Copertina di Consenso di Saskia Vogel

La ricerca del confine tra il desiderio e la violenza

Consenso, il primo romanzo della scrittrice americana Saskia Vogel (Safarà, 2019), è prima di tutto un racconto di crescita, di un passaggio all’età adulta in una grande città dell’America contemporanea. Al centro c’è Echo, una giovane attrice già fallita, inquieta e vittimista, che trova nel lutto, e nelle situazioni che il vuoto la porta a vivere, la possibilità di maturare e prendere coscienza dei propri desideri: «La perdita, pensai, non doveva essere per forza un vuoto di lutto e dolore, poteva essere anche un luogo di incontro».

È la sua voce narrante che guida – o forse trascina – attraverso il romanzo: la conosciamo chiusa nel solipsismo e in un overthinking nevrotico, in cui tutto ciò che accade ha un riflesso in una sofferenza passata, e la ragione di ogni sua debolezza sta in una mancanza vera o presunta di amore familiare. La sua crescita emotiva sembra essersi interrotta, bloccata al primo amore di adolescente per un’amica con un padre troppo severo che impedisce alle due ragazze di frequentarsi, e dopo la quale Echo cerca consolazione nel sesso in sé per sé: «Poiché non potevo esplorare questi finali con lei, il mio desiderio si espandeva senza freni dove poteva. Rispondevo al desiderio di altri, e mi perdevo facilmente in quelli che rispondevano al desiderio che era in me. A volte mi sentivo abusata, ma era eccitante e, come scoprii, raro, essere una persona a cui piaceva sia dare che ricevere piacere, interessata all’erotismo come scambio».

La morte improvvisa e insensata del padre rompe gli argini del suo precario equilibrio mentale, lasciandola prostrata, con la sola compagnia della madre, una donna difficile «il cui rifiuto a essere felice era una forma di tirannia», in una Los Angeles in cui «è facile perdere la cognizione del tempo. […] Il sole e il cielo sono sedativi. Ventiquattro gradi e cieli limpidi pomeridiani, in spiaggia, giorno dopo giorno dopo giorno».

Solo l’incontro casuale con Orly, una bellissima dominatrice, e l’inizio di uno strano triangolo con lei e Lonnie, il suo coinquilino – e servo obbediente, chiamato “Mignolino” – le permette di allargare lo sguardo e confrontarsi con la vita di altri che, seppure in modi diversi dal suo, vivono ai margini della vita perfetta che pensano di dover vivere: che non riescono ad adattarsi al mondo di cartapesta di belle case per gente di successo da cui lei sfugge da sempre, che i suoi genitori hanno costruito per lei ma in cui loro stessi non hanno saputo vivere, e a una Los Angeles in cui tutti ruotano intorno al cinema ma sono sempre già falliti, in cui tutti somigliano a qualcuno di famoso ma il successo, se esiste, è sempre da un’altra parte.

È seguendo Orly e Mignolino che Echo scopre il mondo del sadomasochismo, che la Vogel tratta con delicatezza e cura, senza neanche rischiare di avvicinarsi ad alcun cliché. Ciò che Echo si trova davanti è l’infinita varietà dei desideri umani, che racconta con occhio benevolo e affettuoso, mai giudicante, e la sofferenza di non saper trovare le parole per ciò che si desidera davvero. Da Orly Echo scopre in sé una sicurezza atavica, femminile, che trae origine nel suo stesso corpo, nella battaglia per «il controllo del nostro stesso sangue, come e quando e perché sanguiniamo» e per sfuggire a «un ordine patriarcale che tradiva non solo le donne ma tutti».

E scopre – e scopriamo anche noi insieme a lei, e la scoperta è spiazzante ma anche capace di gettare una luce nuova su un territorio oscuro e coperto di scherno e ironia – che l’unico vero limite è quello del nostro consenso. Che la violenza, l’abuso vero non è quello che Orly infligge ai suoi clienti, di cui invece cerca di appagare i desideri profondi, quelli che neanche loro conoscono, quanto invece le esperienze di quotidiana volgarità a cui nessuno prepara ma che è difficile per le donne evitare: «Nessun uomo mi aveva mai messo un braccio attorno alle spalle al cinema, ma a ogni donna che conoscessi avevano tirato fuori un pene. Era mio padre a essere cresciuto in un’epoca differente, o voleva tenere lontano da me il mondo nella speranza che non venissi mai a scoprire quello che sapeva? Sperava […] che avrei trovato velocemente un amore puro e duraturo, e che sarei scivolata dalle sue cure a quelle di un altro, senza aver mai incontrato questi selvaggi?»

Ma se il racconto tenero e sofferente della vita di Lonnie-Mignolino e del suo percorso per raggiungere un equilibrio e quanto di più simile alla sua idea di felicità è come un controcanto della voce di Echo, a rimanere nascosta è proprio Orly, «una figura mutevole che incombeva, e noi due a leggere i suoi segnali, col solo desiderio di compiacerla ma sbagliando in ogni caso».

Echo se ne innamora ma non la vede per davvero, perché tutto la riporta sempre al proprio lutto, al padre caduto da una scogliera e scomparso in mare, e ancor più alla figura della madre, intorno a cui tutto ruota e con cui continua a scontrarsi, allo stesso tempo amandola e non amandola, analizzando ogni sua parola alla ricerca del coltello con cui sente di essere sempre pugnalata.

È qui il vero fulcro di Consenso, e il grande merito di Saskia Vogel: la capacità di raccontare senza filtri la sua protagonista, forse egocentrica ma profondamente umana, anche nei suoi lati meno amabili, immergendosi e portando il lettore all’interno dei suoi mutevoli stati mentali. Ciò su cui forse è un po’ più debole, la trama, e un certo sbilanciamento per cui il tema apparente del romanzo – la scena sadomasochista di Los Angeles – perde spazio e consistenza ed è trattato quasi frettolosamente, in favore di altri sentimenti che lottano per emergere, è compensato appieno dall’analisi esatta e sofferta di un processo di guarigione e crescita – dove crescere significa superare un narcisismo infantile per cui tutto è dovuto e iniziare a vedere e percepire gli altri per ciò che sono, e non solo come mezzi per ottenere riconoscimento.

Con la sua scrittura attraente e vorticosa, fatta di ricordi e impressioni – quasi corresse da un lato all’altro seguendo il ritmo della propria mente, arrampicandosi sui muri alla ricerca di un senso – Saskia Vogel è in grado di arrivare al fondo delle sensazioni fisiche e mentali, spezzandole in immagini che sono pura emozione. Consenso è un romanzo inquieto, che sfugge alle definizioni, e racconta le difficoltà della ricerca di sicurezza, appagamento e amore in un mondo che sembra aver perso ogni riferimento.

 

(Consenso, Saskia Vogel, Safarà Editore, 2019, trad. di Alice Intelisano, 224 pp., euro 18, articolo di Daria De Pascale)

 

Copertina di Peter Nádas

Ipotesi di una biblioteca ungherese

L’ungherese è una lingua agglutinante, del sottogruppo ugrico delle lingue ugro-finniche; lingua madre di circa tredici milioni e mezzo di persone fra Ungheria e paesi confinanti: si tratta della lingua non indoeuropea più parlata in Europa. È ricca, capace di esprimere anche le sfumature più sottili, con una produzione secolare di eccellente letteratura e poesia, sorprendentemente versatile e musicale. Possiamo parlare di letteratura ungherese già nel Duecento, e risale al 1367 la fondazione della prima università ungherese a Pécs.

La curiosa storia della fortuna della letteratura ungherese in Italia richiederebbe uno studio a parte, e poiché esistono scritti approfonditi di validi specialisti sul tema, desidero mettere in risalto solo un criterio determinante nella scelta degli editori italiani: la disponibilità del libro che si intende far tradurre in italiano in qualche lingua veicolare. In caso contrario l’editore, solitamente non in grado di leggere in ungherese e nemmeno coadiuvato da un esperto in lingua e letteratura ungherese in casa, si deve affidare completamente a chi il libro glielo ha suggerito, e al traduttore, figure che a volte coincidono. Una preziosa eccezione è rappresentata dalle Edizioni Anfora perché Mónika Szilágyi, la direttrice editoriale, è una italo-ungherese esperta di quella letteratura.

Negli altri casi una ulteriore limitazione è rappresentata anche dalla stessa lingua veicolare perché si tratta prevalentemente del tedesco, mentre le traduzioni in inglese, francese o spagnolo sono decisamente meno numerose. Questa e altre difficoltà di cui non parlo qui per non tediare il gentile lettore, fanno sì che nelle librerie italiane ci siano sempre pochi titoli ungheresi. Ed è un vero peccato, perché la narrativa, la saggistica e la poesia ungheresi si vantano di una vasta serie di opere che il lettore italiano saprebbe ben apprezzare. Questo scritto desidera presentare, senza pretesa di completezza e, al contrario, tralasciando sicuramente molti libri ugualmente se non addirittura più meritevoli, alcuni titoli che potrebbero o addirittura dovrebbero trovare posto sugli scaffali delle librerie italiane. Una scelta arbitraria, l’ipotesi di una piccola biblioteca di autori contemporanei. Non includo opere classiche per motivi di spazio, anche se ce ne sarebbero numerose belle e molto interessanti, mondi che troverebbero sicuramente una buona accoglienza.

Fortunatamente ci sono autori ungheresi contemporanei o del secondo Novecento già ampiamente tradotti in italiano, fra questi il premio Nobel Imre Kertész, Sándor Márai, Magda Szabó, Péter Esterházy, e qualcosa anche di László Krasznahorkai, molto apprezzato all’estero e insignito del Man Booker Prize. Péter Nádas, in odore di Nobel da anni, aveva avuto un breve periodo luminoso con ben cinque opere nelle librerie italiane, scomparse però per sfortunate vicende editoriali. Nádas aspetta di essere riscoperto, la sua straordinaria scrittura è un bene dell’umanità, e spero ardentemente che insieme a tante sue opere un giorno sarà disponibile anche in italiano il suo indiscusso capolavoro monumentale del 2005, Párhuzamos történetek (Storie parallele).

Altre autrici e altri autori vivi e fortunati in patria, tradotti anche in più lingue, hanno visto la luce con uno o due titoli in Italia, come per esempio Zsuzsa Rakovszky, Noémi Szécsi, Edina Szvoren, Miklós Vámos, László Darvasi, György Konrád, György Dragomán, György Spiró, Ádám Bodor, Róbert Hász, Imre Oravecz e Attila Bartis (i nomi sono rigorosamente in ordine sparso), ma altri loro titoli aspettano pazientemente la traduzione italiana. Esiste poi un nutrito gruppo di autori mai approdati in Italia, che con una opportuna promozione (che purtroppo manca spesso quando si tratta di libri ungheresi) potrebbe facilmente conquistare i lettori italiani.

Nessuno dei bei romanzi di Pál Závada ha trovato ancora la strada per l’Italia, eppure quest’autore piuttosto prolifico è una garanzia di temi impegnati, qualità letteraria e godibilità, e quindi di successo anche commerciale, in Ungheria. Il suo romanzo Hajó a ködben (Nave nella nebbia), che narra la storia in parte fedele in parte fittizia delle Industrie Manfréd Weisz, il più grande impero industriale ungherese prima della Seconda guerra mondiale, è uscito da poco, ed è già ai primi posti nelle classifiche, come d’altronde era accaduto anche con diversi suoi titoli precedenti. Un impero posseduto da una cinquantina di persone, per lo più ebrei convertiti al cattolicesimo, che nel 1944 fra accordi con gli occupanti nazisti tedeschi tentano di sopravvivere.

Copertina di La pallottola che uccide Puskin di Péterfy

Dopo Halál Budán (Morte a Buda), romanzo a forti tinte sulla storia di Michele d’Aste, il barone italiano morto durante l’assedio e la liberazione di Buda dai turchi nel 1686 all’età di trent’anni; dopo Kitömött barbár (Il barbaro impagliato), che vede protagonista Angelo Soliman, il primo Venerabile africano, Gergely Péterfy è di nuovo nelle classifiche magiare con il suo A golyó, ami megölte Puskint (La pallottola che uccise Puškin), la cronaca di un amore fuori dal comune. Anche Péterfy è un romanziere di grande talento, capace di creare un amalgama affascinante fra Storia e fantasia.

Ferenc Barnás non è particolarmente prolifico, passano anni fra una sua pubblicazione e l’altra. Il suo A kilencedik (Il nono), tradotto in inglese e tedesco, presta la voce a chi non ce l’ha, a chi vive in miseria. In questo caso in pieno socialismo, nel 1968. Un ritratto indimenticabile della povertà come condizione umana.

Prima di proseguire con la presentazione di altri titoli, vorrei fare un breve cenno alla ricchissima letteratura ungherese per l’infanzia. Una miniera inesauribile, che coltiva degnamente l’eredità dei Ragazzi di via Pál di Ferenc Molnár. Fra i tanti autori validi faccio solo due nomi, quelli di Judit Berg e di Dániel Varró, che da molti anni coltivano il genere con ottimi risultati, anche grazie alle illustrazioni, un campo in cui l’Ungheria è alla avanguardia.

Anche le novelle occupano uno spazio molto importante nella letteratura ungherese. Fra i tanti che coltivano questo genere una dei migliori è Krisztina Tóth, poetessa e autrice anche di libri per bambini. Da tempo fra i protagonisti dello scenario letterario nazionale, le sue raccolte sono sempre molto apprezzate dalla critica e dal pubblico. Quest’anno è uscito Fehér farkas (Lupo bianco), un volume di storie catartiche, istanti rubati alla quotidianità che riflettono sul presente politico e sociale.

Fin qui si è parlato di autori di prima fila con una ricca produzione e quotati anche al di fuori dei confini nazionali perché tradotti almeno in tedesco, qualcuno persino in più lingue. Tuttavia vale la pena dare un’occhiata anche all’esordiente Dénes Krusovszky, un caso letterario con il suo Akik már nem leszünk sosem (Quelli che non saremo mai più) con una trama che attraversa generazioni e confini. Un uomo muore in un incidente stradale ad Iowa City nel 1990. Dopo una lite un giovane riparte da Budapest per la sua città natale nel 2013. In una casa di cura nel 1986 un infermiere registra le confessioni di un malato. Nel 1956 una manifestazione a favore della rivoluzione in una città di provincia si trasforma all’improvviso in un pogrom. Nell’estate del 2013 una notte di nozze subisce una svolta inaspettata. Nel 2017 queste tessere compongono un mosaico inconsueto.

A proposito di esordienti: nel 2001 una piccola casa editrice specializzata in letteratura ebraica ungherese pubblica il primo romanzo di Álmatlanság (Insonnia) di Lea Polgár, in seguito tradotto in tedesco, che è una ricostruzione plastica, quasi cinematografica dell’assimilazione degli ebrei ungheresi fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento attraverso una storia d’amore, offrendo una panoramica di quella società che pochi decenni più tardi in gran parte fece una tragica fine. Quegli ebrei assimilati formavano quasi interamente la borghesia e l’intellighenzia ungherese.

Copertina di Ripityom di Vaijda

In conclusione desidero segnalare qualche titolo sparso: non sono bestseller e gli autori non sono fra i più acclamati, ma la loro lettura non solo arricchisce e intrattiene, ma avvicina anche molto alla comprensione dell’Ungheria e della Mitteleuropa in determinanti periodi storici. Il primo è Ripityom di Pierre Vajda, la biografia molto ben raccontata di uno dei più grandi attori teatrali e cinematografici magiari, Pál Jávor, il Clarke Gable nostrano, e il sottofondo è la società e la storia dal primo Novecento fino agli anni Cinquanta. Un tipico destino magiaro, con il titolo onomatopeico che simboleggia il ballo estenuante fino allo svenimento, e anche fare qualcosa o qualcuno a pezzi. Balatoni nyaraló (Casa di villeggiatura al Balaton) di Rudolf Ungváry narra invece le vicende intorno a una casa di villeggiatura di borghesi cattolici in collina sopra il lago dall’Ottocento in poi, con figure fittizie e altre realmente esistite. Una docufiction ben riuscita, pronta anche per essere portata sugli schermi.

Csengőfrász (Shock da campanello) di Dániel Cserhalmi inquadra gli anni del terrore comunista, i primi anni Cinquanta, quando il suono del campanello di casa allarmava tutti, perché poteva essere la polizia politica, con conseguenze anche tragiche.

Amerigo Tot di Péter Nemes narra la vita avventurosa e in gran parte trascorsa in Italia, dello scultore ungherese Amerigo Tot, partigiano della Brigata Garibaldi, amico di Guttuso, Moravia, Morricone, uomo al centro della vita artistica di Roma con atelier in via Margutta, e anche attore cinematografico.

Budapesti Barokk (Barocco di Budapest) di Mihály Dés, prematuramente scomparso un paio d’anni fa, è un vertiginoso carnevale dolceamaro nella capitale magiara di fine Novecento.

Infine segnalo un libro esile nato negli anni Ottanta, ristampato di recente e tradotto in più lingue, dalla penna di un grande traduttore, redattore e lessicografo morto di recente.  A boldogtalan sorsú Rudolf trónörökös (Rodolfo, l’erede al trono dal destino infelice) di István Bart narra i fatti di Mayerling senza edulcorare nulla e nessuno, meno che mai i due tragici amanti, in modo convincente nei contenuti e nello stile.

Altri titoli e altri autori potrebbero ancora menzionati ma forse il lettore si è già convinto che la letteratura ungherese merita attenzione. Perché questa conclusione era lo scopo di questo scritto al contempo corto e lungo.

Nick Cave scrive semplicemente un album strepitoso

Nick Cave ha scritto tanto, tantissimo, nella sua carriera. Non solo musica, ma anche racconti e romanzi. È uno dei più grossi cantautori di sempre. Ha dato tanto alla musica, la musica ha dato tanto a lui. La vita gli ha sicuramente tolto molto. La morte del padre, la tossicodipendenza, l’auto esilio in Brasile per redimersi (e la scrittura del suo capolavoro The Good Son), la morte del figlio.

Non è banale parlare della sovrapposizione tra vita e arte quando si parla del musicista australiano. Nel 2019, a sessantatre anni, scrive un album incredibile, Ghosteen.

La voce è stanca, affranta e proprio per questo potente. Molti brani sono parlati, sorretti da paesaggi sonori distesi, ampi e che il più delle volte appaiono paradossalmente luminosi, dato che dietro a tutto questo lavoro c’è il lutto del figlio, precipitato da una scogliera probabilmente sotto effetto di lsd. È un lavoro che vive di contrasti continui tra luci e ombre. Gli arrangiamenti sembrano quasi drone music (“Galleon Ship”, per esempio). I brani sono diluiti nel tempo, le canzoni sono non canzoni. Non ci sono ritornelli e quelli che ci sono anti-ritornelli.

È impressionante la suggestione liturgica che emerge da Ghosteen: dalla prima e splendida “Spinning Song” al lunghissimo trittico finale “Ghosteen”, “Fireflies” e “Hollywood” pare di trovarsi nel bel mezzo di una messa in una chiesa sospesa in aria dal cui pulpito svetta Cave con i suoi demoni. Riferimenti a Dio come sempre, alla letteratura e alla poesia, questioni focali nella sua produzione artistica.

Passo in avanti rispetto ai comunque ottimi ultimi due lavori, Push The Sky Away e Skeleton Tree, con Ghosteen Cave scrive tra i suoi migliori pezzi di sempre, legati alla perfezione grazie anche agli splendidi arrangiamenti di Warran Ellis e ai suoi  Bad Seeds – che, a dirla tutta, sono messi un po’ da parte per fare spazio a un’architettura sonora contemplativa. Quest’album merita tempo, merita dedizione, merita ascolti lunghi, prolungati. È un album iper-riflessivo, iper-complesso, da cui un po’ alla volta si può assimilare una suggestione nuova. È il classico grande album che per essere assimilato avrà bisogno di anni. Ghostseen – lasciando da parte i giudizi personali – ha il respiro dei grandi album.  È un’unica opera perfettamente coerente da un punto di vista musicale e testuale. Non ci sono praticamente chitarre e batteria. I climax arrivano con la voce di Cave e dalle voci gospel che crescono con la sua, quasi sigurossiane (“Bright Horses”, per esempio). La tensione emotiva raggiunge picchi altissimi senza esplodere mai.

È quasi seccante trovarsi di fronte a tutto il talento di Cave spigionato in Ghosteen: un artista che arriva al suo diciassettesimo album (senza contare le esperienze con i Boys Next Door e i The Birthday Partye che scrive uno dei due/tre album migliori di questo 2019. Cave è il simbolo dell’integrità artistica, di un essere umano che ha una propria concezione del mondo e che la propone e la fa evolvere senza accontentarsi mai del compromesso del mercato.

Nello scorrere del tempo, e quindi nella sua privazione, l’artista australiano non si adagia, ma osa. Che sia la vita a influenzare l’arte di Cave o viceversa, poco importa: Ghosteen è un album enorme e conferma, qualora ce ne fosse bisogno, Nick Cave autore fondamentale dei nostri tempi.

copertina di eccentrico di Canfora

Oltre il muro di incomprensione

Quando nasci diverso ma non lo sai, passi tutta la vita con la convinzione di essere sbagliato, di dover modificare te stesso e adeguarti alle persone che ti circondano, perché loro sono funzionali e tu no. Troppo spesso è questo il pensiero che periodicamente si affaccia nella mente di chi è Asperger ma non sa di esserlo, perché nato in un’epoca in cui non c’era alcuna conoscenza per la neurodiversità, se non nei casi più profondi e invalidanti. Tuttavia per molti in età adulta, attraverso percorsi diversi, arriva il momento della scoperta della sindrome e della riscoperta di se stessi.

È questa scoperta, a volte quasi salvifica, che Fabrizio Acanfora racconta nel suo saggio autobiografico, Eccentrico (effequ, 2019), in cui ripercorre le difficoltà del passato alla luce della nuova diagnosi e presentando ai lettori una chiave per la comprensione di un mondo diverso e spesso frainteso.

Il racconto delle vicende personali offre all’autore lo spunto per descrivere il percorso interiore che le caratteristiche tipiche dell’Asperger e la diagnosi successivamente hanno determinato lungo tutta la sua vita. Il senso di smarrimento e quella lotta infelice per cambiare se stessi, destinata a fallire perché non si può cambiare ciò che si è, con l’illusione di essersi lasciati alle spalle alcuni problemi che poi riemergono con forza maggiore nei momenti più difficili. E il muro di incomprensione con cui si scontra un Asperger quando incontra gli altri, a partire dalla famiglia, dall’infanzia, ma continuando anche a scuola, a lavoro, nelle relazioni.

Anche la scoperta dell’Asperger però non è una passeggiata. In un primo momento si attraversa uno stato di euforia, in cui finalmente si spiega tutto, tutte le stranezze e le difficoltà che gli altri sembrano ignorare ma che per un Asperger sembrano così insormontabili. Finalmente ci si sente simili a qualcuno, gli altri Asperger, un gruppo di persone che per quanto diverse hanno molto più in comune tra loro che con gli altri: non ci si sente più così soli e incompresi, perché c’è qualcuno che capisce e che sente allo stesso modo.

Tuttavia la diagnosi pone anche fine alla speranza di poter cambiare e superare prima o poi quelle difficoltà. Ed è un’inesorabile verità che spaventa e atterrisce, una consapevolezza che va affrontata e, in un certo senso, superata. E così si arriva a un punto di equilibrio, perché avere una diagnosi permette di capire: la conoscenza è l’unico strumento per migliorare, risolvere i problemi, ma non nel modo in cui si sono sempre affrontati, bensì secondo una nuova prospettiva.

Il percorso umano descritto così bene da Fabrizio Acanfora permette di aprirsi a una visione della sindrome di Asperger non più incentrata sui deficit, sulle carenze, ma sulla diversità che in alcuni contesti è invalidante, ma in altri è una ricchezza e un dono. È una porta di connessione tra due mondi, che permette a chi la sindrome non la vive di comprendere il mondo Asperger, per superare quelle incomprensioni di cui troppo spesso sono schiavi gli aspie.

 

(Fabrizio Acanfora, Eccentrico, effequ, 2019, pp. 256, euro 14, articolo di Laura Porceddu)
Copertina di Le furie di Janet Hobhouse

Un testamento col retrogusto del capolavoro

Philip Roth la visitava di notte. Da solo, da fantasma paffuto. Mi piace immaginarlo così, infagottato e solenne, che si accovaccia davanti alla lapide e avvolge intorno a quei minuti uno scialle di silenzi. Luminoso come un gioiello. La morte prematura della sua amica a amante Janet Hobhouse l’aveva tramortito e inaugurò per lui un’usurante ricerca dell’ultima casa, il posto ideale per seppellire lo scrittore che sarebbe sempre stato.

Si potrebbe cominciare da qui, ovvero dalla fine, nevicata per lei troppo presto, a poco più di quarant’anni nel 1991, quando probabilmente avrebbe ancora avuto moltitudini da raccontare. Ma l’autrice, nel suo romanzo pubblicato postumo, Le furie, già uscito per Rizzoli ed ora per Neri Pozza, con la stessa scintillante traduzione di Ada Arduini, sceglie un punto più lontano.

La Hobhouse rovista tra le sue radici e poi si ricapitola dipanando una storia che la precede e la ingloba come sequenza di un processo a catena chiamato Famiglia.
È, neanche a dirlo, una vicenda di donne. Maiuscole, ingombranti, voraci. Imperlate di fascino o di fragilità ancestrali; ciascuna è un anello di un collier che abbaglia facilmente ma che è ancor più bravo a strangolare. «Ciascuna di noi ha condotto una vita imperniata sull’esistenza di una madre buona e una cattiva, un fato dal viso di donna che esordiva con un sorriso e poi diventava carnivora. “Mamma”, “nonna” erano solo i termini intercambiabili con cui ognuna di noi identificava il suo angelo o la sua gorgone privata, e contro cui portava avanti la propria guerra per la sopravvivenza».

Anatomia di un album privato, quindi. Partendo da Mirabel, la capostipite, privata del miracolo della bellezza, ma con una forza centripeta in grado di compensarla egregiamente, si attraversano strati di astuzia, civetteria e coraggio fino a raggiungere Bett, mamma oggetto di idolatria, bellissima e bambina. Eternamente sorella, troppo giovane per sapere come fare.
Janet/Helen si incanta a guardarla, come il resto del mondo, mentre lei rimbalza da un lavoro all’altro, circuita dagli uomini e invidiata dalle donne. Bett è tutta lì, imbracata nei suoi rituali, sigillata dal rossetto, dall’aspersione quotidiana della colonia Blue Grass, è una creatura plasmata per sedurre, non per crescere.
Dovrà farlo sua figlia per lei, sperimentando il distacco in età adolescente.

Helen decide di sorvolare l’Atlantico, impacchetta la sua infanzia newyorkese e se ne va da suo padre che non ha mai conosciuto. È un inglese scostante, ricostruito saldamente con altra moglie ed altra prole. E quella ragazzina è poco più di un ospite insidioso, un insetto bizzarro che ronza troppo forte intorno alla sua inerzia.
Lei vorrebbe solo essere amata, gli chiede tutto, ovvero quasi niente, e si riprogramma per compiacerlo, per conquistare quella nuova tribù a cui sa di non poter appartenere.

Si incolla addosso un accento maldestro, ingrassa e si sforza di masticare il disagio, ma l’altra metà di se stessa è rimasta in America, a scalpitare con sua madre che si balocca allo specchio e scolpisce opere d’arte senza troppa convinzione. Anche lei forse si sente come le statue di sua madre, anche lei forse è fatta d’argilla, modellata da mani sottili e sempre insicure. E soprattutto, Helen sorveglia nel cuore un perenne dissidio, quel suo essere scissa tra due continenti, col malessere di ritenersi americana a Londra e inglese a New York.
Quel senso costante di dis-integrazione, che striscia nel petto e le dondola negli occhi. Helen studia, Helen matura. Helen s’innamora.

In questo romanzo/memoir, che ricorda per efficacia quelli di Janet Frame e Kiese Lymon, si dispiega con straordinaria potenza la sua parabola emotiva ed esistenziale, la tortuosa meraviglia di essere bimba adorante, adolescente rabbiosa, ragazza combattuta, donna e scrittrice complessa.

Janet Hobhouse riesce in modo lenticolare e impeccabile a dirci come funziona l’universo degli affetti. Inquadra, analizza, disseziona scampoli sempre più profondi delle relazioni umane, da quelle sanguigne a quelle acquisite. Fino a regalarci il nucleo: quel bulbo di tremori ed attrazioni che regola il sistema nervoso del nostro rapportarci. È sempre un profilo quello che si può restituire scrivendo, ma è una porzione di vissuto in cui è difficile non riconoscersi. Si rimane folgorati dal suo stile smascherante, radiografico. Le sue appaiono sentenze autoptiche di un medico legale, che decortica ed osserva la morfologia dei nostri tessuti. Quanto è grave il danno, quante regioni di pelle e di organi sono stati coinvolti, quali sono le cause dei nostri infiniti decessi. Leggerla è come mettersi al sole e di ogni conflitto, di ogni passione, intravedere la filigrana.
Il suo amore cambia nome varie volte, ma è Ned quello che sposa, con cui cerca di deglutire la crisi, a cui riserva il tradimento per tornare a respirare: «Ned non aveva speranze. Gli parlai come potei, cercai di scuoterlo, di distrarlo con l’allegria, la vicinanza. Ma dopo alcune settimane niente di ciò che potevo offrirgli sembrava sufficiente a incrinare la sua sicurezza nel proprio fallimento, e alla fine imparammo a conviverci».

La figura nodale della sua intima vicenda resta comunque sua madre. La distanza incoercibile e l’amore smisurato che prova a cucirla. L’irreparabile ferita della sua scomparsa, quel gesto totale e irreversibile che sfregia per sempre l’evoluzione di Helen, ne incide la carne e diventa una fitta. La depressione di Bett, il germe della follia serpeggia come una canzone recitata a bassa voce. Infine la sua assenza, dilagante, senza scampo, detta il tempo degli anni che restano. Il senso di colpa per non aver compreso, per averla congedata come un disturbo («ecco il tuo bacio del cazzo») che la porta a rosicchiare visioni lancinanti di una normalità impossibile: «provavo una gelosia violenta ogni volta che le vedevo: le madri e le figlie felici e litigiose nel nostro quartiere, […] corpi che si piegavano l’uno verso l’altro con aria cospiratrice o si allontanavano a causa di una lite, che facevano progetti, ridevano dei ragazzi, che facevano, mentre io guardavo e immaginavo, ciò che Bett aveva sempre desiderato fare con me, e che era così semplice».

Lo spettro di quel tormento si trasmette per osmosi da madre a figlia e Helen, quasi per nemesi, comincia a traballare. Un cancro alle ovaie è il graffio estremo dell’abbandono materno e l’autrice sa che sta per morire mentre permette a questo libro di nascere. Il firmamento femminile della sua dinastia si ferma a lei, ultima stella prima del buio.

Le furie, amorevoli e beffarde, metà Eumenidi e metà Erinni, sono lì a fissarci. Museo di mitologie viventi, ci ricordano la feroce vendicativa sincerità dell’esserci. Inchiodata a queste pagine fatali a cui si lasciano brandelli di cuore, ma da cui è irrinunciabile fuggire. Come a una trappola di rose, come a un segreto di pietra. 

(Le furie, Janet Hobhouse, Neri Pozza, 2019, pp. 400, euro 18, articolo di Cristiana Saporito)

 

Dal blog “Grafemi” a “L’invenzione degli animali”

Gli scritti di Paolo Zardi sono seminati ovunque e in varie forme: racconti su antologie, su riviste, romanzi, romanzi in ebook, articoli su blog, recensioni, fino ad arrivare ai testi per graphic novel e a reportage di viaggio; sembra che la sua scrittura riesca a prestarsi facilmente a molteplici incarnazioni. Andando a fare un’operazione archeologica sul suo blog, Grafemi, ho scovato molti spunti interessanti di cui abbiamo parlato insieme, approfondendo aspetti della sua scrittura, del suo rapporto con la letteratura e con la comunicazione digitale.

 

«Vista dall’alto la spiaggia assomigliava alla pianura padana, o a una vecchia carta geografica dove i diversi colori riempivano poligoni tracciati con il righello». Questo incipit ricorda l’occhio di un drone in alta quota che rileva le geometrie della spiaggia. Poco dopo viene tratteggiata una tipica scena da domenica balneare: il racconto va man mano focalizzandosi su dettagli, passando tra alcune «donne carbonizzate» che prendono il sole, una madre che allatta il neonato sotto l’ombrellone, l’odore delle creme solari, fino a mettere a fuoco i pensieri di una donna che sta riflettendo sui cambiamenti della sua vita. Non saprei trovare un solo filo conduttore che tenga assieme i ventisette racconti di La gente non esiste, ma mi sembra che ciò che ricorre spesso è questa attenzione a dettagliare con attenzione e delicatezza stati d’animo e riflessioni dei vari protagonisti, spesso anche attraverso piccoli particolari dell’ambiente circostante. Come nascono questi i tuoi personaggi? Come decidi cosa mostrare di loro e di questi dettagli che tanto caratterizzano la tua scrittura?

Nabokov, che è sicuramente tra i miei scrittori preferiti, una volta aveva detto: «Accarezza il dettaglio, il dettaglio divino». Paul Valéry diceva: «Chi vuole fare grandi cose deve pensare profondamente ai dettagli». Poi: «La verità della storia è nei dettagli», e questo è Paul Auster. Infine Sebald: «Piccoli dettagli che risultano impercettibili decidono tutto!»
Ma perché i dettagli? Philip Roth, in Perché scrivere?, dice che la psicologia, la sociologia, la politica, la storia si occupano di ciò che è universale – le grandi categorie umane, i flussi di popoli, le tragedie – mentre la letteratura osserva il particolare, ciò che è unico e specifico per un singolo essere umano. La storia racconta l’Olocausto e la morte di sei milioni di ebrei innocenti; Spielberg, invece, concentra la sua attenzione sui seicento esseri umani che furono salvati da Schindler, un essere umano pieno di difetti che sceglie una strada inaspettata – quello scarto che può cambiare la vita di una persona. Nel mio caso, il sottotitolo de La gente non esiste potrebbe essere Esiste soltanto il dettaglio.

 

In Botole troviamo due figli alle prese con una madre anziana che da un preciso angolo del suo giardino sostiene di poter viaggiare nel tempo. In questo caso il lettore si imbatte nell’irruzione di un elemento fantascientifico, in altri racconti, come per esempio Il ventunesimo secolo, in un’ambientazione che è post apocalittica. Cosa ti interessa di questi elementi imparentati alla “narrativa di genere” o ad altri generi letterari?

Per un lettore, la classificazione in generi dei libri è una comodità alla quale è difficile rinunciare. Io stesso, quando ero un lettore un po’ meno esperto, mi muovevo dentro ai confini delimitati da questa specie di etichetta che si appone ai romanzi: i thriller, la fantascienza, i noir, i gialli e i rosa. Il grande maestro del cinema Stanley Kubrick, però, ha mostrato, nel suo campo, come l’appartenenza a un genere (Shining è un horror, 2001: Odissea nello spazio è un film di fantascienza, Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket sono film di guerra e Barry Lyndon un film in costume) non sia incompatibile con un’aspirazione artistica più ampia. Nel caso specifico di questi racconti, uso la fantascienza per rilassare alcuni dei vincoli che il realismo a tutti i costi impone, per affrontare temi che nel mondo in cui viviamo sono confusi tra mille altre cose. La fantascienza, o la distopia, come oggi viene più comunemente chiamata, assomiglia a un prisma ottico che riceve, su un lato, la luce bianca, che è l’insieme di tutto quello in cui siamo immersi ogni giorno, e la scinde nelle sue componenti fondamentali, proiettandole su uno schermo un pochino più lontano. Il risultato è che, spostando più avanti le lancette dell’orologio, possiamo isolare, per così dire, una componente del nostro tempo, una tendenza appena accennata, e portarla alle sue estreme conseguenze; con la fantascienza, ad esempio, possiamo inventare un mondo nel quale si sono affermati i populismi che agitano questo 2019 e capire come sarebbe la vita in quelle condizioni.
Ma la fantascienza non è l’unico genere che mi interessa: il romanzo Tutto male finché dura esplora il mondo della commedia, con le sue coincidenze e le sue situazioni geometricamente organizzate, mentre ne L’invenzione degli animali ho usato tutto quello che sapevo del thriller, un genere che ho frequentato, da lettore, tra il 1995 e il 1997, mescolandolo, ancora una volta, con la fantascienza. Mi tentano il rosa, il romanzo storico, il soprannaturale mescolato all’horror. Un po’ alla volta vorrei arrivare a provarli tutti.

 

Ne Il figlio della signora Bastiani il protagonista riceve una mail intitolata Cerco il mio amore. Pur essendo consapevole che dietro questo tipo di corrispondenza si sarebbe certamente nascosta una truffa, risponde e intraprende uno scambio che lo porta a un vero e proprio stato di innamoramento. Le pagine proseguono descrivendo l’atmosfera di questa intimità digitale che si crea tra una mail e l’altra. Intendevi dare un certo peso alla dimensione della corrispondenza digitale quando hai scritto il racconto? O questi elementi tipici del nostro tempo entrano spontaneamente nelle tue storie?

La storia è vagamente autobiografica, nel senso che queste lettere arrivano più o meno a tutti e finiscono regolarmente nello spam. In un caso, però, avevo voluto rispondere per capire come potesse proseguire una conversazione di quel tipo, basata sostanzialmente su un tentativo di truffare un allocco; e mi ero sorpreso nel ricevere indietro una risposta che aveva un senso – che rispondeva, puntualmente, a quello che avevo scritto io: non quindi un bot, ma una persona in carne e ossa che tentava, con i mezzi che aveva a disposizione, di far nascere un sentimento vero, per poi poter raggiungere il suo scopo. Quindi, come succede per tutti i racconti, mi sono chiesto come sarebbe stato se avessi proseguito, e avessi ceduto alla forza suadente della voce di una persona che dice di volerti bene. In Her, il film di Spike Jonze, il personaggio principale, Theodore Twombly, si innamora del pensiero prodotto da un software che gira sul suo telefono, e la cosa curiosa è che noi, da spettatori, non riusciamo a meravigliarci più di tanto, per questo; quando Theodore parla di questa relazione con la ex moglie, e questa si mostra indignata, ci schieriamo, in modo del tutto spontaneo, dalla parte di lui.
Il punto è che la corrispondenza digitale, i social, i tweet, i messaggi privati, sono letti e prodotti da esseri umani il cui substrato biologico è lo stesso dell’homo sapiens che vagata tra le foreste dell’Europa in cerca di mammuth da cacciare, e che comunicava con i suoi compagni di caccia con gesti e grugniti. Siamo naturalmente portati a credere alle parole, tanto che quando leggiamo un buon libro, o guardiamo un film, arriviamo a commuoverci per la sorte di persone che non esistono, o a innamorarci di loro. Per arrivare a un rapporto razionale con la comunicazione digitale serviranno ancora una o due generazioni.

 

Il tuo blog, Grafemi, è un ricettacolo di racconti, articoli, recensioni, osservazioni, reportage, rubriche e più semplicemente ricordi. Cosa ti ha spinto ad aprirlo e come immaginavi dovesse declinarsi quello spazio in rapporto alla tua scrittura? Rispetto alla pratica della scrittura dei racconti e dei romanzi, cosa cambia nel blog?

Il blog, questo contenitore di riflessioni, racconti e spunti, è ciò che mi ha portato verso la scrittura: il 5 gennaio del 2006, per motivi che non sapevo, avevo aperto un blog (che allora sapevo a mala pena cosa fosse) su una piattaforma che nel giro di qualche anno ha miseramente chiuso. Fino ad allora avevo scritto pochissimo (e avevo già 35 anni): qualche racconto, e molte mail di lavoro. Il blog ha cambiato tutto, perché per la prima volta mi sono trovato ad avere la possibilità di condividere quello che scrivevo: per quanto piccolo fosse quel pubblico (che tra l’altro scriveva a sua volta: altri blogger di quella piattaforma sono arrivate poi alla pubblicazione su carta), c’era comunque un’interazione. Nei corsi di scrittura che tengo da qualche anno il principio è più o meno lo stesso: fornire stimoli per uscire dalla propria cameretta dove si scrive per se stessi, alzare la testa e parlare al mondo.
Grafemi è stato aperto due anni dopo, con l’intenzione di riservarlo ai miei interessi letterari. Con il tempo è diventato il mio giardino dietro casa, lo spazio per gli esperimenti, quello per ospitare autori che mi piacciono o per dire la mia sugli argomenti che più mi stanno a cuore.

 

I tempi narrativi del racconto sono diversi da quelli del romanzo, come quelli dei testi ideati per essere online rispetto a quelli destinati al cartaceo. Può essere che questa tua dimestichezza con questa forma letteraria vada a servizio degli spazi della rete?

Ogni racconto che scrivo esce anche su Grafemi. La rete è il luogo ideale per pubblicare un singolo racconto, anche se spesso finisce per confondersi con mille altre proposte. Però non ho mai scritto pensando alla fruibilità di un testo in rete: credo, cioè, che la lunghezza dei racconti sia funzionale alla rete, ma in modo del tutto casuale.

 

Parliamo invece di Luoghi virtuali, una sorta di rubrica del blog nella quale svolgi un lavoro da detective; la tua curiosità ti ha portato a navigare nei recessi dell’internet, girovagando su Google Maps alla ricerca di posti che hai visto in video. Troviamo i luoghi del marciapiede della celebre Bitter Sweet Symphony dei Verve, il palazzo in cui è stato inciso il celebre singolo di David Bowie Heroes, il piccolo paesino inglese in cui è nato Thom Yorke. Cosa ti interessa di questa storta di reportage e degli spazi che vai cercando?

Fin da bambino, sognavo, prima o poi, di diventare un detective alla Sherlock Holmes: risalire, da pochi indizi, al colpevole. La strada che ho seguito mi ha spinto in altre direzioni, ma sotto è rimasta quella voglia di ricavare una storia da poche tracce; e approfittando dell’enorme quantità di dati presenti in rete, mi diverto a pormi dei problemi da investigatore, per vedere se riesco a risolverli. È un gioco che mi dà soddisfazioni fanciullesche, perché mette insieme diverse mie passioni: quella per le mappe, quella per l’incrocio di informazioni, quella per le persone che vivono in quegli spazi. Un giorno mi sono imbattuto per caso nel blog di un informatico, un certo Matthew M. Osborn, e con le informazioni che aveva lui stesso condiviso ho ricostruito parte della sua vita, proprio nel momento in cui passava dallo stato di single a quello di uomo super innamorato di una certa Holly (ora sono andato a sbirciare il suo sito per capire come sono andate le cose: vedo che è sposato proprio con Holly, e che hanno due figli, e che le parole che più di ogni altra lo definiscono sono father e husband: mi pare che le cose siano andate come lui si augurava). So che questo è un lato un po’ folle del mio carattere, ma sospetto che sia una delle tante conseguenze di essere scrittore e ingegnere.

 

I tuoi scritti sono seminati ovunque e in varie forme: racconti su antologie, su riviste, romanzi, romanzi in ebook, articoli su blog, recensioni, fino ad arrivare ai testi per graphic novel e a reportage di viaggio; sembra che la tua scrittura riesca a prestarsi facilmente a queste molteplici incarnazioni. Trovi che ci siano differenze sostanziali nelle modalità di lavoro nello spostarsi in queste situazioni diverse? Ce ne sono alcune che ti hanno particolarmente entusiasmato?

Sono convinto che la scrittura sia una e indivisibile, e che il suo ambito di applicazione, la lunghezza di ciò che si produce, il genere o l’ambientazione o lo scopo finale siano elementi accidentali, contingenti – o, vista in altro modo, la maniera con la quale una narrazione si fa, in questo caso, carta.
È però indubbio che ogni contesto ha le sue regole, e che le competenze che servono, ad esempio, per scrivere una recensione non siano le stesse necessarie per portare a termine un romanzo. Il motivo per cui accetto così spesso di impegnarmi in progetti che fino ad allora non avevo mai sfiorato è che credo che le sfide abbiamo sempre qualcosa da insegnare; e anzi, uno dei criteri che uso per valutare una proposta è proprio il grado di novità. E una volta che ho detto sì, mi sforzo di capire cosa caratterizza quel particolare tipo di progetto; cerco dei punti di riferimento che mi aiutino a trovare il giusto modo per arrivare fino in fondo. Al momento, l’avventura che più mi ha impegnato, e che se tornassi indietro farei in modo diverso, è quella della graphic novel, dove non ho saputo tenere in giusto conto i vincoli che una storia “disegnata” impone: sono fiero del risultato finale, ma ora so che potrei fare molto meglio.

 

In Neolingua uno dei personaggi ad un certo punto afferma che «la neolingua che il potere economico sta imponendo è Facebook». Secondo te, c’è qualcosa che è mutato a livello di linguaggio con l’arrivo dei social network? E nello specifico del tuo rapporto con la scrittura? È cambiato nel corso degli anni il tuo rapporto con la rete?

Il mio rapporto con la rete è in costante evoluzione, e oscilla tra un rifiuto ideologico e una precisa consapevolezza che questo sia il mondo di oggi, e che la sua negazione significherebbe, di fatto, l’isolamento. In che modo incide sulla scrittura? C’è un bel saggio uscito da poco per effequ che si intitola Scansatevi dalla luce. Il concetto principale di questo libro è che i social lottano tra di loro per accaparrarsi il bene più prezioso, e cioè l’attenzione della gente; per questo motivo studiano e poi implementano sistemi sempre più efficaci per tenerci incollati davanti allo schermo – non c’è un intento malvagio dietro questo: semplicemente, il loro business è vendere il nostro tempo, e una nostra propensione al consumo opportunamente incentivata, agli inserzionisti. La mia scrittura, dunque, deve difendersi dalle distrazioni rappresentate dai social, dalle sue sirene, dai suoi richiami. La gratificazione dei like, o la semplice interazione con altre persone, spesso sconosciute, lavorano su parti della nostra psiche molto vulnerabili. Io cerco di adottare alcune strategie che talvolta sono patetiche, come spegnere il cellulare e mettere il computer in modalità aereo nella speranza di riuscire a scrivere per almeno un’ora senza distrazioni.
Allo stesso tempo, però, proprio questo mondo social finisce per rappresentare una fonte quasi inesauribile di ispirazione. Ciò che conta è rimanere scrittori anche quando si finisce dentro a Facebook: il che significa osservare le cose con ironia e un certo distacco, come farebbe un mirmecologo osservando la sezione di un formicaio, senza dimenticare mai che pure io sono una di quelle formiche.

 

Ultima domanda: è uscito da poco il tuo nuovo libro nella collana Altrove di Chiarelettere, collana relativamente giovane curata da Michele Vaccari che si occupa di raccogliere visioni dal futuro. Ci puoi dire di cosa parla L’invenzione degli animali?

È un romanzo fantascientifico, o, come direbbero gli americani più propriamente, di sci-fi, cioè di fiction scientifica. Un gruppetto di ragazzi molto brillanti e appena laureati viene assunto dalla più grande azienda del mondo per creare il futuro; ma alcuni eventi imprevisti costringeranno Lucia Franti, che è il personaggio principale, a rivedere alcune sue convinzioni, e a spingerla a intraprendere una battaglia solitaria e disperata. Come vedi, quindi, ancora fantascienza e ancora distopia, infilate dentro a un thriller abbastanza serrato. È un libro che desideravo scrivere da tempo, e dove tento di tenere insieme il mio amore per le storie e la mia passione per la scienza.

Copertina del New Yorker con Laughing Man di Salinger

See more glass: L’Uomo Ghignante

Cade nel 2019 il centenario della nascita di Jerome David Salinger e, dopo decenni di speculazioni sull’esistenza di manoscritti segreti, si registra l’annuncio ufficiale della futura pubblicazione di opere inedite (le date non sono state ancora annunciate). La pacatezza con cui il figlio dell’autore parla dell’operazione fa ben sperare circa la sua genuinità: da queste parti si auspica che sarà l’occasione per guardare con più cura alla produzione breve dell’autore newyorkese, troppo spesso oscurata – con eccezioni, certo, tra cui almeno due meravigliosi racconti – dal successo mondiale e ingombrante del romanzo d’esordio Il giovane Holden (ormai proverbiali le 250.000 copie vendute ogni anno).

Un romanzo, nove racconti e quattro novelle raccolti in quattro libri usciti tra il 1951 e il 1963: è tutto ciò che Salinger scelse di affidare a un editore, opponendosi tanto ai tentativi di riesumare i racconti apparsi su riviste prima dell’esordio, quanto alle proposte degli interessati alla stampa della sua ultima novella, che occupa quasi interamente il numero del 19 giugno 1965 del New Yorker. Per quarantacinque anni, fino alla morte avvenuta nel gennaio del 2010, Salinger non pubblicò più nulla, scegliendo una vita da recluso sulla quale prosperano tutt’ora testimonianze, leggende e pettegolezzi di fan e biografi.

Negli articoli per Flanerí dei prossimi mesi proporrò un avvicinamento ai suoi racconti e alle novelle, soffermandomi su alcuni dei temi più cari all’autore: il valore e la potenza del narrare, l’autenticità artistica, il rapporto tra fratelli. Lo farò con tutta l’umiltà possibile, ricorrendo alla biografia solo dove strettamente necessario, d’accordo con Salinger quando giudicava il sé stesso-personaggio pubblico un ingombro tra l’opera e il lettore.
Mi auguro che questi miei articoli servano da invito a nuove letture, a riletture e a un avvicinamento a quanto di nuovo emergerà nei prossimi anni dagli archivi del Salinger Literary Trust.
Un’avvertenza: è probabile che ci siano spoiler, se questa parola ha un significato quando si parla di Salinger.

 

Scuolabus di L'uomo ghignante di Salinger

Prima puntata
L’Uomo Ghignante

Le opere successive a Il giovane Holden hanno un nucleo ben preciso: tutte le novelle e tre su nove dei racconti di Salinger seguono le vicende della famiglia Glass, e hanno come centro gravitazionale il maggiore dei sette fratelli: Seymour, che entra ed esce di scena nel giro di un racconto-capolavoro (Un giorno ideale per i pescibanana), non si manifesta nemmeno nella storia dedicata al giorno del suo matrimonio (Alzate l’architrave, carpentieri), incombe con la sua assenza su Franny, Zooey e su Seymour. Introduzione e ricompare poi, settenne, in Hapworth 16, 1924 (e sembra quasi uno scherzo).

Tra i sei racconti che esulano dai Glass (fa parte di questo gruppo il meraviglioso Per Esmé, con amore e squallore), ce n’è uno che spicca come la confidenza preziosa di un eccezionale evento privato: L’Uomo Ghignante, una storia ambiziosa e calibrata in ogni dettaglio.

La vicenda si sviluppa entro coordinate temporali e spaziali immediatamente autobiografiche: il protagonista, che si dichiara novenne nel 1928 (Salinger è nato nel 1919), racconta in prima persona come quell’anno, a cadenza settimanale, un gruppetto di bambini newyorkesi venisse raccolto su un autobus e accompagnato a giocare a baseball da un certo John Gedsudski, detto il Capo, che con una singolare capacità affabulatoria li intratteneva per mesi narrando a puntate le vicende dell’Uomo Ghignante.

La storia dell’Uomo Ghignante, riassunta dal protagonista, è ricca di colpi di scena da feuilleton, improbabilissima, decisamente antieroica, a tratti tragica, a tratti esilarante. L’Uomo Ghignante e le sue gesta diventano presto il centro dell’ingenua mitopoiesi dei bambini (detti i Comanche), il perno di un senso di appartenenza in cui convivono elezione individuale e spirito di corpo («mi consideravo non solo l’unico discendente diretto dell’Uomo Ghignante ma il suo unico erede legittimo vivente», «c’erano, nel Club, venticinque Comanche, tutti e venticinque legittimi eredi viventi dell’Uomo Ghignante»). Aiutato da «uno svelto cane lupo di nome Ala Nera, un simpatico nano di nome Omba, un gigantesco mongolo di nome Hong, […] e una incantevole fanciulla eurasiatica», col volto sfigurato protetto da una garza di petali di papavero, l’Uomo Ghignante è la trasposizione epica del Capo, con cui condivide alcuni tratti decisivi: l’aspetto sgradevole, la leadership, la destrezza, le umili origini, la confidenza di esseri “altri”. Salinger orchestra continui rimandi, a volte afferrabili, a volte più oscuri (e proprio per questo più potenti) tra le uscite del Capo e dei suoi Comanche e le sfide dell’Uomo Ghignante ai suoi nemici, e l’effetto sui bambini che ascoltano la storia e allo stesso tempo vivono la routine delle partite è di solida rassicurazione: anche gli individui più improbabili possono essere eroi, gli eroi vincono sempre, e le loro gesta non hanno fine.

Ma un giorno le norme non scritte della fratellanza Comanche sono infrante dall’irruzione sull’autobus di Mary Hudson, la ragazza del Capo. Inizialmente restii ad accettarla, i bambini infine ne scoprono le improbabili e inaspettate doti atletiche e ricompongono la frattura all’interno dei confini imposti dal gioco (il baseball). Ma la crisi si ripresenta in una forma inconciliabile: il rapporto tra il Capo e Mary si incrina, i due si lasciano. Quel giorno, sulla strada del ritorno, il Capo racconta ai Comanche l’ennesimo, ultimo episodio nella saga dell’Uomo Ghignante. Accade nel racconto ciò che nessuno dei Comanche aveva mai lontanamente creduto possibile. Nell’autobus ammutolito un bambino piange, il protagonista trema. Non c’è nulla da fare, non ci sarà un seguito. La realtà ha fatto irruzione nell’improbabile vicenda dell’Uomo Ghignante, ponendovi fine.

A questo punto per l’Uomo Ghignante e i suoi amici, e una serie di domande insopprimibili: se Mary Hudson non fosse entrata nella vita del Capo, come sarebbe proseguita la fabula? Era possibile, era giusto, era plausibile che Mary si trattenesse ai margini? La fine delle vicende dell’Uomo Ghignante coincide con la fine dell’infanzia?

Nelle ultime righe il narratore, sceso dall’autobus, vede un pezzo di carta velina rossa che richiama la garza d’oppio con cui l’Uomo Ghignante usava schermirsi, e che fa emergere, in chiusura, un punto di vista inatteso e cruciale: il racconto non parla solo della violenza distruttiva della realtà sul mondo ancora tutto intero dell’infanzia e sui suoi fragili riti.

Il pezzo di carta velina rossa è la maschera dell’Uomo Ghignante, che emerge dalla mondo fantastico del Capo e che irrompe, incontenibile, nella vita del protagonista, alterandola per sempre («i denti mi battevano incontrollabilmente»). Il foglio trascina nella realtà la potenza propria delle storie che ci sconvolgono, da cui non si può tornare indietro, che ci fanno vedere il mondo diversamente. L’Uomo Ghignante è un omaggio alla forza eversiva del narrare, e parla a tutti perché chiunque si faccia rapire da una storia – udita, letta, osservata – sale sull’autobus del Capo e prova le stesse emozioni dei Comanche.

Salinger costruisce il racconto secondo un’architettura complessa ed elegantissima di rapporti tra il dentro e il fuori, il maschile e il femminile, realtà e finzione, infanzia e maturità, bello e brutto. Eppure, come capita sempre leggendo le storie dell’autore newyorkese, si ha la sensazione che qualcosa di fondamentale ci sfugga, o meglio: che nessuna analisi testuale riuscirà mai a svelare interamente il senso profondo del racconto, che il lettore sia chiamato ad affrontarlo tramite una facoltà o una pratica diversa.
Chiudo il libro, proprio come Franny posa la cornetta alla fine della novella Zooey. Fino a quando, dal profondo del suo mistero, l’Uomo Ghignante mi chiamerà a farsi leggere ancora, ridendo del mio ennesimo tentativo di razionalizzare la sua storia.
Ma ora sta a voi, Comanche.

(“L’uomo Ghignante”, in Nove racconti, J.D. Salinger, Einaudi, 1962, pp. 234, euro 12, articolo di Davide Coltri)

 

Why, Liam Gallagher?

Gli Oasis, gli anni Novanta. Liam Gallagher e suo fratello Noel sono stati un punto di riferimento assoluto nella musica popolare di fine Novecento. La sfida con i Blur e tutto l’immaginario che si portano appresso. È retorico quanto importante ripeterlo, per cercare di capire cosa abbiamo di fronte quando ci apprestiamo ad ascoltare Why Me? Why Not., il secondo lavoro solista di una delle icone pop/rock di una decade di transizione musicale. Da qualsiasi punto la si voglia vedere, da adulatori o da detrattori, è chiaro che la band inglese abbia fatto un solco indelebile in quegli anni, andando necessariamente ad influenzare parte della musica che si è sviluppata negli anni Duemila. Gli Oasis sono stati un fenomeno di massa difficilmente replicabile.

Dopo lo scioglimento della band, gli infiniti problemi con il fratello Noel, Liam si è messo in testa di poter ricreare la stessa magia degli Oasis con un’altra band, i Beady Eye. È nell’indole del più giovane dei Gallagher quella di immaginarsi semplicemente come il migliore. Rientra nel suo personaggio. Ma se già gli ultimi anni con gli Oasis venivano a galla diversi problemi a livello di produzione artistica, questo suo esperimento non è andato sicuramente a buon fine: due album talmente telefonati, Different Gear, Still Speeding e BE, da risultare patetici.

In sottofondo continue dichiarazioni più o meno orribili nei confronti del fratello e l’esperienza con i Beady Eye che finisce. Passano tre anni e Liam esce con un nuovo album, questa volta da solista: As You Were. Un lavoro che continua sulla falsa riga della sua seconda band: l’opera di un quarantacinquenne che prova a fare il giovane e che riesce a sembrare semplicemente più vecchio. È risaputo che quello bravo degli Oasis a livello di scrittura non fosse lui, ma Noel (nonostante non stia brillando neanche la sua carriera da solista, fatta eccezione forse per Chasing Yesterday): qui emerge tutta la sua difficoltà nel tirare fuori qualcosa di decente e che alla fine non fa che somigliare a una squallida parodia degli Oasis.

Con Why Me? Why Not. ci troviamo su per giù nella stessa zona grigia. Sì, ci sono gli Oasis, chiaramente, ma sempre nella loro forma incompleta. L’immagine c’è, ma manca qualcosa sotto: le fondamenta. Manca quello che insieme al fratello veniva automatico. La magia degli Oasis, per l’appunto. Niente che possa balzare agli occhi, nulla che possa far credere a una nuova epoca per Our Kid, un guizzo, qualche novità. Tutto orecchiabile, sì, ma tremendamente piatto. Cori da stadio, chitarroni, classiche beatlesate e poco altro, una miscela che non può che portare al nulla.

Non c’era probabilmente bisogno di un secondo disco di Liam per capirlo, ma i due fratelli Gallagher hanno bisogno l’uno per l’altro per esprimersi al meglio. Why Me? Why Not. è talmente innocuo da fare tenerezza.

copertina di fuori per sempre di doris femminis

Gli effetti collaterali delle alpi

Di montagna si può impazzire. E non nel senso di adorazione maniacale da macchie di muschi o guglie di roccia. Nel senso di smantellamento della ragione. Secondo uno studio attuato dagli psichiatri dell’Università Medica di Innsbruck e dalla medicina di emergenza della Eurac Research Bolzano esiste la probabilità tangibile che possano insorgere delle problematiche psichiatriche legate all’alta quota. I pensieri rarefatti, l’aria sfuggente ed ecco che il danno è a portata d’azione.

A ciascuno il suo guasto. Luca D’Andrea negli ultimi anni ci ha ragguagliato sui “rischi d’altura” con i suoi due romanzi La sostanza del male e Il respiro del sangue per non scomodare anche Lovecraft con il suo pioneristico Le montagne della follia.

Questo ovviamente è un altro caso. Non siamo in Antartide né in Alto Adige. Ma nemmeno così distanti. A incorniciare Fuori per sempre di Doris Femminis (marcos y marcos, 2019) sono le Alpi Svizzere. La protagonista è Giulia, ragazza impastata nei propri tremori che, dopo una sera imbizzarrita a base di guida e pastiglie, si ritrova ricoverata in un ospedale psichiatrico. E la notizia non la rallegra affatto. Sbraita, scalcia, sperimenta la fuga, recalcitra davanti a ogni sorta d’aiuto. I dottori sono nemici, le impediscono il viaggio che le scalpita dentro. Una di loro, Elena Sortelli, le si avvicina, ma riceve solo spigoli per ricompensa.

D’altronde da Giulia non ci si può aspettare molto di più. Sua madre Carmela ha sfornato troppi figli dei monti e ha lasciato che crescessero da soli, perché lei era impegnata ad assentarsi da loro. Senza uscire di casa. In una stanza in cui spesso era meglio non entrare, dove far galleggiare tutte le ombre. «Gli occhi matti ballavano qua e là in un’agitazione che sembrava soltanto cercare come calmarsi e non si posava su nessuno, a tratti sembrava che inseguisse una musica lontana». I fratelli «conoscevano il lavoro del sasso e della calce, specialisti in muri a secco, tetti in piode e restauri che accostavano vecchie storterie, muri ondulanti, porte asimmetriche, travi ritorte e assi tarlate a nuove forme lisce, pure e metalliche».

Ma Giulia non ha la pelle d’intonaco o le parole di malta e quei fratelli sembrano sordi alla sua voce. Poi arriva l’ultima figlia, Annalisa, sbucata da un amore imprevisto. Carmela che s’innamora quando non deve, di chi non si può, qualcuno molto diverso dal suo Franco molle e paziente. E la bimba è un frutto troppo dolce anche se caduto dall’albero sbagliato. Annalisa sa riscuotere da ognuno la parte migliore, sa estrarre nettare da braccia e intenzioni.

Poi accade qualcosa. Di tragico, d’irreparabile. Annalisa diventa un grumo da sciogliere, una porzione segreta. Chi è davvero? Cosa comporta la sua fine? Quella lesione s’incastra nella carne, s’incista lì, nella cerniera tra i giorni e le notti e traccia un ingresso di spine dove l’accesso è sempre negato.

Giulia è piena di parenti, ma senza una vera famiglia e dopo le resistenze d’esordio l’ospedale di Mendrisio diventa un universo confortevole di cui non vuole sbarazzarsi. È troppo debole per ricominciare da sola e da quell’uscio appena aperto s’infila una corrente incustodita.

E in quell’uscio appena aperto irrompe Alex, anima randagia che non si lascia imbavagliare, scaglia meteoritica che disegna per Giulia tutta un’altra traiettoria. Personaggio scomodo il suo, urlante perché bastonato. Troppo rischioso per non assecondarlo.

Doris Femmins, ospite al Festival della Letteratura di Mantova, tratteggia un personaggio screziato e complesso, scolpito dal male di vivere, forse a qualsiasi altezza sul livello del mare, ma il cui disagio si scava un’eco tra quelle montagne, in quei paesi compressi di nubi con porte troppo avare per i propri fermenti.

L’autrice conosce bene i luoghi che inquadra. Li cesella a dovere perché è lì che si è formata, come donna e scrittrice, con quello stesso vento che sembra un rimprovero, con la luce severa imbronciata di neve. Ha lavorato come infermiera in quello stesso ospedale del Canton Ticino, ha studiato psichiatria e sa perfettamente che la mente di freddo e solitudine non si può nutrire a lungo.

La struttura narrativa è semplice e immediata. E le sue pagine hanno pesi differenti. Quelle dedicate alla dottoressa Sortelli e al suo matrimonio che si allenta e si assottiglia fino a perdere il battito, sono precise ma poco accattivanti, mentre la parte migliore è quella riservata al diario di Annalisa, alla mappatura delle sue lacerazioni, dispensate con l’approccio poetico più efficace di tutto il romanzo.

«Resto sveglia al caldo. Strusciano cose, versi di animali, soffi. Esco all’alba, devo muovermi, cammino, cammino, viene il sole, tutto è luminoso, colorato e limpido. Cammino tutto il giorno, un passo dopo l’altro, una battaglia, non mi fermo, non mi arrendo».

I mattini ricoprono il buio, come vernice chiara, ma qualcosa resta ghiacciato. Qualcosa della protagonista, come qualcosa di ognuno di noi, resta stregato da un inverno perenne. Resta Fuori per sempre.

 (Doris Femminis, Fuori per sempre, marcos y marcos, 2019, pp. 352, euro 18, articolo di Cristiana Saporito)
Copertina di Materia di La Forgia

La malinconia di abbandonarsi alla distruzione

Materia. La fuga degli elementi, il primo romanzo di Jacopo La Forgia (Effequ, 2019), è un libro sfuggente. Rientra forse nel genere un po’ sfumato del romanzo di racconti, in cui attraverso scene e vicende in apparenza separate si crea per accumulo un’unica storia che si dipana, in questo caso, in un tempo e in uno spazio molto vasti, definiti solo in parte.

La Forgia descrive un mondo dolcemente distopico, onirico e carico di malinconia, in cui i nomi dei luoghi sembrano perduti – anche se rimangono ben visibili attraverso le descrizioni dei luoghi stessi – e i confini sono liquidi. Una china per noi ormai ben immaginabile di un mondo in dissoluzione, ocra di sabbia e siccità, grigio di cemento e pioggia che non cade, blu del mare che si espande e inghiotte lentamente la terra.

In questo mondo si muovono i suoi personaggi: Andrea e Gabriele, ognuno alla ricerca di un modo proprio per sopravvivere in un mondo ormai privo di speranza; e poi Elena, il centro del romanzo: una donna forte, eroica e inafferrabile le cui azioni lasciano sempre un’impronta sul futuro. E ancora gli animali, con una propria voce e la stessa dignità di narratori degli uomini – una finezza tra le più apprezzabili del romanzo.

La bellezza profonda di Materia è nell’unità di tutte le cose che sembra avere alla base, nel superamento di un racconto soltanto antropocentrico in favore di una narrazione in cui ogni elemento è parte di un tutto più ampio, e ognuno comunica, anche se non sempre attraverso le parole. Non a caso le parole dette dagli uomini sono aspre, crudeli, mentre quando i personaggi sono in grado di abbandonarsi e vedere, ascoltare davvero il mondo, l’unità che creano è salvifica, pacificatrice.

Questo tentativo di allargare i confini del mondo che racconta porta per via di cose l’autore a sperimentare con la sua narrazione, alcune volte in modo riuscito, altre un po’ meno.
Da una parte ha il grande merito di riuscire a evitare con eleganza il rischio di un messaggio ambientalista un po’ stantio, superando lo sterile senso di colpa umano per la rovina del mondo e creando invece un racconto in cui la distruzione è realtà e tutti possono soltanto farci i conti.
Dall’altra però il legame sottile che sembra legare tutti, in cui tutto passa e ritorna come attraverso continue sincronicità junghiane, provoca una distanza dal racconto: il lettore non ha il tempo né gli strumenti per comprendere, e non può far altro che abbandonarsi anche lui alla marea nella speranza che una spiegazione di ciò a cui assiste arrivi.

E in parte la spiegazione arriva, ma molto resta sospeso, e la lettura è nel frattempo un po’ un atto di fede, anche perché è molto difficile empatizzare con uno qualunque dei personaggi, che al di là di qualche tratteggio forse più psichiatrico che psicologico, sono quasi esclusivamente ciò che fanno, come i protagonisti di un poema epico di un futuro apocalittico. È davvero solo per i cani di Elena che si prova una qualche tenerezza.

A volte è come guardare delle belle fotografie: immagini evocative, che lasciano intravedere spiragli di vite e intuire mondi interi, ma che non sono di per sé esaustive. È come se l’autore scegliesse di mostrare alcune fotografie di una serie immensa, tenendo per sé le altre, e lasciasse a chi guarda l’onere di immaginare ciò che manca.

L’esperimento è indubbiamente interessante, e ci sono alcune immagini destinate a rimanere nella mente a lungo. C’è una Venezia, soprattutto, che si potrebbe guardare all’infinito: abbandonata da turisti e bottegai, lasciata consunta e svuotata ai suoi pochi abitanti, che la vivono come possono mentre finalmente comincia ad affondare, la città a forma di pesce è l’inizio e la fine di tutto.

Rimangono però delle incertezze. Anche il fantastico, e ogni sua variante, ha delle regole, una sorta di patto non scritto con chi legge che gli permette di navigare il racconto e affidarsi all’autore – altrimenti tutto diventa possibile e si rischia di scivolare nella china di un surreale non voluto. Il lasciarsi e rincontrarsi dei personaggi nel mondo, sempre nel momento e nel posto giusto, e i poteri straordinari che sembrano avere, tradiscono quel patto, facendo sentire il lettore in balia, più che degli eventi, delle idee dell’autore.

E, più in generale, lo scorrere di sfondi evocativi e il cogliere appena frammenti di vite, di mondi che forse varrebbe la pena raccontare e che invece scivolano via come se si guardasse da un’auto in corsa, lascia una sorta di insoddisfazione. Come l’artista dell’arazzo che Elena si trova un giorno a osservare, forse anche La Forgia è «uno di quelli che considerano il movimento più reale dell’immobilità, e la trasformazione delle cose più ricca d’insegnamenti delle cose stesse».

Certo è che, più che la malinconia di cui Materia è intriso, a rimanere è l’amaro in bocca per il bel romanzo distopico che ha abbozzato ma che non ha ancora scritto.

 

(Jacopo La Forgia, Materia. La fuga degli elementi, Effequ, 2019, 160 pp., euro 15, articolo di Daria De Pascale)
Poster italiano del film Burning su Flanerí

Assenza, mancanza e sparizione: su “Burning”

Lee Chang-dong è una delle personalità culturali più influenti della Corea del Sud. Scrittore, docente, regista, ha ricoperto anche la carica di ministro della cultura e del turismo. I suoi pochi film sono stati sempre apprezzati e applauditi dalla critica. Burning è arrivato nelle sale a otto anni di distanza da Poetry, il suo ultimo film premiato per la sceneggiatura a Cannes nel 2010.

È un cinema denso e complesso, quello di Lee, che unisce storie individuali a un’analisi sottotraccia della società. Non fa eccezione Burning – L’amore brucia, arrivato in Italia con un anno e mezzo di ritardo rispetto alla presentazione a Cannes del maggio 2018.

Il punto di partenza è un racconto di Murakami Haruki, “Granai incendiati”, pubblicato nella raccolta L’elefante scomparso e altri racconti (2001 con Baldini e Castoldi, dal 2009 con Einaudi, traduzione di Antonietta Pastore). Lee ha spostato tutto dal Giappone nella Corea del Sud di oggi. Jong-su è un aspirante scrittore che si mantiene con lavori casuali. Un giorno incontra per caso una vecchia compagna di scuola, Hae-mi. Nasce qualcosa, o almeno è quello che crede Jong-su. Perché quando la ragazza torna da un viaggio in Africa, che aveva in programma da tanto tempo, accanto a lei c’è Ben, ragazzo ricco per il quale tutto sembra semplice e noioso. Fra i tre nasce uno strano triangolo fino alla sparizione di Hae-mi. Jong-su non può fare altro che chiedersi se Ben sia in qualche modo coinvolto nella fine della ragazza.

Gli estimatori della scrittura di Murakami Haruki troveranno in Burning tutti gli elementi che caratterizzano la scrittura del giapponese. L’alto livello culturale, i riferimenti alla letteratura statunitense (Faulkner, autore nel 1939 di un altro racconto dal titolo “Granai incendiati”), la descrizione rapida e in pochi tratti della società, il realismo onirico, sono tutti resi in un modo che – finalmente – dona grandezza cinematografica alle opere dell’autore. Negli anni non sono mancati i tentativi di portare lo scrittore giapponese al cinema, ma sono stati, a parte forse il Norwegian Wood del 2010, tutti trascurabili.

Lee Chang-dong è riuscito a trasferire in maniera credibile la vicenda in Corea. Il suo sguardo si allarga alla società, alla condizione dei giovani, ai genitori, alle sperequazioni sociali, al rapporto con la Corea del Nord, senza snaturare l’essenza del racconto.

Burning è una storia di cose che non si vedono. Di gatti che si nascondono, o non esistono. Di ricordi che non hanno conferme, di pozzi che non sono al loro posto. Di telefonate mute. Di paesi in guerra fredda perenne a poche centinaia di metri di distanza. Il romanzo di Jong-su non si sa nemmeno se esiste, eppure tutti gli chiedono di parlarne, di dire che tipo di romanzo è. Una serra va a fuoco, ma nessuno vede le fiamme. Hai-mi sparisce, ma è come se non fosse mai esistita.

Lee Chang-dong è riuscito a costruire un intero film sulle cose che non ci sono, a partire dall’amore, che Jong-su credeva reale e che forse non è mai esistito. La vita di Jong-su si sviluppa in assenza: senza Hae-mi, mentre si prende cura del suo gatto che non si fa mai vedere; senza suo padre, detenuto in attesa di giudizio; senza un romanzo da scrivere. È un film di illusione e di assenza.

La svolta verso il thriller si presenta all’improvviso e conduce verso una strada lontana da qualsiasi aspettativa. C’è una tensione impalpabile ma costante, un sospetto che cresce e spaventa. Non è il mistero a essere centrale, ma ancora una volta la sua assenza, quella sparizione che passa quasi senza tracce, come un ricordo che svanisce, come una serra che brucia.

(Burning – L’amore brucia, di Chang-dong Lee, 2018, drammatico, 148’)

Lana Fucking Del Rey: The Next Best American Record?

Giunti al quinto disco, quantifichiamo la grandezza di Lana Del Rey. Ultraviolence ci aveva fatto capire il calibro artistico della cantante americana: da lì in poi è stato un continuo attestarsi su livelli alti. Honeymoon rimane molto probabilmente il capolavoro, per coerenza e livello medio della copiosa tracklist, mentre Lust For Life, nonostante qualche scricchiolio, ha momenti di grande impatto (“Love” e la traccia omonima) e struttura solida. Zone d’ombra rimangono: dopo averla vista dal vivo (più karaoke che live in molti passaggi) alcuni stralci della sua magia si perdono tra selfie e banalità di circostanza, soprattutto considerando quanto la musica di Lana Del Rey sia intima ed empatica. Una voce capace di suscitare emozioni forti e rare in mezzo alla plastica patinata del pop attuale.

Norman Fucking Rockwell! è la quinta tappa di un percorso di crescita compositiva e d’identità artistica con pochi paragoni: il tempo degli scatti di copertina con Lana in primo piano e di sfondo le tante istantanee di un Cara Vecchia America ormai sparita hanno lasciato spazio al contesto visivo ancora più alto di Rockwell, pittore e illustratore, modello artistico di realismo romantico a cui la cantante si ispira per dare linfa e potenza ai brani, in cui l’obiettivo della camera si sposta dalla corrotta e decadente Hollywood ai chiaroscuri californiani.

Chiariamolo fin da subito: chi odia ancora Lana Del Rey, continuerà a farlo, chi la ama la amerà ancora di più. L’impostazione con annessi ampliamenti della classic torch song non vengono quasi mai abbandonati, tranne in rari momenti più leggeri come “Doin’ Time”: per il resto, troverete Lana del Rey alla massima potenza, con tanta voglia di alzare il tiro. Il risultato? Alcuni esiti sono tra i picchi assoluti della sua carriera. “Venice Bitchè tra i brani più estremi della storia del pop recente: quasi dieci minuti di dolci confessioni d’amore affogate in un mare di distorsioni clamorose. Ci vuole coraggio per concepire qualcosa del genere – e sceglierlo come singolo – in questi tempi fatti di pezzi buoni solo per riempire playlist e fare facili visualizzazioni.

Altri punti siderali sono “Mariners Apartment Complex”, con all’interno il passaggio definitivo «And who I am is a big-time believer/ That people can change, but you don’t have to leave her/When everyone’s talking/You can make a stand/’Cause even in the dark/I feel your resistance/You can see my heart burning in the distance/Baby, baby, baby, I’m your man», e la conclusiva e devastante “Hope Is A Dangerous Thing For A Woman Like Me To Have – But I Have It”, due brani semplicemente magnifici, nella loro purezza e intensità. Fateli sentire ai sopracitati odiatori e vediamo le tesi con cui ribatteranno.

Nonostante il minutaggio sempre considerevole e il perenne mood melanconico-romantico, Norman Fucking Rockwell! non annoia, anzi, fa venir voglia di fare una cosa ormai impensabile: dedicarsi completamente all’ascolto, ritagliare un po’ di tempo della propria giornata per ascoltare solo – dall’inizio alla fine – un gran bel disco, popolato da “Bartender” e “Cinnamon Girl”, in cui Lana Del Rey fornisce prove vocali sempre più autentiche e indelebili (la bellissima “Fuck It, I Love You”).

In conclusione, le quattordici tracce che compongono l’opera confermano – qualora ce ne fosse bisogno – la grandezza di Lana Del Rey, ultimo scorcio di una bellezza fuori dal tempo e dalle mode, capace di ampliare e rendere ancora più vivido e profondo il suo mondo musicale. L’invito a farne parte è esplicito fin dalla copertina: a voi la scelta.