L’inutile ripetitività dei Cigarettes After Sex

Assolutamente nulla di nuovo sul versante dei Cigarettes After Sex. Come era facile immaginare, il gruppo di El Paso scrive un album che è una fotocopia del precedente Cigarettes After Sex, che aveva generato un notevole hype più o meno motivato prima della sua uscita. Cry continua sulla scia di due anni fa. Ma Cry in realtà non continua nulla, non è un’evoluzione:  senza stare a cercare quale tipo di frammento musicale sia leggermente diverso tra il presente e il passato –  facendo così un discorso capzioso su una questione che invece è piuttosto facile da decifrare – i due lavoro sono inquietantemente sovrapponibili.

I Cigarettes After Sex sembrano una macchina che genera canzoni dei Cigarettes After Sex, un algoritmo impostato per ricalcare o meglio, essere parodia di un’estetica ben collaudata e facilmente riconoscibile. È davvero incredibile come dopo due album il parlare di un loro album significhi parlare di come riuscire a scrivere la stessa canzone per due album di fila.

I riferimenti, dunque, sono gli stessi di sempre. Mazzy Star, chiaramente, Beach House e tutto il calderone shoegaze, ambienti rarefatti e nulla di più. I Cigarettes After Sex non sono un gruppo, sono un genere. Musica che vive dell’effetto revival anni ’80, coadiuvata da internet, da mode che si diffondono velocemente, che creano bolle che il più delle volte esplodono in un nulla desolante.

Un sottofondo continuo, una playlist mix di musica collegabile a un qualsiasi immaginario che abbia a che fare con la tristezza/malinconia o un’idea preconfezionata di essa – una giornata uggiosa, la pioggia, un risveglio in una domenica mattina di fine settembre: ne è banalmente la colonna sonora, prevedibile e stucchevole. Per l’appunto, non materia intellettuale, ma prodotto: ragionamento di convenienza, più marketing che altro.

Quale sia l’inizio e la fine di un pezzo è praticamente impossibile da riconoscere (stessi beat, stessi suoni, stesso mood): siamo proiettati in un loop di quaranta minuti che sembra non finire mai, se ci concentriamo e cerchiamo di capirlo. Greg Gonzales  non varia il cantato e la sua voce androgina – che è di per sé un punto di forza – si trasforma in una specie di scherzo che annoia.

È comunque un album piacevole? Sì, ma in un’ottica in cui l’arte non debba mettere in discussione nulla, non debba opporsi o mettersi di traverso tra noi e il mondo, capovolgere le nostre convinzioni. Un sottofondo, qualcosa che può stare lì, in un angolo: nel momento in cui non gli prestiamo attenzione, sì, può funzionare. Può essere piacevole. Buono, in fin dei conti, per perpetuare un cliché hipster in un locale: “Ah, i Cigarettes After Sex” e niente di più.

Anche perché i testi sono naïf e per nulla interessanti. Roba da adulti che giocano a fare gli adolescenti. Basta pescare casualmente: «Falling in love / Deeper Than I’ve felt before / With you baby». L’andazzo è questo, niente di più, niente di meno.

Non c’è molto altro da aggiungere su un album e su un gruppo che giunto al proprio secondo lavoro non sembra avere molto da dire. Per sapere qualcosa su Cry, basta sapere qualcosa su Cigarettes After Sex.

copertina di virginia woolf orlando cult

L’amore per essere altro

All’una di notte del 17 marzo 1928 Virginia Woolf finisce di scrivere Orlando. «Ho scritto questo libro più velocemente degli altri: ed è tutto uno scherzo; allegro e di rapida lettura, credo; una vacanza per lo scrittore». La vicenda di Orlando attraversa quattro secoli e finisce giovedì 11 ottobre 1928, dopo aver intrecciato molte storie in un unico romanzo. Tanto breve il tempo della scrittura, quanto capace di dilatarsi il mondo della coscienza protagonista.

Le scene e le azioni sono tessute con l’assertività di una macchina da cucire che usa il filo della memoria per imbastire scampoli di geografia, botanica, entomologia, storia del costume. Dai fiori alla «spina dorsale della terra», i dettagli, le differenze e le peculiarità del mondo sono offerti con l’arguzia di un collezionista inglese, denunciando il fallimento del naturalista quando la vita non dev’essere solo descritta ma raccontata: «Una cosa è il verde in natura, un’altra cosa il verde in letteratura. Si direbbe che fra natura e letteratura regni una naturale antipatia; mettetele insieme e si faranno a pezzi». Titolo originale Orlando: A Biography, il duello tra biografia e vita è aperto.

Lui, Orlando, a sedici anni giocherella vigoroso ma annoiato con un Moro appeso al soffitto. Omonimia col furioso dell’Ariosto, quel pupazzo rappresenta un mondo patriarcale che si consolida, con costumi moderni, nelle guerre dell’Inghilterra di metà Cinquecento. Lui è troppo giovane per partire e si nasconde tra le soffitte, gli arazzi e i pavoni della sua dimora nobiliare.

È un romanzo a colori ma la dimensione visiva non soffoca tutti gli altri sensi: udito, olfatto e tatto guidano l’iniziazione del protagonista tra le illusioni e le disillusioni dell’amore: «E così, salendo per la scala a chiocciola sino al suo cervello – che era vasto – tutte quelle visioni, e i rumori del giardino, il martello che batte, l’ascia che abbatte, creavano quel tumulto e quel disordine di passioni e sentimenti che ogni buon biografo detesta». Le note della scrittrice-biografa si succedono nel corso del racconto accordando veridicità delle fonti e accuratezza dell’invenzione. Dichiarano una commistione inscindibile tra vita e racconto e hanno il pregio (esclamando!) di aggiungere un sentimento a tutta la vicenda: l’ironia, come lente più autentica della letteratura. L’ironia è la vibrazione comune alla commedia e alla tragedia umana che permette di superare ogni antinomia?

Con una corona di foglie di fragola in capo, Orlando, ormai Duca trentenne avventuratosi tra i tumulti del mare e dei popoli, si addormenta in un sonno che sembra senza rimedio, per risvegliarsi in un corpo di donna e restarvi tutta la vita. La sua anima è la stessa e inizia un disciplinato esercizio tra le conseguenze di questa metamorfosi. Le donne non hanno caratteri ma «sono grazie che si possono ottenere». Lei, Orlando, attraverso i condizionamenti sociali educa i sentimenti, approfittando della doppia identificazione che le dà la libertà di non essere il suo corpo ma di averlo. In quello scarto si ricostruisce come coscienza desiderante capace di dare nome alle cose.

Si susseguono i sussurri dei gentiluomini: «le donne non sono altro che bambine cresciute… Un uomo di buonsenso si trastulla con loro». E invece Virginia continua ad esclamare! Con la grazia di chi protegge i vuoti non raccontabili della vita, perché sazi di poesia. E con la concitazione di chi pretende di comprendere cosa c’entrano l’ordine e il tumulto dell’animo con l’ordine e il tumulto della società. «A un’immagine seguiva subito un’altra immagine […] ogni cosa solida, insomma, cui ormeggiare il suo cuore alla deriva».

Il non detto è più eloquente del dicibile nel flusso di coscienza mediato dai luoghi e dagli oggetti. Il romanzo corre a cavallo di un’apparizione ninfale dopo l’altra, tanto precise quanto baluginanti, e A Vita Sackville-West è dedicato. Si dice che Vita, amica e amante della scrittrice, donò un ricciolo d’oro pallido e un biglietto d’amore del Seicento a Virginia, che in un diario dichiara che in Orlando «l’equilibrio tra verità e fantasia dev’essere accurato. È basato su Vita, Violet Trefusis, Lord Lascelles, Knole».

«Mi trovo al centro della più grossa infatuazione mai capitata»: Orlando, Vita, la vita. Virginia si perde e sta a noi lettori di oggi liberarla dal mito della sua biografia, che per la possibilità di scrivere, per una donna, ha tracciato un doloroso grido. Il profilo perlaceo delle donne invisibili (o troppo visibili nella loro inessenzialità di feticcio) viene rifuso nel calco di un protagonista integro grazie alla sua ambiguità. Woolf assicura la capacità di espandersi al percorso dell’emancipazione della creatività femminile, ancora lungo: lungo quanto la vera lunghezza di una vita umana che, attraverso Orlando, non si chiude nella parabola della vita di un individuo, nel suo genere e nel suo tempo.

In una Londra avvolta da una grande nube (di tenebra, dubbio, confusione), siamo alla fine, improvvisamente nel ventesimo secolo. L’umidità trasforma furtivamente il carattere dell’Inghilterra. Il mito della metamorfosi, custodito nel tema dell’androgino, si accorda con le vicende quotidiane di un’Orlando futura, matura e – sempre – innamorata, che non rinuncia a scrivere – mai – quando è uomo e quando è donna.

I viaggi veloci nel tempo sono possibili solo accordando il sentire all’invisibilità del mondo, attraverso l’inventario dell’esistente. Il dono dell’ironia della letteratura non è per sempre ma si rinnova di volta in volta con la sospensione del tempo, esercizio dello scrittore e del lettore che permette di avere una vita più che essere la propria vita.

Ciò che vale conoscere della sua vita Virginia l’ha detto in questo capolavoro, che ci ammonisce con forza: il carattere transessuale e transgenerazionale della poesia permette al lettore di trasecolare da un’epoca all’altra della propria esistenza e della propria civiltà. Le maschere del teatro, i costumi, il proprio corpo e i propri sensi permettono a Orlando di trapassare nell’altro da sé, incarnando l’ingiudicabile attraverso l’arte. L’amore per l’essere altro è la noce dura della letteratura. Vale nell’Inghilterra e nell’Europa del Novecento, in cerca di decolonizzazione. E vale oggi, quando la costruzione dell’alterità mette pericolosamente sul crinale gli umori individuali e collettivi.

 

(Orlando, Virginia Woolf, 1928, prima ed. italiana Mondadori, 1933, trad. di Alessandra Scalero)
Poster del film Panama Papers su flanerí

La commedia del denaro

Dal 2017 Steven Soderbergh ha diretto, fotografato e montato quattro film e una serie tv, che è anche un gioco interattivo e un’app (Mosaic). Non male, considerando che nel 2013 aveva annunciato il suo ritiro dalla regia.L’ultimo film arrivato, Panama Papers, è probabilmente il suo progetto più importante della fase post-ritiro, per cast, trama e presentazione.

Il soggetto arriva direttamente da uno dei più grandi scandali finanziari degli ultimi anni. Panama PapersThe Laundromat in originale – trasferisce in finzione il i Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elitedi Jake Bernstein. Il cast è composto da Meryl Streep, Gary Oldman e Antonio Banderas, più una serie di volti noti di secondo livello (tipo David Schwimmer, il per sempre Ross di Friends). Il film è stato presentato all’ultima Mostra di Venezia e al Toronto Film Festival prima di approdare il 18 ottobre su Netflix.

L’anziana Ellen ha perso il marito in un incidente mentre erano in vacanza. Oltre al lutto deve sopportare un’orribile verità sulla sua assicurazione: non esiste. La compagnia assicurativaè una società, che fa parte di una rete di traffici con sede in uno studio legale a Panama.

Soderbergh torna ai tempi di K Street, la serie tv che aveva ideato e diretto nel 2003 sulle lobby di Washington, di cui riprende il tono ibrido tra commedia e denuncia. Torna in mente anche La grande scommessa di Adam McKay. Il tentativo è quello di parlare di attualità finanziaria con un tono leggero e addirittura ironico. Gli espedienti sono gli stessi: rottura della quarta parete e della finzione cinematografica, spettacolarizzazione pop delle immagini, con colori saturi e paesaggi esotici.

La ricostruzione dello scandalo del gruppo Mossack Fonseca si svolge in cinque capitoliche seguono i momenti chiave delle rivelazioni. Il motore di tutto è la vicenda immaginaria di Ellen Martin. Soderbergh e lo sceneggiatore Scott Z. Burns sono animati da un autentico spirito di giustizia sociale, lo stesso che il regista sentiva forte ai tempi di Traffic, di Effetti collaterali e del già citato K Street. Il cast lo segue anche quando mette in chiaro che a parlare non sono i personaggi, ma gli interpreti, che oltre la finzione del film c’è una vera denuncia contro i soprusi della finanza senza scrupoli.

Lo chiarisce il finale, quando Meryl Streep si toglie di dosso vestiti e parrucche di due personaggi, guarda fisso in camera in uno studio cinematografico non allestito e si lancia in un’arringa conclusiva.

Cinema civile, questa è la definizione corretta per Panama Papers, animato da un’indignazione autentica e da un senso di giustizia che non ammette giustificazioni. Un intento di rara nobiltà, che non riesce però a trovare il giusto equilibrio tra le sue varie parti e i suoi due registri principali.

Il compito di rendere frizzante il racconto è affidato alle incursioni della coppia formata da Gary Oldman Antonio Banderas, nei panni di Mossack e Fonseca e narratori del film. I loro vestiti sgargianti, le ambientazioni smaccatamente finte in cui si muovono dovrebbero amplificare il senso di straniamento della vicenda. Rispetto a La grande scommessa manca il ritmo, decisamente, e la velocità nel cambio di registro. Il risultato è un film squilibrato, animato da ottime intenzioni e diretto alla grande da Soderbergh, ma proprio perché parliamo di Soderbergh è giusto dire che avrebbe potuto fare ancora meglio.

(Panama Papers, di Steven Soderbergh, 2019, drammatico, 95’)

 

Torni ancora, Franco?

Franco Battiato è, è stato e sarà il Maestro. Artista e pensatore geniale, costantemente mutevole, punto di riferimento per generazioni successive, da Morgan a Francesco Bianconi.

Sul finire di questo 2019, la notizia da parte del manager Cattini che “Torneremo ancora”, incluso nell’omonimo album che racchiude quattordici tra i brani più importanti suonati dalla Royal Philharmonic Concert Orchestra, sarebbe l’ultimo brano dell’artista siciliano; per quanto inevitabile, è un addio che il mondo della musica non avrebbe mai voluto sentire pronunciare. Battiato è un punto cardine della musica italiana, e non solo, e il suo saluto suona come una violenza tanto brutale quanto dolce. È da tempo, da quando cadendo dal palco di Bari nel 2015 Battiato si ruppe il femore, ma soprattutto quando nel 2017 se lo ruppe di nuovo nella sua casa a Milo, che si sa poco delle sue condizioni di salute. Si è detto un po’ di tutto, si è speculato, ma la notizia fondamentale è questa: oggi abbiamo la sua ultima composizione.

L’incredibile trasformazione estetica e di intenzioni avvenuta nel 1979 con l’uscita de L’era del cinghiale bianco è ancora oggi la più assurda sterzata che un musicista abbia compiuto nel panorama italiano. Fino a quel momento Battiato era un finissimo avanguardista conosciuto da poche migliaia di persone. Dal suo esordio acido con Fetus fino a L’Egitto prima delle sabbie (dove la title track vinse nel 19 il premio Stockhausen) a una svolta pop inaspettata: un processo che è culminato, dopo il meno efficace Patriots, con la definitiva trasformazione in pop star con il capolavoro La voce del padrone.

Di qualche anno più in là è il trittico mistico: Fisiognomica, Come un cammello in una grondaia e Caffè de la paix. Ecco, non è una bestemmia poter dire che “Torneremo ancora“, nella sconfinata produzione di Battiato, può essere inserita per canoni estetici e contenutistici in questo periodo.

Quest’ultimo brano di Battiato, che è un brano proprio a là Battiato, gioca sul rapporto tra voce, testo e orchestra come trent’anni fa faceva la “L’ombra della luce“. Molti sono gli aspetti che accomunano i due brani, a partire dai riferimenti alla filosofia buddista-tibetana della circolarità della vita, con il suo terminare solo nel momento in cui l’anima non sarà libera dalle emozioni – “L’animale”, quello che «mi rende schiavo delle mie emozioni».

Torneremo ancora duetta benissimo anche con “Sui giardini della preesistenza“, in giochi di ricami e di rimandi, o “Lode all’inviolato“(presente nella raccolta). La sapiente gestione di archi che vanno a mischiarsi con quella voce tanto terrena quanto incorporea, riesce a produrre quell’effetto fuori dal tempo proprio di Battiato.

Una delle tematiche, quella della circolarità della vita e dal fuggir dalle passioni, più ricercate e pensate da Battiato – che negli anni del trittico mistico culminarono nello splendido concerto di Baghdad del 1992 -, più complesse da metabolizzare per la cultura occidentale a cui si riferisce e di cui è parte, in “Torneremo ancora” riesce a trovare un suo luogo e un suo spazio per poter manifestarsi ancora al massimo. Erano anni che Battiato non risultava così fortemente ispirato: certi temi rimangono irrisolti, e non potrebbe essere altro, ma Battiato sembra aver trovato un ultimo perfetto istante in cui canalizzare le sue ambizioni.

«Finché non saremo liberi / torneremo ancora / ancora / e ancora» canta con una voce quasi spezzata che irradia una luce bellissima e triste, in un finale che non sarebbe potuto essere più preciso per Battiato: tanto spirituale quanto ironico.

favola in forma di apologo

Favola in forma di apologo

La tassonomia relativa alla favola annovera disparate variazioni formali: benché i margini distintivi che distinguono una tipologia da un’altra siano talmente sottili da indurre talvolta alla sovrapposizione di alcune fisionomie favolistiche, risulta comunque praticabile una distinzione teorica, al cui interno si computa anche la favola in forma di apologo in prosa e in versi.

L’origine di questo tipo letterario, testimoniato persino in alcuni frammenti di Archiloco, Stesicoro ed Esiodo e citato nelle commedie di Aristofane e nel Fedone platonico, s’intreccia talora con molti dei celeberrimi racconti esopiani (un esempio per tutti Il ventre e i piedi), poi recuperati da Fedro; diffusa anche nella civiltà latina (si pensi alle argomentazioni di Ennio e di Cicerone), questa forma narrativa vede nell’Apologo delle membra di Menenio Agrippa, riportato nelle Historie di Tacito, il più noto appello alla collaborazione tra popolo e senato, allegoricamente rappresentata dalla interrelazione degli organi da cui dipende la sopravvivenza del corpo umano.

 

Fisionomia in prospettiva

La costante fondamentale dell’apologo è costituita dalla finalità pedagogica. Infatti, le caratteristiche principali risiedono sì nei personaggi (animali con attitudine umana oppure oggetti animati) e nella struttura incisiva dell’intreccio, ma, soprattutto, negli aneliti apodittico-didattici: la componente narrativa viene così proiettata alla rivelazione di uno specifico paradigma, spesso evocato già nel corpo centrale del testo, ma meno elaborato e brioso di una fabula tradizionale o di una parabola, con la quale nondimeno l’apologo condivide le istanze educative.

Nel Medioevo, questa forma favolistica viene spesso adottata in contesti religiosi, poiché l’impostazione pedagogica ne facilita l’uso esemplare allo scopo di ammaestramento etico-cristiano. Al contrario, in ambito umanistico-rinascimentale, l’apologo conosce (come avviene d’altronde anche per altri generi letterari) un affrancamento da tale prospettiva, orientandosi verso una raffigurazione immanente dell’uomo.

I Cento Apologhi ed elogi latini (1437) di Leon Battista Alberti, responsabile del nuovo impulso conosciuto da questa tipologia narrativa, spiccano nello scenario letterario di quegli anni grazie, specialmente, alla carica innovativa originata dalla commistione tra oscurità, brevità e rapidità d’eloquio.

Così recita il decimo apologo, Il fuoco dell’invidioso: «L’invidioso, celando in seno il fuoco che per primo aveva trovato, sperava di tenerlo nascosto a tutti. La fiamma balzò fuori bruciandogli le vesti». E ancora, il sessantacinquesimo apologo, La scintilla e la stella: «La scintilla, che era agile e splendente, pensava di diventare una stella, ma si offuscò».

L’impianto apodittico della favola in forma di apologo ne favorisce la circolazione anche nel Sei e nel Settecento, quando però il contesto paratestuale che lo compone inizia a subire delle considerevoli modifiche, aprendosi a generi di riferimento precedentemente considerati, per rispetto del canone tradizionale, impropri ad accogliere questo tipo di racconto.

Si pensi all’apologo scientifico di Galilei, inserito nel ventunesimo capitolo del trattato Il Saggiatore (1623) e annoverato nella Crestomazia italiana della prosa di Leopardi (1827). Nell’intero svolgimento dell’intreccio, l’uomo «d’ingegno perspicacissimo», alla ricerca di nuovi suoni da indagare nel tentativo di comprenderne l’origine, ma, infine, impossibilitato ad analizzare il frinire della cicala a causa della prematura morte dell’insetto, rappresenta lo scienziato che applica allo studio delle comete il metodo scientifico.

La duplice morale conclusiva tradisce l’elaborata tessitura di quest’apologo sui generis, utile a rimarcare il carattere provvisorio e, talora, persino parziale di ogni esperienza sensoriale: «Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inescogitabili da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità […]; e la difficoltà dell’intendere come si formi il canto della cicala, mentr’ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa».

Copertina di il Saggiatore di Galilei Apologo

L’evoluzione paratestuale dell’apologo prosegue anche nell’Ottocento, quando, alla forma tradizionale (frequentata, ad esempio, dai versi di Luigi Carrer) si affianca l’apologo giornalistico, il cui rilievo si spiega anche perché funzionale alla coeva campagna patriottico-risorgimentale – che, pure, influenza l’impianto delle raccolte canoniche. Basti come esempio la sezione di apologhi in versi da Le Lucciole. Il Canzoniere (Redaelli, 1858) di Ippolito Nievo, in cui convivono, appunto, fermenti risorgimentali e allusioni patriottiche.


L’approdo al Novecento

Nel Novecento i modelli di apologo inteso o come ricerca esistenziale o come allegoria sociale sembrano convivere, all’insegna, tuttavia, di un paradosso abbastanza frequente: alla morale pessimistica degli apologhi lirico-riflessivi, infatti, si contrappone la chiusa ottimistica dei racconti socio-politici.

Si pensi, ad esempio, ai Tre Apologhi che, insieme alle Due fiabe, figurano in L’odore del fieno (Mondadori, 1972), la raccolta conclusiva del ciclo di storie Il romanzo di Ferrara di Giorgio Bassani.

Pur assumendo che la distinzione tra generi letterari, data la comune origine poetica di ogni scritto, viene intesa dall’autore come una suddivisione puramente formale, la connotazione esistenziale propria dei tre racconti di probabile ispirazione autobiografica denota una consapevole volontà allegorico-simbolica. Infatti se, da un lato, i viaggi alla volta di Roma e Napoli nel primo e nel secondo apologo (ma anche la curiosa indagine fotografica del terzo) rappresentano tanto la contrapposizione tra il fascino esercitato dalla pacifica vita in provincia e il subbuglio cittadino quanto l’auspicato ritorno all’età giovanile, dall’altro simboleggiano un’ideale pellegrinazione del soggetto in cerca di se stesso – e forse anche lo stile descrittivo adottato potrebbe rispondere non semplicemente a istanze realistiche bensì anche a un’intensa ricerca di ulteriore significato.

Anche Carlo Betocchi con Di alcuni nonnulla. Apologhi (a cura di A. Bellettato, Edizioni dei Dioscuri, 1979) propone delle allegorie esistenziali, le quali non di rado sfumano in riflessioni liriche, specificamente incentrate su questioni amorose derivate da letture condotte tra gli anni 1951 e 1954: in un quadro di ambigua enigmaticità, infatti, le frammentarie suggestioni dell’Io sembrano rincorrere pur disillusi tentativi di acquisizioni gnoseologiche. Ne consegue, nonostante il registro ironico che spesso caratterizza lo svolgimento narrativo, una morale ridotta ad aforismatica sententia malinconica.

Infine, di taglio opposto appare il celeberrimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, pubblicato su La Repubblica del 15 marzo 1980 da Calvino. La portata socio-politica di questa favola in forma di apologo si basa su due meccanismi stilistico-retorici: in primo luogo, la contrapposizione tra l’Italia dei meccanismi finanziari che alimentarono Tangentopoli, delle connivenze mafiose, degli atti terroristici e l’Italia dei cittadini integri. In secondo luogo, il rovesciamento ironico dei due poli di questo binomio; al «paese che si [regge] sull’illecito» Calvino oppone la «controsocietà degli onesti […] per tic nervoso»: «Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che […] la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è».

 

Copertina di Nel profondo di Johnson recensione

Lessico selvaggio

Grazie a Nel Profondo (Fazi, 2019), restituito in Italia nella pregevole traduzione di Stefano Tummolini, la talentuosa scrittrice Daisy Johnson è riuscita a soli ventisette anni a entrare nella shortlist del Man Booker Prize.

E però il merito di Johnson non si arresta a simili riconoscimenti, seppure importanti, ma viene incontro all’istinto più umano, cioè quello di inventare una storia, una potente storia di tutti, in cui ognuno può vedersi rappresentato. Si è detto di questo romanzo che emana mitologia, accogliendo in questa definizione il ruolo primario che un racconto deve avere e cioè, appunto, essere di e arrivare a tutti.

Di mitologico c’è certamente l’aver riscritto un mito di Edipo al contrario in cui Tiresia si chiama Fiona, un travestito, affamato di vita e votato alla solitudine, che semina sconforto e squilibrio laddove giunge. Questo accostamento ricorda i versi raccolti in Dolore minimo (Interlinea, 2018) di Giovanna Cristina Vivinetto: «Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo. / Il dono dell’indovino Tiresia: / mutare sesso una volta nella vita», seppure qui il dono ha la consistenza della condanna.

C’è una storia di famiglie che vivono «oltre il ceppo nero»: questo il titolo della prima parte del romanzo, questo pure il luogo dove va chi non vuole essere trovato da nessuno, il là-bas selvaggio. Nel profondo, infatti, è una storia di luoghi che ritornano nel tempo, caratterizzati da incrostature, ruggini, melma, una storia di rincorse, di ricerche e ricordi, ma è soprattutto una storia di linguaggi, di strategie e tentativi di comunicazione.

Gretel, la protagonista, l’unica che narra in prima persona la sua porzione di storia e che ricostruisce, immaginandola o per reminiscenza, quella degli altri, è una lessicografa che lavora per l’Oxford English Dictionary e si nutre, perciò, di parole, per dare ad altre parole ancora nuovi significati. Da adolescente, non riusciva a trattenerle neppure nel sonno, sempre agitato e pieno di monconi di frasi. Avendo vissuto i suoi primi anni con la madre su una chiatta lungo il fiume, dove non arriva la civiltà, Gretel ha imparato che non sempre ogni cosa ha una parola adatta per essere indicata, neppure sé stessa, che la madre spesso chiama El oppure Hansel, senza darle spiegazione alcuna.

Per il loro vivere a parte, Gretel e la madre, Sarah, selvatica e inferocita come se fosse scampata a una distruzione, hanno inventato un lessico tutto loro, comprensibile al solo e ristretto circuito della loro relazione, spesso morbosa, malata. Un lessico fatto di parole inventate, incomprensibili, di parolacce, di volgarità, di fraintendimenti inconciliabili: «Guarda che fine abbiamo fatto. Siamo l’ombra di noi stesse, due miserabili votate all’autodistruzione o a massacrarsi a vicenda, rinchiuse in un cottage troppo piccolo per viverci insieme».

La malattia è un altro aspetto del romanzo: l’Alzheimer sottrarrà al cervello di Sarah la possibilità di trovare le parole più giuste per indicare le cose. La condizione inselvaggisce ovviamente la donna, dietro la quale Gretel, cresciuta da sola per il resto della sua adolescenza, fatica a rimanere. Il conflitto tra le due donne è impari, perché un fattore di disequilibrio è dato proprio dall’incedere imprevedibile e selvaggio di quella malattia, che talvolta riunisce Sarah e Gretel in sussulti di tenerezza, talvolta le oppone come due fiere che si contendono un brano di carne.

Il disequilibrio è soprattutto tradotto nei loro dialoghi, anche quando Sarah è ormai un’erma muta, anche quando non può restituire altro che il silenzio, dando a esso, per Gretel, un nuovo significato: «Vorrei – mentre sto lì seduta, aggrappata al tuo corpo – dirti qualcosa. Mettere un punto a questa storia. Finire quello che abbiamo iniziato. Resto lì con te un sacco di tempo, eppure non trovo le parole».

Nel profondo non è un libro da leggere, ma anche da esplorare, da sondare, di cui arricchirsi per apprendere una lezione oggi necessaria: siamo quello che di noi raccontiamo, le nostre parole prima delle azioni.

 

(Nel profondo, Daisy Johnson, Fazi, 2019, trad. di Stefano Tummolini, 276 pp., euro 18, articolo di Marco Miglionico)
Copertina di Mio padre era un uomo sulla terra di Steinbeck

Mio padre, un uomo e una balena

Ecco un paradosso: weird, eerie, strano, grottesco, bizzarro, assurdo. Per Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena (Tunué, 2019, traduzione di Hilary Basso), secondo titolo della collana Romanzi/Straniera diretta da Giuseppe Girimonti Greco e Vanni Santoni, ed esordio narrativo dell’autrice svizzera Michelle Steinbeck, non voglio usare nessuna di queste parole. Steinbeck racconta la storia del viaggio di una ragazza alla ricerca di suo padre. Per riassumere la trama del breve romanzo – poco più di un centinaio di pagine – basterebbe soltanto questa frase, se non fosse che questa giovane autrice ha saputo creare un mondo.

Per leggerlo ci ho messo tantissimo. Per rileggerlo ancora di più. Giorni. Sono stato ore sulle stesse espressioni. Quasi tutta la mia ricerca è stata inutile. Ma non mi sono pentito. Lo hanno paragonato ad Alice, ai film di Tim Burton, al Mago di Oz. A me questo interessa poco. Quello di Steinbeck è un realismo surreale? Un realismo da romanzo di formazione picaro-grottesco? Forse, non lo so. Già l’imperfetto del titolo, descrittivo ma ambiguo, ha suscitato in me un primo, essenziale interrogativo: d’accordo, suo padre era un uomo e una balena. Ma quando?

Ho inseguito invano i significati simbolici di questo libro. Le distanze, i ricordi, i silenzi, l’immaginazione, il senso di perdita, gli incontri inattesi e quelli cercati, la realtà dei sogni e i bruschi risvegli, i pensieri sulla natura della felicità, le cadute vertiginose, il morso della fame, i fardelli che ognuno si porta dentro. L’immagine del fuoco – ho pensato alle Lezioni americane di Calvino, a quella, sostanziale, sull’Esattezza ­–, gli oggetti desueti e la valigia, gli alani terrificanti e fiabeschi, l’oscura simbologia dei denti e delle orecchie, i bambini, le onnipresenti sigarette anche tra le loro labbra.

Il racconto è in prima persona e inizia con un bambino dalle scarpe lampeggianti che non si sa perché insulta la giovane protagonista. Tornata a casa, Loribeth infila un foglio nella macchina da scrivere e scrive proprio il titolo del romanzo: Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena. Nonostante tutto, mi pare un suggerimento piuttosto fuorviante di interpretazione metaletteraria. E se Loribeth ci sconsiglia un percorso del genere, anche perché in quel momento non so cosa accadrà, sono d’accordo con lei: «All’inizio ho tentato di scrivere qualcosa, ma mi è passata subito. Di cosa dovrei scrivere? Non sono più saggia di prima, se possibile capisco ancora meno. I grandi misteri sono diventati piatti come un foglio di carta, irrisolti, è vero, ma non più così urgenti».

All’inizio del romanzo, dopo un dialogo tesissimo con il fratello – come di consueto, un imprevisto dà avvio alla storia – Loribeth inizia il suo viaggio un po’ picaresco, un’avventura plurale, annebbiata e incuriosente, giustificata da un obiettivo preciso: ritornare dal padre scrittore, scoprirlo. «Mio padre non vuole bambini, dico. Non ha mai voluto bambini, non voleva nemmeno me». Andrà a cercarlo su un’isola. Deve consegnargli un’ingombrante valigia. Un bambino sarà il suo taciturno e chiuso compagno di avventure. È soltanto un romanzo, ma non per tutti i lettori sarà normale immaginarsi, per esempio, un bambino che pende da un termosifone.

La giovane protagonista è una ragazza gettata nel mondo che affronta la vita. Incontrerà una vecchia indovina dai capelli blu e dalle mani di ragno che già la conosce. È una prolessi narrativa. Le parlerà come un oracolo, in compagnia del suo animale domestico – un rettile ibrido e rachitico. Loribeth incontrerà un vecchio senza gambe che pedala con le mani; un maggiolino di latta che vola; alcune creature che mangiano le orecchie, altre che preferiscono le dita; si imbatterà in una comunità di artisti e per un po’ giocherà con loro a fare la bohème e la rivoluzione. È un romanzo di poche pagine, ma succederà molto altro.

Loribeth ci fa anche divertire. Ecco un esempio tra i diversi possibili: «Non so quand’è stata l’ultima volta che ho mangiato qualcosa. Potrei cadere morta per terra da un momento all’altro. Sarebbe meglio di no, dice».

Alcuni teletrasporti della protagonista da uno scenario all’altro sono fantastici e sembrano quasi attraversamenti di confini, di soglie, di portali spazio-temporali; di punto in bianco «tre alani grigi, grossi come vitelli, passeggiano per la strada e avanzano dietro di me», «mi risveglio in un gommone», «arriviamo a un mercato»; spesso manca la luce: «anche qui dentro è buio», «mi tiro su. È buio. Dove sono?», «per tutta la notte ho corso», «è notte».

Nella sua scrittura, Steinbeck dissemina similitudini che sembrano provenire da una specie di sottosuolo: «fili di bava che dondolano come amache», «le occhiaie scintillano come pozze di benzina», «i gabbiani sono appollaiati sull’acqua come puntini di muffa sulla carne vecchia», «[Seifert, un personaggio] sfreccia per la casa come una vespa velenosa», «la sua ombra gigantesca [di Mabel, un altro personaggio] si dimena sul muro come un coboldo». I dialoghi seguono le parti narrate senza segni di interpunzione, come se il racconto fosse simile a un lungo discorso interiore della protagonista – non credo però che sia così. Loribeth sperimenta un universo tutto suo, dove le immagini si affastellano e i cammelli nitriscono.

La fine si preannuncia come un putiferio eccitato, un sovraeccitato pandemonio, un invasamento luminoso; eppure il bene e il male stanno lì, insieme.

Esagero: Steinbeck ci racconta ciò che succede tra la scrittura e la vita e forse anche tra noi stessi e il mondo. Non siete neanche un po’ curiosi di scoprire che cosa fa questa Loribeth?

«Voglio essere sempre altrove, mai dove sono. Ma poi a che serve andarsene? Ogni volta mi porto dietro me stessa».

[Come mi spiega un caro amico, inattesa riformulazione del motto oraziano «Caelum non animum mutant qui trans mare currunt», tanto caro a Montaigne e a tanti altri viaggiatori di professione, malinconici illustri, irrequieti, mercuriali, ipercinetici…]

 

(Mio padre era un uomo sulla terra e in acqua una balena, Michelle Steinbeck, Tunué, 2019, trad. di Hilary Basso, 112 pp., euro 17, articolo di Federico Musardo)
Poster del film Joker su Flanerí

Cinecomic che non lo sono

Del Joker Todd Philips si è iniziato a parlare ben prima dell’inaspettato Leone d’oro a Venezia 2019. C’era attesa, per questo strano incontro tra uno dei registi di punta del cinema demenziale statunitense e Joaquin Phoenix, uno dei più grandi attori di questa generazione. C’era attesa per l’ennesimo tentativo della DC Comics di trovare una propria strada cinematografica, dopo le generali reazioni tiepide ai grandi blockbuster (fa eccezione Wonder Woman). C’era attesa per il presunto coinvolgimento di Martin Scorsese come produttore, per Robert De Niro in un ruolo finalmente non imbarazzate. C’era attesa per lo scavo in uno dei personaggi più interessanti e complessi della storia dei fumetti, interpretato al cinema (quasi) sempre da grandi interpreti, l’unico ruolo di un cinecomic premiato con l’Oscar, quello postumo a Heath Ledger per Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan.

Era chiaro sin dalle premesse, in sintesi, che sarebbe stato un film molto discusso. Il premio veneziano ha amplificato le attese e catalizzato le attenzioni. Non c’è un’opinione unanime della critica, con i giornalisti statunitensi molto perplessi e quelli europei più entusiasti. Il pubblico ne ha già sancito il successo e lo status di capolavoro assoluto, già entrato nella decina di film più votati sull’aggregatore IMDB. È fuori di dubbio che Joker sia un oggetto cinematografico particolare, per ora unico nel suo genere.

Non si tratta del classico cinecomic, non si tratta di un film d’autore. Siamo di fronte a qualcosa di diverso. Philips ha scritto il film insieme a Scott Silver immaginando uno spunto completamente nuovo per la nemesi di Batman. Il protagonista si chiama Arthur Fleck – personaggio inedito per l’universo fumettistico –, è un aspirante comico che lavora per una compagnia di clown. È un alienato sociale, con disturbi psichici, preda di incontrollabili attacchi di risate quando è sotto pressione. Vive con la madre malata ossessionata dalla famiglia Wayne e sogna di partecipare allo show del presentatore Murray Franklin. Dopo aver perso il lavoro la sua paranoia cresce in una spirale incontrollabile.

È da qualche anno che i registi di punta del cinema demenziale si divertono a spiazzare Hollywood. Lo ha fatto Adam McKay con La grande scommessa prima, lo fa Todd Philips adesso. Joker spazza via le regole del cinecomic rifiutando tutte le caratteristiche del genere: manca l’azione, mancano gli effetti speciali, mancano i combattimenti. Al centro c’è lo scavo psicologico, come e molto di più di altri altri cinefumetti meno convenzionali come la trilogia del Batman di Nolan, Spider Man 2 di Sam Raimi o Iron Man 3.

Grazie all’alleanza con Joaquin Phoenix, autentico motore del film con il suo corpo e l’ennesima performance di altissimo livello della sua carriera, Todd Philips ha creato qualcosa che vuole presentarsi come completamente inedito.

Joker è un film a tutti gli effetti drammatico, senza dinamiche di thriller o di spettacolo. La discesa nella pazzia di Fleck è cruda, spietata, disperata. Poteva essere tranquillamente un film senza nessun legame con il mondo dei fumetti. Più che i classici cinecomic vengono infatti in mente alla visione film come Taxi Driver, Re per una notte, Quinto potere, Requiem for a Dream, o anche A Beautiful Day di Lynne Ramsey, sempre con Phoenix premiato a Cannes 2017 per la sua interpretazione. Tutti film di paranoia e degrado.

Questo per dire che non c’è poi chissà quale idea innovativa nella storia di Arthur Fleck. La sua grandezza, e l’enorme attenzione che sta ricevendo, sono dovute esclusivamente alla decisione di collocare un film che poteva essere benissimo altro nella categoria cinecomic.

Todd Philips ha sfruttato il successo dei film tratti dai fumetti per attirare un pubblico molto più vasto verso quello che è, nell’impostazione, un film indipendente sul disagio. In questo modo, però, non è riuscito ad andare davvero da nessuna parte – tranne a vincere Venezia e incassare già dieci volte in più di quanto il film sia costato, minuscoli dettagli. Joker si allontana dal cinecomic classico, prova la strada del cinema d’autore, poi si ferma indeciso. Rimane in superficie senza approfondire nessun argomento, che sia la pazzia, che sia la società, che sia la natura del protagonista. È un film pieno di momenti e spunti con un potenziale altissimo, ma che restano alla fine isolati l’uno dall’altro.

Per questo le varie definizioni e mini recensioni che si stanno inseguendo sui social in questi giorni non hanno particolare senso – “pugno allo stomaco”, “analisi della società statunitense”, “capolavoro totale” – non hanno basi stabili su cui poggiarsi. Alla fine, Joker è – solo – una interessante nuova forma di intrattenimento.

 

(Joker, di Todd Philips, 2019, drammatico, 122’)

 

Cambiare tutto per non cambiare nulla

Una somma di piccole cose, l’ultimo lavoro di Niccolò Fabi, era Bon Iver in maniera quasi caricaturale. E lo era anche in anni in cui quel new folk stava smettendo di essere come quello degli anni precedenti, di avere presa sulla musica: è sufficiente pensare al fatto che Justin Vernon scriveva nello stesso anno 22, a Million, che andava staccandosi da certi stilemi. Fabi si immergeva in quel mondo, dunque, in un momento in cui quel mondo andava scomparendo: un’intuizione arrivata semplicemente in ritardo. Tre anni dopo, il cantautore romano torna con Tradizione e Tradimento.

L’apertura dell’album è affidata a “Scotta” e si ripropone una situazione analoga: non è più Bon Iver (che comunque ritorna in maniera netta in Tradizione e tradimento) con le sue camicie di flanella e la sua barba, ma i Sigur Rós, con il freddo e l’imponderabile dell’Islanda. Complice anche il video girato sul Lungotevere che cerca di ripercorrere un po’ quella sacralità di certi live del quartetto islandese, qui non c’è solo ispirazione, ma voglia di essere i Sigur Rós. Classico walzer al piano con gran bel climax strumentale. Eccessivo, stucchevole, triste. Non c’è bisogno di questo, non c’è bisogno che Niccolò Fabi si metta a fare certe cose. Fabi ha una forte identità e questo brano è sostanzialmente inutile, nonostante sia (a questo punto si può dire: paradossalmente) evocativo.

Fortunatamente, però, Tradizione e tradimento non segue quella scia, sviluppandosi su un discorso altro, andando a giocare con ciò a cui è abituato e il suo tentativo di superarlo. Si sente che Fabi abbia provato a scrivere qualcosa di diverso, andando ad abbracciare un po’ di elettronica mischiata a orchestrazioni, ma la sostanza è sempre la stessa. La questione di fondo ruota attorno al fatto che Fabi ha una voce e un modo di modularla precisi e un’immagine mentale della costruzione melodica netta, chiara, che si porta appresso gli insegnamenti di Ivano Fossati e che in questi lunghi anni di carriera è diventata un punto di riferimento per la canzone italiana. In più, anche il pensare la scrittura delle canzoni rimane sempre la stessa. Fabi è ingabbiato nell’essere Fabi: non propriamente nel riuscire non a fare, ma a essere realmente qualcos’altro. Non c’è nulla di male, anzi, ad avercene di gente come lui: Fabi ci prova, ma non ci riesce. Vorrebbe, ma non può. Sembra arrendersi al fatto di perpetuare la tradizione a discapito del tradimento

Fabi rimane sempre un sensibilissimo artista della declinazione della soggettività, un io costantemente irrequieto e insoddisfatto, attento nel redarguire la sua parte disattenta. In “Io sono l’altro” (singolo e probabilmente brano più riuscito dell’album) emerge in tutta la sua forza il suo talento, con quella dose di retorica che rientra da sempre in maniera funzionale nella sua poetica. In grande forma anche le canzoni elenco: in “Amori con le ali” (dove musicalmente ci troviamo Sohn in fissa con Blade Runner che cerca di scrivere la sigla di Stranger Things) l’idea della canzone elenco raggiunge l’apice nella produzione di Fabi, che va a srotolare una lista di mezzi di trasporto (dalle piroghe ai tuctuc, dai taxi ai gommoni), strumenti necessari per trovare una stabilità nell’instabilità dell’io, a dire il vero crogiolandosi nell’incertezza, nella ricerca e nella sottrazione dell’altro: «Grazie a chi / Mi ha regalato un movimento / Allontanandomi da qualcosa /  E avvicinandomi a qualcos’altro  / Avvicinandomi a qualcuno /  E allontanandomi da qualcun’altro / Allontanandomi da qualcun’altro».

Fabi è sempre e comunque un ottimo scrittore di canzoni, quello invecchiato meglio della scuola romana degli anni Novanta, o quantomeno quello che si porta appresso sempre un certo interesse a ogni sua nuova uscita, cosa che per quanto riguarda Daniele Silvestri e Max Gazzè sembra mancare. Tradizione e tradimento è un buon album che, nonostante il tentativo, non sposta sostanzialmente nulla nella sua carriera.

Che cosa sono i padri

Come se non ci fossero abbastanza parole
e abbastanza memoria
per ricostruire una vita e farlo nel modo giusto.
Richard Ford

 

 

Sirmione del Garda, giugno 2001

Mio padre ferma l’automobile nel parcheggio dell’albergo stirandosi la camicia con le mani. Mia madre è inquieta per le scene da pazzi di mio fratello sui sedili posteriori, ci sfottiamo fino alle mani, e lei arrampicata all’indietro per dividerci con minacce sempre più stanche, la più frequente «volete che facciamo un incidente?», allora un po’ ci calmiamo odiandoci in quella compostezza rigida carica di rabbia. Una sola volta siamo andati fuori strada per le scene da pazzi di mio fratello, di ritorno da Cecina, mio padre ha ripreso a guidare dopo dieci minuti e fino a Roma non è volata una sola parola.
L’albergo porta il nome del vento che soffia sul Garda, El Peler, i tavoli del ristorante si affacciano sul lago e io respiro forte l’odore di alghe che sale dall’acqua, lo stesso identico odore che avrei rievocato anni dopo davanti alla laguna di Orbetello. Ho sette anni, mia madre mi veste a suo piacimento e io godo delle sue attenzioni. Prima di me ha avuto un aborto, una femmina, l’avrebbe chiamata Giulia. Ho sfogliato per anni gli album fotografici della mia famiglia, non c’è alcuna traccia di mia madre incinta, non ci sono foto di quei pochi mesi, non un accenno di pancia su un corpo che è rimasto esageratamente magro fino all’arrivo delle trombosi, fino alla terapia che ha iniziato l’assedio quotidiano, silenzioso, visibile solo in foto a comparare compleanni e Natali, comunioni, cresime, tutta la vita passata in una macchina fotografica nera, un oggetto che già appartiene a un’epoca preistorica – neanche quindici anni! come il lettore dvd che s’inceppava per la polvere e si aggiustava per magia soffiandoci sopra.
Ho immagini affastellate e confuse della vacanza a Sirmione: il ponte di pietra dal quale mi sporgevo per vedere le anatre e i cigni, il borgo medievale preso d’assalto da noi turisti, le pizze cresciute con pomodoro e parmigiano dietro i vetri dei carretti in piazza, il gelato al gusto puffo, immangiabile.

Il piroscafo parte ogni venti minuti. A Gardone riviera andiamo solo io e mio padre perché mio fratello è insofferente e, dice, non ha alcun interesse nel vedere la casa di D’Annunzio, così lui e mia madre vanno al mini golf e quando il giorno dopo ci torno anch’io loro già si muovono tra quei circuiti a zig-zag a monti a valli a spiazzi come una città in miniatura con naturalezza assoluta. Io non mando in buca neanche una palla e nella foto che scatta mia madre, la mazza in mano, ho un’ombra negli occhi.
Ho recriminato spesso a mio padre di non interessarsi al mio mondo, addossandogli colpe superiori ai danni, dimenticando troppo facilmente che è stato lui a portarmi per la prima volta nella casa di uno scrittore. Facciamo il biglietto, la guida raggruppa una quindicina di persone, tutti adulti, fatico dal mio metro e trenta di altezza a vedere oltre le maglie, i calzoncini corti, le gambe abbronzate le borse i marsupi, ed è ora che mio padre si fa strada, apre un varco tra quella piccola folla tenendomi per le spalle perché io sia il primo della fila. Mi sembra di aver avuto quelle mani grandi aperte sulle spalle per tutta l’infanzia, durante le gare di nuoto, oltre la linea di fondo del campo da pallavolo a battere la palla dopo il fischio dell’arbitro, sul divano di casa a leggere libri o in cucina, ho appena imparato a scrivere, per Natale ho chiesto una lavagna e dei gessetti colorati e la sera, dopocena, faccio lezione a mio padre in cucina ripetendo gli insegnamenti del giorno della maestra Edda (in quante parti è diviso un vulcano? individuare le funzioni dei personaggi nella novella di Boccaccio Calandrino e l’elitropia – la mettemmo in scena per la recita di fine anno, io ero Calandrino perché sapevo simulare un ottimo toscano grazie alla zia di Grosseto).
La letteratura rievoca eventi che avevamo dati per persi, e agli eventi accosta i sentimenti, li riconsegna intatti nel tempo. “Che cosa sono le madri” domanda in Ti ho sposato per allegriadella Ginzburg, pure senza punto interrogativo, Giuliana a Pietro; sono sposati da appena una settimana e lei ha conosciuto per la prima volta la madre di lui durante un esilarante e stralunato pranzo di famiglia, Queste madri che se ne stanno là, acquattate in fondo alla nostra vita, nelle radici della nostra vita, nel buio, così importanti, così determinanti per noi! Uno se ne dimentica, mentre vive, o se ne infischia, anzi crede di infischiarsene, però non se ne infischia mai del tutto. Quella tua madre così svaporata, eppure determinante! Non sembra proprio che possa determinare niente, e invece ti ha determinato, a te!
Io vorrei sapere cosa sono i padri, invece, e dove stanno di casa e come ci vedono, se ci vedono, e come ci determinano, per quanto ci accompagnano, vorrei apprenderli per istinto, capirne il verso come un pigiama da tirarne le maniche per metterlo a dritto, vederli bambini col fiocco grande della scuola per provarne tenerezza e lasciar andare la rabbia, l’odio per le loro debolezze, per le loro mancanze. Miserevoli bestie i padri, con la loro dose di errori da scontare come tutti, inappropriati a un ruolo, inclini alla tragedia, per lo meno per uno come me che, mi accorgo ora, aveva puntato tutto su quella camera oscura, le serrande tirate giù, il grande letto matrimoniale dove lasciarmi incantare dalla sua voce di grotta mentre mi narra «Sento dei passi» e finge un rumore sordo battendo il pugno al comodino, «Arriva la vecia», cioè la vecchia in dialetto veneto (perché il mio nonno paterno è di un paese vicino al Po), e la vecia era una Strega temibile frutto della sua fantasia che mi avrebbe rapito, portato via, dalla quale solo le braccia del padre avrebbero potuto salvarmi; allora eccomi con le gambe strette alla pancia, piccolissimo, fare corpo col suo che mi abbraccia scongiurando la vecia, poi senza preavviso prende a farmi il solletico, sempre più forte, da lacrime agli occhi, e solo la voce di mia madre che ci chiama alla cena ci rende la tregua, esausti e felici, fuori dal gioco della vecia per sempre. Quando ho letto Chirùdi Michela Murgia ho pensato che mio padre non ha nulla del padre di Eleonora, a lui non bisogna nascondere lo sporco sui calzoni e non ha confidenza con l’autorità. Se mai mi è sembrato che, scrivendo di Chirù, stesse parlando di lui, lui pure arrivato a me come uno scarto superstite dal mare, bello e perturbante come le cose che non ci si aspetta, difficoltoso come un rompicapo, insondabile a giorni, certi altri risibile e disarmato. Venne a me come vengono i legni alla spiaggia.Ma chi, tra noi, è arrivato a chi? E quanto durerà questa deriva, per quanto ci accompagneremo alle onde?

La vacanza non è ancora conclusa ma mia madre si sente male, di notte, la portano in ospedale e a mezzogiorno ritorna in albergo con la gamba fasciata dalla coscia al piede. Bisogna fare in fretta i bagagli, c’è da ripartire immediatamente. Non ci dicono cos’ha, in macchina mio fratello siede accanto a mio padre, io e mia madre dietro. Sulle cosce ho questa gamba stesa che non oso sfiorare, la osservo come si trattasse di un oggetto estraneo che non appartiene a lei perché so che lì dentro c’è un male anche se ne ignoro la forma.
Mamma mi sorride per tranquillizzarmi, io sono pallido e ho i polsi freddi. Non stacco gli occhi di dosso da quella gamba fasciata stretta, immobile, temo forse che possa esplodere da un momento all’altro come una bomba. Invece arriviamo a Roma e mia madre viene ricoverata per un mese al Policlinico, io vado a dormire dai nonni.
Sedici anni avanti, giugno 2015, entro nella Feltrinelli di Largo Argentina e sfoglio dei libri, ne sfilo uno dallo scaffale, si tratta di Zombiedi J.C. Oates. Quella copertina con arti di bambola nudi, slacciati dal corpo, mi terrorizza e provo un principio di panico. Non sono più uscito da quella macchina, sono ancora intrappolato lì, a sognare Gardaland e il draghetto Prezzemolo identico al fumetto sul biscotto del gelato Cucciolone, mentre mio padre guida veloce incurante dei limiti, lui che guidava solo sulla corsia di destra, e mia madre ogni tanto sorride e io faccio amicizia con questa gamba assediata.

Mi domando spesso chi tra i miei genitori abbia amato di più l’altro, perché alla base di ogni storia d’amore c’è sempre una sproporzione iniziale. È Mario Benedetti a informarmi che è compito dell’amore colmare quella sproporzione, e io continuo a dirgli sarebbe troppo bello, Mario, sarebbe incantevole ma non so se è così, se è l’amore a venire in soccorso o un senso antico di sopravvivenza, la spinta a risalire verso l’alto quando sott’acqua ti manca il respiro. Chi ha amato con più disperazione, chi con più allegria.
Certi giorni li vedo alzarsi presto, prepararsi e aspettare allegri l’ascensore sul pianerottolo per passare la giornata fuori Roma, a Orbetello, a Santo Stefano. Mi sembra di riconoscerli nelle foto dei loro diciott’anni, quando si sono conosciuti, sulla neve con gli occhi stretti, piccoli per le risate, o in costume a Santa Severa – sono più giovani di me ora. Sciascia, alla domanda “Lei è credente?” risponde “Come tutti, imperfettamente sempre”, ed è ancora l’unica risposta che trovo alla domanda Come si amano un padre e una madre, supremazia del come sul quanto, osservandoli ora che invecchiano, sul pianerottolo, prima che entrino nell’ascensore e vadano incontro al loro giorno che inizia.

 

 

“Che cosa sono i padri” è tratto dalla raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi di Giorgio Ghiotti, uscito per Hacca.

 

Giorgio Ghiotti è nato a Roma nel 1994. Poeta, scrittore, vive tra Roma e Milano, dove studia Italianistica contemporanea e collabora con l’editore Bompiani. Ha esordito nella narrativa con la raccolta di racconti Dio giocava a pallone (nottetempo, 2013) e nella poesia con Estinzione dell’uomo bambino (Perrone, 2015). Ha inoltre pubblicato il romanzo Rondini per formiche (nottetempo, 2016) e il saggio narrativo Via degli Angeli (Bompiani, 2016) con Angela Bubba. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo, per la poesia, La città che ti abita (Empirìa, 2017) e il saggio Costellazioni (Empirìa, 2019). Scrive di libri sulle pagine culturali di il manifesto e ha collaborato con riviste e blog letterari quali Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, minima&moralia.

 

Gli occhi vuoti dei santi: Dodici storie nelle quali l’immaginazione brucia l’esperienza: un vecchio vedovo che, come un alchimista, tenta di riportare in vita la moglie umanizzandone gli abiti per vestire l’assenza. Un ragazzino crede di essere il prescelto da Dio e fa di tutto per redimere i peccati della sua famiglia. Un viaggio in macchina dal lago di Garda verso il sud Italia e un bambino che osserva la gamba assediata della madre domandandosi quale sia la forma del male, capendo anni dopo che l’amore è un incantesimo più risalente della morte. Due donne scoprono d’avere una spia in casa, una testina di terracotta capace di ricatti, malefatte e nevrosi; marito e moglie esorcizzano la vecchiaia aprendo la coppia al giovanissimo Freddy in un itinerario amoroso tra Roma, Berlino e il Messico. Cinque adolescenti, tra iniziazioni sessuali e serate nel bar di quartiere, sognano un futuro all’altezza dei loro desideri lontano dai casermoni di cemento dove sono nati. E poi ci sono i padri, «scarti superstiti dal mare, belli e perturbanti come le cose che non ci si aspetta».

 

Leggi le altre Estrazioni

Copertina di Peter Pan di Barrie Letteratura

Letteratura e psicopatologia contemporanea

La letteratura, potente macchina dei sogni capace di mettere a nudo lo Zeitgeist della propria epoca, è oggi più che mai crocevia paradigmatico della nostra contemporaneità, sulla quale pesano la perdita del mito e del simbolico. L’eclatante successo di Peter Pan (1904) del drammaturgo e scrittore scozzese James M. Barrie (1860-1937) – che dall’esordio teatrale in poi si andrà radicando sempre più profondamente nell’immaginario collettivo – ne sono una prima, folgorante anticipazione. Stessa stretta consonanza tra produzione letteraria e coordinate inconsce della seconda metà del XX secolo per Lolita (1955), il più famoso tra i romanzi di Vladimir Nabokov (1899-1977) – solo sette anni più tardi consacrato sullo schermo da Stanley Kubrick con l’omonimo film – non meno che per Il padiglione d’oro (1956) di Yukio Mishima (1925-1970), da molti considerato il suo capolavoro e uno dei romanzi più significativi del Giappone moderno.

Tre grandi classici, dunque, legati dallo stesso fil rouge, quel vivere il tempo come presente angosciante e chiusotipico della cultura postmoderna dell’immediatezza e del pessimismo riguardo al futuro – in cui sbiadendosi modelli, sogni, utopie ed ideali, l’orizzonte e le sue sconosciute possibilità sono vissute come minaccia anziché come promessa. È così che il professor Humbert consuma la sua totalizzante passione per la natura «non già umana, ma di ninfa (vale a dire demoniaca)» della dodicenne di cui si è invaghito, quella Lolita cristallizzata in «quell’isola immateriale immersa in un tempo incantato nel quale […] si trastulla con le sue simili».

E se il mito greco della ninfa occlude lo sguardo al limite cronologico della pubertà, imprigionando Humbert nel circolo vizioso di un presente immobile per cui la vita stessa entra in scacco, in Peter – nel quale ritroviamo il riferimento mitologico al dio silvano Pan, la cui etimologia è quel “tutto”, legato all’abisso e al profondo, dunque all’esperienza del panico tipica dell’epoca postmoderna – il tempo semplicemente non esiste, ruotando in una perpetua giostra che col suo movimento circolare riporta tutto all’inizio: «I ragazzi perduti erano in giro a cercare Peter, i pirati erano in giro a cercare i ragazzi perduti, i pellirosse erano in giro a cercare i pirati e gli animali selvaggi erano in giro a cercare i pellirosse. Camminavano in tondo sull’isola ma non si incontravano perché tutti andavano alla stessa velocità».

Analogo pensiero ossessivo, ansia e impossibilità ad immaginare il proprio futuro per il giovane accolito buddista, claudicante e balbuziente Mizoguchi di Il padiglione d’oro, per il quale il tempo è quello immobilizzato e ripetitivo del non inizio, della non-azione congelata nel culto della Bellezza: «Quel mio difetto – inutile dirlo – costituì sempre una vera barriera tra me e il resto del mondo. Mi riusciva soprattutto difficile pronunciare l’inizio delle parole: l’inizio, ogni inizio, costituiva la chiave del mondo esterno, una chiave che non ho mai potuto manovrare a dovere». Mishima coglie magistralmente il genius saeculi nella disperata, quasi magica attesa della grande distruzione dell’antico tempio – non meno che del Giappone tradizionale ormai al suo tramonto – da cui è tormentato il protagonista, fino ad assegnare al suo clamoroso gesto da piromane un profondo significato simbolico e catartico.

 

Copertina di Lolita di Nabokov Letteratura

 

Altra fondamentale coordinata psicologica comune ai personaggi dei tre romanzi è la privatio mali, ovvero quell’odierno sentire il bene non più, come in passato, quale forza a sé stante e dunque agente, ma in quanto semplice assenza del male, di modo che ciascuno di loro si fa oggetto passivo al di là di qualunque senso etico. Per questo il professor H. Humbert è un solitario pedofilo ingabbiato nelle spire della sua mania dalla quale non vuole e non può uscire: «…ah, lasciatemi in pace nel parco della pubertà, nel mio muschioso giardino. Lasciate che giochino intorno a me per sempre. Che non crescano mai»; Lolita una ninfetta sguaiata e volgare, crudele e indifferente, che condivide con Peter Pan l’ambiguo fascino di creatura archetipica «innocente e senza cuore»; Mizoguchi un perdente chiuso nella sua doppia vita mista di rancore e ipocrisia: «…sembrare come gli altri è la cosa più importante, la cosa migliore. È allora che la gente non dubita di noi».

Ma è proprio tale visione super partes degli autori nei confronti dell’ambivalenza spesso scioccante di temi e personaggi – che a tratti sembra quasi indulgente se non addirittura empatica – a farne opere destinate a durare e a diventare potenti icone dell’immaginario. Perché la letteratura, in quanto luogo e punto d’incontro delle direzioni di senso collettivamente condivise, e che pertanto è «la vita vera, finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita realmente vissuta» (M. Proust, Il tempo ritrovato, Einaudi 1978), non può tessere la sua relazione con le pulsioni inconsce se non andando oltre le maglie delle convenzioni sociali e culturali, dunque al di fuori di qualunque finalità didattica, moraleggiante o politicamente corretta.

Scrive Nabokov nella postfazione aggiunta l’anno successivo (1956) alla prima edizione di Lolita: «Esistono, presumo, lettori i quali trovano solleticante lo sfoggio di parole grandiose come un affresco in quei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi battuti a macchina dai pollici di irrimediabili mediocrità e definiti “potenti” e “vigorosi” dalla critica interessata. Non mancano le anime buone che giudicherebbero Lolita insignificante perché non insegna loro qualcosa».

Di fatto la grandezza di Peter Pan, Lolita e Il padiglione d’oro consiste proprio nel non aver concesso nulla al perbenismo del periodo e nell’aver anzi lasciato che attraverso le pagine, nascosto tra le righe, affiorasse in filigrana il nostro lato ombra – quell’inconscio spirito del presente in dinamico rapporto tra realtà e Erlebnis, mondo ed Io – che solo può svelarci, in tutte le sue declinazioni contemporanee, i punti chiave della propria complessità. Ecco allora che lo smarrimento del simbolico, tabù della cultura contemporanea ripiegata in un presente statico che teme il futuro, rivendica prepotentemente il suo spazio: Peter Pan o il ragazzo che non voleva crescere è il titolo completo della pièce che debuttò a Londra nel 1904; di fatto Peter coltiva l’ostinata volontà di rimanere bambino, stigmatizzando con largo anticipo un fenomeno sociale che avrebbe trovato sempre più ampio riscontro nei decenni successivi.

Lontano dall’essere quella creaturina innocua e svolazzante quale ce l’ha consegnata la Disney, Peter in realtà ci dice qualcosa di molto più inquietante: abbiamo perso i genitori, le radici, i punti di riferimento saldi e, con essi, la capacità di progettare e sognare il futuro; infatti se n’è andato di casa per non diventare adulto, e il padre e la madre non l’hanno fatto più rientrare. «Perché sei scappato?» gli chiede Wendy, e ottiene questa risposta: «Perché ho sentito papà e mamma parlare di quello che sarei dovuto diventare quando fossi stato uomo». Analogo abbandono per i Ragazzi Perduti: «sono i bambini che cadono dalla carrozzina mentre la governante sta guardando dall’altra parte. Se nessuno viene a reclamarli entro sette giorni, vengono mandati lontano nell’Isola-Che-Non-C’è».

Molto più simile all’anima selvatica dell’uomo che a un ragazzino vestito di foglie, anche se ha ancora i denti da latte Peter è di fatto una presenza demoniaca, tanto che, quando i ragazzi che abitano con lui sull’isola sembrano diventare adulti — il che è contro le regole — “li sfoltisce” (thins them out), vale a dire li fa fuori o li fa uccidere dai pirati.

 

Copertina di Il Padiglione d'oro di Mishima Letteratura

 

Perno di un meccanismo circolare in cui ogni cosa rimane immutata, Peter infatti non conosce nemmeno la sua età: «non lo so, ma sono piuttosto giovane», condividendo con Mizoguchi, per il quale «il mondo è fermo per sempre, e dunque è arrivato a destinazione», una certa ambiguità relativa alla sfera sessuale, anche in questo rifiutando il passaggio alla vita adulta tant’è che entrambi, narcisisti e sfuggenti, hanno bisogno di conferme ma temono gli affetti. Peter non vuole assolutamente essere toccato eppure trova in Wendy l’amore romantico, scatenando la gelosia di Campanellino; Giglio Tigrato è la pellirossa che rappresenta il sesso, l’avventura e l’esotismo, mentre suadenti sirene nuotano tutt’intorno all’isola, riempiendo l’aria dei loro richiami.

Non diversamente equivoco e tormentato è il contatto emotivo col mondo da parte del deforme Mizoguchi il quale, impeditone dalle sue fantasie assolutizzanti, si spingerà fino ad incendiare il padiglione d’oro, emblema di quella bellezza ideale che gli è preclusa. Ambivalenza e inafferrabilità di un codice erotico non meno che sociale – con la sua negazione del mondo reale a favore di un microcosmo costruito secondo proprie leggi – che ritroviamo come caratteristica principale della stessa Lolita e di tutte le ninfette, con la loro «grazia torbida, il fascino elusivo, mutevole, struggitore e insidioso»; né bambine né donne, né umane né divine, né colpevoli né innocenti. Limbo utopistico, illogica realtà «i lidi specchianti e le rosee rupi» dal cui confine riecheggia nella società contemporanea, come un’eco mai spenta, la nostalgia del mito.

Si dummeneca è bon tiempo

Fu solo quando la hostess disse «in caso di una depressurizzazione della cabina, le maschere dell’ossigeno usciranno da appositi scomparti collocati nel soffitto dell’aeromobile; indossate la maschera e respirate normalmente», che Clara alzò lo sguardo su di lei. La donna giocherellava con l’elastico della mascherina, tirandolo al viso e poi lasciandolo andare, mimando un gesto che Clara aveva imparato a conoscere da tre mesi a questa parte.
Era cominciato tutto a novembre.
In preda a un attacco respiratorio, suo padre era stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale di Nola, in Campania. Dopo aver vissuto per quasi tutta la sua vita a Roma, da poco si era ritirato in pensione nel paese dove era nato, nei comuni vesuviani, una zona che Clara conosceva appena.
Già da qualche anno lei viveva stabilmente a Berlino.
Era emigrata per ragioni simili a quelle di tanti altri: scontentezza, mancanza di lavoro, desiderio di migliorare le condizioni di vita e uscire da una certa apatia.
Nel 1998, aveva visto Berlino per la prima volta.
Era il viaggio assieme a Paola, la compagna di banco, e Potsdamer Platz non esisteva ancora; era invece un grosso cantiere che si estendeva fin dove arrivava l’occhio, con molte gru e un palco dove salire, per guardare meglio.
Cosa poi? La città che si trasformava.
Con una Olympus analogica scattavano foto al cantiere – il più grande che entrambe avessero mai visto – e la vita sembrava loro simile: un buco aperto con un fiore dentro pronto a sbocciare. Era stato anzi forse per quella promessa di futuro che tacitamente si erano scambiate sul finire delle loro adolescenze, che Clara si era innamorata subito di Berlino. O almeno così le piaceva raccontarsi, ora che Potsdamer Platz sembrava invece una moderna Gotham City e l’amicizia con Paola era finita anni addietro.
I primi mesi a Berlino non erano stati facili. Il tedesco era come un involucro molle e vuoto che non riusciva a riempire di senso, Clara balbettava come una poppante, afflitta dal fatto che i suoi pensieri – solitamente elaborati e complessi – ora si sforzassero di esprimere cose semplici: mi chiamo Clara, ho trentadue anni, vengo da Roma…
Spesso, camminando per le vie del Mitte, si sentiva un sentimento di nostalgia appiccicato addosso. Provava un’emozione dura in gola, al pensare che magari ogni cosa che stava facendo era il frutto di una scelta sbagliata. Ma poi un tram passava sul ponte, allontanandosi verso la torre di Alexanderplatz, e la città le si stringeva di nuovo attorno, in una morsa bellissima e profonda.
In quella quiete, Clara sentiva nuovamente ogni cosa dentro di sé, anche se non riusciva a possedere nulla, e se prima gli era sembrato di vivere nell’attesa di un momento destinato a venire sempre dopo, adesso le pareva invece di esistere solo nel qui e nell’ora, come non ci fosse altro che il presente da abitare.
Sulla Brunnenstraße c’era un vecchio edificio occupato, con le finestre vuote come occhi spalancati e cavi; lungo la parete esterna, l’affresco di un essere grottesco e mostruoso, volteggiante in aria, con la bocca aperta in un fumetto che diceva solo: «Wir bleiben alle», noi rimaniamo. Rimaniamo tutti.

Io vado.
Il giorno in cui Clara era partita da Berlino per raggiungere l’ospedale di Nola, aveva legato la bicicletta a un palo nei pressi di una stazione di polizia e, come si trattasse di un amico, le aveva sussurrato quelle parole.
Contava di ritornare a prendersela presto, lasciare Berlino le pesava moltissimo e da qualche parte, pur senza confessarselo apertamente, riteneva anche che quell’emergenza fosse solo un’ennesima provocazione del padre, un modo per attirare la sua attenzione nel modo distorto che gli apparteneva.
Quando arrivò in ospedale e lo vide in quel letto angusto, gli occhi bianchi come quelli di un ragno, ebbe subito voglia di piangere e di non andarsene più via.
La vide entrare e lui disse: «Sei qui».
«Sì, sono arrivata, sono qui», avrebbe voluto rispondergli lei, «e ho fatto una gran corsa, sai? Sono precipitata giù dal nord freddo e ordinato, dove rimetto l’orologio a ogni autobus che passa, e mi sono persa all’uscita di Pomigliano d’Arco. Per riprendere la strada ci ho impiegato quasi quanto arrivare a Fiumicino. Ho chiesto informazioni dieci volte a dieci persone diverse e ognuna mi ha detto “eh, signori’, e che ci vuole! La vede quella strada lì? Voi basta che la prendete tutta in fondo, arrivate al cavalcavia…”, ma il cavalcavia, sai, sembra un essere tentacolare e sempre uguale a se stesso, da qualunque parte lo si guardi… continuavo a sbagliare. E a perdermi».
Ma Clara non gli disse nulla di tutto questo.
Non gli raccontò neppure della donna che arrostiva carciofi in un angolo della strada, dove non c’era niente altro che lei, qualche sacco della spazzatura e un cartello con su scritto Vendo pedane. Neppure gli disse che l’odore dei carciofi aveva risvegliato in lei una memoria perduta, e neppure che a volte a Berlino, per sentirsi un po’ a casa, scendeva da Prenzlauerberg a Neukölln, il quartiere turco, dove le vetrine erano piene di bomboniere kitsch e poi, poco più là, cibo per canarini, trecce di capelli finti, paccottiglia alla rinfusa e un cane che aspettava davanti a una vecchia macchina da cucito. All’angolo magari preparavano il tè nero e la shisha mentre qualcuno ripeteva zwei euro, zwei euro, la faccia paonazza, imbevuta di Raki, e l’autobus 29 a passare intanto sulla Sonnenallee. Distrattamente, come una città nella città, sfilava Neukölln, restituendo a Clara una finta eco del Mediterraneo, anche se fuori nevicava.
«Non voglio stare qui», le disse suo padre, «questo posto fa schifo. C’è la buccia del mandarino di qualcun altro che marcisce nell’armadietto».
L’ospedale era fatiscente.
Nella stanza in cui lo avevano messo c’erano altre due persone, tra cui un vecchio che si rasava la barba in una bacinella usando la schiuma Proraso.
«Chiullu è arrivato accussì, cianotico», disse la dottoressa a Clara, «si agita e se ne vuole andare. Con certi uomini signori’, lo so, nun ce sta niente ’a fa’. Se vére che c’ha nu carattere…».
Suo padre era un uomo ribelle. Da ragazzo scappava di casa e nascondeva le sigarette nelle narici delle statue a Villa Borghese. Aveva sempre fumato, i sigari per lo più, e lo avrebbe fatto anche adesso – Clara ne era certa – se non fosse stato costretto quale era su un letto di ospedale, con i tubicini dell’ossigeno conficcati nel naso.
Non era un uomo facile, faceva sempre tutto di testa sua.
Autoritario e forte, era anche incapace di amare senza esprimere al contempo una forma di rabbia e di risentimento. Come se si sentisse sempre non capito, soprattutto dalle donne e, una dopo l’altra, aveva anzi trovato il modo di respingere e allontanare da sé tutte quelle della sua vita: sua madre, sua moglie, sua sorella, la sua amante, e infine sua figlia.
Alle ragioni per emigrare a Berlino, infatti, Clara aggiungeva anche quella di separarsi da lui; avevano un rapporto intenso ma conflittuale e litigavano ferocemente da quando Clara aveva dieci anni. Più di una volta, nel corso della sua vita, lei si era sentita vicina a un punto zero, in cui l’unica soluzione possibile le pareva il lasciarlo, come si fa con un uomo che si ama ma che ci fa soffrire: senza voltarsi più indietro. Poi aveva scoperto una terza via: mettere tra lui e lei una distanza, che agisse come un filtro.
E Berlino parve funzionare.
Nella lontananza, quando si sentivano su Skype, c’era infatti sempre meno spazio per gli isterismi e le recriminazioni; passava altro, come ad esempio l’immagine che Clara gli restituiva di un luogo che andava scoprendo.
Una volta gli raccontò del Lichtblick Kino, un cinema grande quanto il soggiorno della loro vecchia casa, dove ogni sabato sera, a mezzanotte, trasmettevano immancabilmente Casablanca.
«Humphrey Bogart ha sempre una faccia coriacea e triste», aveva commentato lui, «a vederlo viene voglia di fumare».

Quando in ospedale l’orario di visite terminò, a nessuno importò che Clara avesse fatto tutte quelle ore di viaggio, cambiato quasi ogni mezzo disponibile, per arrivare fin là. La sua bicicletta era legata ancora a un palo, e da quel palo vedeva scendere un tram dalla piazza di Zionskirche, giù in direzione dell’Invalidenstrasse, dove i ragazzi sferragliano sugli skateboard, lanciandosi a tutta velocità sulle rampe, irriflessivi e forti, senza coscienza alcuna della vulnerabilità umana.
Nell’andarsene, a Clara sembrò che suo padre avesse lo sguardo annebbiato e il cuore le si strinse in una morsa.
«Torno domani, sono qui. Fai il bravo».
Quella sera andò a passare la notte nella casa di Somma Vesuviana.
C’era stata poche volte in vita sua e di tutte aveva pessimi ricordi. Nella memoria, soprattutto, spiccava l’immagine della cantina da basso, con una madonna sotto una cupola di vetro posta a guardiano delle scale, asfissiata e con lo sguardo dolente. Nella camera, che un giorno era stata di sua nonna, era però sparito il Cristo in croce, di cui Clara ricordava le ombre nella notte, le braccia lunghe e magre spalancate nell’oscurità. Adesso suo padre aveva riempito la stanza di libri e di cianfrusaglie, coperte di polvere fino all’inverosimile.
Era diventata la casa di uomo solo.
Nel camino spento, tante copie della Settimana Enigmistica, tutte completate e pronte a bruciare assieme a un cumulo di parole.
Clara non riusciva a dormire.
Alle quattro di notte squillò il telefono e la richiamarono in ospedale.
Mentre un bambino da qualche parte cacciava fuori il suo primo grido alla vita, lei indossò una mascherina e un paio di guanti e vide per la prima volta il padre attaccato a delle macchine.
Le condizioni erano tali da rendere necessario un trasferimento.
Partirono all’indomani, in ambulanza.
Lui non si rese conto di nulla, mentre Clara capì di scendere ancora più giù, ancora più a Sud, verso un ospedale raggiungibile ora solo percorrendo la statale 372, la Telesina, attraverso valli scoscese e povere, guardando la luna apparire e scomparire, dentro e fuori le gallerie, per arrivare poi a un cartello che diceva: Welcome to Ariano Irpino.

Quando Clara aveva pochi anni di vita, in quelle zone la terra tremava.
Là, dove solo Verne si era avventurato con la fantasia, qualcosa si rompeva.
E novanta secondi, durava. Neanche il tempo in chiesa di dire amen e il telegiornale buonasera, che al novantunesimo era tutto finito.
Con le case accartocciate su loro stesse e le grida che si alzavano al cielo, a scacciare la pace, acute e intense, come si levassero da un manicomio.
Poi, nel tempo, ricostruirono quasi tutto, e Ariano Irpino era ora il paese che Clara vedeva, con il corso principale dominato da un albergo illuminato di notte, tale e quale agli edifici di Las Vegas, che emetteva luce, tanta luce, una struttura grottesca ed immorale. Dietro a una curva – sulla sommità di una vetta impervia – l’ospedale, nuovo di zecca.
Anche lì, nella sala d’attesa della terapia intensiva, c’era una madonna.
Era sopra un piedistallo, con l’aureola simile a una coda di pavone.
Era successo tutto molto in fretta e a Clara ci vollero quasi cinque giorni per iniziare ad accettare che si trovava davvero lì, in Irpinia, e che suo padre, lì, stesse combattendo tra la vita e la morte.
Nel volgere di poco tempo tutto era cambiato.
Perfino la Germania era diventata sul momento un luogo evocato solo nelle parole di Giuseppe, un camionista che come Clara aspettava il suo turno per entrare in terapia intensiva a visitare la madre. Raccontava che a Berlino c’era stato più volte, e mentre lo diceva si pizzicava i polpastrelli delle mani, che sembravano fatti di pane.
Passarono nove giorni. Silenziosi, esasperanti, lenti.
I medici divennero le persone più importanti del mondo: ogni parola, oscillazione nel tono della voce o del discorso, sembrava colare dalle loro bocche divine solo perché Clara potesse raccoglierle con un piattino. Ma, un giorno dopo l’altro, il responso era sempre lo stesso.
«La situazione è grave, non possiamo mentirle. Il coma lo tiene sedato, per ora è stabile e dobbiamo sperare che gli organi riprendano a lavorare nel modo giusto. Ma bisogna aspettare. Non c’è niente che lei possa fare».
Vivere e dormire a Ariano Irpino cominciava a diventare dispendioso e Clara doveva anche tornare al suo lavoro.
Dopo quasi due settimane, la convinsero a ripartire per Berlino.
In realtà, lei scalpitava per ritornare alla sua vita e allontanarsi, anche solo per un momento, da tutto il resto. Ma quando fu in aeroporto, e passò tra i metal detector, le sembrò di avere dietro un bagaglio enorme, uno zaino fatto di cose invisibili agli altri, in cui si annidavano alla rinfusa emozioni, paure e speranze. Un bagaglio con un peso specifico che Easyjet le consentiva di far passare, senza accorgersi che, messo sul piano della bilancia, sarebbe pesato molto di più dei chili che la compagnia le consentiva di portare in cabina.

Per i primi dieci giorni a Berlino, a mezzogiorno in punto, Clara chiamò il cellulare di una signora della Croce Rossa: Maria.
Lei andava a trovare suo padre quando Clara era assente, lei gli parlava riferendogli che la figlia lo pensava, gli voleva bene e che sarebbe tornata presto.
Maria dava a Clara anche il bollettino medico, che non evolveva da quando lei se ne era andata.
Clara aveva visto Maria appena tre volte nella vita. Pure, quella donna tarchiata e forte, con le guance sanguigne, era ora come una zia per lei. Maria forse avrebbe fatto una scelta diversa e anzi non si sarebbe neppure trovata nella situazione in cui si trovava Clara adesso: a piagnucolare, dall’altro capo dell’Europa, affidandosi ai responsi di una sconosciuta come a quelli di un oracolo. Maria le diceva di pregare, anche se bisognava comunque essere preparati al peggio e, mente la ascoltava, Clara non poteva fare a meno di pensare a suo padre, bestemmiatore della Chiesa, dei preti, dei santi ma soprattutto di Dio. Ma Clara pregava, per tornare a sentire quelle bestemmie e la voce del padre.
Un giorno andò a perdersi volutamente nel Memoriale per gli ebrei assassinati di Europa.
In quel labirinto composto di stele poste l’una dietro l’altra, mentre i turisti schiamazzavano, i bambini giocavano a nascondino e le mamme gridavano cercandoli, Clara trovò cunicoli abitati solo dal silenzio e da ombre la cui oscurità conferiva un tono melodrammatico alle pietre. Mentre ci appoggiava le mani sopra, toccando, constatando come anche ai colori corrispondesse una sensibilità tattile, rinvenne un sentimento frustrato, un’oppressione, una perdita di significato; un cerchio alla testa del quale non veniva a capo. La bocca le si fece secca. E in quella ristrettezza cupa ebbe paura. Più in là, già in direzione della Porta di Brandeburgo, c’era un giapponese che scattava una foto; una bambina minuta che canticchiando saltava una corda. Corse via per uscire e respirò.

Tornò ad Ariano Irpino tre volte, nei due mesi successivi, ma all’ultima la venne a prendere un ufficiale dei carabinieri alla fermata del pullman per Grottaminarda.
In Italia aveva cominciato a nevicare. Ovunque. Anche al Sud. Le strade erano tutte bloccate e per arrivare Clara ci impiegò diciotto ore.
Era sicura che i bambini guardassero alla neve con gioia mentre lei malediceva quei mucchi già sporchi di fango.
«Faccia attenzione a non scivolare», le disse l’ufficiale, «sta arrivando da Roma?»
«No, da Berlino», rispose lei, «sto arrivando direttamente da Berlino. Vivo lì».
«Ah, è una bella città. Ma fa molto freddo, no?»
«Sì. Eppure quest’anno non abbiamo ancora visto la neve. La sto vedendo tutta qua».
«Non ne vedevamo così tanta anche noi da quasi vent’anni».
«Si vede che aspettava me».
L’ufficiale le offrì un Mon Chéri. Lei lo succhiò e poi sputò la ciliegia per terra.
Per raggiungere l’ospedale la scortarono su una macchina dei vigili urbani.
Le strade di Ariano erano una lastra di ghiaccio. Nelle orecchie, Clara aveva ancora il trillo del telefono e la voce che dall’altro capo le diceva che la situazione si era aggravata.
In modo del tutto straordinario, varcò la porta dell’ospedale, era già notte, oltrepassò la madonnina, si infilò i guanti, la maschera, il camice. Quindi entrò nella sala. Senza curarsi degli infermieri, cominciò a parlare.
E non sapeva più neanche se parlava al padre, alle macchine a cui lui era attaccato, o forse a se stessa. Toccò quel viso a cui avevano tagliato da un pezzo tutta la barba. Sembrava più giovane. Fece uno sforzo e all’orecchio gli sussurrò dei versi di una poesia che aveva imparato: «Si dummeneca è bon tiempo, ce ne iammo a Marechiare: llà mangiammo a llido ’e mare, e parlammo io ’e te, tu ’e me. T’ aggia dì nu sacco ’e cose ca mme passeno p’ ’a mente…»
«Sai», gli disse poi, «sai che c’è stato un momento in cui gli uomini andavano a morire nelle acque del Wannsee? Dove ora io vado con la S-Bahn o in bicicletta, affittando una piccola barca e osservando i bagnanti a riva che paiono personaggi di Maupassant, uomini e donne affogavano. E lo facevano di proposito, per sfuggire al buio o forse alla guerra. Anche il Wannsee conserva giù nel fondo una scarpa. Magari una collanina. In angolo remoto del bosco, che lambisce il lago, tra gli alberi fitti e lunghi dove tu andresti in cerca di funghi, lì invece, sai, ci sono molti sassi. Sassi e pietre, che sembrano crescere pure loro come piante. Sono i sassi dei senza nome, così li chiamano, e il cimitero dei suicidi, come è detto, è in questo spicchio di terra umida e dolce. Una parola appena: Mutti; forse una data; tra l’edera che viene a ricoprire ogni cosa. Un coniglio di legno siede tra le eriche, in lontananza un picchio martella un tronco in cerca di vermi. Lo sapevi?»
Così gli chiese.
Poi ci fu un momento grande e vuoto, senza nulla dentro.

Anche nel Mitte, davanti alla casa in cui Clara abitava a Berlino, c’era un piccolo cimitero.
Lì lei ritornò.
Con le mani scavò una buca nella terra, vicino ad un albero che faceva ombra sulla lapide di una certa Frau Schmederlin. Nella buca piantò una primula e la terra le rimase conficcata sotto le unghie.
Poi si sedette su una panchina, lasciando penzolare le gambe, muovendo lentamente il piede, come una fragile ala; guardando a quella primula gialla.
Una signora, sul viale, portava l’acqua; lei e Clara si guardarono da lontano.
Sullo sfondo stava silente la gru gialla di uno dei tanti cantieri berlinesi.
Clara disse: «Sembra che io abbia preso il vizio di non stare mai ferma e faccio come le gru. Come se una parte di me volesse cedere da qualche parte, e una luce cercasse di accendersi, e mi fosse necessario rompere qualcosa, spaccarla dall’alto in basso, per poi ricostruirla. Mi pare di non arrivare mai al dunque e che il tempo si sia fatto di velluto.
Ma sono ancora qui».

 

 

Nora Cavaccini è nata a Roma nel 1979 e dal 2010 vive e lavora a Berlino.
Laureatasi in Letteratura latina con una tesi sul Satyricon di Petronio, ha concluso nel 2011 un dottorato di ricerca in Italianistica sotto la direzione di Romano Luperini, con una tesi sulle novelle di Giovanni Verga. Ha scritto il romanzo Le regole di Anacleto (Manni, 2008). Dal testo L’orologio è rotto (Caratteri Mobili, 2014), è tratto lo spettacolo teatrale Grillen im Kopf (per la regia di Elettra de Salvo) che ha debuttato alla Ballhaus Ost di Berlino nel dicembre 2014, con il patrocinio dell’Istituto italiano di Cultura.

Editing del racconto a cura di Gabriele Sabatini.