Petit pain de mur jaune

Il petit pain de mur jaune, o la modernità come ossimoro

La scrittura di Joyce (1882-1941) e quella di Faulkner (1897-1962) sorprendono per la caratteristica di lasciare, entrambe, una sensazione complessiva di estrema e lucida sottigliezza di ogni particolare, quanto al contempo di criptica oscurità dell’insieme. La particolarità ossimorica di quest’aspetto risulta particolarmente evidente in Ulisse (1918) e in L’urlo e il furore (1929), opere certo diversissime tra loro, ma che muovono alla medesima fascinazione per lo stratificarsi inesauribile dei livelli di lettura e il raffinato incastro di toni e stili, secondo una capacità del tutto nuova di rappresentare le cose, allo stesso tempo distinta ed enigmatica, chiara e misteriosa, così come avviene nei sogni. Questi due capisaldi della letteratura del Novecento ci restituiscono, in sostanza, la quintessenza della vita e dell’arte moderna: lo spaesamento e la solitudine di fronte alla cangiante nebulosità del mondo, incomprensibile e scisso, dove tutto è polivalente e inafferrabile. 

Fondamentale dunque è risalire, come chiave di lettura tanto per Ulisse quanto per L’urlo, al concetto di modernità e al suo significato. Il primo ad avvalersene come categoria di giudizio dell’opera d’arte, come noto, è stato Baudelaire, che così la definisce nel cap. IV di Il pittore della vita moderna (1863): «È il transitorio, il fuggitivo, il contingente». E ancora: «Quell’indefinito che ci deve essere permesso di chiamare la modernità, giacché manca una parola più conveniente per esprimere l’idea a cui rimanda». L’acutezza della sua analisi consiste cioè nell’aver intuito, con netto anticipo sui tempi, proprio quel quid di frammentarietà, indefinitezza e ambivalenza che agisce da spartiacque tra un prima e un dopo, caratterizzando il mondo nuovo nato dalla rivoluzione industriale.

Intuizione questa che Walter Benjamin, nei suoi studi critici sull’argomento, sistematizza già dagli anni Venti del secolo scorso, quando comprende come quel disorientamento, dovuto all’indecifrabilità dei segni della vita moderna e alla disarticolazione della temporalità quotidiana, preconizzi il dissolvimento di ogni funzione eroica dell’arte, così come la perdita dell’aura poetica. In sintesi nella società attuale, che scienza e tecnologia hanno modificato dalle fondamenta, la coscienza, il sapere e la memoria sono rimessi profondamente in discussione. L’uomo, costretto a vivere in una società sempre più complessa, disgregata e in continua metamorfosi, è ridotto a flanêur, semplice osservatore la cui visuale è quella curiosa, stupita, – affascinata ma non idealizzante – degli «occhi senza sguardo» di Baudelaire. Sfuggendo la comprensione della totalità del reale e del suo profondo significato, l’attenzione ripiega dunque sui dettagli, sulle cose minime, sul banale che affiora in superficie. L’arte scesa dal suo piedistallo non spiega più il mondo, si limita a metterlo a nudo.

Chiarificatore a questo riguardo, negli stessi anni di L’urlo e di Ulisse, è il petit pain de mur jaune descritto da Proust in La Prisonnière (1923), il quinto libro di La recherche. Il celebre brano ci parla della morte dello scrittore immaginario Bergotte – ispirato ad Anatole France (1844-1924) e Paul Bourget (1852-1935) – il quale è colpito da infarto di fronte alla “Veduta di Delft” dipinta da Vermeer, quadro da lui già conosciuto e amato, ma dove per la prima volta scorge una piccola ala di muro giallo, apparentemente insignificante eppure al contempo, e in un modo del tutto nuovo, assolutamente fondamentale, tanto da morire pronunciando le parole: «Piccola ala di muro giallo con una tettoia, piccola ala di muro giallo». Perché?

Il personaggio proustiano si aggira per il museo Jeu de Paume, e mentre ne visita le sale è colpito da un pensiero che lo turba: «Passò davanti a molti quadri ed ebbe l’impressione dell’aridità e dell’inutilità di un’arte così artificiosa, e che non valeva le correnti d’aria e di sole di un palazzo di Venezia, o di una semplice casa in riva al mare». Ma è solo davanti alla “Veduta” che questa iniziale folgorazione si concretizza in una riflessione sul proprio stile letterario, emozionandolo nel profondo.

Mentre osserva il quadro, è attratto irresistibilmente dalla compiuta perfezione proprio di quel particolare angolo sulla destra della tela, dove si accorge di piccoli personaggi in blu, della sabbia rosa e infine della preziosa materia della piccolissima ala di muro giallo, dettagli sorprendenti che precedentemente non aveva mai notato. «È così che avrei dovuto scrivere… I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo».

È la prima volta che in un romanzo viene colto in modo così netto l’esprit della modernità: il banale del quotidiano, ciò che a prima vista sfugge perché non ha in sé nulla di eroico o di sublime, diventa il protagonista capace di catalizzare lo sguardo, il perno attorno al quale ruota tutto il resto. Nell’impossibilità di legare la totalità del reale in un significato univoco capace di spiegarla, oggi l’arte ne raccoglie i lacerti, staccati dal proprio contesto eppure finalmente capaci di assumere, individualmente, un senso e una dignità sconosciuti alle epoche precedenti. La modernità, in sostanza, vuole che non accada niente. Né epiche battaglie, né vicende di figure mitologiche, né grandi accadimenti storici. Solo un muro, della sabbia rosa, delle figure in blu appena intraviste.

 

L'urlo e il furore faulkner
Ma c’è di più: tale ambiguità è intrinseca non solo all’episodio di Bergotte in sé e per sé ma allo stesso petit pain de mur jaune. Difatti esso non esiste, inutile cercarlo nel quadro di Vermeer. Proust ne ha sovrapposto due particolari, un tetto inondato di sole – dunque giallo – nella zona interna destra e due muri chiari sullo sfondo al di là di un ponticello basculante, scambiato per una tettoia, all’estremità sempre destra dell’opera. Elemento di straordinaria novità, questa sfuggente ambivalenza non solo significante ma anche descrittiva, che ritroviamo quale caratteristica costituente sia di Ulisse che di L’urlo e il furore.

Enigmatica inafferrabilità che per quanto riguarda il testo di Faulkner si trova già nel titolo, in riferimento alla famosa frase della quinta scena dell’atto quinto di Macbeth: «La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più. Una favola raccontata da un’idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla». Dunque impossibilità di chiarire l’indecifrabile confusione del mondo – già intuita dal genio di Shakespeare ed ora assurta a cifra costitutiva della contemporaneità – che L’Urlo organizza sul doppio binario tanto del significato quanto della sua rappresentazione.

Gli eventi infatti sono suddivisi in quattro capitoli relativi a episodi cronologici frammentati e distanti tra loro, ciascuno dei quali affidato ad una diversa voce narrante con un linguaggio suo proprio – dal tono alto al tono basso, dall’iperbolico al conciso, dal gergale allo stream of consciousness secondo una destrutturazione del romanzo che vede i dettagli quali veri protagonisti rispetto alla trama, esplosa in mille brandelli il cui significato, più che a quel che accade, è affidato alle ombre di ricordi innestati dall’insignificanza elusiva delle minuzie: semplici suoni, colori e odori, pure sensazioni tattili, figure che ondeggiano in movimento dentro le prospettive vertiginose di quando sogniamo, ad occhi aperti o chiusi. È questo il senso, è questo il valore. Come nel racconto di Benjamin che, affetto da ritardo mentale, confonde fra loro piani temporali, memorie e presente; nelle frasi spezzate del flusso di coscienza di Quentin, specchio del suo tortuoso legame incestuoso con la sorella Caddy; nella puntigliosa meticolosità dei brani affidati a Jason, il fratello freddo e calcolatore; non meno che attraverso il punto di vista semplice e oggettivo di Dilsey, la governante nera testimone esterno delle tempeste della famiglia Compson, alla quale solo nell’ultimo capitolo è affidato un ordine della narrazione di impronta più tradizionale.

 

ulisse james joyce


Lucida perfezione dei particolari e sfocamento onirico dell’insieme che ritroviamo in Ulisse, il cui stile narrativo che varia dal registro parodistico al dottrinale al monologo interiore,
passando per giochi di parole e riferimenti slang, è diviso in diciotto parti racchiuse in tre capitoli: “Telemachia”, “Odissea” e “Nostos” – chiaro riferimento al poema omerico – seguenti ciascuno lo svolgimento cronologico di una stessa giornata (il 16 giugno 1904), nella quale ai personaggi che vi prendono parte per le vie di Dublino accadono eventi trascurabili e comuni della vita di tutti i giorni. Il tempo è tuttavia lineare solo apparentemente, in realtà sfuggente e immateriale quanto lo stesso protagonista Leopold Bloom, novello Ulisse non già singolo individuo narrante bensì insieme di coscienze frammentate. Viaggio di un giorno che, come quello dell’eroe di Omero, simboleggia l’avventura dell’uomo moderno alla ricerca della propria identità, nell’incoerente disordine di una realtà ormai senza punti di riferimento.

Tra i romanzi più importanti della letteratura del ventesimo secolo, Ulisse e L’urlo e il furore hanno saputo entrambi dare magistralmente espressione a quell’ossimoro che caratterizza l’incomprensibile modernità, con la sua nuvolosa leggerezza tanto simile all’oscurità misterica dei sogni eppure dalle sfumature così nitide, e di fronte alla quale ciascuno di noi – come un Leopold Bloom naufrago della società contemporanea o come i Compson, travolti  dal declino della propria famiglia – si trova smarrito e confuso nella propria individuale solitudine, alla costante ricerca di nuovi orientamenti per il domani.

copertina di la notte comincia piano di daniele titta

Durante un’orrida estate

Agosto 2019. Il caldo torrido imperversa in città, in questa estate feroce i picchi d’innalzamento della temperatura sono da record e la canicola rende l’aria quasi irrespirabile. Nonostante tutto decido di uscire, allora percorro l’asfalto rovente fino al parco e scorgo una panchina all’ombra di un leccio, c’è un filo d’aria, ma come oasi di fortuna può andar bene. Mi siedo e sfoglio le prime pagine di La notte comincia piano di Daniele Titta, una raccolta di sette racconti pubblicata da CasaSirio Editore (2019).

Immediatamente vengo trasportato dalla prosa di Daniele, e seguendo il filo della trama dei suoi racconti scopro, chissà se non a caso, che l’atmosfera facente sfondo a tutti i brani – eccetto l’ultimo – è in totale sintonia col clima di questa stagione: siamo anche qui d’estate, ma è un’estate sinistra quella narrata dall’autore, satura di odori acri e purulenti, come quelli emanati da un cumulo di pesce rancido abbandonato su una banchina sotto al sole.

Grazie all’efficacia di una prosa a forte impatto visivo – dove nella mente del lettore le immagini prendono vita con straordinaria immediatezza, formandosi come da sole – l’autore ci immerge in un mondo al confine tra l’orrido e il ripugnante, con personaggi spinti al limite estremo della propria esistenza: umanoidi assassini, bambini precocemente cresciuti, adolescenti di periferia rosi dalla noia, tossici disperati, vecchi soli e stanchi della vita. E da contorno compaiono dei mostri come sirene arenate sulla spiaggia, orde di cadaveri che affiorano dal mare, ragni giganti rintanati nei ripostigli, il corpo di una ragazzina dato pezzo per pezzo in pasto ai pesci in un laghetto.

Tra tutti gli scenari calati nei racconti ne risalta uno in particolare che, a parer mio, è forse il più realistico, in cui l’orrido s’incontra con lo squallore della realtà di periferia: si tratta del penultimo racconto ironicamente intitolato: “Guardando al futuro con ottimismo”. Tra un gruppo di annoiati adolescenti e alcuni tossici della periferia romana, all’improvviso dilaga un’epidemia di tagli col rasoio autoinflitti sulla pelle, di amputazioni di cartilagini eseguiti con maestria chirurgica, tentativi più cruenti che disperati per sfuggire a una realtà che esplode tutt’attorno, dentro e fuori.

«La periferia è uno stato mentale, una colpa non colpa dalla quale non ci si monda mai, un odore cattivo che si gode a inalare senza aprire la finestra», dove la sorda sofferenza annienta qualsiasi ulteriore questione: «In fin dei conti, quando si tratta di dolore chi è in grado di definire che cosa è giusto e cosa è sbagliato?»

Racconto emblematico della raccolta che, insieme a “Benedici i resti”, testimonia attraverso le vicende dei personaggi la desolante, piatta e indifferente condizione di una coscienza individuale totalmente distaccata dal proprio vissuto e sguazzante nel magma di un tempo amorfo e inerte, dove l’azione è solo un riflesso condizionato di un meccanismo sociale senz’anima.

Notevole, tra gli altri, il racconto che chiude il libro e che dà il titolo all’intera raccolta: “La notte comincia piano”, in cui Titta cambia bruscamente scenario: dopo averci fatto annaspare nel clima di una torrida estate ci investe ora con una doccia fredda, allestendo la narrazione di un efferato omicidio perpetrato in un gelido inverno di un paesino di montagna. Si concentrano qui elementi di horror e di mistero degni delle più famose creazioni di Lovecraft, che il lettore amante del genere non potrà sicuramente non apprezzare.

(Daniele Titta, La notte comincia piano, CasaSirio Editore, 2019, pp. 160, euro 14, articolo di Daniele De Cristofaro)
Copertina di "La gente non esiste" di Paolo Zardi

L’umanità delle persone comuni

C’è un nucleo profondo comune a tutti i racconti, pur molto diversi tra loro, contenuti nella nuova raccolta di Paolo Zardi, La gente non esiste (Neo Edizioni, 2019): è l’umanità di tutti i personaggi in gioco, e lo sguardo indulgente, quasi affettuoso che dà voce alle loro storie.

Cosa significa in fondo che la gente non esiste? Significa che non esiste quella nozione di altri concepiti come esterni da noi, che guardiamo da una distanza e che hanno l’aspetto stereotipato di chi vive vite medie e compie scelte medie: che è tutto un’illusione.

Esiste invece il singolo individuo, che sopravvive come può alla mediocrità della vita in una vaga, quasi infinita provincia del Nord Italia, e alle aspettative elevate della vita di città; che ama, che prova, che cerca felicità come gli riesce.

La persona che Zardi racconta è l’uomo di “Neolingua”, l’impiegato di un’azienda informatica, che dopo il liceo classico, la laurea in scienze politiche e cinque anni di disoccupazione trova un nuovo sbocco lavorativo in un settore diverso – che di per sé lo soddisfa, se non per «la qualità della conversazione durante le pause», salvata solo da un collega con cui discute il mondo, sfuggendo per un po’ alla banalità: «La felicità non era più un diritto dei cittadini ma un dovere, perché era il comburente del consumo. I soldi, diceva, da soli non bastavano: bisognava avere voglia di spenderli. Per questo motivo il ventunesimo secolo stava eliminando la possibilità di essere infelici e Facebook, che in borsa valeva più di 300 miliardi di dollari, doveva garantire questo risultato. Ecco il centro del suo ragionamento: la mancanza del tasto Non mi piace era ideologica».

Sono anche gli inquilini di un condominio, ognuno solo per ragioni diverse, che in “Warming Day” stringono piccoli legami per alleviare la malinconia, mentre un altro inquilino, troppo preso a cercare di non vedere la propria sofferenza, perde l’occasione di essere parte di quel gruppo male assortito di solitudini incrociate.

È l’uomo che sceglie di rispondere a un’email di Irina, «una ragazza russa di 27 anni, che cercava un uomo da amare, un classico del suo genere», e ne trae un piacere sottile pur rimanendo sempre cosciente dell’inganno, mentre guarda il proprio padre perdere la lucidità; è la coppia di genitori avanti con gli anni sconcertata quando viene citata in giudizio dal giovane figlio gay che li incolpa di non aver accettato il suo coming out.

È la vita di persone semplici, che vivono la quotidianità del mondo contemporaneo con rassegnazione e a volte con gioia inaspettata. È il racconto di piccole illuminazioni, di sprazzi di lucidità improvvisi: dei momenti brevissimi in cui si scosta il velo del mistero e si intravede il senso di essere al mondo, come la splendida madre di “Pattini” che guarda i propri figli al parco giochi e immagina il loro futuro come uno specchio del suo passato: «Un giorno si sarebbero fermati e si sarebbero domandati che fine avesse fatto la propria vita: che ne era stato di quelle promesse, delle speranze che avevano riempito tutti gli anni fino a quel punto. E ci avrebbero messo un po’ a capirlo – o forse non ci sarebbero mai riusciti – che il futuro, le possibilità inesplorate, i sogni, si tramandavano di madre in figlio, come un testimone, e l’unica cosa che davvero contava era mollare la presa sulla vita nel momento giusto».

Paolo Zardi racconta ogni età, ogni condizione di vita – la vecchiaia, la malattia, le disabilità – con lo stesso sguardo privo di preconcetti o di generici buoni sentimenti, con la stessa impietosa umanità. Che parli delle piccole crudeltà dei bambini, o delle improvvise fantasie sessuali di un uomo di mezza età, la voce dell’autore scivola con leggerezza da un punto di vista all’altro raccontando i vissuti di persone comuni che reagiscono in modi a volte incomprensibili a un ineluttabile «orrore quotidiano» da cui solo la fine del mondo potrebbe salvarli.

È in questo senso che si accolgono come una parte quasi necessaria del tutto le incursioni in altri generi, nel fantastico e nella fantascienza, ma soprattutto in un post-apocalittico terribile e attraente, che non è così tanto fine del mondo quanto la fine prossima dell’Occidente: «Le cose erano finite di colpo, oppure erano finite da un sacco di tempo e nessuno ci aveva fatto caso […] La miseria si era portata via quasi tutto, ma erano rimasti il sesso, una fame insaziabile e il libero mercato».

“Il ventunesimo secolo” – ambientato in un mondo non dissimile da quello di XXI secolo, il romanzo con cui Zardi è arrivato finalista al Premio Strega nel 2015 – è un racconto che ferisce in modo più violento degli altri, doloroso ma non per questo privo di ironia. Persino qui, a tenere in vita delle persone già quasi morte, quasi zombie in un paesaggio devastato, c’è la stessa ricerca di piccole felicità, lo stesso filo di speranza che anima tutti gli altri uomini e donne della raccolta, in modo indipendente rispetto alle circostanze della vita.

La stessa improbabile speranza del racconto di vera e propria fantascienza “Vita”, in cui due astronauti che guardano la terra spegnersi dalla loro stazione spaziale e hanno il dubbio di essere gli ultimi due esseri umani nell’universo.

Aleggia sullo sfondo, comparendo a volte in discorsi disparati, il riferimento alla pecora elettrica del romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick, che porta con sé una domanda senza risposta: siamo umani o replicanti? Siamo reali, è reale ciò che viviamo e che abbiamo vissuto – come la donna malata terminale del brevissimo e sorprendente “Un sogno”?

Alla fine della lettura di La gente non esiste tutto resta ciò che è: mistero. Non ci sono risposte rassicuranti, non ci sono scorciatoie o una morale da trarre. C’è però qualcosa di molto più potente: il senso di una vicinanza più profonda con l’umanità, di un’empatia ristabilita con la gente che incrociamo per strada, in spiaggia, per le scale, che solo in apparenza non riusciamo a capire ma che affronta ogni giorno una sofferenza privata non così diversa, non meno assurda e ironica della nostra.

(Paolo Zardi, La gente non esiste, Neo Edizioni, 2019, pp. 207, euro 14, articolo di Daria De Pascale)
Poster del film L’ospite su Flanerí

Quanto fa paura l’idea di scomparire

Banalmente, L’ospite di Duccio Chiarini è un film che racconta la fine di una storia d’amore. La fine di una storia d’amore che è anche, in questo caso, la fine di un’età (o di un’epoca) in cui tutto sembrava, se non semplice, perlomeno possibile. Ed è proprio da questo spunto – da una fine prima solo annunciata, sospirata, paventata – che il motore narrativo del film si accende, facendoci respirare, sin dalle prime battute, un senso di ineluttabilità che lascia pochi dubbi su quello che sarà. Su quello che non sarà più.

L’ospite si snoda attraverso un labirinto di tentativi goffi e teneri, insieme, ai quali il protagonista si aggrappa per riposizionare i tasselli della sua storia con Chiara al proprio posto, laddove li aveva(no) lasciati prima che un pomeriggio d’inverno e un preservativo bucato non spazzassero via tutte le certezze.
«Un segno del destino» dice lui sommessamente, quasi vergognandosi di quello che sta sentendo in quel preciso istante. «Solo un imprevisto», pensa lei, guardando da un’altra parte.

Un figlio che potrebbe arrivare. Un figlio che non arriverà. «Ne abbiamo parlato già tante volte, pensavo fossimo d’accordo». Le parole di Chiara, che in un’altra circostanza sarebbero state addirittura superflue, questa volta, questo pomeriggio, hanno un effetto deflagrante.

Sarà la risolutezza con cui le pronuncia, quelle parole, ma il peso che Guido si sente gravare addosso appare, sin da subito, quasi insopportabile. Ce lo raccontano i suoi occhi. Ce lo racconta il modo impacciato con cui cerca di aprire nuovi scenari, attraverso parole incerte e frasi spezzate.

È il primo (o forse ultimo) passo verso il precipizio, anche se è logico pensare che di passi, prima, Guido e Chiara ne avevano già compiuti molti, uno in una direzione e una in un’altra. Senza rendersene conto, forse, protetti e viziati da una relazione stabile e tranquilla, serena e monotona.

I minuscoli malesseri quotidiani si fanno, d’un tratto, enormi. Chiara mette l’accento su tante piccole cose che non gradisce (che non ha mai gradito), e Guido prova a minimizzare. Ma il filo sul quale si poggiano queste continue schermaglie è troppo leggero per reggere il peso di tutto il non detto che si muove al di là dei contrasti sempre più frequenti.

La scelta di andarsene di casa, una casa oramai troppo piccola per poter ospitare le paure di lui e le nuove consapevolezze di lei, è la logica conseguenza di una relazione che fatica, oramai, a riconoscere se stessa.

Inizia da qui, dunque, il pellegrinaggio di Guido, un viaggio obbligato verso l’ignoto, nel quale si alternano situazioni dolcemente esilaranti (i consigli sconclusionati degli amici, anche loro alle prese con piccoli e grandi disagi quotidiani) ad altre in cui la malinconia avvolge ogni pensiero, ogni gesto, ogni intenzione.

Guido è smarrito, perché non sa dove andare. O, meglio, sa dove andare, ma nessun posto potrà più dargli tutte le cose che sta perdendo. Tutte le cose che ha già perso. Ospite dei suoi genitori, invecchiati di colpo, fotografie sbiadite di un tempo che Guido rimpiange, ospite dei suoi amici maldestri e disperati, ospite di notti interminabili e di una città aliena, se Guido si affaccia al di là dei suoi tormenti vede in lontananza il profilo nitido dei suoi quarant’anni. E trema un po’.

Guido comprende di non essere più un figlio e di non poter diventare un padre, almeno per il momento. Nuota in un limbo nel quale vengono inghiottite, indistintamente, speranze e intenzioni. Vive nel presente perché non può fare altro. Il passato, soprattutto quello recente, è troppo doloroso, e il futuro non ha, al momento, contorni né sostanza.

Costretto a una condizione ibrida, incatenato in una sorta di immobilismo che fa a pugni con la vita (le vite) che gli gravitano attorno (che sembrano muoversi alla velocità della luce), Guido, giorno dopo giorno, prende coscienza di ciò che è diventato, di ciò che non potrà più essere, mentre via via i timori lasciano spazio alla cupa eppure salvifica rassegnazione.

Parafrasando Italo Calvino (Guido sta scrivendo, proprio in quei giorni burrascosi, un saggio sull’autore), comprende poco a poco che il muro alzato da Chiara si fa ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo più alto.

«Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori», scrive Calvino in Il barone rampante. E il muro di Chiara – e faremmo un torto alla sua onestà e alla sua intelligenza se non la pensassimo così – è frutto di una scelta ben ponderata, tanto ragionata quanto sofferta.

Fa male non essere più amati. Ma fa male anche rendersi conto di non amare più. E perciò le lacrime di Chiara non sono meno vere di quelle di Guido, che nudo accanto a lei, in un letto che non sarà più il loro, finalmente riesce (in una delle ultime scene del film) a sfogare tutta la sua amarezza. La necessaria esplosione che giunge come una tempesta dopo una miriade di piccole e grandi implosioni.
«Non mi ami più?», le chiede. Una domanda retorica stupida e struggente che ce lo fa sentire ancora più vicino. Ancora più umano.

Chiara andrà a vivere in Canada. E lui resterà a Roma. Forse.
Con una precisione quasi chirurgica il cerchio si va a chiudere proprio in quegli istanti, e la narrazione torna essenzialmente al punto di partenza, solo che le nuove consapevolezze dei due protagonisti, adesso, appaiono inscalfibili, e l’atmosfera di fatalità che si respirava fin dai primi fotogrammi, ora si è palesata in tutta la sua definitezza.

È un film che avresti voluto scrivere tu, L’ospite, perché mette a nudo tutte quelle problematiche che una generazione senza nome (e chi ha un’età che vai dai trenta ai quarant’anni in questo preciso periodo storico lo sa bene) si trova costretta ad affrontare senza soluzione di continuità, e lo fa ribaltando qualsiasi tipo di cliché e annientando la miriade di luoghi comuni che troppo spesso hanno invaso questo genere di argomenti (ogni riferimento mucciniano non è puramente casuale).

I turbamenti, le preoccupazioni, la paura di diventare «più che grandi», lo sgomento che anticipa o segue una scelta (da prendere o da metabolizzare), la precarietà esistenziale (e lavorativa) sono temi che molti film italiani, in questi ultimi anni, hanno trattato. Ma è il modo in cui in questi temi vengono esposti, senza compromessi eppure senza scivolare in schemi melodrammatici obsoleti, a lasciare positivamente stupiti.

La macchina da presa segue questa «cronaca di un addio», questi giorni dell’abbandono, in maniera discreta e a tratti invisibile, e spesso ci si dimentica di trovarci di fronte ad una pellicola cinematografica, tanta e tale è l’empatia che i protagonisti del film (Daniele Parisi e Silvia D’Amico, già in coppia in Orecchie, di una naturalezza straordinario) riescono a rendere impattante in ogni sequenza.

Ci sono situazioni e dialoghi che strappano sorrisi sinceri. Memorabile la scena in cui Dario, l’amico Don Giovanni di Guido, afferma di non aver avuto il coraggio di lasciare la sua compagna di domenica, perché crede sia ingiusto lasciarsi di domenica, «meglio il lunedì, ché una il lunedì c’ha altre cose da fare, sai, il lavoro, e magari si distrae». Ci sono momenti in cui l’inquietudine si mescola all’accettazione di una realtà che non è come si vorrebbe. In questo equilibrio, L’ospite scivola via come una lacrima trattenuta, indecisa se precipitare al suolo o se restare lì, sospesa, nell’attesa che qualcosa (o qualcuno) possa cambiare.

«La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire», canta Brunori al pianoforte, mentre Guido si decide (forzando un po’ le sue intenzioni?) a baciare Roberta, l’ex fiamma di Dario, forse per illudersi che per dimenticare Chiara non ci vorrà poi molto tempo.
E con ogni probabilità è proprio quella la paura più grande di Guido, l’idea di scomparire, l’idea che, una volta perduto ciò che si pensava potesse durare per sempre, si possa svanire anche noi; che ci si possa dissolvere a poco a poco, invischiati in una sfilza di giornate tutte uguali e con la prospettiva di vivere molti anni senza più estati. Ospiti della nostra stessa esistenza.

Al secondo film di finzione dopo l’interessante Short Skin, Duccio Chiarini si conferma come uno dei nuovi registi italiani da osservare con estrema attenzione.

Non serve, e probabilmente non ha molto senso, scomodare materie quali la filosofia e la sociologia, per comprendere che L’ospite non è solo un film che parla in maniera delicata e toccante di una (fine di una) storia. L’ospite è, innanzitutto, una riflessione molto lucida e cosciente su quello che è, che rappresenta, e che, al fine, ci nega, il tempo che stiamo vivendo. E lo fa partendo da una vicenda nella quale tutti possiamo riconoscerci, una vicenda nella quale emergono con nitidezza espressioni emotive quali la fragilità e l’incapacità di capire cosa vogliamo davvero.

Copertina di "L'anno che Bartolo decise di morire" di Valentina Di Cesare

Un’istantanea delle nostre vite a ribasso

L’anno che Bartolo decise di morire (Arkadia, 2019) non accadde poi nulla di particolare in città: le solite cose, diciamo, che accadono in provincia a ognuno di noi, cose che si ripetono ormai quasi senza lasciare dietro di sé un’eco, un lascito, ma solo vuoto, assuefazione quasi, rassegnazione. Ma non per Bartolo, e infatti queste cose che accadono e non accadono finirono per portarselo via. 

È in un clima di apparente immobilità che si dipana il secondo romanzo della scrittrice abruzzese Valentina Di Cesare, autrice anche di Marta la sarta (Tabula Fati, 2014), di recente tradotto in rumeno e in spagnolo. Un’apparente immobilità che rappresenta appieno la vita e il tempo delle città di provincia italiane al giorno d’oggi: attraversate, sconvolte persino, da piccoli o grandi eventi personali, sociali, delittuosi, economici che hanno la durata di post, di un tweet, di un servizio al telegiornale, di un attimo di commemorazione, per poi ritornare tal quali erano prima dell’accaduto; come paludi che tutto affossano, dove tutto scompare.

La trama del libro di Valentina Di Cesare è nelle nostre home di Facebook, nelle nostre televisioni, nei nostri quotidiani, come nelle chiacchiere al bar dove siamo soliti andare, o nelle cene in famiglia, o nel tempo passato con gli amici: piccole insoddisfazioni che trapelano, il desiderio di fuga, di cambiar vita, le crisi di coppia; e poi la grande fabbrica che chiude, l’infinita crisi economica, l’amicizia che, con l’avanzare nell’età matura, perde di profondità, di empatia, e i confronti che diventano sfoghi, l’ascolto che diventa scontro, l’opinione che diventa giudizio. Nella città di Bartolo non succede nulla di più o di meno di ciò che viviamo quotidianamente nelle nostre. L’esistenza di Bartolo è come la nostra, il suo gruppo di amici è simile al nostro, la sua routine potrebbe appartenere a ognuno di noi.

In questo quadro, Bartolo pare essere l’unico elemento fuori schema, la scheggia impazzita, o forse, più esattamente, la bussola, lo specchio attraverso il quale è possibile riflettere la narrazione del tempo, degli eventi. Bartolo non è una persona speciale, è solo quello che gli amici definiscono il più sensibile, il più attento, quello che in caso di bisogno c’è sempre. Ma in questa umanità e in questa socialità che, irrimediabilmente, sembrano tendere al ribasso, Bartolo è anche colui sul quale gli eventi non passano senza lasciar traccia, colui nel quale la quiete non torna dopo la tempesta. E si danna, si dispera, ma in silenzio, come non avesse più attorno un mondo empatico, un mondo che sappia metabolizzare il vissuto.

L’anno che Bartolo ha deciso di morire è, dunque, un romanzo intimista, nel quale però il tentativo di tracciare le peculiarità dell’animo umano sembra perdersi, ridursi assieme all’oggetto di ricerca. Le descrizioni delle scene sono quasi completamente assenti, l’azione stessa è ridotta al minimo. Le scenografie, gli ambienti, la città non hanno caratteristiche, tratti distintivi, sono luoghi sempre possibili altrimenti che rimandano a un’intima alterità: luoghi da approfondimenti televisivi pomeridiani, un po’ nostri e un po’ di nessuno, in cui immedesimarsi e in cui sentirsi alieni; esattamente come nelle nostre città.

Solo i dialoghi fanno differenza. Dialoghi che non sembrano dialoghi, ma monologhi, nei quali si dispiega una lingua, quella della Di Cesare, sempre calibrata ai personaggi, sapiente di un sapere reale, idoneo, mai sopra le righe, mai fine a se stessa. I personaggi sembrano disperati attori a un provino o, di contro, saggi interpreti in un teatro senza platea né galleria; portatori di frustrazioni, di sfoghi o di conoscenza e di idee senza sponda, autoreferenziali, così simili a quanto disseminiamo giorno dopo giorno sui social network. Monologhi però, che in questa continua autonarrazione, finiscono per fare il gioco dell’autrice, la quale attraverso essi può esprimere e ricucire quei tratti d’intimità che stiamo perdendo; quasi a dire, a testimoniare, che se stiamo smarrendo la via del dialogo non è perché non abbiamo più nulla da dirci, ma perché non sappiamo più ascoltarci, non riusciamo più a comprendere il valore dell’altro, della reciprocità.

La sacralità dell’amicizia e la sua trasformazione in banale frequentazione, l’amore e la sua fine disperata, la crisi e il suo superamento, il tempo e il tempo che sappiamo dedicare a queste cose intime, a noi stessi e alle persone che abbiamo intorno: questi sono, in definitiva, i veri oggetti del romanzo. E Bartolo, con il suo sacrificio, altro non ci suggerisce che senza una vera partecipazione e una profonda condivisione – la via che abbiamo imboccato – la vita, in fondo, non vale la pena di essere vissuta.

(Valentina Di Cesare, L’anno che Bartolo decise di morire, Arkadia Editore, 2019, pp. 112, euro 13, articolo di Alessandro Chiappanuvoli)
cover di Biliardo sott'acqua di bensimon

Lo scacco brasiliano

Un bar raso al suolo di cui restano solo i detriti; la facciata di una casa color salmone in progressivo sgretolamento, una piscina abbandonata e intasata dalle foglie; ecco alcune immagini con cui è riassumibile Biliardo sott’acqua di Carol Bensimon (Tunué, 2019).

Costruito come un romanzo corale, il libro ruota attorno a un’assenza: la giovane, bellissima, spensierata e solare Antȏnia è morta di una morte di quelle da stupidi; tutti sanno che in quel tratto la discesa è ripida e bisogna rallentare, anche lei l’avrà fatto migliaia di volte, eppure quella sera è andata giù, a sbattere contro un palo. E questo lo sappiamo fin da subito.

Antȏnia lascia un vuoto, come un centro gravitazionale attorno a cui ruotano i superstiti al cui punto di vista siamo a turno introdotti. Bernardo, con un ruolo sentimentale non chiaro nei confronti della defunta; Camilo, il fratello spiantato; il Polacco, gestore del bar di quartiere in fuga dal suo passato. Questi i tre protagonisti, circondati da una serie di comparse che fanno capolino nella storia solo per illuminare specifiche prospettive sulla morte di Antȏnia, mai risolutive.

Se infatti l’incidente della ragazza appare a prima vista un mistero per le circostanze e per la dinamica (Con chi era? Dove stava andando o da dove tornava? etc.) sarà vano ogni tentativo di ricostruire l’accaduto. L’indagine frustrata attorno all’incidente infatti non è il vero centro del romanzo, che, pur potendo intraprendere la strada del giallo o del noir, scarta presto verso una dimensione riflessivo-contemplativa concentrata sulle tre figure che gravitano attorno al vuoto lasciato da Antȏnia.

È da questa morte infatti che, come una valanga, prende l’abbrivio il moto di sgretolamento delle loro esistenze, ridotte a solitudini, bloccate nella loro storia irrisolta, fatta di povertà e incuria, di mancanze costanti a cui fare abitudine.

La dimensione memoriale e quella della perdita, il rimorso e il rimpianto, sono le emozioni nere che fin dalla citazione iniziale («You can’t put your arms around a memory») impastano le storie di chi rimane, mandando in cancrena tutti gli aspetti quotidiani dei personaggi: «È lo scarto fra le rare dimenticanze e il ricordo di quasi ogni momento, un gelo che comincia nel cervello e scorre giù nel corpo fino a lasciarti con le gambe molli. E per esempio ti fa scoprire che non c’è più nessuna logica nel venire qui ai giardinetti. Pattinare o giocare a hockey assume un andamento da danza funebre e all’improvviso tutta la vita sembra un’anticamera della morte. Mi capita di continuo».

Nessuno infatti, avvicinandosi alla conclusione del romanzo, riesce a ottenere qualcosa di più rispetto all’inizio della vicenda e spesso neppure a mantenere ciò che già possiede. A niente poi vale la discussione, la ricerca, la fuga da se stessi o l’illusione di un cambiamento («sembrava che [i discorsi] si fossero arrugginiti in qualche posto profondissimo dentro di noi»), su ogni strada si spalanca un vuoto che fa inabissare ogni possibilità di superamento dell’oscurità.

Anche gli spazi percorsi dai protagonisti, sporchi, vuoti e diroccati, contribuiscono ad alimentare la percezione di abbandono; di questi il Bar del Polacco e la casa di Antȏnia e Camilo sono gli unici di cui abbiamo descrizioni chiare e, posti uno dirimpetto all’altro, rappresentano il lugubre e asfittico palcoscenico della vicenda («Riesco quasi a vedere il sudiciume che si appiccica ai muri a poco a poco e le cose che degenerano una dopo l’altra, tipo un giorno che ha piovuto tanto, per cui c’è stato un gatto che ha spostato una tegola, che poi è caduta portandosi appresso un pezzo di intonaco, che poi è finito in qualche posto con l’erba troppo alta, che a sua volta ha attirato gli insetti i cui cadaveri si vedono ancora in fondo alla piscina»).

Per il resto, invece, lontani da ogni suggestione “tropicale” o “esotica”, i luoghi di Biliardo sott’acqua sono quelli di una provincia anonima, ben poco connotata, che hanno molto in comune con i microcosmi creati da autori come Haruf e Drury, piuttosto che con la tradizione sudamericana. Gli ambienti sono genericamente isolati e desolanti, descritti in maniera sfumata, mai precisa, divenendo proiezioni delle riflessioni dei personaggi e dei loro stati d’animo.

Proprio questi luoghi infatti contribuiscono a suscitare una dimensione di inerzia che fa coppia con il senso della perdita, impregnando il cosmo abitato da Bernardo e gli altri. Dai colpi al biliardo, al parlare dei sentimenti, agli interventi di riqualificazione urbana, tutta la realtà di Biliardo sott’acqua dà solamente l’illusione di muoversi, rimanendo invece inesorabilmente ferma e riducendo la vita quotidiana a sopravvivenza: «Lui beve un sorso di caffè e si alza pieno di entusiasmo. Il tipo di entusiasmo accumulato da chissà quanti anni in cui ti sei tenuto pronto nell’attesa di qualcosa che non succede mai. Nel frattempo prendi le ferie pagate, la tredicesima e va benone così. Passi le giornate a fissare un ascensore su uno schermo e l’unico modo per farti salire l’adrenalina è guardare un poliziesco quando torni a casa».

L’attesa di qualche cosa che non accade mai è un ritornello nefasto del libro, lasciando i protagonisti immersi in una palude di contorsioni del pensiero che finiscono per indirizzarsi continuamente alla morte di Antȏnia, agli ultimi momenti passati, alle responsabilità individuali e ai non detti, oramai ingessati in un passato che, se da un lato grava con tutto il suo peso, dall’altro sembra essere a ogni passo più evanescente e insondabile. È in questo modo che la morte di Antȏnia continua a riproporsi nella trama come punto di costante ripartenza e riflessione per tutti.

Descritta più volte come una ragazza fuori dal comune, un fiore sbocciato in mezzo alle macerie, Antȏnia pare conservare in sé troppa bellezza e intelligenza per appartenere a un posto di simile afflizione. Ma il mistero della sua morte ha più a che fare con la realtà descritta da Bensimon che con la vicenda specifica dei protagonisti. Quasi come una Remedios la Bella al negativo, Antȏnia ha indorato per tutti i suoi anni le vite degli altri, illudendoli che la realtà non fosse solamente quel vuoto appiccicoso in cui si ritrovano intrappolati. Scopriamo quindi a lettura terminata che la sua morte non è l’inizio di una decadenza per i protagonisti, ma che quella decadenza era sempre stata lì in agguato, mitigata dalla presenza vitale della ragazza. Inoltre, l’inspiegabilità di una morte così stupidamente incosciente e l’incapacità di trovare soluzioni, sembrano essere un avvertimento della realtà: in quei luoghi non c’è speranza di redenzione e tutto ciò che differisce dalla passiva viscosità di quell’ambiente viene soppresso ed eliminato.

In un romanzo fatto di disperazione e frustrazioni, Bensimon mette in scena una storia completamente immobile e irrisolta che dà spazio a un tragico silenzioso, raccontando un Brasile mai visto, ben lontano dai colori sgargianti delle cartoline per turisti, ai margini delle cartine e delle mappe, dove tutto congiura verso l’annichilimento e il tempo si impaluda in ciclicità indistinguibili: «Deve esserci stato un buon motivo per scattare questa foto. Non ne abbiamo scattate molte in vita nostra. Non avevamo il tempo né il denaro per preoccuparci dei ricordi, o almeno così diceva mia madre: il passato è per chi se lo può permettere».

(Carol Bensimon, Biliardo sott’acqua, trad. di Daniele Petruccioli, Tunué, 2019, pp. 144, euro 17, articolo di Alessandro Mantovani)
cover serie tv Chernobyl

Chernobyl è davvero il miglior prodotto televisivo di sempre?

Ideata e scritta da Craig Mazin (sceneggiatore, tra gli altri, di due Scary Movie, Una notte da leoni 2 e 3, e Superhero, di cui Mazin cura anche la regia), Chernobyl si compone di cinque episodi e ha già conquistato sei candidature agli Emmy di quest’anno (miglior miniserie, regia, sceneggiatura, attore protagonista, attrice e attore non protagonisti).

Il fenomeno creato da Chernobyl (si pensi che nei luoghi del disastro il turismo è aumentato del 40%) si lega a un più ampio discorso sulla ricezione estetica popolare. L’appoggio quasi unanime di quella critica considerata autorevole porta di solito gli spettatori all’elaborazione di un giudizio quasi irremovibile, formulato attraverso commenti tendenzialmente “preconfezionati” (s’intende: sicuri, sentiti e riproposti, vaghi, di difficile confutazione).

Forte del parere degli esperti – che in realtà la storia ha ampiamente dimostrato come tenda a modificarsi – il pubblico – e parte della critica – finisce per accodarsi, fino a che l’opinione diventa una realtà comunemente accettata. Viceversa, alcuni fattori contribuiscono a una reazione di contrasto col giudizio delle autorità (esempio facile: La grande bellezza riceve l’apprezzamento del mondo intero, ma il parere diffuso degli italiani è che si tratti di un film “furbo” o difettoso o noioso o scopiazzato, o semplicemente mediocre). Chernobyl raccoglie (quasi) solo recensioni piene di entusiasmo, segna punteggi record, ruba su IMDb il primato a Breaking Bad con il voto di 9.6 (l’altro si era fermato a 9.5)

A HBO è stata però rimproverata la recitazione in inglese, che a detta di qualcuno avrebbe inficiato (pur di poco) l’impatto realistico del prodotto. Questa critica – l’unica, viene da dire, capace di sopravvivere all’acclamazione generale fino a imporsi come un’opinione più o meno accorata – fornisce in sé un primo indicatore di lettura dell’opera.

Al netto della ricerca di accuratezza – nella ricostruzione cronistica, eziologica, umana, ambientale, storica – Chernobyl resta una (mini)serie a metà fra la fiction e la storia, e nemmeno con quello stampo falso documentaristico che pare essere stato volutamente scartato. L’altra critica – che si correla alla prima – è nella rappresentazione faziosa dell’Unione Sovietica, le cui colpe emergono attraverso uno sguardo a tratti perfino parodico, in quella che, a un’analisi più meticolosa e parcellizzata, rischia di apparire una rivendicazione di una superiorità innanzitutto morale. Senza volerla buttare in politica, o più “semplicemente” farne una questione ideologica, ma proprio per la spigolosità della vicenda, questo prodotto un po’ più degli altri necessita di una visione, se non particolarmente critica, quantomeno disincantata.

L’impianto dell’opera poggia sui resoconti contenuti in Preghiera per Chernobyl, saggio della scrittrice Svjatlana Aleksievič (Premio Nobel per la Letteratura nel 2015), pubblicato in Italia qualche anno fa da e/o. Le discrepanze fra realtà e invenzione restano tuttavia inevitabili, ma, dal momento che sono spesso limitate all’aspetto scientifico, risultano facilmente perdonabili (a conferma, insomma, che questa è soprattutto una fiction).

La maggior parte dei personaggi messi in scena trova comunque un proprio riscontro storico, fatta eccezione per Ulana Khomyuk, figura chiave che andrebbe a rappresentare e omaggiare le decine di scienziati che aiutarono Legasov nei mesi successivi all’esplosione. Quanto al personaggio di Ljudmila Ignatenko, moglie del pompiere Vasilij, la sua storia è riportata all’interno del libro della Aleksievič.

Attorno a queste due figure (Ulana e Ljudmila) è possibile far partire un primo tentativo di valutazione artistica della serie. Per cominciare, la scelta di comprimere un numero nemmeno quantificabile di individui all’interno di un unico personaggio appare un po’ semplificatoria, tanto più perché la strategia rischia di scivolare in un cliché situazionistico (lo stato di pericolo lasciato gestire da due persone, che sono naturalmente un uomo e una donna e che incarnano figure quasi supereroistiche filtrate da un’anima, una mente e un corpo che sono soltanto umani). Per di più, occorre sforzarsi per credere che una coppia possa risultare – e soprattutto essere considerata – sufficiente alla gestione di una vicenda di tale portata, a maggior ragione se costantemente messa sotto pressione dalle autorità russe. Ljudmila, invece, a cui Mazin dedica gran parte del terzo episodio, pare essere una sorta di catalizzatore emotivo per lo spettatore. È soprattutto questa figura, e la storia che le appartiene, a fare di Chernobyl un prodotto narrativo e non documentaristico, che consegna allo spettatore un personaggio per cui fare il tifo.

L’operazione in sé non rappresenta un male, ma se non altro è figlia di un processo narrativo veicolato da elementi e topoi che già conosciamo, una fruizione facilitata – potremmo dire sopportabile o gestibile – perché “accompagnata” (quando non proprio immediata).

I meriti maggiori dell’opera non sono tanto nell’impianto narrativo, quanto nella rievocazione storica, nella suggestione dei richiami atmosferici, nelle interpretazioni attoriali (su tutti, un bravissimo Jared Harris nei panni di Valerij Legasov), nell’uso impressionante che si è fatto del trucco.

Nel corso della prima puntata Johan Renck (che prima di questa serie aveva già diretto tre puntate di Breaking Bad e un episodio di The Walking Dead) “opprime” lo sguardo dello spettatore in alcune sequenze claustrofobiche filtrate da una fotografia post-apocalittica (nell’uso combinato del nero e del verde, quasi fossimo dentro Fallout), al punto che ci sembra possibile sentire il sapore forte del metallo nella bocca. Per gli spazi stretti, la concitazione e l’uso ravvicinato della macchina da presa, ricorda un po’ il lavoro di Nemes in Il figlio di Saul, anche se lì la regia estremamente dinamica non era circoscritta ad alcuni momenti.

Forte di questi ambienti, nonché di una storia che colpevolmente affascina tutti, Chernobyl è comunque vittima di alcuni cliché letterari e cinematografici che si palesano invero già dal primo episodio (ciononostante, probabilmente il migliore). Viene da pensare, per esempio, all’anziano seduto all’angolo in penombra, mentre tutti discutono seduti al tavolo, che prende la parola battendo il bastone sul pavimento. O ancora la ricostruzione della prima chiamata di Legasov, immediatamente messo a tacere, attraverso cui traspare in modo fin troppo evidente – e poco giustificabile nelle prime battute – l’atteggiamento insensibile e indifferente delle autorità russe.

Il finale troppo favolistico, poi, che suggella un contrasto già molto chiaro. L’uccello che stramazza al suolo – con questa espressione quasi umanizzata di dolore, resa maluccio dalla ricostruzione grafica – diventa il simbolo della natura deturpata o assassinata dall’uomo. L’ottusità molto enfatizzata dei membri del partito – possibile che i russi siano tutti stupidi o spietati, o perfino le due cose insieme? – che si oppone alla lucidità dei due scienziati, in una dinamica molto prevedibile di rifiuti e concessioni che diventa un po’ circolo vizioso delle prime tre puntate.

In aggiunta, palesi e goffi indicatori narrativi, come la domanda «è incinta?» che viene rivolta a Ljudmila quando si reca in visita dal marito morente (e, nonostante risulti plausibile la veridicità dell’episodio, in una trasposizione sarebbe stato meglio ometterlo).

A conti fatti, il terzo episodio risulta il più debole, o quantomeno il più suscettibile a critica, proprio perché sconfessa l’intento corale, si presta al pubblico con eccessivo pathos e trasforma la tragedia universale nel dramma di qualcuno (anche se diventa il simbolo di tutti). La commozione rischia di mancare soprattutto quando è marcatamente ricercata, come nella dilatazione dei tempi di dialogo fra marito e moglie, nelle inquadrature classiche delle mani o degli occhi, nell’ostilità degli ufficiali e funzionari ridotti a cattivi, nei guaiti fuoricampo delle bestie che soccombono nella quarta puntata.

Il sacrificio di una visione “dall’alto”, per mezzo di certi espedienti, non cancella i meriti dell’opera, ma ne riduce la portata, perché trasforma gli uomini in personaggi e la Storia in un racconto, che conserva la potenza originale ma finisce per gonfiarla.

 

 

Copertina di "Volo di paglia" di Laura Fusconi

Dolore, fascismo e innocenza nelle vallate piacentine

«La mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso».

Lapidario e preciso nel suo saggio sulla leggerezza, Calvino dà una lezione che sembra essere stata il punto di partenza della ricerca stilistica di Laura Fusconi (autrice di un racconto pubblicato in effe #6) nel suo esordio letterario Volo di paglia (Fazi Editore, 2018).

La memoria è la vera protagonista della storia e farne la sua conoscenza, passeggiare con lei per le vallate piacentine, affondare le mani in un marasma di dolore, fascismo e innocenza non può che portare a riflettere e a fare i conti con un passato (non troppo lontano) che periodicamente si ripropone in parole, gesti, prese di posizione che vorremmo sopiti.

Il racconto si sviluppa su piani temporali diversi. Nella prima metà ci ritroviamo nel 1942 in un paesino della provincia piacentina. Gli occhi privi di preconcetti dei bambini guidano la lettura e, nonostante la narrazione sia in terza persona, la loro voce chiara e ingenua non è mai artificiale o forzata.

Lo sguardo è quello di Tommaso e Camillo che fremono per l’avvicinarsi della festa di paese nella quale, finalmente, potranno ammirare i giocolieri, le bancarelle e i mangiafuoco. A loro si unirà presto Lia, la bambina più bella della classe, quella con cui Camillo si ritrova a trascorrere gran parte delle sue giornate, ma che è figlia del ras della zona Gerardo Draghi. Quest’ultimo, forte delle sue camicie nere, incute terrore e spadroneggia nel paese, prendendo di mira i più indifesi, picchiando e umiliando senza remore, con la stessa noncuranza e strafottenza del regime che appoggia.

Draghi è un uomo crudele, incapace di provare sentimenti sinceri; non nasconde la vacuità del suo animo neanche in famiglia. È un uomo del regime, uno che deve far rispettare quella linea di pensiero fascista che tanto lo rinvigorisce. Non ha tempo né voglia di fare il padre o il marito; chi prova affetto sincero per lui (la figlia in primis) viene trattato con l’indifferenza e la freddezza che si riserva al più inutile dei paesani. Si macchierà di crimini tremendi e il luogo soleggiato, all’apparenza pacifico nel quale i personaggi delineano i loro destini, non troverà pace, esattamente come loro stessi.

Il tempo scorre inesorabile, la coscienza lo modella, plasma, scuote. Sono passati cinquant’anni dagli eventi narrati in precedenza ma gli attori in scena, nonostante siano altri, risultano essere connessi al passato, influenzati da esso, come un’anima inquieta e tormentata che per trovare pace deve concludere un percorso risolutivo.

Ora ci sono Luca e Lidia ad animare i boschi e i caseggiati con i loro giochi, primo fra tutti il cosiddetto volo di paglia, retaggio di una leggerezza e spensieratezza lontana. Una ricerca di svago necessaria alla sopravvivenza. E poi c’è Mara, una ragazza che ha lasciato lì il cuore anni prima ma che è bloccata da ciò che è stato e per questo non riesce a vivere. È paralizzata in un vortice di ricordi.

Con una lingua lineare, semplice e per nulla barocca, la Fusconi dà vita a un viaggio immaginifico che avvolge il lettore e lo trasporta in un universo fatto di fantasia e crudezza. La dimensione terrena e concreta dei luoghi si sovrappone a quella temporale fluttuante, circolare e personale. Tutto si tinge di malinconia e rassegnazione. Il sommerso viene a galla con forza, ridestando nostalgie e alimentando suggestioni trascendentali.

Un esordio che mostra quanto l’autrice abbia una sensibilità fuori dall’ordinario e che sicuramente tornerà a far parlare di sé in futuro.

 

(Laura Fusconi, Volo di paglia, Fazi Editore, 2018, pp. 240, euro 15,50, articolo di Nicole Zoi Gatto)

Thom Yorke@Auditorium Parco della Musica, Roma, 21 luglio 2019

La Cavea dell’Auditorium di Roma è un emiciclo diviso in due parti: una inferiore e una superiore. Alle sue spalle svettano, imponenti, le sale Petrassi, Sinopoli e Santa Cecilia. È un posto intimo che può accogliere cinquemila persone. Siamo in uno dei tre, quattro posti più prestigiosi dove fare musica in Italia. Uno dei tre, quattro posti in cui anche la musica pop/rock si può davvero ascoltare.
Un luogo dove vivere un concerto è necessario, soprattutto quando si crea forte empatia tra chi suona e chi ascolta. Roma, per questo, sarà sempre grata al genio architettonico di Renzo Piano.

Cosa mancava all’Auditorium di Roma era un concerto di Thom Yorke. Cosa mancava a Thom Yorke era un concerto nell’Auditorium di Roma. Lui, sempre iper attento sulla scelta delle location
– non ultimo, per esempio, lo Sferisferio di Macerata. Una strana mancanza, un vuoto che andava colmato.

Il 21 luglio è l’ennesima giornata calda di Roma, il cielo è limpido e appena entrati si percepisce una certa elettricità nell’aria. C’è ancora luce quando sul palco sale Andrea Belfi. Si siede dietro la batteria, alla sua sinistra una piccola consolle. Parte il suo tribal-cosmico che lo porta spaziare tra il suo ultimo lavoro, Ore, e Natura Morta. Il suono che fa uscire dai macchinari e dalle percussioni amplifica l’attesa per quello che sarà. L’ex batterista dei Rosolina Mar è a suo agio, suona bene. Dopo mezz’ora si alza e, visibilmente emozionato, ringrazia tutti e se ne va.

Cala la sera quando Thom Yorke, Nigel Godrich e Tarik Barri salgono sul palco. Ora i profili delle tre cupole che svettano vanno a confondersi con il cielo. La formazione è la stessa dello scorso anno, con i due Radiohead a smanettare alle due consolle e il visual artist inglese a disegnare al computer quello che poi verrà proiettato sullo schermo alle loro spalle che sembra riprendere come un contrappunto la forma della Cavea.
L’inizio è affidato a “Interference”, una partenza soft, come poteva essere soft “Daydreaming” nel tour di A Moon Shaped Pool dei Radiohead. Yorke canta bene, sembra in forma. Ma è quando toglie le mani dal piano per impugnare la chitarra per suonare “Impossibile Knots” che la Cavea si trasforma.

Da questo momento in poi ciò che accade in Auditorium tra chi suona e chi ascolta è un qualcosa di difficilmente replicabile. Si ha la netta sensazione di non assistere a un concerto nella sua accezione più canonica. Sembra di assistere a un rito di iniziazione futuristico, una sorta di rave in chiesa. Un’installazione artistica su una luna di un’altra galassia. La capacità fenomenale dei tre è il controllo sulle sensazioni del pubblico, andando a lavorare su emozioni viscerali quanto cerebrali. Da quel palco trasmettono suoni e immagini che vanno a colpire sinapsi sempre diverse, in un sali scendi allucinogeno. Sembra di stare al centro di un vortice. Un’esperienza lisergica da cui non si vuole mai uscire.

Thom Yorke è in una forma stratosferica e quello che fa, come lo fa, la delicatezza e i pugni allo stomaco che dà sono la testimonianza di essere di fronte a un artista che, ancora nel 2019, faccia parte di un’altra categoria. Sul palco fa quello che vuole, non ci sono limiti se non nell’incontro con il pubblico, che si lascia trasportare dove vuole lui.

Thom Yorke ricorda a tutti perché è, oggi, il migliore di tutti. Per quale motivo è il più importante e influente artista degli ultimi venticinque anni. L’anello di congiunzione tra la ricerca e l’apprezzamento su larghissima scala mondiale. Non è una nicchia, ma si comporta come tale, senza scendere a compromessi; c’è della magia e c’è soprattutto un’abnegazione tangibile nei confronti della meticolosità, dove emerge il fatto che il talento, da solo, non porta a nulla e che solo attraverso il lavoro si possono raggiungere certi livelli. E il lavoro si nota nella precisione con cui tutta la dinamica del concerto venga controllata e gestita alla perfezione.

Perché prendendo anche solo il momento che va da “Impossibile Knots” fino all’eterea “Nose Grows Some”, che Yorke interpreta in maniera quasi teatrale,  con quel suo far finta di allungare il naso, è un’insieme di emozioni che vanno a mischiarsi l’una sull’altra, creando una spirale senza appigli. In questo frangente, “Black Swan” e soprattutto “Harrowdown Hill” sono eccezionali.

Si va a blocchi, il cervello si resetta e riparte in continuazione, ma si sta all’interno di un incredibile flusso di coscienza. Si arriva alla prima pausa passando per tutta la discografia solista di Yorke, da The Eraser a Tomorrow’s Modern Boxes fino ad Anima (“Not The News” grandiosa), con incursioni da Amok e la colonna sonora del film di Luca Guadagnino, Suspiria.

I tre tornano sul palco e Yorke si mette al piano. In un silenzio irreale, parte “Dawn Chorus”, forse il momento più emozionante di tutto il concerto. Godrich è lì a fare da tappeto, Barri continua a disegnare scenari fatti di luci, linee, forme non razionali. Il cantato/parlando di Yorke accompagnato dalla ripetitività ciclica del piano è struggente, da lacrime.
Mancano ancora tre brani prima del secondo encore. “Ranwayaway”, “Cymbal Rush” e “Default”, eseguiti alla perfezione – in particolare il secondo.

Si torna di nuovo sul palco e di nuovo Yorke si mette di nuovo dietro al piano. Il valzer di “Suspirium” riempie la Cavea, il pubblico in religioso silenzio si scorda per tre minuti scorda di aver ballato fino a un attimo prima. Qui accade l’inaspettato: in questo mini tour italiano, da Barolo a Codroipo, da Ferrara a Perugia, non hanno mai suonato più di ventuno brani. Parte “Atoms for Peace”. Sembra un fuori programma, un regalo che Yorke vuole fare a un luogo incredibile e a un pubblico assolutamente promosso, parte integrante dello spettacolo grandioso a cui si assiste.

I tre salutano tutti. Mentre la Cavea si svuota, rimane il grande peccato di non aver ascoltato “The Axe”, già brano totem della discografia di Yorke.
Ma, forse, non sarebbe potuta andare meglio di così.

Scaletta:

Interference
A brain in a Bottle
Impossible Knots
Black Swan
Harrowdown Hill
Pink Section
Nose Grows Some
I am a very rude person
The Clock
(Ladies & genleman, thank you for coming)
Has Ended
Amok
Not the News
Truth Ray
Traffic
Twist

Dawn Chorus
Runwayaway
Cymbal Rush
Default

Suspirium
Atoms for Peace

 

Bon Iver @Castello Scaligero, Villafranca di Verona, 17 luglio 2019

Prima del 17 luglio, le ultime note suonate da Bon Iver in Italia sono state quelle di “For Emma” all’Alcatraz di Milano il 30 ottobre 2012. Da allora l’artista americano non si è più esibito da queste parti. Sette anni, un album in più, lo splendido 22, a Million e il prossimo i,i, in uscita il 30 agosto.

La location è tra le più elettrizzanti e suggestive che si possano sperare, il Castello Scaligero di Villafranca di Verona. Trovarsi d’estate all’interno di un castello con il cielo che si fa rosso al tramonto e gli aerei che volano bassi per atterrare all’aeroporto che si trova nelle vicinanze: tutto questo amplifica le emozioni prodotte dall’attesa per il concerto di uno dei musicisti pop più importanti degli ultimi dieci anni.

La band sale sul palco alle 21.15 in punto. Rispetto alle ultime esibizioni italiane, la formazione è più scarna: le atmosfere per il tour del precedente Bon Iver, Bon Iver meritavano una formazione più corposa, con più fiati. Oggi, invece, Justin Vernon si porta appresso quattro musicisti, il corso intrapreso con 22, a Million ha bisogno di altro, meno orpelli. Rispetto a Milano (o a Ferrara dello stesso anno, ma il 17 luglio) il palco non è ricoperto da quelle reti appese dall’alto o dai lumetti ai suoi bordi. Questa volta al concerto vengono abbinati video alle spalle dei musicisti che aiutano a empatizzare maggiormente con l’idea di esibizione che sta dietro a questa nuova fase della carriera di Bon Iver.

C’è qualcosa però che si spezza tra l’attacco di chitarra “Perth” e l’ultima canzone prima della pausa, “Creature Fear”. Il livello d’intensità emotiva sembra smorzato da qualcosa, il suono esce ma sembra vuoto, Vernon reinterprerta le melodie (andando a volte a ucciderle) e la sensazione è che non sia entrato completamente nel concerto, o meglio: che ci sia entrato troppo con il cervello. Esempio lampante “Calgary”, un pezzo d’impatto, forte, emotivo, che si apre al mondo e che invece è uscito come un qualcosa da sbrigare nel minor tempo possibile. Ecco, tutta la prima parte – altro esempio “Towers” – ha peccato di un approccio superficiale. Con le canzoni, con gli strumenti, con il posto, con il pubblico. Come se fosse mancato il giusto peso da dare al tempo e all’esecuzione, un corto circuito allo scandire del tempo, come se qualcosa da dietro spingesse affinché il tutto terminasse. Un peccato, perché le emozioni di sette anni sono ancora riconoscibili e si scontrano con queste del presente.

La pausa dura più di venti minuti, si ha tempo chiedersi cosa stia succedendo, ma anche di guardarsi attorno e rendersi conto che la notte è calata sopra nelle nostre teste e le luci che illuminano le mura consolano quella che, pur non volendolo ammetterlo, somiglia a una delusione.
Riappare Vernon, da solo con la chitarra: una luce bianca lo illumina, parte “Skinny Love”. Da questo momento in poi, fino all’ultimo pezzo, 22 OVER S∞∞N , succede qualcosa. Pare di aver assistito a due concerti diversi. Ma non ci vuole molto ad adeguarsi a questo cambiamento improvviso, a farsi trascinare. “Skinny Love” ha le fattezze di ultimo grande brano generazionale, in un’epoca di dispersione e iper frammentazione, una sorta di “Creep” o “Wonderwall” di fine anni ’10. Il pubblico respira.
Da qui in poi è partecipare a un concerto di Bon Iver vero e proprio. Le emozioni si riconoscono e combaciano, dal riffetto dilatato di “Minnesota, Wi” alla nuova “Hey, Ma”, dall’acustica di “Flume” a “For Emma”: ma è con il dittico “8 (Circe)” e “Holocene” che Bon Iver manifesta tutta la potenza del suo messaggio, facendo brillare il Castello Scaligero assieme ai quasi diecimila spettatori.

Il concerto finisce con “22 OVER S∞∞N”, Vernon prende e se ne va. Fuori dal Castello è piano di ragazzi nei bar che parlano del concerto e bevono un’ultima cosa.
L’adrenalina della seconda parte cancella la delusione iniziale. Il 17 luglio 2019 è storia.

Scaletta:

Perth
666 ʇ
Heavenly Father
Towers
Blood Bank
____45_____
10 d E A T h b R E a s T
715 – CREEKS
29 #Strafford APTSCalgary
Creature Fear

Skinny Love
Minnesota, WI
Flume
Hey, Ma
33 “GOD”
8 (circle)
Holocene
The Wolves (Act I and II)
For Emma

22 (OVER S∞∞N)

Copertina di Vocabolario minimo delle parole inventate

Le parole (inventate) sono importanti

Parole proibite o impronunciabili, neologismi e onomatopee, scherzi condivisi e codici carbonari. Da «amulico» a «zipzappare», il Vocabolario minimo delle parole inventate (Wojtek Edizioni, 2019) curato da Luca Marinelli raccoglie ventidue racconti, uno per lettera, in cui la parola torna a essere «atomo strutturale» e motore della scrittura.

A prima vista potrebbe apparire un divertissement ma, a guardarlo meglio, il Vocabolario ricorda più una dichiarazione di resistenza, un atto di ribellione nei confronti di quei recinti di significato dove le frasi fatte, i meme, le emoticon e tutte le altre forme di “economizzazione” del pensiero sono liberi di pascolare in tutta pigrizia.

In questi racconti, non sono le parole a giungere in soccorso del lettore, ma è il lettore a dover compiere lo sforzo di entrare in un lessico che, nella maggior parte dei casi, non viene definito, ma si presenta come già acquisito dai personaggi.

Forte della lunga militanza nel mondo delle riviste online (Verde e Narrandom) Marinelli chiama a raccolta alcune delle voci che negli ultimi tempi hanno animato la famigerata “lit-web”. Molti esordienti puri, diversi rookies (Simone Lisi, Andrea Zandomeneghi, Lorenzo Vargas, le autrici di casa Wojtek Anna Adornato ed Emanuela Cocco), una manciata di scrittori più esperti (Simone Ghelli).

Marinelli non sembra ricercare a tutti i costi un’idea di compattezza ma, al contrario, accorda agli autori massima libertà sia nella scelta stilistica, sia nella modalità attraverso cui declinare il tema: c’è chi si lancia in approfondite ricostruzioni storico-etimologiche (Zandomeneghi in “Queleticismo”, Paolo Parente nell’esilarante e credibilissimo resoconto etnografico “Napolaggiare, napoleggiarsi”), chi chiama in causa il mondo dello spettacolo e dell’editoria, trascinandolo in una dimensione tanto contraffatta quanto verosimile (Pierluca D’Antuono in “Hibrisifico”, Francesco Quaranta in “Inculcraniarsi”), chi attinge a parole inventate già canonizzate (“Okkupare” di Alfredo Palomba) e chi inserisce il termine nel fondale di un racconto non necessariamente pensato in funzione della raccolta (“Betavita” di Francesca Corpaci, “Robbantare” di Federica Sabelli, “Memolabile” di Gianluca Bartalucci).

Qualsiasi sia la strada imboccata, il risultato finale è in buona parte dei casi riuscito. Oltre a Parente, si distinguono in particolare altri due racconti: “Amulico”, noir e folklore maledetto in classico stile Alessio Mosca – autore ormai pronto per il salto editoriale – e “Gravicoma”, una favola grottesca perfettamente calibrata nei dialoghi e nell’ironia da Claudia D’Angelo.

Vocabolario minimo della parole inventate è innanzitutto una raccolta di buoni racconti nella quale l’invenzione di parole diventa occasione per giocare con la scrittura, sperimentare stili, immaginare mondi appena un po’ più assurdi di quello che abitiamo.

 

(Vocabolario minimo della parole inventate, a cura di Luca Marinelli, Wojtek Edizioni, 2019, pp. 166, euro 14, articolo di Martin Hofer)

 

“effe – Periodico di altre narratività” numero dieci

In occasione del decimo numero, effe – Periodico di Altre Narratività propone una speciale antologia di autori talentuosi ancora inediti, in collaborazione con Cadillac, CrapulaClub, Colla, L’inquieto, retabloid, Verde, ’tina.

Per la prima volta nel panorama letterario, otto tra le più interessanti riviste indipendenti italiane si sono unite per proporre ciascuna il racconto di un esordiente di qualità, da affiancare, come di consueto, alle illustrazioni di giovani creativi della scena internazionale.

Barbara Bedin, Giuseppe Del Core, Tore Garau, Elisa Leoni, Natan Mondin, Alessio Mosca, Olga Paltrinieri e Michele Ruol: sono questi gli autori dei racconti selezionati dalle otto redazioni – voci di cui sicuramente si sentirà parlare in futuro – e illustrati da Bernardo Anichini, Giulia Conoscenti, Martoz, Kalina Muhova, Giulia Pex, Davide Bart Salvemini, Dario Sostegni, Chiara Spallotta e Giulia Tassi.

Completa il numero l’editoriale di Marco Drago, scrittore e fondatore della storica rivista Maltese Narrazioni, dalle cui pagine sono passati talenti come Matteo Galiazzo, Paolo Nori, Giordano Tedoldi e Andrea Pinketts.

 

Per chi ancora non lo conoscesse:
effe – Periodico di Altre Narratività è un’antologia periodica di narrativa inedita illustrata ideata da Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, che nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano e offrire una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e dove i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione. Tutti i racconti sono illustrati da giovani artisti della scena contemporanea. effe ha una tiratura limitata e viene distribuito in maniera diretta (vis-à-vis con i librai) nelle librerie indipendenti, perché:
A) è un prodotto artigianale;
B) è importante che il libraio creda in ciò che vende.

 

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero dieci:

 

  • Di uomini, cani e riviste di Marco Drago
  • Un giorno bianco di Giuseppe Del Core (ill. di Martoz | racconto selezionato da effe)
  • Dal lato giusto di Natan Mondin (ill. di Giulia Pex | racconto selezionato da ’tina)
  • Un critico di Tore Garau (ill. di Dario Sostegni | racconto selezionato da Colla)
  • Atti segreti degli apostoli di Alessio Mosca (ill. di Giulia Tassi | racconto selezionato da CrapulaClub)
  • Le navi partire di Elisa Leoni (ill. di Chiara Spallotta | racconto selezionato da retabloid)
  • La parte mancante di Barbara Bedin (ill. di Kalina Muhova | racconto selezionato da Cadillac)
  • Tutta colpa del meteo di Michele Ruol (ill. di Bernardo Anichini | racconto selezionato da L’inquieto)
  • Peter è caduto di Olga Paltrinieri (ill. di Davide Bart Salvemini | racconto selezionato da Verde)

 

Qui è possibile acquistare online effe #10 e consultare l’elenco delle librerie indipendenti amiche dove trovare il volume.