forse ci sono troppi se. Il resto dell’album, seppur godibile,  non ha spunti che possano fare gridare al miracolo – anche se “Lo stretto necessario“,  cantato insieme a Carmen Consoli, è davvero un gran bel brano. Al netto di testi che funzionano e hanno una discreta profondità e complessità, soprattutto se confrontata con quanto viene prodotto sia dal mainstream sia dal non indie che è l’itpop («I corsi di paura / Ricorsi della storia / Per trattenerci in una morsa senza memoria / Senza memoria» ,  è solo un esempio ed è qualcosa che Tommaso Paradiso o Gazzelle non riuscirebbero neanche mai a pensare), Magmamemoria brilla nel suo essere una una promessa non mantenuta. Il singolo, “Andrà tutto bene”, asseconda troppo certi spunti da stadio alla Alessandra Amoroso, corse sul palco e fuochi d’artificio e poco altro. Stesso discorso per “Reali” e in generale  per il modo di esprimersi di Magmamemoria: la voce di Levante, che è una gran voce rock, viene declinata a un pop massimalista un po’ patinato.

In generale i ritornelli seguono sempre lo stesso schema emotivo: un’esplosione di suoni che rischia di rendere monotona l’interpretazione stessa dell’album, per cui in quel momento succedere sempre quella cosa e le sinapsi percepiscono sempre gli stessi input – aspetto che infatti non esce in “Magmamemoria“, il che la rende diversa e più valida. A volte, magari non pensando al profitto come unico obiettivo che sta dietro alla nascita di un album, la sottrazione è la scelta migliore.

Magmamemoria è un neologismo inventato da Levante, un modo per immaginare il suo passato e il chiaro riferimento ai vulcani e quindi all’Etna è lì a testimoniarlo, ed è un album sicuramente piacevole, ma che manca di un po’ di coraggio, per cui rischia di confondersi, purtroppo, con certe produzioni musicali fini a loro stesse che esistono solo per foraggiare le etichette.

Aggiustando qualcosa, soprattutto a livello di intenzioni, Levante potrebbe essere una nuova Gianna Nannini: può e potrà incidere veramente nella musica italiana.

Fotografia di Daphne du Maurier Rebecca

Uno sguardo su Daphne du Maurier: sulle tracce di Rebecca

Da qualche mese sono alla scoperta di Daphne du Maurier, autrice del primo Novecento nota in Italia soprattutto per aver scritto un romanzo, Rebecca (1938), e un racconto, Gli uccelli (1952), da cui Alfred Hitchcock ha tratto dei film di successo.

Stregata dalla sua voce inquieta, dalle sue due anime in perenne contrasto – una più lieve e gentile, l’altra più forte e viscerale – osservo il modo in cui il suo vasto immaginario ha preso forma un libro alla volta, in cui ogni elemento ha trovato il proprio posto nel tempo, dopo essere magari per anni sprofondato nell’oblio. Per via di cose, è da Rebecca che trovo giusto cominciare, con l’idea di seguire più avanti altre strade e vedere dove portano.

Nel 2011 è uscita in Inghilterra The Doll. Short Stories, una raccolta delle sue early stories inizialmente apparse su riviste inglesi tra gli anni Venti e Trenta, poi ripubblicate in un volume unico negli anni Cinquanta, finito fuori commercio e ritrovato solo dopo lunghe ricerche da un’antiquaria della Cornovaglia. Alcuni più riusciti, altri meno, com’è spesso per i racconti giovanili, essi mostrano comunque tutti l’angoscia di una ragazza appena ventenne, che riversa nella scrittura le immagini morbose, cariche di orrore, che affollano la sua mente.

Ne emergono temi universali, raccontati da una voce ancora a tratti acerba ma già potente: la perdita di innocenza raccontata in “East Wind”, in cui su un’isola quasi edenica, che non conosce passione e violenza, arriva una nave di marinai a portare il peccato, «una sorta di follia che sembrava ricadere sugli abitanti di St. Hilda’s»; e altri, più personali, che matureranno nel tempo, come la sensazione dell’impossibilità di un amore vero rappresentata nell’amaro racconto in forma epistolare “And His Letters Grew Colder”, che più che cinismo rivela una disillusione già profonda verso le relazioni umane.

 

Copertina di The Doll di Du Maurier Rebecca

 

Più di tutto però appaiono per la prima volta figure, già chiare e ben distinte, che faranno la grandezza di alcune delle sue opere successive. È il caso del Reverendo James Holloway, l’affascinante religioso privo di moralità di “And now to God the Father”, probabile antecedente di Francis Davey, il parroco albino del romanzo del 1936 Jamaica Inn.

Ma soprattutto dell’oggetto dell’amore ossessivo del protagonista di “The Doll”, il racconto forse più conturbante della raccolta, una giovane donna sfuggente chiamata Rebecca. Già bella in quel suo modo disturbante, Rebecca – con gli stessi capelli neri e selvaggi, gli stessi occhi grandi e la pelle chiara – esisteva nell’immaginario di Du Maurier da molto tempo, prima di trovare il proprio posto nel romanzo che ne prende il nome. E anche questa Rebecca per così dire originaria ha un magnetismo, una forza di attrazione tale da rimanere nella memoria di per sé, lei con la sua assurda, in qualche modo innocente eppure orrenda perversione.

In Rebecca Notebooks, una serie di note sul romanzo scritte a quasi quarant’anni di distanza dalla sua prima pubblicazione, Daphne du Maurier si stupisce del successo di Rebecca rispetto ai suoi altri romanzi: «Quando il libro è finito lo metto da una parte, si può dire, una volta per tutte. Con Rebecca è stato più difficile, perché continuo a ricevere lettere da tutto il mondo da persone che mi chiedono su cosa ho basato la storia, e i personaggi».

Con un certo candore svela anche il modo in cui il romanzo è nato, mentre viveva ad Alessandria d’Egitto insieme al marito, nei tardi anni Trenta, e come i vari elementi si sono combinati fino a quando Rebecca non ha preso forma in ogni suo dettaglio: «Una bella casa… Una prima moglie… Gelosia… Un relitto, forse in mare, vicino alla casa».

Sarà forse per il modo in cui ha aperto la sua anima in quel libro, al punto da vederlo come una parte di sé, ma in quelle note du Maurier non sembra avere coscienza di come in Rebecca ci sia qualcosa di pregnante, un nucleo profondo di sentimenti oscuri a cui ci si avvicina una pagina alla volta e da cui si è via via sempre più attratti.

Anche questo romanzo ha in effetti qualcosa di morboso. C’è una ragazza senza nome, con davanti un futuro incerto, che si trova a sposare uno degli uomini più ambiti della società inglese, Maxim de Winter, la cui prima moglie, Rebecca, è morta l’anno prima in mare. La ragazza diventa la nuova Mrs de Winter, ma l’ombra di Rebecca la segue dal primo momento e si trasforma in un’ossessione quando si trasferisce a Manderley, la grandiosa residenza della famiglia de Winter.

La cura, la precisione con cui l’autrice riesce a portare sulla pagina il disagio della ragazza, la sua impossibilità di entrare a far parte del mondo del marito; la delicatezza con cui coglie il mutare invisibile degli stati d’animo non solo della protagonista ma anche delle persone che le ruotano intorno – del marito e della sua famiglia, ma forse anche di più della servitù di Manderley, a cui la ragazza è più vicina a livello sociale e da cui proprio per questo si sente inesorabilmente giudicata – rappresentano la vera grandezza dell’autrice.

Che ha una capacità più che rara: coniugare la ricerca più profonda dell’animo umano con la costruzione di una narrazione lieve e avvincente, di quelle che fanno provare il desiderio di “sapere come finisce” spesso svilito dalla letteratura alta – e che lei è in grado di spingere fino al confine estremo del romanzo, con intuito e comprensione del senso tutto umano per la narrazione.

 

Copertina di Rebecca di du Maurier

 

Rebecca è trascinante. Daphne du Maurier è una maestra del non detto, sopra cui riesce a costruire un incubo umanissimo, fatto di molte sofferenze incrociate, che fino all’ultima pagina è difficile da dipanare. Chi lo sa se una chiave del grande successo del romanzo (tra i dieci libri più venduti negli Stati Uniti negli anni 1938 e 1939) non stia proprio nel modo in cui la vicenda dei de Winter sia specchio di molte altre sopraffazioni, e racconti in filigrana le storie di molte altre donne schiacciate da presenze ingombranti, da aspettative troppo elevate, da vite che non si aspettavano di vivere e che le frantumano.

Le tracce che il romanzo lascia una volta finito hanno proprio a che fare con quell’oppressione, con i suoi elementi più angosciosi: l’ombra invadente di Rebecca de Winter, la sua bellezza, la perfezione inarrivabile di quella «figura alta e snella, dal viso bellissimo, una che possedeva il dono di attirarsi le simpatie di tutti. E alla quale era facile voler bene».

E poi Manderley, la casa in Cornovaglia la cui presenza aleggia in tutto il romanzo, quasi non fosse un luogo ma un’entità, con le sue enormi stanze tutte arredate dal gusto elegantissimo di Rebecca, l’ala ovest a cui non è opportuno per la protagonista accedere, e soprattutto gli alberi, i fiori, i sentieri nascosti nell’immenso parco che portano fino al mare – così come la cosiddetta Happy Valley, un pezzo di bosco incantato, bello come sono solo i boschi dei sogni.

Anch’esso ha un antecedente in un racconto incantevole di The Doll, chiamato per l’appunto “Happy Valley”. In esso la protagonista è inseguita da una sensazione costante di déjà-vu, e i sogni del suo dormiveglia – e più tardi anche la realtà, su cui lei non riesce però a fare totale affidamento – sono pervasi di immagini di un bosco che lei non vorrebbe mai lasciare, al contempo splendido e inquietante in un modo sottile: «Lì ci sarebbe stato il muschio, le foglie fresche degli alberi, e il mormorio cadenzato di un torrente che le arrivava alle orecchie. Avrebbe trovato un posto tranquillo in cui non la avrebbero derisa, si sarebbe rannicchiata e nascosta lì».

In “Happy Valley” lo scenario di Rebecca è già pronto, in attesa di prendere vita: una ragazza sola, un po’ svagata, che incontra un uomo che la vezzeggia e la deride bonariamente per il suo sognare a occhi aperti – il suo inspiegabile vivere sempre qualcosa di vagamente familiare, come già vissuto; una grande casa, e un parco in cui la protagonista può nascondersi e riposarsi dal tormento di persone che non riescono a comprenderla – persino quelle amate, come la zia con cui la ragazza vive all’inizio del racconto, contraltare perfetto della zia Patience con cui un altro personaggio di Daphne du Maurier, Mary Yellan, si trova ad avere a che fare in Jamaica Inn.

È tutto già lì, nella mente e nelle prime prove dell’autrice, anche se ci metterà anni a trovare la strada giusta. Avvicinarsi alle opere di Daphne du Maurier sentendo le ombre di personaggi già conosciuti, riuscendo a cogliere l’ampiezza del mondo che ha nel tempo costruito, ha un fascino raro, e forse ancora poco esplorato.