Copertina di Pinocchio Fascista Confine della favola

Il confine della favola

Come un fil rouge, favola e fiaba attraversano la tradizione letteraria italiana sino al Novecento: ripercorrere caratteristiche interne e formali, dipese dalla formazione dell’autore e dagli intenti che questi si propone, permetterà, di volta in volta, di indagare non solo le differenze che distinguono raccolte di fiabe fantastiche, sul modello di Capuana, dall’apologo in versi di Trilussa e dalla favola cupa di Tozzi e Buzzati, ma anche le molteplici potenzialità dell’apologo, secondo l’uso che ne fanno Calvino e Sciascia; e, ancora, di gettare luce sulle rielaborazioni propagandistiche di un racconto, come nel caso di Pinocchio, o sul diverso impiego di romanzi favolistici, quali la «favola aerea» di Palazzeschi o la «favola apocalittica» di Volponi.

Con questi e altri esempi fra i più curiosi, talvolta anche con qualche rapida incursione nei secoli precedenti, per raccontare la favola nel Candelaio di Bruno e l’apologo scientifico di Galilei, verrà delineandosi, in ciascun brano, una rete di differenti tipologie narrative, volte alla ricostruzione diacronica del genere favolistico a partire dalla classicità di stampo greco-romano.

 

Favole e fiabe

«Le fiabe sono vere. […] Sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo o a una donna […], lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi […] anzi, il non poter liberarsi da soli: il liberarsi liberando»: con queste parole, nelle Fiabe italiane (Einaudi, 1956), Calvino definisce il fondamento e il confine della fiaba.

Nonostante, infatti, la letteratura favolistica venga spesso identificata erroneamente con la sola letteratura per bambini, essa costituisce in realtà un genere letterario piuttosto poliedrico, che annovera al suo interno disparate tipologie strutturali.

La prima indispensabile distinzione riguarda la classificazione teorico-formale che distingue il confine della fiaba dal confine della favola: la fiaba è costituita da un racconto generalmente basato su un procedimento narrativo innescato e poi perpetrato tramite l’azione di personaggi e vicende irreali, magici, meravigliosi. Al contrario, la favola, che nasce come genere prosastico con Esopo, poi ripresa e trasposta in versi da Fedro e recuperata da La Fontaine (cui si deve la grandissima spinta alla rinascita favolistica, non solo italiana, del Settecento), è invece un racconto, non esclusivamente breve, incentrato su un esempio da additare: l’insegnamento moralistico non solo prevale sulla trama, spesso molto semplice (risultano, ad esempio, totalmente assenti i viaggi e le peripezie tipici delle fiabe), ma è tendenzialmente inserito in una cornice che, anche se non squisitamente realistica, si configura come estranea alla dimensione fantastico-fiabesca.

Conseguentemente, l’allegoria costituisce quasi sempre una caratteristica strutturale alla forma tradizionale della favola, dell’apologo e della fiaba: all’esordio, non sempre conforme alla consueta struttura incipitaria («C’era una volta…», come nelle fiabe di Capuana), segue l’intreccio del testo che, più o meno breve, si basa su una grande immagine allegorica continuata, talvolta esplicitata nella morale conclusiva (l’epimitio).

Nella tipica favola esopica, come anche negli apologhi, infatti, gli animali protagonisti incarnano simboli di un vizio da rifuggire o di una virtù da abbracciare, sebbene i personaggi umani non siano obbligatoriamente esclusi dai racconti, ma anzi talora necessari all’azione narrativa mediante la loro interazione con altri animali o, più sporadicamente, con altri uomini.

Queste caratteristiche si riscontrano sia nelle raccolte autonome (come Scorciatoie e Raccontini di Saba, edito da Mondadori nel 1946, ma stampato più recentemente da Einaudi) sia nelle favole inserite nella cornice di opere letterarie di diverso impianto: lo mostrano inserti celebri, come il noto “Apologo sulla generazione dei suoni” incluso nel Saggiatore scritto da Galilei nel 1623, o come le favole del settimo capitolo della Coscienza di Zeno (Cappelli, 1923) di Italo Svevo. Inoltre, alcuni racconti e apologhi possono ampliarsi all’intera estensione di un romanzo o di un poema, come Il codice di Perelà (Edizioni futuriste di Poesia, 1911) di Aldo Palazzeschi.
Insomma, una casistica di così tante possibilità certifica un’impostazione talmente variegata da rinnovarsi con costante inventiva.

 

La prospettiva del Novecento

Nel Novecento, secolo di innovazione ma anche frantumazione e conseguente contaminazione dei generi letterari, le coordinate e il confine della favola mutano, sebbene non svaniscano completamente dal panorama letterario raccolte ispirate alla tradizione, come L’Esopo moderno di Pietro Pancrazi (Le Monnier, 1930): la componente didascalica propria dei secoli precedenti viene messa in discussione, a causa anche della diffusione di nuovi concetti etico-filosofici. L’incipiente relativismo gnoseologico e il senso d’incertezza che caratterizzano il secolo conducono a un rovesciamento prospettico: al monito paradigmatico si sostituisce l’enigmatica ambivalenza propria della realtà oramai concepita come contradditoria.

La favola, perciò, può tanto confermare valori condivisi, denunciandone contemporaneamente l’assenza, quanto ribaltare le opinioni comuni, così da proporre un principio controcorrente, pur se osteggiato dalla società. Insomma, la costante novecentesca risulta essere costituita dalla molteplicità delle prospettive (talvolta interne persino a uno stesso autore): non più pretesa di equilibrio o proposito didattico, bensì confusa percezione di inquietudine.

D’altronde, nel corso del Novecento l’adozione del genere favolistico risponde non solo a ragioni squisitamente letterarie, ma anche a fini propagandistici, come illustra l’analisi condotta da Stefano Pivato in Favole e politica (il Mulino, 2015).

Le peculiarità proprie della favola, tramutata in strumento di educazione ideologica, dipendono strettamente dalla dottrina da promuovere: i personaggi spesso si modificano in direzione di una zoomorfizzazione del nemico – una strategia rappresentativa che comporta contemporaneamente la ridicolizzazione e la disumanizzazione dell’avversario politico, affinché la sua figura, assunte sembianze (e quindi anche attitudini) animali, non susciti empatia né misericordia. L’ammonimento finale, inoltre, è sempre presente in forma esplicita e, anzi, spesso risulta accompagnato da un rigoroso sistema didascalico di nomi, cognomi, situazioni e date.

 

Il caso di Pinocchio

Un esempio assai significativo di rielaborazione in chiave politica di una storia è costituito dal personaggio di Le Avventure di Pinocchio (pubblicato prima a puntate tra il 1881 e 1882, poi come romanzo edito da Paggi nel 1883): il burattino di Collodi viene infatti reso protagonista della propaganda di regime da diverse correnti politiche e, per giunta, mediante l’adozione di differenti forme letterarie (ai romanzi si aggiungono i semplici racconti o persino gli opuscoli).

Pinocchio diviene dapprima eroe eponimo del fascismo, chiamato ad affrontare i nemici del sistema (siano essi i comunisti, gli inglesi o gli abitanti di territori da colonizzare).

Diffuse tra gli anni Venti e Quaranta del secolo, queste «pinocchiate» offrono uno spaccato propagandistico del Ventennio, poiché additano l’ortodossia fascista tramite le azioni narrate, ad esempio, nelle Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista di Giuseppe Petrai (Nerbini, 1923), oppure in Pinocchio fa i balilla. Nuove monellerie del celebre burattino e suo ravvedimento di Cirillo Schizzo (Neribi, 1927).

Il burattino è anche protagonista della trasposizione comunista de Le avventure di Chiodino di Marcello Argilli e Gabriella Parca: una sorta di piccolo robot costruito in laboratorio dallo scienziato Pilucca (rielaborazione in chiave tecnologica di Mastro Geppetto), in un mondo improntato agli ultimi ritrovati scientifici del tempo, affollato di operai, disoccupati e senzatetto.

E, in seguito alla lettura cattolica del romanzo condotta da Piero Bargellini ne La verità di Pinocchio (Morcelliana, 1942), dove la prima parte del libro è letta come «ciclo della perdizione» e la seconda come «redenzione», il burattino diviene mezzo propagandistico della Democrazia Cristiana in Le disavventure di Pinocchio, un opuscolo di trentuno pagine prive di indicazione autoriale pubblicato il 27 maggio 1961 – data che suggerisce come la favola possa essere stata diffusa in occasione delle elezioni amministrative di quell’anno.

Tuttavia, il panorama novecentesco contempla anche la presenza di racconti anti-propagandistici, tesi non all’identificazione di un paradigma ideologico-politico da accogliere, bensì allo smascheramento, in poche righe, dei meccanismi e delle dinamiche strutturali di un regime dittatoriale: così, in particolare, le Favole della dittatura (Bardi, 1950 ma recentemente edite da Adelphi) di Leonardo Sciascia.

In fin dei conti, non bisogna dimenticare il principio da cui il confine della favola si origina: Esopo e Fedro, due schiavi che, sfruttando il potere della parola per denunciare la propria e altrui condizione servile, adottano la favola come espressione del desiderio di libertà: «La schiavitù, che è suddita da sempre, / aveva da parlare e non osava, / e versò in brevi favole il suo cuore / scherzando sull’equivoco sottile», recita Fedro nei vv. 33-37 del prologo al terzo libro delle Favole (vv. 43-46 della trad. di E. Mandruzzato, Rizzoli, 1999).

(Nel testo, riproduzioni delle copertine di Cirillo Schizzo, Pinocchio fa i balilla. Nuove monellerie del celebre burattino e suo ravvedimento, Firenze, Neribi, 1927 e di Giuseppe Petrai, Avventure e spedizioni punitive di Pinocchio fascista, con disegni di G. Toppi, Firenze, Nerbini, 1923).

Copertina di Le conseguenze del cuore di Cunningham

Le conseguenze del cuore

«Va’ dove di porta il cuore», «al cuor non si comanda». Ma seguire il cuore non è del tutto indolore, lineare o privo di imprevisti. I suoi effetti possono rimodulare sentieri intrapresi, imporre divagazioni e deviazioni, presentare curve, dossi o fermate che determinano scelte e rinascite. Che fanno crescere segreti e dubbi o, peggio, sospetti e sotterfugi.

Seguire il cuore, insomma, porta con sé delle conseguenze di cui bisogna prendere atto. Materiale prezioso per ogni romanziere, che nella penna dell’irlandese Peter Cunningham, tra i più prolifici scrittori europei, vincitore nel 2013 del Prix de l’Europe, ha trovato un delicato narratore.

Non solo per i palati europei, ma questa volta anche per quelli italiani: da settembre 2019, grazie a SEM e all’attenta traduzione di Laura Grandi, è nelle librerie italiane pronto a soddisfare i lettori amanti di quelle storie che sanno non solo di cuore, ma anche di saga.

Le conseguenze del cuore infatti è uno dei romanzi della quadrilogia che ha come sfondo Monument: piccola città immaginaria (ma non troppo) del sud dell’Irlanda, con le sue scogliere, le sue verdi radure e brughiere. Sfondo adatto e sconfinato dei mille moti dell’anima.
Chud Conduit, figlio della passione e rampollo di una delle famiglie borghesi più in vista di Monument, Rose Bensey, bellissima figlia dell’allibratore locale dall’indole libera e forse indomabile, e Jack Santry, figlio forse un po’ timoroso di un generale di sua Maestà, sono i tre ragazzi, poi adulti e infine anziani, protagonisti della storia di Cunningham – vertici di un triangolo che ha come lati amicizia, amore e passione, che segue e influisce sull’intero arco della loro esistenza.

La narrazione inizia infatti negli anni Trenta del Novecento, prosegue attraversando le fila delle guarnigioni del D-Day, svoltando per le molte crisi economiche degli anni Cinquanta, Sessanta e Ottanta, fino alle soglie dei nostri giorni. E Chud, Rose e Jack, calati in relazioni simbiotiche, intrecciano le loro esistenze divenendo carnefici, e spesso vittime, delle conseguenze a cui li ha condotti il cuore – atti di passione, di coraggio e di violenza che li pongono innanzi a scelte immediate, crudeli e decisive capaci di mantenerli sempre vitali fino alla fine.

Un racconto ricco di colpi di scena, descrizioni e scene piacevoli alla lettura, con dialoghi immediati e asciutti, impreziosito da uno stile snello, fluido che conquista e che ha fatto definire l’autore da molti critici europei come «l’Hemingway irlandese». Una definizione che trova conferma anche in una traduzione italiana attenta, che non snatura ma ricalca finemente l’asciuttezza sassone percepibile nelle molte atmosfere che echeggiano i classici della letteratura inglese.

La storia di Cunningham, che mai cede allo scabroso o al perverso (sarebbe stato facile), dà voce alle molte sfaccettature dei tre protagonisti. Viva in ognuno di loro è la lotta per comprendere la corretta via da seguire e accettare le conseguenze che ne derivano. Ma non come “una inevitabile rassegnazione” ma accettazione di una vita che non rinnega mai il fermo e fedele legame di amore e amicizia che li unisce.

Un legame che non è solo quello immediato tra Chud, Rose e Jack, ma che si dilata e si completa con la città di Monument che passa da scenografia iconografica a vitale protagonista.

L’autore ne ha parlato nel corso di un incontro con la stampa in occasione di PordenoneLegge 2019.

 

Potremmo partire proprio dalla città. Monument ha già nel nome spessore di simulacro fisso, impassibile, in cui lei ambienta non solo Le conseguenze del cuore ma l’intera quadrilogia (The Sea and the Silence, Tapes of the River Delta, Le conseguenze del Cuore, Love In One Edition). Sin da subito però non lo si percepisce come semplice luogo immaginario, ma ha il sapore del vero. Come ha costruito questa città, che da ambientazione è diventata essa stessa quasi un personaggio?

Grazie per la domanda. Monument in realtà è la città di Waterford nel sud-est dell’Irlanda dove sono cresciuto, e dove sono rimasto fino all’età di diciassette anni. È la città di mio padre e di mio nonno: tra l’altro una città di un certo rilievo storico, la più vecchia d’Irlanda, fondata dai vichinghi.
Ho deciso di ambientare una serie di romanzi in questa città, ma l’ho allo stesso tempo anche cambiata, perché, sì, la conoscevo ma volevo averne il completo controllo: volevo che la città stessa fosse uno dei miei personaggi. Di qui la cartina che c’è all’inizio del libro, in modo che i posti fossero quelli validi per l’intera serie di ambientata a Monument (confido che presto anche gli altri tre romanzi siano tradotti in italiano). Ma ribadisco che Monument è il “nome d’arte” di Waterford.

 

Come si inseriscono i suoi personaggi in questa città? 

Loro in realtà scaturiscono dalla città stessa. Io ci metto tantissimo tempo per creare i miei personaggi. Li creo, so più o meno come voglio che diventino. Però poi li rivedo, li ripenso, li cambio nuovamente. Ci vogliono nove mesi, o anche un anno, per creare un personaggio. Creare dei personaggi è un po’ come farsi dei nuovi amici: si va in un posto nuovo, si conoscono persone nuove, si cerca di allacciare delle nuove conoscenze. Però non si può chiamarle amicizie troppo presto, nel senso che è abbastanza improbabile che le primissime conoscenze che si fanno siano quelle che rimangono le tue amicizie dopo un anno.

 

Veniamo alla storia: Rose sposa Jack, ma potrebbe sposare anche Chud, da cui sembra più attratta. Quindi la scelta evidenzia da subito più interesse che amore? 

Credo che sia una combinazione di cose: Rose lo sposa perché le circostanze sono favorevoli, perché c’è un’opportunità favorevole, ma anche perché lo ama. All’interno del triangolo composto da Chud, Jack e Rose tutti e tre si amano. È chiaro: sposare Jack invece che Chud dà una maggiore opportunità economica, ma anche e soprattutto sociale. Noi tutti quando decidiamo chi sposare prendiamo una decisione difficile e non la prendiamo con leggerezza. Nel momento stesso in cui prendiamo questa decisione abbiamo sempre il dubbio di non aver fatto davvero la scelta giusta.

 

Nel leggere Le conseguenze del cuore ho apprezzato molto questo aspetto del triangolo tra Jack, Chud e Rose: amicizia, amore e complicità a tutto spettro, quasi come se si completassero uno con l’altro e in presenza dell’altro. Singolarmente appaiono poco coraggiosi, incompleti. Dietro queste incompletezze c’è una volontà di spiegare attraverso i protagonisti come l’amore nelle sue tre sfaccettature (amore fraterno, amicizia e amore passionale) possa completare le persone? 

Magari. Spero di essere riuscito a portare al lettore tutto ciò che lei ha visto, e se lei l’ha visto forse sì. Come ha detto lei, è un romanzo sull’amicizia ma anche e soprattutto sull’infatuazione. È vero, lo abbiamo anche detto poco fa, Rose sposa Jack ed è amante allo stesso tempo di Chud. Ma quando Jack va a New York per curare in qualche modo quella che potremmo definire sindrome post-traumatica da D-Day, tra i due amanti le cose si intiepidiscono molto. Chud perde interesse, quasi avesse bisogno dell’emozione del tradimento.

 

Ma perché sono così perversi, perché ha fatto così questi personaggi? 

I loro rapporti e il loro comportamento certamente portano scandalo in una cittadina come Monument. Il loro triangolo può certo essere accolto con disapprovazione. E anche questo per Chud, Jack e Rose è una sfida da affrontare assieme: è qualcosa di eccitante. Non dimentichiamoci chi sono i personaggi del romanzo: Chud è uno che gioca d’azzardo e il padre di Rose è l’allibratore di Monument. Quindi l’eccitazione è una parte fondamentale della loro vita.

 

Questo è un romanzo epico, un romanzo di questo tipo può essere ambientato in un momento drammatico della storia come la Seconda guerra mondiale? 

La storia è costellata di eventi drammatici, questo romanzo copre un lasso di tempo che io come persona non ho potuto vivere per evidenti motivi anagrafici. Ma mio padre è stato presente al D-Day, e ho usato tutti i documenti da lui redatti e raccolti sull’argomento.
Oggi una storia di questo tipo epico e storico ha ancora senso di esistere. Il D-Day è solo un frangente storico occasionale che potrebbe essere sostituito da un qualsiasi altro evento. Quello che importa è la storia dei personaggi, la loro eccitazione nel vivere la loro vita. Per completare devo anche dire che il romanzo non è assolutamente autobiografico o biografico.

 

Ma allora per lei, nella costruzione della narrazione, è più importante la parte dei personaggi oppure la parte storica? Penso anche ai titoli non ancora tradotti in Italia, dove la parte storica è sempre preponderante e la narrazione sembra essere quasi una scusa per narrare altro o di altri. 

Al centro ci sono sempre le persone. La buona letteratura da sempre ha avuto attenzione per il personaggio, ma è anche altrettanto chiaro che le persone vivono in un momento storico. E quindi il momento storico c’è, esiste e deve esistere nella storia. Se poi la domanda è perché ho scelto questi momenti storici anziché altri, le ragioni sono molteplici: personali, perché vi sono legato attraverso i miei genitori o per il cambiamento che c’è stato in Irlanda. Per me comunque vengono sempre prima i personaggi che la trama. Trama che in inglese è plot, che tra i vari significati ha anche quello di “luogo dove si viene sepolti”.

 

Una curiosità: Chud nasce dalla passione della madre per un marinaio di origini italiane, napoletane nello specifico. 

Buona domanda. L’Irlanda in quel momento del Ventesimo secolo era un luogo chiuso, direi quasi oscuro per via della situazione economica, per la Chiesa e per altre ragioni. Chi arrivava da fuori Waterford veniva inevitabilmente dal mare. Questo vale non solo per il padre di Chud ma anche per Bruno, l’altro personaggio “esotico” del romanzo. Un po’ è vero: ripercorro lo stereotipo dell’uomo del sud. Ma immaginiamo che sia un italiano che arriva per mare.

 

Una domanda che un po’ esula da Le conseguenze del cuore, per avere un quadro più ampio sulla sua opera, che inizia solo con questo romanzo ad apparire sulla scena editoriale italiana. Ho letto che il suo primo libro era un thriller. Perché poi si è spostato su un genere più narrativo?

Ho iniziato a scrivere durante una vacanza, dopo che ero stato derubato. Ho scritto le mie prime 35000 parole sull’onda di questo evento. E da lì ho scritto un libro all’anno per cinque anni scrivendo sotto pseudonimo, perché avevo anche un altro lavoro e avevo il terrore di diventare famoso subito e legato a un’immagine di libro e di scrittura. Ma ho compreso forse subito i limiti, almeno per me, di questo genere. Poi uno dei miei figli è morto a seguito di un incidente stradale negli anni Novanta e mi sono chiesto: «Voglio davvero continuare a scrivere di queste cose o voglio scrivere qualcosa che io stesso avrei voglia di leggere?» e ho cambiato genere.

 

Ci sono progetti di fiction o di film sulla sua quadrilogia? Ha un regista che si augura possa dirigere una sua storia sul grande schermo?

Ci sono dei progetti, non su questo romanzo ma su altri due. Teniamo le dita incrociate, non ho preferenze perché non sono io a decidere. Ma spero in una buona trasposizione.

 

 

(Peter Cunningham, Le conseguenze del cuore, SEM, 2019, trad. di Laura Grandi, 432 pp., euro 18, articolo di Marzia Perini)

 

Copertina di Il mio anno di riposo e oblio di Moshfegh

Diario di un letargo ostinato

Folgorata. Letterariamente. Mi aggiro come un batterio nella gola imbandita di una libreria, il mio solo eccellente terreno di caccia. Per lavoro, per contagio. Peccato che la preda sia io. E poi incappo in un titolo sospeso a metà tra la beffa e la rivelazione: Il mio anno di riposo e oblio (Feltrinelli, 2019) di Ottessa Moshfegh.

Per gli asteroidi di sguardi schiantati più o meno per caso ogni giorno in direzione di qualche copertina, nulla di strano. Ma per chi come me è nuovamente mamma da circa un mese, per chi sa che l’anno prospettato dagli astri prevede creme a base d’insonnia e impacchi d’isteria, la reazione di fronte a uno stimolo dal retrogusto quasi fantascientifico poteva essere la fuga rabbiosa o il canto di sirena. E il seguito è un finale già scritto. Lo stesso che ultimamente mi affanna il comodino di altri testi profetici, come Sonno bianco di Stefano Corbetta o il meraviglioso Chiamalo sonno di Henry Roth.

Una storia bizzarra, sfacciatamente improbabile e spocchiosa. Racchiusa nella bolla dell’Upper East Side di Manhattan di quasi vent’anni fa.
La protagonista è una ragazza dichiaratamente fortunata, almeno sotto alcuni aspetti. Ha il privilegio della bellezza (elemento ribadito senza sosta, quasi nel timore lo si potesse dimenticare) e della stabilità economica, percependo una rendita che le scorre addosso come una pioggia di mezza stagione.

D’altronde non è tutto, d’altronde non le basta. Le sue ombre sono carnose. E carnivore. Hanno il volto di suo padre, sbocconcellato da un cancro che ha lasciato in mezzo agli altri soltanto la sua larva. E quello della madre, anche lei bella e sfinita, con la mano incollata al bicchiere, disturbata dall’impaccio della malattia di suo marito. In poco tempo li perde entrambi, il primo senza alcuno stupore, la seconda perché cedere è più facile che resistere e addormentarsi (per sempre) è la soluzione più ammiccante. Tentazione geneticamente tramandata, a quanto pare. Il risultato è una donna fragile, apparentemente anaffettiva, che non presta fianco e cuore a nessun colpo di vento, che decide di rintanarli sotto un lenzuolo.

Il suo piano è chiaro: narcotizzarsi, ibernarsi un anno intero in un bozzolo di sonno indotto, per poi rifiorire magicamente dalla carcassa del suo abbandono. Per farlo si affida alle alchimie farmacologiche, ai prodigi che le combinazioni di ansiolitici e calmanti possono sortire sulla sua coscienza: «Raggiungere quello stato richiedeva grandi dosi di Seroquel o litio mischiate a Xanax, e Ambien o trazodone, e non volevo esagerare con quelle prescrizioni. C’erano calcoli raffinati per somministrare i sedativi. In genere l’obiettivo era arrivare a un punto in cui potevo scivolare alla deriva facilmente e tornare in me senza spaventarmi. I miei pensieri erano banali, il battito casuale».

Incontra come traghettatrice una dottoressa squinternata e compiacente, che non si accorge dei suoi stratagemmi per ottenere la bramata quiete chimica e dimostra per altro una lodevole soglia di sopportazione a tutta quella tempesta di effetti. Complice un discreto coefficiente di ipocondria, non mi sarebbe difficile immaginare che potrei rischiare l’emiparesi facciale nel giro avvitato di un paio di pasticche; eppure il suo progetto procede. E lei resta bionda, seducente e votata alla sua causa.

Certo, non mancano gli impedimenti.
C’è soprattutto la sua amica Reva, che vorrebbe emularla ma con esiti grotteschi; mai abbastanza bella, mai abbastanza magra e pronta ad esibire la propria inconsistenza con disinvoltura, diluendola in qualche bibita dietetica. È l’unico legame umano che trapassa goffamente il suo esoscheletro, l’unica mano che bussa sul suo esilio. Ma è patetica e per questo respinta o avvicinata con sospetto.
Niente può sabotare il suo programma e quando a tenderle un agguato è proprio il medicinale tanto agognato, il potente Infermiterol, che la porta a commettere azioni a sua insaputa, mentre tutte le sue stanze galleggiano nel buio, decide di barricarsi in casa, di farsi sigillare dall’esterno e aspettare che il tempo si cementi sui suoi muscoli, che la crisalide compia il suo corso.
Insomma, che la sua diventi una casa del sonno.

Ma c’è di più. In quell’anfratto ultramondano che è la Manhattan del 2000, tra gallerie d’arte dove presta servizio come segretaria e party sfrenati in cui dissennarsi nel gregge degli eletti, la sua prigionia autoimposta si fa oggetto di performance artistica. Viene filmata per sei mesi mentre lei dorme e rinuncia ed esistere. Tutto, compresa la sua sparizione, viene risocializzato, rigurgitato in un ventre di spettacolo. Anche l’isolamento, anche la negazione di ogni forma interattiva, se mostrati a dovere, cambiano linguaggio e sono solo merce esposta.

La bislacca vicenda di questa hikikomori in salsa occidentale si conclude l’11 settembre del 2001, con Reva risucchiata nella polveriera del World Trade Center, con una traccia d’universo riscritta con dolore e per sempre. E la protagonista è costretta a rinascere, da ceneri che non sono soltanto le sue.

Ottessa Moshfegh, tra le nuove voci della narrativa americana come Lauren Groff, Catherine Lacey ed Emma Cline, costruisce in Il mio anno di riposo e oblio una trama originale, con un approccio sprezzante e irriverente, trattando come un gioco in scatola disfunzioni emotive e alienazioni d’azzardo. Provocazione letteraria o denuncia dissacrante?
La risposta vi terrà svegli. Anche senza neonati ribelli. Almeno fino all’ultima pagina.

 

(Ottessa Moshfegh, Il mio anno di riposo e oblio, trad. di Gioia Guerzoni, Feltrinelli, 2019, pp. 240, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
copertina di arruina di iannone

Tra leggende meridionali e ricerca della salvezza in un immaginario oscuro

Arruina (il Saggiatore, 2019), romanzo d’esordio di Francesco Iannone, ha l’ambizione di trascinare il lettore in una dimensione arcaica, dove l’essere umano ha un compito arduo: lottare con i propri demoni. E lo fa attraverso una fiaba dark che mescola le antiche storie del Cilento e le immagini nitide e crude delle serie tv gotiche.

Nel suo romanzo, Iannone intreccia gli archetipi più classici, procedendo per metafore, costruite con l’immaginazione delle favole scure e medioevali: la magia, il rapimento di una creatura innocente che potrebbe salvare un’intera comunità, minacciata da creature terrificanti, streghe che si nutrono del sangue dei neonati. Scenario del racconto sono Acquavena, Terradura e Roccagloriosa, tre località immaginarie che, attraverso una narrazione ricercata e poetica, catapultano il lettore in un romanzo-leggenda, intriso di riferimenti al Sud magico.

Protagonista centrale è la Sperduta, una bambina di pochi mesi su cui pesa un incantesimo che le anziane del paese raccontano nell’incipit: «Nascerà una bambina e avrà il tuo sangue e il tuo sangue ti giudicherà. Lo dice il vento che nascerà, lo dicono le voci di tutte le donne gravide nei letti. La tua bambina nascerà e con lei altri bambini». La Sperduta è una creatura di redenzione: ne viene al mondo una ogni cento anni e le Nerissime – che un tempo erano donne bellissime e felici, ma che hanno ceduto alla cattiveria e all’invidia, alla vita da recluse – si sentono minacciate dalla sua luce, dal suo potere di rivoluzione.

I suoi genitori partono per salvarla dal sacrificio, e da qui si snoda un sapiente ricamo di antiche storie di metamorfosi tra l’uomo e la natura, di riti ispirati agli alberi e ai boschi e di figure strane e affascinanti come il Poeta Antico che «si sveglia per una sola ora al giorno», la Briganta «che da giovane sollevava mareggiate e ribaltava i mondi», la Sciangata che impasta cenere, saliva e sangue, ’O ’Mpasturato che vive in una stalla e ha sembianze equine, i bambini immortali che hanno bisogno della luce nuova della Sperduta – e ancora il Matto e le Ianare, tutti funzionali al ritrovamento della piccola.

In Arruina esiste un intento quasi epico: raccontare la lotta tra il bene e il male, un cammino tra mostri e tranelli per ritrovare ciò che ci è più caro e l’inclinazione a cercare la luce della vita nelle tenebre più nascoste.

«Da vivo non ci pensi mai. Siamo tutti così invincibili ed eterni da vivi. I vivi vivono senza sapere di essere vivi, senza esserne pienamente coscienti. Io che sono vivo, e viva è la Sperduta e il mio desiderio di rivederla, penso che solo adesso la vita è dalla mia parte».

Iannone racconta la spinta a ritrovare la bambina rapita come si narra della ricerca del senso dell’esistenza: una spinta ad affrontare i demoni quotidiani per tornare ad avere la vita dalla propria parte, in bilico tra forze straordinarie, elementi naturali travolgenti come la pioggia, il fango, la montagna e le caverne, evidentemente più grandi della voce narrante, il padre della Sperduta.

Arruina è la storia di un conflitto, anzi di più conflitti, che attraverso prove, indovinelli, fatica e terrore i genitori della Sperduta sono chiamati a risolvere: «Ma è per quel rovinoso trambusto interiore che l’ago avvia dal dentro di quell’uomo, fra il cervello e il sé, un ago fra sé e il mondo».

Le atmosfere tetre di Arruina non richiamano solo il passato e le antologie delle antiche fiabe, ma riconsegnano a una nuova dimensione i cliché del fantasy e del gotico. Autori come Iannone usano il fantastico per trasmettere profondi messaggi esistenziali.

 

(Francesco Iannone, Arruina, il Saggiatore, 2019, pp. 155, euro 20, articolo di Antonella De Biasi)
Poster del film c’era una volta...a Hollywood su Flanerí

Il cinema come manifesto

Il nuovo film di Quentin Tarantino, C’era una volta…a Hollywood, è forse il più atteso della sua non vasta ma ampiamente venerata filmografia. I motivi di interesse sono tanti. Prima di tutto il regista, che raccoglie l’attenzione di pubblico e critica con estrema facilità. In secondo luogo il cast, con due icone come Brad Pitt e Leonardo DiCaprio circondate da Margot Robbie, Al Pacino, Kurt Russell e una miriade di altri volti noti.

È soprattutto l’ambientazione ad aver attirato gli occhi di tutti. Tarantino continua con il suo nono film la sua ricerca storica personale iniziata con Bastardi senza gloria. Torna nel XX secolo, a Hollywood, in un anno come il 1969 carico di momenti di passaggio e in una data precisa: la notte tra l’8 e il 9 agosto.

È la notte in cui, a Cielo Drive, la “famiglia” di Charles Manson fa irruzione nella villa di Roman Polanski  e massacra Sharon Tate, la giovane moglie del regista, incinta all’ottavo mese, e i suoi tre ospiti, Jay Sebring, Wojciech Frykowski e Abigail Folger.

Si è parlato a lungo di C’era una volta…a Hollywood – tra l’altro, come si scrive? La preposizione va prima o dopo i puntini? Ci va lo spazio? Non si è ancora capito bene e se lo sono chiesti pure sul New York Times – come di un film su Manson e i suoi seguaci. Non è così. A Tarantino interessa parlare dei vicini di casa di Polanski e Tate.

Perché nella villa accanto abita Rick Dalton, immaginaria star della tv caduta in declino dopo aver tentato senza fortuna il salto nel cinema. Dalton si trascina tra ruoli di cattivo in qualsiasi show gli capiti tra le mani. Si porta sempre appresso la sua storica controfigura, Cliff Booth, che gli fa anche da autista e factotum. L’alternativa è l’Italia e i suoi spaghetti western, ultimo rifugio prima di arrendersi completamente. Eppure il nuovo cinema è proprio lì vicino, nella villa di Polanski.

Quentin Tarantino prosegue quel percorso di revisione della Storia che aveva iniziato con Bastardi senza gloria e proseguito con Django Unchained The Hateful Eight. Dopo aver liquidato Hitler e lo schiavismo, qui si intromette in una delle pagine più nere della storia del cinema.

In C’era una volta…a Hollywood ci sono tutti gli elementi che caratterizzano il cinema tarantiniano: grandi dialoghi; ironia; citazionismo e cultura cinematografica a quintali. Per il bene dell’equilibrio, mancano anche due dei suoi principali difetti – o almeno sono molto contenuti: lo sproloquio per autocompiacimento e l’exploit splatter senza controllo.

Per la prima volta nella carriera, Tarantino parla di cinema apertamente. È un progetto su cui ha ragionato a lungo. Ha dichiarato che ha iniziato a scrivere la storia pensando a un romanzo, ma dopo cinque anni di lavoro si è reso conto che era perfetta per il grande schermo. Se è vero, come ha dichiarato più volte, che il prossimo film sarà il suo decimo e ultimo da regista, può darsi che abbia già iniziato a salutare con questo omaggio al cinema e alla sua storia.

Chi si aspettava un film su Sharon Tate rimarrà deluso. C’era una volta…a Hollywood è un lungo discorso sul cinema, sulla sua capacità di costruire il reale, sulla sua potenza onirica. Basta conoscere anche sommariamente Tarantino e il suo immaginario per capire che il cinema di cui parla è quello di puro intrattenimento, quello da cui ha saputo distillare la sua idea personale di come si fanno i film.

Rick Dalton incarna un’epoca di film e serie tv per le quali non c’è più stato posto a un certo punto a Hollywood. Nuove tematiche, nuove sensibilità, nuove idee hanno chiuso la strada a Dalton e a tante altre star che si sono trovate senza un posto, senza un ruolo. Si apriva l’epoca della New Hollywood, del cinema d’autore, del realismo crudo.

La vicenda di Sharon Tate diventa quindi un semplice pretesto per raccontare un’epoca. Tate, del resto, prima della sua drammatica scomparsa, era stata protagonista di una serie di film piuttosto leggeri e stereotipati, ma intrisi di estetica anni Sessanta e pienamente rappresentativi di un’epoca. Anche lei è un simbolo, per Tarantino, come Dalton. E dal loro incontro parte una versione diversa della Storia.

In forme simili a Boogie Nights di Paul Thomas Anderson, C’era una volta…a Hollywood è il saluto a un’epoca d’oro. Non è azzardato provare un paragone con Luci della ribalta di Charlie Chaplin nella figure di Dalton e Calvero, e nel generale racconto di una fine.

Tarantino, però, non si accontenta di una storia, e come il titolo lascia intendere preferisce scivolare nelle favole, immaginare realtà parallele piene di opportunità diverse. Quello che i film del Tarantino maturo – da Grindhouse in poi – sembrano rivendicare è il diritto della fantasia di plasmare il mondo, senza barriere tra reale e irreale.

Così, può esistere un mondo in cui i suoi bastardi senza gloria uccidono Hitler e uno in cui Rick Dalton quasi soffia la parte a Steve McQueen in La grande fuga.

I critici stanno facendo a gara a definire C’era una volta…a Hollywood il film più personale di Tarantino. Forse lo è, sicuramente non è sbagliato vederci una specie di manifesto di uno dei più importanti registi della storia del cinema.

(C’era una volta…a Hollywood, di Quentin Tarantino, 2019, drammatico-thriller, 161’)

 

Copertina di Tiro al Piccione di Rimanelli

Dalla parte sbagliata

«Il prete raccontò come Mussolini era stato ucciso e come era finita la guerra. Seguitò: Sono venuto a portarvi la verità, e dirvi che è inutile spargere altro sangue e fare altri morti. Le madri aspettano i figli».

Nell’immediato dopoguerra, tra il 1947 e il ’48, un giovane ventiduenne proveniente da Casacalenda, un piccolo paese di un Molise poverissimo e maltrattato dalla guerra, conclude il suo primo romanzo. La storia che decide di raccontare, così come vedrà la luce diversi anni dopo, è quella di un ragazzo che sale su un camion tedesco a 17 anni per fuggire dal mondo ristretto e arretrato del suo paese e si trova a vivere la Resistenza “dalla parte sbagliata”, prima con i tedeschi e poi tra i repubblichini di Salò. Qui, Marco Laudato, l’alter ego dello scrittore Giose Rimanelli, milita nella Legione Tagliamento, Battaglione M, cioè quelli che avevano l’aquila sul berretto, verso i quali i partigiani miravano urlando: «Tirate al piccione!».

«Quando giungemmo alla quinta baita non avevo più paura, e pensavo che i partigiani sono degli uomini come noi. Adesso avevo coscienza di essere un normale prigioniero di guerra che segue il suo destino».

La prima stesura del romanzo risale al 1945, ma è a seguito di alcune riscritture che il manoscritto comincia a circolare, cioè quando Rimanelli si trasferisce a Roma e frequenta il suo corregionale Francesco Jovine (per il quale tra l’altro batte sotto dettatura Le terre del sacramento). Jovine legge il manoscritto di Rimanelli, gli consiglia di sfoltirlo e di concentrarsi solo sulla parte relativa alla guerra, lasciando fuori gli anni della giovinezza. Intanto, grazie all’intermediazione di Jovine, altri intellettuali come Natalino Sapegno, Carlo Levi e Carlo Muscetta si trovano tra le mani il romanzo.

È il 1950 e Cesare Pavese, che si trova a Roma per un viaggio di lavoro, vuole incontrare l’autore di questo libro di cui ha sentito parlare. Sul loro incontro, come su altre vicende di quegli anni, il ricordo di Rimanelli è un po’ fantasioso (Molise Molise, 1977): infatti, dice di aver incontrato Pavese «per caso o destino al Bar-Gelateria Giolitti di via degli Uffici del Vicario». La gelateria, però, si trova sotto gli allora uffici di Einaudi nella capitale, dove Muscetta lavora come consulente per la sezione romana, e ha da quasi un anno il manoscritto in un cassetto della scrivania.

Nel maggio del 1950 Pavese e Calvino riferiscono nella riunione editoriale su Tiro al piccione e fanno notare i limiti del libro «sia letterari che come documento politicamente educativo», ma ne sottolineano il vigore descrittivo.

«Verso sera il mio compagno di sinistra si sparò. Gli cadde il parabellum dalle mani e la scarica gli tagliò mezza testa. Tutti si guardarono in faccia, sbiancati dalla paura».

Pavese scrive una lettera a Muscetta in cui si dice interessato alla pubblicazione per Einaudi e afferma di non sapere quale sia la collana più adatta a ospitarlo. Avverte, inoltre, che bisognerà attendere il parere di Calvino e Vittorini. Pavese scrive: «con tanta materia sanguinolenta, orrida e oscena, pecca per sentimentalismo. Del resto essere sentimentali vuol dire esser deboli (letterariamente): cedere alle sensazioni e agli umori, e quindi al gusto per il truce, il violento, il colorito, il sensuale. Aggiungi che sul fiammeggiare aggettivale e verbale della sua prosa descrittiva, Giose ha sparso il pepe del turpiloquio neorealista. Insomma, potare, sfrondare, neutralizzare, verniciare» (Lettere 1945-50, 1966). Anche Calvino, nella lettera di accompagnamento del manoscritto diretta a Vittorini, considera il libro interessante ma acerbo e chiude con una nota d’indecisione (I verbali del mercoledì, 2011).

Da questo momento comincia un lungo dibattito in Einaudi sulla collocazione e l’effettiva realizzazione del libro. «L’opposizione più tenace», racconta Rimanelli a Simonetta Fiori (Repubblica, 1992), «veniva dal gruppo torinese di radice gobettiana: Paolo Serini, Felice Balbo, Natalia Ginzburg. Il romanzo era sì antifascista – in questa chiave sarebbe stato letto da Togliatti – ma era scritto dalla “parte sbagliata”. Pubblicandolo, implicitamente si sarebbe riconosciuta dignità di avversari ai repubblichini di Salò. D’altra parte, ci sono voluti più di quarant’anni perché in Italia anche la cultura di sinistra accettasse la nozione di guerra civile». Questa la lettura di Rimanelli sui giudizi einaudiani e, se pure fotografa una realtà culturale dell’epoca, risulta un po’ enfatica. D’altronde già Calvino, in una lettera indirizzata a Muscetta suggerisce di parlare con Rimanelli il meno possibile dei dubbi sulla collana perché: «ha un po’ il difetto di amplificare le cose che lo riguardano».

Dai verbali successivi delle riunioni editoriali in Einaudi si nota una totale confusione sull’effettiva fattibilità della pubblicazione. Calvino scrive a Vittorini: «dicci la tua: che all’attuale stato delle cose, è in questo dilemma: o fare il Rimanelli nei Coralli o rifiutarlo del tutto». Infine si decide per i Coralli e del libro se ne fa anche una bozza di stampa. Ma nell’agosto del ‘50 muore Pavese, l’unico ad aver dato sin da principio parere positivo alla pubblicazione, così il libro viene nuovamente bloccato. A questo punto, dopo oltre un anno di attesa, l’autore molisano è sfiduciato e propone la rescissione del contratto all’editore, che prontamente accetta.

Ci vogliono ancora due anni perché il libro possa essere finalmente pubblicato grazie a Vittorini. Durante la sua collaborazione con la Mondadori, infatti, l’autore siciliano si trova a riconsiderare anche testi già suggeriti per Einaudi. Nella scheda di lettura del manoscritto afferma di aver ritenuto non pubblicabile il libro nei Gettoni perché privo di “sperimentalismo”, ma che avrebbe potuto avere un buon successo di pubblico. Tiro al piccione vede così la luce nel 1953 per Mondadori nella collana La Medusa degli italiani.

Locandina del film Tiro al Piccione

Il film e la nuova edizione 

Il tema trattato da Rimanelli continua a essere complicato anche nell’Italia degli anni ‘60, quando Giuliano Montaldo, appena ventinovenne, decide di portare sullo schermo le vicende di Marco Laudato. È il 1961 e la critica è molto dura con il film perché vi ravvede una cifra revisionista nei confronti del fascismo. La carriera di Montaldo viene messa in crisi, come dirà molti anni più tardi il regista. «Mi aveva sconvolto e appassionato questa storia vista “dall’altra parte”, la storia di un giovane che in quegli anni aveva fatto la scelta sbagliata. Pensai che il film potesse dare vita a un dibattito su chi durante la guerra aveva sbagliato in buona fede, invece si trasformò in un boomerang contro di me, per il carico di polemiche staliniste che seguì l’uscita del film. Io avevo tanto investigato, avendo già fatto film sulla Resistenza, e avevo maturato l’idea che bisognava rivisitare anche “le altre parti” della guerra. Forse ho anticipato troppo… ma il film venne tacciato di ambiguità e se c’è una ferita che brucia ancora è questa, perché non era vero, e più tardi tanti me lo hanno confermato. Mi ricordo che il film fu invece una sorta di atto liberatorio per tutti i giovani che, come il protagonista, erano rimasti invischiati nel regime fascista». (Torino città del cinema, 2001).

Nel 1991, in tempi decisamente più miti in materia di antifascismo, Einaudi decide di acquistare i diritti del libro e pubblicare nei Tascabili, per la prima volta, quel Tiro al piccione che tanto aveva interessato e perturbato gli intellettuali del dopoguerra. Il romanzo, in questa edizione, ha una corposa prefazione a cura di Sebastiano Martelli che ne descrive in parte la storia editoriale e introduce la vita e le opere dell’autore molisano. In America si organizzano diverse conferenze e Furio Colombo ospita l’autore all’Istituto Italiano di Cultura di New York. Nell’intervista a Rimanelli in occasione dell’edizione Einaudi, Simonetta Fiori chiosa: «esaurita la stagione dei sentimenti, è ora il momento della ricerca. Senza mascherature ideologiche».

L’autore e la letteratura d’emigrazione 

La carriera letteraria di Rimanelli non si conclude con il suo primo romanzo. Durante gli anni romani lavora per il giornale fascisteggiante Lo specchio dove, a detta sua, si scaglia contro «i baroni della società letteraria – i Baldini, i Bontempelli – per di più sulle pagine di un giornale ambiguo», quindi si sente costretto ad andare via dall’Italia. «Fu un suicidio involontario. Tutte le porte di quel mondo mi vennero chiuse; non mi rimase che andarmene».

Giose, che ha una madre canadese e un padre a lungo emigrato prima di ritornare in Molise, decide di partire per il Canada, dove diventa caporedattore del giornale Il cittadino canadese di Montreal. A seguito del suo primo viaggio scrive il libro Biglietto di terza, nel quale descrive i desolati paesaggi di un Canada che sembra fermo all’Ottocento. Poi si sposta negli Stati Uniti, dove insegna italiano e letteratura comparata in diverse università: da Yale, alla Columbia e, infine, per oltre trent’anni è professore all’Università di Albany nello stato di New York. In tutti questi anni Rimanelli si confronta con opere di diverso genere: dalla poesia, al teatro, alle sceneggiature televisive, e comincia a scrivere in lingua inglese. Questo rende difficile la collocazione della sua produzione nella letteratura italiana, inglese o ancora in quella cosiddetta della diaspora. Il linguaggio in tutte le sue opere ha tratti sperimentali e proprio questo sperimentalismo è evidente in quella “lingua dell’esilio” usata nel suo primo romanzo in inglese Benedetta in Guysterland con il quale vince l’American Book Award.

 

Copertina di Biglietto di

 

Memorie di una guerra civile 

Nonostante la lunga e prolifica attività di scrittore, la storia della Resistenza così come Rimanelli l’ha raccontata, sia per portata letteraria che biografica, ha rappresentato uno spartiacque nella vita di dell’autore. D’altronde si tratta di un trauma così grande su cui è difficile riflettere in modo coerente per tutta la generazione che ha preso parte a quella stagione di guerra. Scrive Rimanelli: «Io, personalmente, ho fatto suicidio. Sono rinato altrove. E ciò che di me si scrive è solo un post mortem. Mi pare la storia di un altro» (Discorso con l’altro, 2000).

Un lungo saggio pubblicato da Treccani in L’Italia e le sue Regioni, intitolato Memorie dalla guerra civile affronta ampiamente il tema di come è stato elaborato il ricordo delle stragi da parte dei repubblichini e dei partigiani.  Il romanzo di Rimanelli e le successive testimonianze dello scrittore sono oggetto di riflessioni sui repubblichini, su quanti affrontarono la fase della Resistenza dal versante fascista. Quello che Contini sottolinea è che sembra, dalle memorie, che «il trauma sia stato così forte da annichilire l’io dei narratori. Tutti gli altri italiani sono riusciti a distaccarsi progressivamente dal fascismo, tanto da salutarne la fine come una liberazione. I militi di Salò, rimasti soli, subiscono la dissoluzione dell’ultimo fascismo come una disintegrazione personale, dalla quale riemergeranno come da una morte consumata».

“i,i” di Bon Iver e la resa dei conti con il suo passato artistico

È indiscutibile che oramai Bon Iver abbia raggiunto lo statuto di guru della musica pop alternativa. Reinventandola, dandole una nuova forma e indirizzando il discorso verso una strada a lui ben chiara. Oramai il musicista americano ha attorno a sé l’aura di chi può fare qualsiasi cosa, di chi può rimettere costantemente in discussione i cardini di un genere che tende sempre più a omologarsi, a cercare di catturare il più velocemente possibile l’attenzione dell’ascoltatore. For Emma Forever Ago è a tutti gli effetti uno dei pilastri della musica popolare di inizio 2000, “Skinny Love” forse l’unico inno di una generazione fatta a pezzi dalle false promesse di internet, che doveva avvicinare l’umanità e che è finito per produrre l’effetto opposto. Con i,i, torna tre anni dopo il cortocircuito 22, a Million, in un’estate che lo ha visto in tour con la tappa italiana al Castello Scaligero di Villafranca.

In 22, a Million, Bon Iver andava a ridisegnare l’idea di cantautorato, dove la melodia – da sempre suo punto di forza – veniva soffocata per dare spazio a un’idea di canzone meno intellegibile, meno d’impatto, criptica, molto più ricercata. Un album coraggioso e complesso, certamente superbo, a cui bastava pochissimo per risultare un enorme flop, più pretenzioso che altro, ma che invece è stato scritto con enorme sapienza. Un esperimento felicemente riuscito, che ha innalzato Justin Vernon a qualcosa di più di quello che era stato fino ad allora: un eccezionale interprete del post folk, prima minimale, poi massimale. 22, a million è stata la scommessa vinta di un artista che entrava in un momento fondamentale della sua carriera.

i,i è un album al cento per cento Bon Iver. Lo si ritrova in ogni nota, in ogni parola, in ogni guizzo melodico, in ogni suono. Meno cerebrale rispetto al suo precedente e con più momenti di pancia, che lo ricollegano emotivamente ai suoi esordi, lasciandolo comunque distante da quegli anni. Il discorso iniziato con 22, a Million non si spezza completamente, ma con i,i quel tendere alla sperimentazione si è smorzato. Qui c’è molto più spazio alle aperture melodiche, più aria, meno spazi chiusi, meno claustrofobia. Prendendo ad esempio “Salem”, brano che sarebbe stato impossibile da immaginare in 22, a Million, è facile rendersi conto che Bon Iver abbia optato a soluzioni che guardano altre prospettive, tornando in certe zone del passato già battute: qui Bon Iver sembra andare a pescare da James McMorrow (da ricordare il suo Post Tropical), il quale esiste senza dubbi perché esiste Bon Iver, in un gioco di rimandi, sarebbe meglio dire auto rimandi, tanto interessanti quanto inquietanti.

Hey, Maè certamente il brano che più rappresenta i,i, quello che prende subito e con cui si ha istintivamente un legame profondo, ma che porta appresso comunque un certo peso specifico di novità; in quel suo soul depressurizzato che va a contaminare il pop classico e viceversa che va a bilanciare, ad esempio, l’assurdo pop decostruito di “iMi”, più vicino al suo passato recente, e quello più tradizionale e immediato della già citata “Salem”. In “Hey, Ma” emerge dopo anni tutta l’incredibile sensibilità melodica di Bon Iver – riscontrabile in 22, a Million magari in “8 (circle)” -, il quale va a scrivere una canzone sul rapporto con la madre senza essere mai stucchevole, anzi, riuscendo a dare dignità a un sentimento così radicato da essere spaventoso.

Naeem” è un altro grande pezzo che ripercorre un’estetica abbandonata da 22, a Million, e che si rifà a Bon Iver, Bon Iver: quel cantato che è tra il rabbioso e l’intimo allo stesso momento ne fanno una sorta di Bruce Springsteen per club e non per stadi enormi, per un pubblico contenuto e non per folle oceaniche, assistito dai fiati che vanno ad aprire un brano che vive di un importante rapporto tra dinamica e melodia.

i,i è un ottimo lavoro di Bon Iver, un incrocio tra le varie anime del cantante americano, che riescono a convivere in grandissima armonia. Meno coraggioso del precedente, ci regala comunque un artista sempre ispirato che si lascia andare a momenti che sono delle carezze al cuore, ma che non disdegna sprazzi che non rientrano in canoni standardizzati.

copertina di sopra e sotto la polvere

Il terremoto, tra racconto e saggio

È un libro intelligente e, insieme, appassionato Sopra e sotto la polvere di Alessandro Chiappanuvoli (Effequ, 2019). Un libro dal tratto pungente ma leggero, scorrevole, stilisticamente esatto. Un libro in cui è evidente anche il piglio da giornalista e sociologo dell’autore, già chiaro nei lavori precedenti, come Lacrime di poveri Christi – Terzigno: cronache dal fondo del Vesuvio (Arkhè) o in alcuni dei suoi pezzi su Internazionale, Il Manifesto, Il Messaggero o sui blog Nazione Indiana e Doppiozero.

Dunque uno scrittore che ci sa fare (o uno “scrivente”, come si definisce lui stesso) e un sociologo preparato che, per giunta, conosce i meccanismi e i risvolti delle inchieste giornalistiche. La formazione complessa e completa dell’autore si riflette nel libro, che analizza il sisma del 2009 dell’Aquila correndo su un doppio binario: da un lato la narrativa e i racconti che ci immergono in quelle strade, in quelle piazze, in quelle storie – singole e collettive – e in quelle anime che hanno vissuto il terremoto e se lo portano dentro; dall’altro la saggistica e gli approfondimenti che si legano alle tematiche sollevate dai racconti, scendendo però nello specifico, fornendo dati e analisi dei fenomeni.

Una prospettiva interessante, che fa luce sui pieni e sui vuoti del sisma, sul dentro e fuori, sul sopra e sotto la polvere appunto, su quel che si vede e quello che si vede – e si è visto – meno.

Ed è così che dal momento del silenzio, del disorientamento, del rispetto del dolore più lacerante, si passa a un’esigenza viscerale di parola, di testimonianza. La voce che Chiappanuvoli dà ai protagonisti delle sue storie, che sono cittadini, amici, amanti, operai, vigili del fuoco, stranieri e studenti che si muovono dentro una sceneggiatura fatta di palazzi che implodono e di tende che hanno come sfondo la bellezza dei monti d’Abruzzo, è una voce ferma e sicura, nonostante intorno tutto sia tremante, incerto, pauroso.

Così come è ferma e decisa la sua, di voce, che non ha paura di dire come stanno le cose, non ha timore di raccontare ciò che ha visto e vissuto, né di fornirci carte e numeri su cui farsi qualche domanda.

Ma tutto ciò che viene fuori da questo libro non è denuncia. L’esigenza di raccontare è invece, soprattutto, opportunità: di reazione, di riflessione, di cambiamento, di rinnovamento, di prevenzione, di ricostruzione del tessuto sociale e psicologico.

Un libro necessario, ho pensato quando l’ho aperto. Un libro necessario, ho pensato quando l’ho chiuso. E per di più, un libro necessario che si fa leggere facilmente grazie a una scrittura raffinata, limata, accurata, ben scelta ma mai ostentata, forzata o artificiale. Bella, semplicemente bella. Sulle tematiche, che sono tante e sono importanti e sono scottanti e pure pressoché infinite, perché ognuna si porta dietro innumerevoli spunti di riflessione, non dirò nulla: ci avviciniamo ai temi chiave attraverso le domande, così da non svelare troppo e non rovinare l’impatto col libro. Buona lettura!

 

IL TITOLO – la polvere
Cominciamo dall’inizio, cominciamo dalla polvere. Da buona abruzzese come te ho pensato subito a Fante e alla polvere del suo Ask the Dust, oltre ad aver potuto capire –purtroppo – nitidamente e istintivamente, quel “sopra e sotto la polvere”. Ci racconti come nasce questo titolo?

Sebbene dietro la polvere della West Coast e la polvere lasciata dal terremoto ci siano, credo, sogni infranti molto simili di modernità, e di grandezza aggiungerei, il riferimento a Fante non c’è. Sopra e sotto la polvere richiama soltanto la distruzione, l’abbandono del terremoto e le dinamiche umane e sociali che stanno in superficie e che vi sottendono. Il titolo nasce di concerto con Francesco Quatraro, il mio editore, e principalmente perché il titolo originale, “Delirium Tremens”, era a suo dire troppo criptico – e al momento di prendere una decisione mi sono trovato d’accordo. La polvere permette invece un rimando chiaro, diretto.

 

IL LIBRO – il doppio binario
Racconti e approfondimenti, narrativa e saggistica: abbiamo parlato della bipartizione del tuo libro, di questo doppio binario che emoziona e, insieme, informa. È una bella sfida questa, che potrebbe addirittura riuscire nel miracolo di avvicinare il lettore all’aspetto più profondamente conoscitivo di un fenomeno.

Il doppio binario nasce su proposta dell’editore. Dopo aver letto i racconti, Francesco mi chiese se avessi potuto integrarli con dei saggi per inserire così il libro della loro collana Saggi Pop. Era una sfida un po’ rischiosa non avendo mai scritto saggi sul terremoto, ma data la mia formazione e il lavoro di reportage svolto tra il 2016 e 2017 per Internazionale accettai. In fondo, già la parte narrativa nasceva con l’intento di svelare i meccanismi sociali, psicologici, politici, economici che sottostanno all’emergenza sismica per come siamo abituati a vederla, in forma spettacolarizzata e semplificata attraverso simboli creati ad hoc dai media, insomma; aggiungere dei brevi saggi che mi permettessero di esplicitare l’intento originario dei racconti era dunque un’occasione e l’ho voluta cogliere.

Non so se mi sento legato più alla forma saggistica o a quella narrativa. Credo di essere più portato per la narrativa, ma per me scrivere è sempre un modo di conoscere, me stesso o il mondo che ci circonda. La forma, io credo, deve rispondere all’esigenza divulgativa e non essere uno strumento con il quale dimostrare il proprio valore, la propria bravura. È con questo approccio che ho affrontato le due anime del libro, per trasmettere sotto più punti di vista possibili le dinamiche connesse al terremoto, per divulgare ancora una volta saperi che spesso dimentichiamo con troppa facilità. La prima forma di prevenzione per il terremoto, come per ogni altra catastrofe, è la conoscenza.

 

IL TERREMOTO – la comunità e la crisi della presenza
Entriamo nel vivo. Tu ci parli di terremoto da una doppia prospettiva: siamo di fronte a un fenomeno geologico e culturale. Dopo un terremoto, infatti, non sono solo gli edifici a essere distrutti. Sono letteralmente distrutte le persone, i rapporti tra le persone, l’intera comunità. Il tessuto psicologico del singolo si disgrega, ritrovandosi inevitabilmente compromesso, e ristrutturarlo, tesserlo di nuovo, si rivela non facile. Citi De Martino e la sua “crisi della presenza” e parli di una ritualità, in un certo senso, legata all’emergenza. La stessa disgregazione avviene a livello sociale, sebbene in questo senso credo possa essere più immediato e naturale riscoprirsi comunità e agire per rafforzare l’identità di un territorio. Come è cambiata, dunque, la comunità aquilana, a livello sociale e psicologico, dopo il sisma del 2009?

Come l’ultimo De Martino, io credo che l’essere umano sia costantemente esposto alla crisi e alla “crisi della presenza”, soltanto, aggiungerei, tende a dimenticarlo, a ignorare la sua natura precaria affidandosi completamente a strutture culturali, a credenze di vario genere. Sembra quasi che essere calati a pieno nel momento sia socialmente impossibile. L’Aquila in tal senso incarna questa teoria. Era una città in declino politico ed economico prima del terremoto ed è una città senz’anima, senza idee circa il proprio futuro, oggi. Di mutato in questi dieci anni c’è, appunto, la comunità, che davanti alla distruzione, alla possibile perdita di se stessa, del proprio “campanile” per dirla con De Martino, si è come risvegliata. Sono rinati un attaccamento e un amore per il territorio prima quasi impensabili. Attaccamento e amore che però, io credo, non hanno ancora trovato la giusta dimensione sociale, collettiva, perché non hanno, purtroppo, ancora trovato alcun radicamento nelle classi politiche e dirigenti. La comunità aquilana è cambiata nei singoli ed è grazie alla loro opera se la città oggi respira un’aria di rinnovamento, una frizzante aria culturale e imprenditoriale. Oggi abbiamo più artisti, più imprenditori, più persone che coltivano la propria passione, e il frutto del loro lavoro si sta ripercuotendo sulla comunità tutta. In qualche modo, magari non del tutto consciamente, siamo più vicini, più aderenti alla nostra “presenza”.

 

IL TERREMOTO – la memoria e la prevenzione
Siamo nel decennale del sisma del 2009, simbolicamente un anno di un certo peso. Abbiamo assolutamente bisogno di ricordare, di fare memoria del passato. Ma cosa funziona e cosa non funziona di questo discorso sulla memoria? Perché continuiamo a fare gli stessi errori (nella Storia in genere e nella storia dei terremoti in Italia, nello specifico, visti i successivi disastri)? Quanto possiamo e dobbiamo legare la memoria alla prevenzione? A una prevenzione gestita in maniera efficace…

La memoria storica e soprattutto la memoria del territorio in Italia sembrano avere vita breve. Ma se per i tempi storici in qualche modo è lecito, sta nelle regole del gioco politico raccontare parzialmente, amplificare o mistificare i fatti, e penso ai rinascenti estremismi odierni che impongono tutta la forza d’azione degli anticorpi democratici, il discorso sulla memoria del territorio non permette, o non dovrebbe permettere, interpretazioni di parte, non permette errate interpretazioni. Il rapporto tra memoria e prevenzione è necessario, imprescindibile. La prevenzione non è fatta soltanto di normative, investimenti, regolamenti, suddivisioni di responsabilità, è fatta di conoscenza, di tradizione, di esperienza. È per questo che non sono d’accordo su un tipo di ricostruzione come quella aquilana che tende a ristrutturare completamente gli edifici (parlo di quelli vincolati o storici) nascondendo del tutto le ferite del sisma. Se a questo si aggiunge che dopo dieci anni non abbiamo ancora una piazza che ricordi le vittime, mi pare proprio che a L’Aquila non si stia lavorando per salvaguardare la memoria ma per obliarla, per cancellare il prima possibile il passaggio della catastrofe; e credo sia un atto grave.

 

IL TERREMOTO – la gestione dell’emergenza
Ci parli nel libro di preoccupante disorganizzazione tra i vari Corpi dello Stato giunti a L’Aquila dopo la grande scossa del 6 aprile 2009. Lo stesso hai potuto constatare anche ad Amatrice, nel 2016: eri presente in prima persona per dare una mano alle operazioni di soccorso. Ci dici: «Gli unici che avevano ben salda in mano la situazione erano i Vigili del fuoco». Dunque la gestione delle emergenze probabilmente non funziona proprio come dovrebbe…

Questo è un ambito molto delicato. Va ribadito che chiunque sia presente in un caso di emergenza è conscio del rischio che corre e dunque il suo impegno è lodevole sempre. Sul merito della disorganizzazione delle prime ore penso di aver soltanto rilevato un aspetto di cui, per fortuna, anche i legislatori si sono resi conto negli ultimi anni. Con il nuovo decreto legislativo del 2 gennaio 2018 in tema di protezione civile, infatti, è stato stabilito che la responsabilità delle operazioni di salvataggio nella prima emergenza ricada solo sui Vigili del fuoco: un’unica mente, e la più preparata, che organizzerà l’azione congiunta di tutti gli altri Corpi dello Stato. È, in teoria, un grande passo in avanti. In teoria, perché siamo in Italia, e per vedere se questo nuovo assetto porterà i suoi frutti non resta che attendere, ahimè, la prossima calamità e incrociare le dita.

 

L’AQUILA – L’Aquila e i media
La parte saggistica del tuo libro è anche in qualche modo inchiesta giornalistica. Abbiamo ricordato che collabori con diverse testate e conosci i meccanismi del giornalismo. Dal sisma dell’Aquila è stato creato un caso mediatico rumorosissimo, una tragedia diventata scoop: facciamo due chiacchiere, partendo dal sisma del 2009 e se vuoi arrivando ad oggi, sull’importanza e sulla qualità dell’informazione e del giornalismo.  

Non credo di aumentare le offerte di lavoro rispondendo francamente alla tua domanda. Ma il problema è serio e ogni riflessione critica, anche la mia, può essere utile. Il giornalismo mi pare, e sono cosciente di avere un’opinione molto dura, abbia perso progressivamente il suo ruolo di servizio, di controllo, smarrendosi dietro atteggiamenti e pratiche più simili all’intrattenimento. Non voglio criticare tutto e tutti ovviamente, ci sono giornalisti bravi, preparati e che sanno formarsi e informarsi a dovere sul campo; in questi dieci anni ne abbiamo conosciuti molti sia tra le file dell’informazione mainstream che di quella indipendente. Il punto principale è, appunto, questa specie di rincorsa allo scoop, alla notizia à la page, condensata quasi sempre dietro un oggetto simbolico che possa catalizzare il fruitore dell’informazione: il campanile simbolo, il superstite simbolo, la casa crollata simbolo, la casa ricostruita simbolo e via dicendo. Questa eccessiva simbolizzazione provoca un’eccessiva semplificazione dei fenomeni, delle catastrofi; sono offerti gli effetti subitanei, emotivi, le cause e le responsabilità vengono discusse quando i corpi delle vittime sono ancora seppelliti sotto le macerie. Pare non esserci più spazio e non più tempo per la riflessione, per la comprensione: l’informazione si è come messa a inseguire i social network declassandosi quasi, perdendo la sua vera anima, il suo ruolo principale, di servizio per il cittadino e di controllo nei confronti del potere. Non credo di dire cose nuove, ma nell’ambito specifico delle catastrofi l’effetto semplificatorio dell’informazione crea danni ancora maggiori. L’Aquila si pensa ricostruita, così pure l’Emilia, la costruzione in Centro Italia sembra essere iniziata, ma purtroppo se si va a osservare con i propri occhi la situazione è drammaticamente diversa. E in questi territori, come in tutti gli altri più piccoli colpiti da altri eventi calamitosi, è la costante attenzione dei media e quindi lo sguardo dell’opinione pubblica a fare la differenza, a stimolare l’intervento politico affinché metta in opera soluzioni vere e concrete. È questo il ruolo di servizio e di controllo che purtroppo mi sembra stia venendo sempre più a mancare.

 

L’AQUILA – L’Aquila e i vari linguaggi narrativi
Ho visto Habitat di Emiliano Dante e mi è piaciuto molto, l’ho trovato perfetto nel linguaggio e nella sua funzione: il grande schermo è un altro mezzo utilissimo per raccontare, per documentare alcune realtà. Cambia il ritmo della narrazione, dilatato nei libri e assolutamente veloce e dinamico nei film, ma non cambia la fortissima esigenza di raccontare. Diversi linguaggi narrativi, dunque, intorno al terremoto e sulla città. Ci consigli qualcosa di interessante da leggere (oltre al tuo libro, chiaramente), da vedere, da ascoltare? Insomma un prodotto di qualità che possa avvicinarci all’Aquila e farcela vedere magari da un’altra prospettiva.

Sicuramente dimenticherò qualcosa e me ne scuso con gli autori. Penso però alle due opere di Enrico Macioci, Terremoto e La dissoluzione familiare, libri che hanno un grande valore narrativo e testimoniale.  Ad Appennino, il film successivo di Emiliano Dante sul terremoto del Centro Italia. Al documentario Comando e controllo di Alberto Puliafito, girato nell’estate del 2009. Allo spettacolo teatrale itinerante Dècade, città possibili, ideato per il decennale dal Circolo Bergman in collaborazione con Arti e Spettacolo dell’Aquila. Alle raccolte di poesie di Anna Maria Giancarli, E cambia passo il tempo, poesie sull’Aquila, o di Fabio Orecchini, poeta non aquilano, Per Os. Ma penso anche alle opere di divulgazione scientifica, saggi e libri, di Giovanni Gugg, Silvia Pitzalis, Manuele Bonaccorsi, Antonello Ciccozzi, Fabio Carnelli, Pietro Saitta, Gianluca Ligi, Lina Calandra, Rita Salvatore e tanti altri. Un bagaglio immenso e utilissimo di sapere scientifico quasi sempre accessibile anche al lettore medio. Insomma, c’è un enorme produzione artistica e scientifica di tutto rispetto sul terremoto da cui si può partire per rendere, finalmente, i fenomeni tellurici conoscenza domestica, familiare, parte integrante del nostro corredo culturale, come è giusto che sia in un territorio, quello italiano, in costante rischio sismico, e non più relegati invece a casi eccezionali, sporadici ed esposti a un altro rischio, ancor più pericoloso, quello appunto dell’oblio, della perdita di memoria.

 

L’AQUILA – L’Aquila oggi
Che tipo di città si va delineando oggi? Com’è L’Aquila del 2019, dieci anni dopo il sisma?

L’ho già detto in altre interviste e scritto in altri articoli, provocando peraltro malumori che per mio conto non fanno che confermare la mia opinione: L’Aquila è una città ricostruita senza un’idea guida, L’Aquila è una città senza idee e senza identità. Lo era prima del 2009, lo è oggi dopo dieci anni. E, sia chiaro, indipendentemente dal colore politico che la governa. Qui dominano i piccoli grandi interessi personali e familiari, il tornaconto politico o economico di pochi rispetto al benessere di tutti. È il “familismo amorale” di Banfield: l’agire unicamente per vantaggi materiali di breve termine presupponendo che anche gli altri facciamo lo stesso. È, nella teoria che ha sotteso la ricostruzione, la logica del “dov’era-com’era”, ossia il ritorno “indolore” all’ordine costituito prima del sisma: una specie di Congresso di Vienna, di restaurazione (non a caso) in scala. Questa mentalità continua a imperversare e a condizionare la vita cittadina bloccando quasi ossessivamente una vera idea di sviluppo. Che cosa vogliamo diventi la nostra città? – questa è la domanda che nessun politico o dirigente ha il coraggio, ha voglia di farsi. E credo che ormai siano i cittadini a doversi far carico di tale istanza e a dover imporre alla classe politica una scelta concreta, condivisa e sostenibile. Non c’è molto tempo ancora, è oggi che dobbiamo porre, anzi dobbiamo esigere, che vengano poste le basi per la città di domani. Per ora, invece, si è solo ricostruita, casa per casa, la stessa città in declino che c’era prima del terremoto.

 

MANCANZA
Nell’explicit ci parli in un certo senso di una funzione positiva del caos, di sensazioni adrenaliniche cha sanno dare una spinta al rinnovamento. Ci dici persino che ti manca il terremoto. Spiegaci meglio questo aspetto interessantissimo.

Più che nelle risposte precedenti qui devo cercare di essere breve e quanto mai cauto. Al netto delle perdite umane, al netto dei danni materiali, sia questo ben chiaro, credo, anzi, dovrei dire che ho la speranza che il terremoto possa essere un momento di profonda riflessione, personale e sociale. Il terremoto dovrebbe essere considerato come un momento di rottura, al pari di una malattia, di una degenza grave che mette a rischio la propria vita, di una crisi di relazione amorosa importante, della perdita di un figlio, di una compagna o compagno, di un padre o una madre, come uno di quei momenti, insomma, che impongono una riconsiderazione della propria vita, delle proprie credenze, delle proprie abitudini: una sorta di palingenesi, di resurrezione, che conduce al superamento della crisi e al miglioramento, se possibile, rispetto alla condizione precedente. Un’occasione, detto altrimenti, per ripensare noi stessi, le nostre città e paesi, il nostro stile di vita, le nostre decisioni politiche ed economiche, e, possibilmente, per correggere gli errori fatti, per non incorrere di nuovo negli stessi errori del passato, per prevenirne di nuovi. Un’occasione per crescere, ripeto, al netto delle dure conseguenze. E credo che una vera rinascita sia davvero possibile solo se si apre davanti ai nostri occhi il baratro della fine.

Sulla questione poi della mancanza del terremoto, la mia impressione è ancora più intima. Avvertire le scosse di terremoto, sentirle nel profondo, nel centro del petto, è come sentire all’improvviso scorrerti dentro la forza della vita. Ma non è solo adrenalina, è più un’inaspettata e subitanea sensazione d’esserci, di essere vivi, di essere nel mondo qui e adesso. È, così chiudiamo il cerchio, un’istintiva risposta alla “crisi della presenza”, uno scrollio repentino che per qualche attimo, se sia ha la forza e la fortuna di coglierlo, ci libera dal continuo e lento accumulo di polvere che è, inutile negarlo, la nostra esistenza, la nostra quotidianità. È una specie di risveglio che però poi va coltivato, cosicché quell’energia si trasmetta a ogni nostro gesto, a ogni nostra attività, tramutandosi in passione, in vitalità, in entusiasmo. E spero umilmente che così dicendo io non ferisca nessuno.

 

(Alessandro Chiappanuvoli, Sopra e sotto la polvere, Effequ, 2019, pp. 336, euro 15, intervista di Antonella Finucci)
Copertina di Il libro nero della Lega

Un’inchiesta coraggiosa sulle doppiezze di un partito votato al puro potere

Archiviate, almeno momentaneamente, le sparate quotidiane dell’ex ministro dell’Interno, è un buon momento per riflettere sull’ascesa di Salvini e sulla metamorfosi di un partito passato senza apparenti scossoni interni dal secessionismo al sovranismo (neologismo, peraltro, che si presta a un uso pretestuoso). Una prima, indispensabile lettura può essere Il libro nero della Lega (Laterza, 2019) che ha fatto parlare i quotidiani di tutto il mondo per aver sollevato con largo anticipo lo scandalo Russiagate.

L’insediamento del nuovo governo Conte a tinte giallo-rosse è infatti una delle poche certezze con cui ci abbia lasciato questa pazza crisi agostana. Un’altra è la fine del mito dell’infallibilità di Matteo Salvini. Che siano da attribuirsi a un eccesso di hybris, a un colpo di sole o a un azzardo consapevole, gli errori di calcolo in cui è incorso il leader leghista invocando pieni poteri dalla spiaggia del Papeete sono evidenti, come sono evidenti i mal di pancia nel suo partito e tra i suoi alleati internazionali.

Eppure sarebbe un errore convincersi che la sua parabola politica sia ormai in fase calante. Se non altro perché, come ha prontamente fatto notare Marco Revelli, i «“salti in avanti” del consenso per Salvini» in quest’anno di governo con i Cinquestelle «coincidono quasi perfettamente con le sue esibizioni di maggior “scorrettezza” e di più ostentata disumanità», e perché dopo l’implosione della maggioranza giallo-verde i sondaggi registrano un arretramento della Lega solo di pochi punti percentuali. D’altra parte, il populismo prospera nella cronica inefficienza e perdita di credibilità – insomma nel «vuoto» – della politica tradizionale, e se il Conte-bis si risolverà in un semplice ritorno alla normalità presto o tardi la Lega tornerà all’incasso.

Il libro nero della Lega, inchiesta dei cronisti dell’Espresso Giovanni Tizian e Stefano Vergine, è un esempio del miglior giornalismo in stile anglosassone, per la capacità di scavare a fondo portando alla luce notizie di prima mano, senza mai perdere la visione d’insieme, e per il lavoro certosino su una miriade di fonti diverse (tutti i documenti più importanti sono riprodotti in appendice).

La prima parte è dedicata agli ormai famosi 49 milioni che la Lega deve restituire allo Stato. Accertate le gravissime violazioni della gestione Bossi sull’uso dei soldi pubblici (che in appello valsero al Senatur e all’ex tesoriere Belsito la condanna per il reato di truffa, prescritto in Cassazione), la magistratura ha imposto la confisca dei rimborsi elettorali ricevuti dalla Lega Nord tra il 2008 e il 2010. Ma nelle casse del partito, passato nelle mani di Maroni prima e di Salvini poi, sono stati ritrovati e sequestrati soltanto 2 milioni. «Non ho mai visto quei soldi», ha dichiarato a più riprese l’attuale segretario, precisando che comunque sono stati spesi in attività politiche. Tizian e Vergine sostengono però il contrario: la Lega avrebbe spacchettato le proprie risorse finanziarie facendole confluire nelle casse di suoi organismi regionali (probabilmente creati ad hoc), in società riconducibili al partito quali Radio Padania o l’associazione Più Voci e – così è convinta la procura di Genova, che ancora prosegue le sue indagini – in strani maxi-investimenti in Lussemburgo.

La seconda parte è dedicata alla “conquista del Sud”: la Lega, dopo aver tolto le parole «Nord per l’indipendenza della Padania» dal proprio nome e simbolo, non si è fatta scrupolo di reclutare alla causa politici meridionali riciclati dal vecchio ceto democristiano, dall’estrema destra missina o tra gli uomini vicini a politici condannati per gravi reati come Raffaele Lombardo, Giuseppe Scopelliti o Nicola Cosentino. In alcuni casi, persino da ambienti contigui alla mafia o alla ’ndrangheta. Leggendo di questi personaggi in cerca d’autore, già rimasti orfani dei tradizionali referenti berlusconiani, riecheggiano in maniera sinistra, come ben notano gli autori, le vecchie tesi dell’ideologo della Lega bossiana Gianfranco Miglio, secondo il quale esisteva «un clientelismo buono» da cooptare e istituzionalizzare.

La terza parte del libro è dedicata ai rapporti tra la Lega e la Russia. Dopo una serie di ammiccamenti, nel 2017 tra il Carroccio e il partito di Putin Russia Unita è stato formalizzato un accordo di «cooperazione e collaborazione». La rivelazione di Tizian e Vergine è la trattativa che sarebbe stata avviata (non si sa se conclusa) per finanziare il partito di Salvini con soldi russi in vista delle elezioni europee di maggio 2019: la loro ricostruzione dei fatti è stata ampiamente confermata lo scorso luglio, tra i clamori del mondo politico e dei giornali di tutto il mondo, dal sito di informazione americano Buzzfeed, che ha pubblicato gli audio di un incontro all’Hotel Metropol di Mosca tra Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia-Russia che, malgrado tardive smentite, gestiva i rapporti tra la Lega e Mosca, e uomini russi vicini al ministro dell’Energia e vicepremier Dmitrij Kozak. La riunione è avvenuta il 18 ottobre 2018, mentre Savoini era a Mosca al seguito di un Salvini impegnato in vari incontri con imprenditori italiani ed esponenti del governo putiniano.
Nella conversazione registrata si discute di una fornitura all’ENI di 3 milioni di tonnellate di gasolio da parte della compagnia di Stato Rosneft con uno sconto del 4 per cento sul prezzo di mercato, allo scopo di accantonare 65 milioni per finanziare la campagna della Lega. La contropartita sarebbe di natura politica: l’avvicinamento dell’Italia a Putin, ovviamente a danno della tradizionale partnership con Washington e Bruxelles.

Su quest’ultimo punto, sembra riduttiva la visione degli autori secondo cui la Lega, in perenne necessità di denaro a causa delle vicende giudiziarie legate ai rimborsi elettorali, si sarebbe prestata a divenire una pedina di Putin e della sua politica estera volta a destabilizzare l’UE e le democrazie continentali. Salvini ha avuto modo più volte di dichiarare che «Putin è un grande, lo penso gratis»: se anche togliamo dalla frase la parte che il libro sostiene essere falsa – la parola «gratis» – non sarebbe meno allarmante. Non è solo una questione di finanziamenti occulti, né di un semplice riposizionamento eretico in politica estera. La Russia connection che unisce a Putin la Lega e un po’ tutta l’estrema destra europea, dal Rassemblement National di Marine Le Pen all’AFD tedesca, implica l’adesione a un modello che in vent’anni di governo autoritario in salsa tradizionalista ha trasformato la Russia in gigante politico-militare e nano economico, tanto efficace nel proiettare potenza nello scacchiere internazionale quanto incapace di garantire alla stragrande maggioranza dei suoi cittadini decorosi standard di vita materiale e sociale. Lodare Putin è una palese contraddizione politica per un partito che si propone come rappresentante delle istanze popolari contro le élite.

Ed è proprio qui il limite del libro di Tizian e Vergine, che il titolo e il formato gonfiato ambiscono a proporre come una rassegna approfondita, ma che nonostante il coraggio e il rigore metodologico con cui è stato scritto manca di una prospettiva storica e analitica. Il libro nero della Lega porta alla luce molte delle attuali doppiezze di un partito votato al puro potere, guidato da un leader spregiudicato ed estremista. Ma nel “vero” Libro Nero della Lega (Nord), se mai sarà scritto, non potrà mancare una riflessione sulle contraddizioni di natura più politica e ideologica, come anche sulle linee di continuità e discontinuità di un partito passato quasi con nonchalance dall’autonomismo nordista al nazional-sovranismo xenofobo. Ecco allora qualche spunto per i politologi e gli storici che vorranno cimentarsi:

– A ben guardare, la doppiezza è un tratto costitutivo della Lega fin dall’epoca bossiana. Berlusconiana di governo nel ’94, poi ferocemente antiberlusconiana (con tanto di accuse di mafia lanciate dalla prima pagina della Padania). Federalista, poi secessionista, poi di nuovo federalista ma con toni più timidi, salvo qualche «Roma ladrona» gridato rigorosamente dopo essere usciti dai corridoi dei ministeri romani. E che dire delle posizioni sull’Europa? Pochi ricordano le oscillazioni di Bossi a proposito del processo di unificazione, esaltato in chiave antistatalista per poi passare all’attacco, non senza qualche esitazione, dei burocrati di Bruxelles, mentre al parlamento europeo potevano scatenarsi personaggi come Mario Borghezio (noto per il suo malcelato razzismo e per aver arringato giovani neonazisti francesi suggerendo loro di mimetizzarsi in partiti regionalisti). Più sorprendentemente, oggi pochi parlano delle tensioni interne alla Lega di Salvini in materia economica, tra le dichiarazioni anti-sistema che hanno fatto presa anche al Sud e le tradizionali richieste del Nord liberista (insomma: tra l’ala sovranista di Borghi e Bagnai e l’ala nordista-confindustriale di Giorgetti e Zaia, tra gli afflati nazionalisti e le prospettive di allargamento delle autonomie regionali).

Si potrebbe allora scorgere proprio nella doppiezza una delle linee di continuità fra la Lega di oggi e quella del passato. Una peculiare ambiguità che, finché non si tratta di governare (magari per più di un anno), non rappresenta un limite ma al contrario un meccanismo vincente per la raccolta del consenso: come nota il politologo Fabio Armao, infatti, il populismo leghista «fa riferimento a una comunità talmente indefinita (la gente comune, il popolo) da non aver neanche bisogno di essere “immaginata” e, tanto meno scelta: è la mancanza di attributi e specificazioni che permette a chiunque di sentirsene parte».

– La vera essenza della Lega, in tutta la sua storia, sembra dunque il populismo di destra, cucinato in salsa secessionista tanto quanto sovranista. Il restyling salviniano può essere visto come un uovo di colombo populista: perché non estendere su scala nazionale le stesse retoriche identitarie e le stesse operazioni di costruzione del nemico già sperimentate per anni al Nord, spostando l’obiettivo polemico dal Sud clientelare e fannullone sugli immigrati e i burocrati di Bruxelles? La chiave interpretativa del populismo di destra appare più calzante rispetto a quella del nazionalismo se oltretutto si riflette sul fatto che Salvini non promette di restituire grandezza all’Italia, ma invoca: «prima gli italiani».

Italiani intesi non come comunità nazionale, né come popolo omogeneo capace di riconoscersi in valori comuni, ma come somma di individui operosi e onesti accomunati dall’oppressione fiscale dovuta ai diktat europei, dalla minaccia ai salari e alla sicurezza posta dall’immigrazione, da un generale senso di abbandono. In altre parole, la rivendicazione della sovranità si riferisce più al generico popolo cui sarebbe stata sottratta, che non allo Stato-nazione di cui è prerogativa. Non occorre nemmeno definire un discorso nazionalista, perché non c’è nazione, tanto meno patria, nel sovranismo salviniano.

– Si ha l’impressione che raramente l’elettorato si aspetti dalla Lega soluzioni efficaci ai propri problemi: sembra piuttosto accontentarsi di sentirsi ascoltato nei propri malesseri e rancori. Ancora una volta: il populismo di destra imperversa nel vuoto di una politica che ha ormai culturalmente e istituzionalmente interiorizzato il principio TINA (there is no alternative). Prendendo spunto dal recente libro di Revelli La politica senza politica (Einaudi), possiamo dire che il rapporto con l’elettorato non viene più impostato sulla rappresentanza (fare gli interessi dei rappresentati), ma sulla rappresentazione (far identificare i rappresentati in un discorso o in un leader a prescindere dalla concretezza ed efficacia delle azioni che ne discendono), grazie all’uso efficace dei social network (la cosiddetta Bestia), i quali permettono una comunicazione disintermediata con i cittadini. La politica diviene performance, messa in scena di pose discorsive tanto agguerrite quanto vuote. Il paradosso è che il populismo di destra si giova della propria inutilità: i problemi non vengono risolti, e persistendo alimentano il rancore di cui si nutre il populismo, in un circolo vizioso.

– «Prima gli italiani, nella fattispecie prima i rosarnesi». Nel libro di Tizian e Vergine spunta questa dichiarazione con cui un navigato politico calabrese spiega le ragioni del proprio passaggio alla Lega. Una frase emblematica di un’altra dimensione fondamentale del populismo leghista: quella territoriale. Le mappe della distribuzione dei voti elettorali mostrano chiaramente che la frattura tra centro e periferia (intesa come sobborghi urbani ma anche come provincia) è tornata decisiva. Le ragioni non sono solo culturali, ma anche e soprattutto economiche; basti guardare ai differenziali dell’andamento del PIL pro capite tra grandi città e città medio-piccole. Ecco perché tra una diretta Facebook e una foto su Instagram, da anni Salvini – armato di un vasto guardaroba di felpe – gira l’Italia soffermandosi in particolare nelle cittadine, nelle campagne, nei capoluoghi più decentrati, senza smettere nemmeno da ministro dell’Interno. È in periferia e in provincia che si annidano il disagio e le scorie della crisi economica, il rancore e il senso di abbandono, terreno di coltura del populismo. Ed è lì che Salvini ha concentrato i suoi sforzi di propaganda, ricorrendo alla carta del campanilismo (ecco uno dei tratti dell’identità italiana) nel solito gioco populista della rappresentazione che si sostituisce alla rappresentanza.

– Qual è, in definitiva, il vero orizzonte socio-politico della Lega? L’economista Stefano Palombarini lo riassume ricorrendo a un’espressione efficacissima, «liberismo autoritario». Ossia: riprendiamo le leve della sovranità economica e ribelliamoci ai vincoli al rapporto deficit/PIL, ma per fare la flat tax. Una politica economica folle che l’ex capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard ha definito «espansione fiscale restrittiva»: sforare i parametri di spesa imposti dal Fiscal compact al fine di ridurre le tasse ai ricchi, con un effetto negativo sull’economia nel suo complesso. Possiamo dunque collocare la Lega all’ala destra del neoliberismo, con cui condivide la sconcertante abitudine alla lotta di classe al contrario: togliere ai poveri per dare ai ricchi. Aggiungendo un elemento ancor più sconcertante: il consenso elettorale degli stessi poveri, delusi dal tradimento delle sinistre che avrebbero dovuto rappresentarli. Le retoriche xenofobe e populiste di Salvini stanno riuscendo nel capolavoro di restituire alla destra italiana i tradizionali livelli di consenso, sostituendo il sostegno della grande industria, che ormai si affida al PD, con quello dei ceti popolari. Nel segno dell’immortale gattopardismo italiano.

Mentre tiriamo un sospiro di sollievo nel vedere Salvini (momentaneamente) disinnescato, c’è da auspicare che Il libro nero della Lega sia un punto di partenza per una battaglia culturale ormai ineludibile contro il populismo di destra, da combattere senza snobismi e senza limitarsi all’indignazione social.

(Giovanni Tizian e Stefano Vergine, Il libro nero della Lega, Laterza, pp. 336, 18 euro, articolo di Paolo Ortelli)
Copertina di Remoria di Valerio Mattioli

Roma sottosopra, fra l’esoterico e lo scatologico

Valerio Mattioli è musicista, critico e agent provocateur della controcultura romana. Da anni opera come divulgatore e narratore di istanze estranee alla cultura italiana, introducendo nuovi termini e autori nel dibattito nostrano. Uno sguardo d’insieme cinico e originale che ha nella collana Not l’incarnazione più ambiziosa. Parallelamente il nostro si fa storico della cultura italiana del secondo Novecento, traducendo la critica musicale in affresco socio-filosofico, è il caso di Superonnda. Storia segreta della musica italiana e anche del recentissimo Remoria (minimum fax, 2019), in cui però la controcultura è solo uno dei vettori adoperati per condurre un’indagine massimalista, fra l’esoterico e lo scatologico, sulla città di Roma.

Remoria è la città nata dal rovesciamento del mito fondativo di Roma, una città ombra, fantasma, decentrata, in cui si rovesciano i rapporti di forza della città ufficiale. L’autore la definisce «una sorta di antitopia, di città che nega se stessa e così facendo inverte non solo il corso della storia, ma i significati che a quella storia hanno dato forma». Remoria è una città irreale eppure concreta, si manifesta nelle distese di case condonate, nei quartieri funestati dal dubbio gusto dell’edilizia popolare, nel groviglio di strade e sopraelevate, nei cumuli di monnezza venerati come idoli della periferia, fra i campi rom e le baracche di lamiera. Mattioli chiama questo sistema complesso «borgatasfera», l’intersezione fra le borgate romane e le diverse zone grigie nell’urbanistica della città, crasi di inorganico – cemento, amianto, legno – e organico – la variegata umanità che abita la borgatasfera.

Per raccontare Remoria l’autore si fa cantore dei suoi luoghi più rappresentativi: dal GRA come magnete e spina dorsale della borgatasfera, all’Ostia sottratta al mito di Pasolini e restituita ai tossici di Caligari, passando per la Centocelle dalle spinte eversive goth-punk, e poi ancora il Forte Prenestino e le occupazioni, la stagione dei rave con i vari luoghi di ritrovo e i propri eroi – da Freddy K a Lory D –, lo spirito utopico delle fanzine autoprodotte, fino alle potenzialità ancora insondate dei campi rom. La ricerca di Mattioli ibrida la profondità interpretativa di Simon Reynolds al pathos emotivo di marca fisheriana. Ne viene fuori una sorta di Cyclonopedia nostrana in cui sono sismografate le mutazioni della controcultura in borgata, dal proletariato giovanile fricchettone e comunista degli anni Settanta, all’irrompere del punk, dell’estetica goth, e poi ancora delle istanze rave. Il tutto irrorato, ovviamente, dalle droghe predilette in ciascuna stagione.

Il posto d’onore va però al coatto, «l’uber-predatore» prodotto genuino di Remoria, riletto secondo la lezione cyberpunk di Ranxerox. La figura del coatto è la chiave di volta dell’architettura di Remoria, perché si fa incubatore vivente delle contraddizioni del capitalismo urbano, e solo l’attraversamento materico – al di fuori di tanto elitismo che lo percepisce come biasimevole perché illetterato – del paesaggio psicologico del coatto può liberare le potenzialità inespresse della borgata.

In questo senso Remoria si pone come opera in grado di dialogare con Energy flash di Reynolds e Spettri della mia vita di Fisher. Dal primo riprende l’ambizione di delineare l’hardcore continuum borgataro – inteso come storia clandestina della controcultura di periferia – che potremmo tranquillamente definire “coatto continuum”. Dal secondo riprende e rovescia il discorso hauntologico: se Fisher indaga i fantasmi dei futuri abortiti mai realizzatisi, qui l’autore ragiona sulle possibilità eversive degli aborti presenti.

Valerio Mattioli non ha paura di peccare di hybris constatando lo scontro centro-periferia, per alcuni troppo semplicistico, ma nella vita di tutti i giorni vettore reale delle pratiche di controllo sociale del potere capitalista. Remoria è allo stesso tempo diario affettivo dei feticci di borgata e manuale di demonologia per il turbo proletariato contemporaneo. Un testo scaleno che riunisce i materiali più disparati e li organizza in una sostanziosa critica del presente, ottimo per disinnescare l’ideologia della gentrificazione (senza aspettare che la bolla speculativa scoppi) e la retorica del decoro. Mattioli ci dimostra che sotto quel cappellino pulsano bizzarri e preziosi ingranaggi, contraddittori come le potenze che scuotono Remoria.

(Valerio Mattioli, Remoria, minimum fax, 2019, pp. 283, 17 euro, articolo di Giovanni Bitetto)
Locandina Martin Eden su Flanerí

Martin Eden ridefinisce il cinema d’autore italiano

Premiato all’ultima Mostra del cinema di Venezia con la Coppa Volpi per l’interpretazione di Luca Marinelli, Martin Eden di Pietro Marcello è un film innovativo e coraggioso, capace di sovvertire il linguaggio del cinema d’autore mentre si spinge verso terreni poco esplorati.

Martin Eden è, all’origine, un romanzo di Jack London pubblicato oltre un secolo fa, nel 1910. Racconta la storia di un marinaio, Martin appunto, e della sua ambizione di diventare uno scrittore.

Marcello ha trasferito la storia dalla California alla Campania. Martin è sempre un marinaio mercantile che vive alla giornata, conquista donne, e finisce in risse. È proprio dopo aver difeso un ragazzo da un’aggressione che conosce la sorella Elena, figlia dell’alta borghesia colta e raffinata. L’attrazione è fortissima, come lo è il desiderio di Martin di leggere e conoscere sempre di più.

Grazie ai consigli di Elena comincia a formarsi una cultura e cresce in lui il sogno di diventare uno scrittore. I tentativi falliti sono tanti, mentre la famiglia di Elena diventa sempre più insofferente al legame tra i due. Martin diventa uno scrittore famoso, ma il successo, la cultura e la ricchezza non gli portano la felicità sperata.

Quello che era sorprendete del romanzo di London era la capacità di sintetizzare e in parte anticipare pensieri e movimenti che avrebbero poi determinato il secolo appena iniziato. Animato da un sincero socialismo, l’autore di Zanna bianca aveva costruito un personaggio che incarnava il bisogno di riscatto sociale di classi sfruttate e la loro frustrazione per una mancata rappresentanza.

Il Martin Eden del 2019 è invece la sintesi di un secolo. Non si pone in un periodo storico preciso. I fatti lasciano intendere che siamo nel ventennio tra l’ascesa del fascismo e l’inizio della seconda guerra mondiale, ma gli elementi di scena – vestiti, macchine, accessori – sembrano spingere il tempo più avanti. Sembra che Pietro Marcello si sia divertito a non fornire coordinate precise allo spettatore. Il suo è un discorso a-storico, perché l’inadeguatezza e l’insoddisfazione – intesi come slanci prima positivi, poi divoranti – di Martin Eden sono eterni.

La Storia, quindi, intesa come ordine consequenziale dei fatti, non sembra interessare al regista. Ne sono una prova ulteriore le affascinanti immagini di repertorio che si alternano alla finzione scenica. Una fusione perfetta, per tematiche e tecnica.

La gigantesca interpretazione di Marinelli, sempre più grandissimo interprete, fa brillare il film. Le trasformazioni di Martin Eden passano sul suo corpo, prima vigoroso e arrogante, poi consumato e stanco. È un’altra interpretazione dal grande carattere fisico dopo il precipitare nella droga di Non essere cattivo.

Pietro Marcello è riuscito a innovare il linguaggio senza perdere di vista gli esempi del passato – Luchino Visconti, soprattutto. In questo procedere senza riferimenti storici stabili e definiti, il regista riesce a essere manierista senza essere manierato, a portare avanti un discorso e una ricerca estetica senza risultare estetizzante.

Sono tanti gli elementi da apprezzare di Martin Eden. Il passaggio di ambientazione è perfetto, la scrittura è ricca, la regia elegante, il montaggio magistrale, le interpretazioni.

Questo Martin Eden rappresenta un importante passo avanti per il cinema d’autore italiano.

(Martin Eden, di Pietro Marcello, 2019, drammatico, 129’)

 

copertina di Quella metà di noi di Paola Cereda

Una storia semplice, quella di tutte le nostre metà

Prima fu la volta di Allan, che invece di avvoltolarsi nel suo benevolo piumone e lasciarsi celebrare da ammaestrato centenario, preferisce deviare, strappa il copione fitto di brodi e sonnellini e scappa dall’ospizio. Defenestra ogni programma, tutto quello che ci si attenderebbe da un candidato al rigor mortis come lui e diventa neanche a dirlo protagonista di un turbine insolente, anche più di un ragazzino. Grande successo editoriale quello di Jonas Jonasson, “anziano” ormai di un bel decennio, e del protagonista del suo romanzo sgangherato.

Di lì a un pugno d’anni una raffica di titoli fiuta l’umore di quella stagione. Ciascuno con il suo timbro, con l’accento ammansito di chi allenta il passo (ma non il pensiero) o con l’impeto che gratta sotto la scorza del cappotto. Da Piangi pure di Lidia Ravera, a La banda degli invisibili di Fabio Bartolomei, transitando per In viaggio contromano di Michael Zadoorian, E poi Paulette di Barbara Constantine, fino a Etta e Otto e Russell e James di Emma Hooper. L’elenco si arresta per il semplice bisogno di non farlo debordare. Ma parlerebbe di esorbitanti altre storie. Forse perché la prospettiva di vita ci lascia credere con gusto (non si sa per quanto ancora) di avere vallate di tempo stampato davanti al presente, forse perché a quarant’anni siamo in piena fase post-adolescenziale e abbiamo deposto da poco le pomate antiacne.

Forse perché è bello autoconvincersi che ci sia comunque un traguardo intatto, un’epopea del non vissuto pronta a farsi accarezzare, una seconda, quinta, ottava giovinezza che chiede solamente di essere scartata.

Ma insomma, il fatto è che la terza età non sembra più l’ultima del podio. Scala posizioni, esige udienza, scalcia di trame e scoppia d’incanti.

Quella metà di noi di Paola Cereda (Giulio Perrone editore, 2019), tra i dodici finalisti dello Strega di quest’anno, aggiunge la sua voce assegnandola a Matilde. La sua vicenda è quella di una sessantenne, incastonata nel suo angolo di periferia torinese, un quartiere col nome che sa di condanna, Barriera. Ma ovviamente non è quello l’unico confine che la irretisce. È un’ex insegnante in pensione e ora si ritrova badante, proiettata in zona altoborghese ad assistere fatiche e lamenti di Giacomo, ingegnere sconfitto da un ictus e recintato nel letto.

Non è facile ingollare il tono direttivo di sua moglie Laura, le bizze di Dora, la governante romena, le diffidenze di un uomo prima avvezzo al comando e poi incollato alle mani altrui solo per sopravvivere.

Eppure, in quel poligono estraneo in cui si accampa come un’intrusa, Matilde riesce a ritagliarsi un orlo di resistenza. Anche perché il resto non sorride, il resto non è meno ingarbugliato. Pendono nodi sulla sua testa.

È rimasta vedova quando ancora il suo ventre si allagava di progetti, con una figlia piccola che non le ha mai perdonato di non essere morta al posto del padre. Ha educato i bambini sognando le piante, cercando nell’orto il suo respiro sotterraneo. Ha carpito ben poche occasioni, un lavoro di consolazione, qualche frattaglia di conforto che le piove dal vicinato, dalla pelle abbattuta di chi le abita accanto.

L’amore per lei è un gambo reciso, un dono negato. E Matilde si abitua a innaffiarsi a metà. A tastare soltanto un emisfero di sé. Finché non bussa un altro viso, troppo giovane ma capace di spiaggiarsi dentro le sue rughe e allestire un riparo. Le sembra di poter ricominciare, in un altro abbraccio, in un’altra città, nel gorgo di una giostra in cui sentirsi premiata. Finalmente.

Ma la realtà è diversa, gracchia altre conclusioni. Matilde si ritrova sola, ancora una volta, pugnalata proprio da quella metà che aveva scelto di defibrillare. Ha sbagliato per sentirsi amata e la figlia Emanuela, personaggio difficile da non detestare per come viene sagomato, non sa riservarle nessun grumo d’affetto, neanche un cencio di pietà.

Il contratto familiare non prevede misericordia. Quella madre è solo una fonte d’imbarazzo, il ricordo incarnato di una partenza in salita, per lei che ormai è approdata in Precollina, con un marito-trofeo e una fortezza imbottita di aspettative.

Non c’è aroma di speranza, non pulsa alcun sintomo di recupero umano. La paziente coesiste col suo malessere, incassa l’amarezza, il metallo del distacco. Vorrebbe comporre discorsi come intrecci di fiori, saper veicolare il denso vapore della sua notte, essere colta, essere intesa, almeno una volta, ma forse troppo le è stato sottratto. «Voleva usare le parole giuste per dire amore, età, passione, sesso, gusto, vita, possibilità, soldi, errore, perdita e inizio nella stessa, lunghissima frase, capace di mettere insieme una storia, la propria, e un punto di vista nuovo dal quale la figlia avrebbe cominciato a guardarla, se solo avesse smesso di osservarla in base ai propri bisogni».

Vorrebbe, ma nemmeno nell’oasi di porte e promesse posta in palio da un romanzo è possibile redimersi, o sentirsi inclusa. È molto più facile, molto più fluido vestire solo una porzione di sé, lasciarsi sfiorare per sommi capi e accettare che ci definiscano pochi contorni, quelli spessi e fibrosi che intercettiamo per primi negli altri. Caratteristiche salienti, perché a scendere un po’ si rischia l’apnea.

Viverci e rapportarci da isole nebbiose. Quello che ci fa comodo venga concesso. E Paola Cereda restituisce la nostra muscolare struttura da vaso in frantumi, l’approssimato livore con cui cataloghiamo cose e individui (anche noi stessi) scordandone molto più di un’intera metà, con una schiettezza di dialoghi che permea il quotidiano e non tradisce il bisogno di onestà.

Lingua precisa, immediata, efficace per inquadrare Torino e le sue contraddizioni. Gli spaccati socio-emotivi di creature che si accavallano e si scontrano, spesso malvolentieri.

Nel microcosmo di personaggi che orbitano intorno a Matilde, il più riuscito è quello di Carmen, badante incrociata sull’autobus e capace d’incastrarsi nella sua malinconia. Porta addosso una storia come tante, e quindi preziosa, emigrando dall’Ecuador per occuparsi di una famiglia mentre qualcun altro laggiù dovrà occuparsi della sua: «L’ultima volta che era stata a Quito, si era sentita straniera nella casa in costruzione che non raccontava di lei, dei suoi sacrifici, delle giornate intere spese a fare economia. Si era sentita estranea nel proprio letto, accanto al marito e davanti ai figli che chiamano madre la nonna e Carmen la madre».

Anche lei come Matilde è una stella desolata, una vita più che adulta con troppo peso sulla sua luce, ma che in fondo, come tutti noi, spera ancora ci sia un giorno di cielo per poter crescere.

 

(Paola Cereda, Quella metà di noi, Giulio Perrone editore, 2019, pp. 210, euro 15, articolo di Cristiana Saporito)