Copertina di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini

“Ragazzi di vita”,
in una vita fatta di uomini

Tolstoj definisce il popolo come qualcosa di indomabile, selvaggio. Imporgli un freno da far rispettare è impossibile. È pura entità libera da costrizione: il suo confine tra marginalità e degrado è labile ai limiti dell’invisibile. Le sole regole che sembrano, per lui, valere sono quelle della strada e del vivere della necessità contingenti, per non imbattersi in quel disagio che fa a botte con un conformismo che sa di buono, che crea il “modello da seguire”, diverso e lontano da quello “sozzo” degli ultimi, dei diseredati, di quei borgatari che hanno come unica fonte di piacere e soddisfazione la “grana”.

È innegabile, però, che questo essere così magmatico intenso e crudo, renda il “popolo” affascinate. Metro di una “valutazione” sociale che per molti è rimasuglio di un’epoca che non c’è più, per altri unico modo per capire la sua evoluzione temporale, necessaria per decifrare l’ “intorno a noi”.

Un leggere che può essere fatto non solo con “il bene” espresso dal popolo, ma anche e soprattutto, può essere codificato attraverso quei canoni violenti capaci di lacerare l’animo dell’uomo e che a tutt’oggi non hanno ruga, demenza o segno del tempo.

Questo è il primo pensiero che nasce, nel leggere e rileggere un’opera che alla sua prima uscita fu bandita, censurata processata perché troppo scabrosa, scurrile e inopportuna ma soprattutto non del tutto “reale” rispetto a un mondo che da molti era intravisto dietro un vetro zigrinato, opaco per le molte paure: Ragazzi di vita (Garzanti) di Pier Paolo Pasolini.

Pubblicato nel 1955, inizialmente concepito come romanzo di apertura di una trilogia più ampia (per altro mai completata) che avrebbe dovuto essere così composta: Ragazzi di vita, Una vita violenta e Il rio della grana (mai pubblicato), è, per chi abita in Friuli, e specialmente a Pordenone (che dista pochi chilometri da Casarsa della Delizia) forca caudina scolastica a cui non si può sfuggire.

La prima lettura ai tempi della scuola. Inevitabilmente didattica, di dovere. Passata veloce, con il desiderio di riporre nel più breve tempo possibile il testo negli scaffali più alti e nascosti della libreria di casa, al fine di magicamente farlo scomparire.

Gli anni trascorrono dimenticandolo, fino a quando quell’invisibilità torna visiva e riappare con i segni del suo tempo: la copertina sgualcita, le pagine ingiallite e che si staccano per la rilegatura incerta. Si apre il risvolto. Se ne legge la quarta di copertina, e inconsapevolmente si rimane ipnotizzati, dalla forza di parole, dei fatti e di storie immutati nella loro narratività che sconcerta, nella riflessione.

Catapultati nel “suo” mondo di adolescenti, ragazzi appunto, che della vita conoscono poco o nulla ma con una voglia di riscatto “da fine guerra”. Nelle narici percepiamo netto il pizzicore della polvere, sotto i piedi la grossezza dei sassi di strade abbozzate, di quella periferia romana che più non esiste (ma che forse è solo cambiata), e nel cuore e nelle orecchie le loro storie fatte di disgrazie, furti e violenze di ogni genere. Il caldo è soffocante. È quello di quei luglio di una volta che fa grondare di sudore stando solo fermi. Di lontano ci sembra di intravedere una sagoma. È un ragazzo nel suo completo che ha più buono, con gli scarpini della festa pronto per la comunione e cresima. Ha più le fattezze di un bullo che di un catecumeno. È Riccetto il filo rosso flebile e lineare a cui Pasolini dà il compito (senza mai giudicarlo) di raffrontarsi con il mondo “crudo” lungo tutto il romanzo. Un mondo spesso parallelo, nascosto fatto di ragazzi, uomini, donne situazioni estreme, dove l’atto di generosità verso l’altro è solo apparente, e si trasforma codificandosi in conformismo in bilico tra il borghese e il borgataro.

La sua è una presenza spesso diretta, alle volte indiretta “da spettatore” di altri che lo circondano che lo fa diventare unico “personaggio” nella sua crescita da giovane a uomo, attraverso borseggi, furberie e atti più o meno violenti che lo vedranno vincitore, perdente fino alla definitiva metamorfosi borghese che omologherà uniformandosi ai modelli “perbenisti” del tempo.

Le vicende, viaggiano e si snodano di periferia in periferia, a Roma in un lasso temporale che fa da fine guerra al confine del boom economico: dal Tiburtino al Tuscolano, passando per Tor Pignattara e Monteverde a San Giovanni e Villa Borghese fino a Ponte Mammolo.

Perché solo qui si incontrano le varie facce del “popolo” furbo e accattone, porazzo e diseredato, in equilibrio precario tra droga e omosessualità, gioco d’azzardo, furti e borseggi, precarietà familiari e “di destino”. L’unica occupazione, provvisoria o meno, per sopravvivere è l’“espediente” (lecito o meno) per avere per reperire la “grana” che fa “andar avanti il mondo” e che non contempla fatica, sudore, sacrificio o lavoro.

Riccetto si relazione continuamente con questo popolo sempre diverso e forse sempre uguale. Nel suo osservare, assistere si possono facilmente riconoscere a tratti le sfumature di un Pasolini annichilito, incuriosito e a volte spaesato per una Roma che sta iniziando a conoscere e scoprire, diverso dal suo Friuli: intimista rude crudo e concreto.

Con Riccetto ci sono Agnolo e Marcello (amici d’infanzia di Riccetto), Alduccio (il cugino) e Caciotta, Lenzetta e Amerigo (il giocatore d’azzardo) e Genesio sino ad arrivare a Il Begalone; le loro famiglie fatte di frammenti di pazzia non sempre apparente, di vizio per il gioco e per una sessualità che ha perso i tratti del romantico, e con una voglia di “fregare” l’altro (prima di essere fregati) per poter essere considerato “er più”, “er meio”, “er divino”.

Questi giovani uomini, tutti, si credono invulnerabili e possenti, ma a poco a poco diventano vittime di un’evoluzione sociale avversa che lascia spazio unico e solo all’affermazione violenta. La loro accettazione “sociale” può avvenire esclusivamente attraverso il modello “borghese”: che allontana, avvicinando; che omologa, diversificando una vita che solo apparentemente può, e forse vuole, essere governata .

In un susseguirsi di quadri narrativi, fatti di capitoli quasi auto-conclusivi, le azioni di uno o di un gruppo di personaggi diventano “traino vivo” ancor oggi rintracciabile nei gruppi di strada di oggi dove ogni atto o comportamento è metro di giudizio di pensiero di conseguenza.

Come il semplice atto di Riccetto di salvare una piccola rondine dall’annegamento, prigioniera dei gorghi del Tevere si trasforma trasfigurando l’anima quando lo stesso Riccetto da ragazzo d’azione in fondo buono, diventa uomo spettatore di lontano, e da spettatore assiste all’annegamento dell’amico Genesio .

E tutto questo avviene in quella che è pura coralità di ragazzi ancora acerbi di vita, intravedendo da subito gli estremi di azioni che nello scaturirsi dagli occhi osservatori di Pasolini diventano puri atti che sanno di teatro descrittivi di “dura vita”. Tra bische per il gioco d’azzardo, anfratti dove la prostituzione (maschile o femminile che sia) è moneta di scambio e di guadagno, violenze familiari e ladrocini, ogni personaggio, da attore “di vita” cerca di trovare un “un proprio posto”, una collocazione in quella società borghesemente e capitalisticamente ingessata, fatta di morbidezze solo apparenti, dove la solidarietà verso l’altro è solo un vestito buono da indossare in rare e speciali occasioni, ma sempre e soltanto di lontano dal lerciume zozzo della borgata.

Lo spaesamento dei borgatari e del lettore è innegabile. Pasolini lo accentua, con una scrittura snella e limpida, utilizzando il registro linguistico della lingua dialettale (i personaggi parlano il romanesco) che è grezza, scurrile e spesso decisamente volgare. E lo fa perché vuole essere un cronista del reale e non del vero. Di quello che si vede non di ciò che ipotizziamo reale. La scrittura invita a “leggere, osservare, riflettere” su una società che omologata in un perbenismo “di tutto su tutti” ha fame di riscatto possibile e attuabile sono con la violenza, il furto, l’inganno. La paura perciò ne sarà celata in una temporalità senza tempo che ha tutti i caratteri della fluidità baumaniana: li le omologazioni spengono l’uomo, e non resta che la violenza accattona ed ergendosi sul popolo agitante.

Pasolini in questo è assolutamente e spaventosamente attuale. Profeta, lettore osservatore di quei caratteri della società che non si limitano a essere “tipici” di quel periodo storico, ma che si ripropongono quasi immutati, con caratteri e nomi diversi ma con caratteristiche uguali: il bullismo, la povertà, la violenza verso l’altro e verso la donna, la disoccupazione la voglia di riscatto. Una nettezza realista, già cinematografica, poetica quasi lirica, che ha molti richiami al mondo friulano della madre per atmosfere e valori. Il pomeriggio trascorso nella normalità con al famiglia di Sor Antonio, delle sue figlie del suo focolare, di sua moglie descrivono il modello possibile e alternativo. Perché l’onesta può contaminare anime “perse” come quella di Caciotta e Ricetto denudati dalla loro maschera

E poi arriva lei, a regolare e sistemare debiti “sospesi”: la “Comare secca”. Ed il fio sarà pagato sull’argine dell’Aniene. Da Genesio avvolto e risucchiato in gorgo. Riccetto e noi accanto a lui osserveremo da lontano, distaccati perplessi. E l’arida secchezza dell’animo di Riccetto sarà muta, chiara compiuta. A noi come lettori e uomini non sarà concesso molto perché: «Zittire la fabula morale del popolo è impossibile oltre che improbabile. Attraverso la sua lingua che racconta e descrive il suo vivere e le sue contraddizioni, il popolo può dare nuova luce al vivere dell’uomo».

copertina di Notte a Caracas di Karina Sainz Borgo

In quell’angolo di storia dove non fa mai luce

Sotto il cielo di Caracas colano suppliche, come acqua piovana. Si prega, si prega sempre di più. Negli articoli di diversi inviati dal Venezuela post-Chavez, apprendiamo che la gente invoca senza sosta un’insalata di nomi e di spiriti. Chi sceglie Gesù, chi Maometto, chi Shango, il dio della virilità. Perché laddove la politica avvizzisce, ammalando rami e frutti, diventando più invisibile di ciò che non possiamo provare, allora germogliano altri volti, un santuario multietnico di culti che cominciano a sembrare tangibili, compagnie assicurative ultramondane per preservare il popolo da tutto il buio in terra. Se cibo, luce e farmaci scarseggiano, non resta che nutrirsi di fede. Anche verso chi interroga i fondali di caffè.

In questo scenario di potere al collasso, di lotta selvatica per un solo tozzo d’aria, pulsa il romanzo di Karina Sainz Borgo, Notte a Caracas (Einaudi Stile Libero, 2019).

Nata nel 1982 e residente da anni a Madrid, l’autrice raccorda biografia e narrazione, snodando un timbro di grandine, un delirio che allaga, anche adesso che si ripara dai detriti. Come specifica il testo nella sua nota finale: «Alcuni episodi e personaggi sono ispirati a fatti reali, ma si discostano dalla realtà con una vocazione letteraria, non testimoniale».

Difficile decretare cosa sgorghi più dall’incubo. I Figli della Rivoluzione hanno rovesciato il governo, sono il tamburo del sangue eversivo, promettono il nuovo e portano il marcio, l’odio randagio e impunito che spazza via ogni regola. Codificano un sistema impazzito, di ruberie e scorribande sotto il segno della loro giustizia. In questo clima sbrecciato Adelaida Falcόn sotterra sua madre, recidendo l’unico legame che non la condannava a pendere nel vuoto.

Quella donna, col suo stesso nome addosso, col destino di schegge cucito negli occhi, la ancorava al terreno, pioggia e linfa del suo fremere nel mondo: «La mia famiglia eravamo mia madre e io. Il nostro albero genealogico cominciava e finiva con noi. Insieme formavamo un giunco, o una specie di aloe vera di quelle che riescono a crescere ovunque. Eravamo piccole e piene di venature, quasi innervate, forse per non soffrire se ci strappavano un pezzo o anche tutta la radice».

Ognuna di loro non aveva che l’altra per non soccombere e la morte di una spariglia a entrambe le ossa. Le seppellisce tutte e due, a profondità diverse.

Adelaida resta sola, figlia senza figli e senza passato, tutta proiettata a sganciarsi da un teatro in rovina. Il suolo sta franando, fuori e dentro la corteccia. Un giorno si allontana da casa e al suo rientro la ritrova occupata, inaccessibile, come il suo esile corredo di oggetti domestici. Libri, piatti, stoviglie sommesse di un tempo estinto, cose piccole e superstiti a cui non ha diritto. Sminuzzate, ridotte alle briciole, esattamente come lei.

La Marescialla e le sue scagnozze, guardiane farcite di guerra e di grasso, amministrano l’orrore, vendono al mercato nero provviste destinate ai poveri, furoreggiano e minacciano, costringendola a rifugiarsi altrove, nello spazio che qualcun altro ha lasciato sgombro. Adelaida s’infila nell’appartamento di Aurora Peralta, inquilina del suo palazzo defunta da poco, perché lì i decessi sono come gli starnuti, improvvisi e frequentissimi, risposte del sistema immunitario di fronte a un vivere impossibile.

Aurora, con la sua storia dismessa, rimasta appesa assieme al cappotto, le concede una seconda scelta. E l’evasione prende corpo. Il suo che ne indossa un altro. Quella tana ancora calda accoglie una rinascita incisa in un cadavere. Anche Adelaida, che è una costola infossata, che per metà è inumata nella salma di sua madre, deve poter morire del tutto, abbandonare la propria identità per far posto a una speranza. Cambiare vita, documenti, Paese, approfittare della nazionalità di Aurora e provare a salvare quello che il disastro sembra aver risparmiato. E poi trapiantarlo lontano. Partorire una partenza. E non pensarci troppo.

Nel “cane mangia cane” del Nuovo Ordine Imposto non c’è respiro elargito alle remore. Saltare subito, saltare senza rete e, forse, poter dire “domani”.

Un romanzo appuntito, da maneggiare consapevoli delle ferite conseguenti. Avvicinarlo solo per decidere di non avere scampo. Karina Sainz Borgo mette al centro il dolore femminile, come spesso fa Marcela Serrano, ci invischia in un contesto di conflitto, come accade anche con Almudena Grandes. Ma c’è dell’altro. Karina Sainz Borgo scrive pugnali, non lenisce, non stempera, non abbassa la fiamma di nessun disagio. Lo fa divampare, scottando ciò che serve. Nella sfilata di altri titoli raccolti, capaci di raccontare l’ustione della fuga sulla pelle di una donna, come La ragazza con la valigia di Sanda Pandza, Il transito di Anna Seghers o La ragazza dai sette nomi di Hyeonseo Lee, qui geme la potenza di una lingua crudele e fulminante, sempre più rara. Che trasforma la lettura in un incontro fatale.

«La nostra vita, mamma, è stata piena di donne che spazzavano per mettere ordine nella loro solitudine. Donne in nero che spremevano foglie di tabacco e spostavano con una pala i frutti caduti e spaccati a terra durante la notte. Io, in compenso, non so come togliere la polvere. Non ho cortili né manghi. Dagli alberi della mia via cadono solo bottiglie rotte. Non abbiamo avuto cortili, mamma, e non te ne faccio una colpa. Di notte, e a volte in mezzo all’oscurità, pettino con una scopa la mia terra, fino a farla sanguinare».

Almeno questo. La preghiera di un romanzo eccellente è stata esaudita.

 

(Karina Sainz Borgo, Notte a Caracas, trad. Federica Niola, Einaudi Stile Libero, 2019, pp. 208, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
copertina di "Gli assassini" di Elia Kazan

L’alta tensione
di Elia Kazan

Quando registi, attori o musicisti si cimentano con la scrittura il disastro è sempre dietro l’angolo. Tradurre il proprio talento attraverso un altro canale, sebbene si frequenti il genere letterario da appassionato, è un’operazione rischiosa che richiede una buona dose di coraggio. La voglia di mettersi in gioco non è mancata a Elia Kazan, fra i grandi del cinema del Novecento, con la macchina da presa in mano, né attraverso le sue scelte di vita, che spesso hanno dato adito a polemiche. Kazan è una figura ambivalente, spigolosa, difficile da categorizzare. Allo stesso modo Gli assassini (Centauria, 2019) è un libro ambizioso, una prova narrativa che supera le aspettative e si confronta ad armi pari con la produzione cinematografica dell’autore.

Anni Sessanta: Cesario Flores, è un sergente dell’aeronautica statunitense, vive in una base del New Mexico assieme alla famiglia, è chicano, è stato un eroe di guerra durante la Seconda guerra mondiale. Di lui sua moglie Elsa dice: «Tre cose avevano sconcertato Elsa. Quando lo aveva sposato in Baviera, Cesario era un americano. In America era invece un messicano. In Baviera Cesario era ricco e i servi si contendevano i suoi dollari. In America la famiglia se la cavava a stento e non poteva certo per mettersi dei domestici. In Baviera Cesario era un eroe. In America un membro di una minoranza».

Flores vive sulla propria pelle le contraddizioni dell’America, ma non sembra accorgersene, perché è imbevuto di spirito patriottico, e lui stesso alimenta le idiosincrasie del suo Paese. Elsa e Cesario hanno una figlia – Juana – che decide di sfidare la disciplina militare nel cui segno è stata educata e fuggire con un gruppo di hippie. Le idiosincrasie della sua scelta verranno a galla, perché nella comune ai confini del deserto si riproducono le stesse storture della società che ha generato questi figli in cerca di libertà.

Cesario deve salvare sua figlia dalla violenza di uno spacciatore-guru, lo farà nel peggiore dei modi: uccidendolo. Ma Cesario è un assassino o ha agito per legittima difesa? Juana approva la sua scelta? E soprattutto un militare all’epoca delle contestazioni può uccidere impunemente un “capellone”? Sono tutte domande da cui parte la vicenda di Kazan, un viaggio nella faglia ideologica americana, all’incontro fra due culture – i padri e i figli – che si riconoscono sotto l’egida della violenza, nascondendo le contraddizioni comuni dietro rivendicazioni opposte. L’autore non si schiera dalla parte di nessuno, mostrando la crudeltà della disciplina militare e la follia “mansoniana” – altrettanto pericolosa – dei contestatori.

Kazan prende di petto il genere thriller e, con la sapienza di chi ha modellato l’immaginario americano, orchestra una trama avvincente, ricca di colpi di scena, un film in potenza su carta, in cui le immagini si susseguono e i dialoghi al fulmicotone irretiscono l’occhio del lettore.

Abbiamo detto in apertura che è difficile per un artista trasporre la propria visione in un altro mezzo: Kazan sembra riuscirci magnificamente, non solo perché conosce alla perfezione il contesto in cui sta tracciando la sua storia, ma anche perché sfoggia una scrittura muscolare, accattivante, degna dei maestri del genere.

Kazan controlla il ritmo narrativo centellinando le scene d’azione, imprimendo la giusta durezza ai caratteri dei personaggi e facendo sfoggio di una misurata brillantezza nei dialoghi; allo stesso modo non si dimostra parco nella descrizione dei particolari, un fan service che gli appassionati possono apprezzare: la penna dell’autore indugia nella descrizione di macchine, aerei, armi, equipaggiamenti militari.

Un romanzo di questo tipo può incontrare i gusti di diversi palati: l’appassionato del genere che trova tutti gli elementi del caso declinati magnificamente, il cultore di Kazan che aggiunge una nuova perla alla sua collezione, il lettore che vuole riflettere sulle contraddizioni della cultura occidentale, trovando una voce esperta a illustrarle. A questo punto quasi dispiace che Kazan abbia fatto il regista.

 

(Elia Kazan, Gli assassini, Centauria, 2019, pp. 384, euro 19, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di Il rumore del mondo di Benedetta Cibrario

Il Risorgimento visto con gli occhi di una giovane donna inglese

L’Italia non è ancora nata, la sua unità è solo un fermento, un sogno che si snoda come un filo da Nord a Sud e che, sprezzante dell’oppressione della Restaurazione, punta alla libertà e alla nuova indipendenza. È in questo momento storico che la protagonista, Anne Bacon, londinese, figlia di un ricco mercante di seta, sposa un ambizioso militare sabaudo, Prospero Carlo Carando di Vignon. E da qui la storia si dipana, come il filo che tende la mano dell’immagine della copertina del romanzo.

Benedetta Cibrario, finalista nella cinquina del Premio Strega, autrice di Il rumore del mondo (Mondadori, 2018) ci consegna un romanzo storico che ci trasporta con immediatezza nelle atmosfere della Londra vittoriana e del Piemonte risorgimentale. Ma in cosa consiste il rumore del mondo? È il rumore della tessitura degli eventi, personali e della Storia, che i protagonisti del romanzo vivono intensamente e anche il suono dei pensieri: quelli della delusione e della speranza, della lotta e della rassegnazione, degli ideali e dei progressi.

Spinta dall’energia dell’amore e dal sogno di un matrimonio felice, Anne Bacon intraprende un viaggio verso il Piemonte, lasciando l’Inghilterra, paese democraticamente emancipato, ma si ammala di vaiolo, tuttavia riesce a guarire e a terminare il suo viaggio, sino a Torino.

L’incipit del libro mette in luce subito la figura di Anne Bacon, con la sua ripresa dalla malattia nella locanda francese dove si è fermata durante il viaggio da sposa verso l’Italia. Ma a questo punto occorre riprendere il filo: Anna Bacon non è distratta, vuole tenere la trama della sua vita e vuole tendere l’orecchio al rumore del mondo, della vita. Nonostante il matrimonio si riveli deludente e molto diverso da quello che lei aveva immaginato e sperato.

L’ordito del romanzo, scandito dai rumori del mondo tessile da cui Anne proviene e che in un certo senso ritrova in Piemonte, è continuamente ricucito tra la visione della cultura dalla quale Anna proviene e quella italiana che l’ha adottata. L’autrice ha tessuto la trama sì di un romanzo storico ma trasferendo in modo fedele la cronaca dei personaggi, rendendola contemporanea: i litigi, le notti insonni, i ritrovi nei caffè torinesi, i bauli e i carteggi. Infatti nel romanzo non mancano le lettere e i collegamenti tra i diversi personaggi, come l’amica Theresa Manners, la devota Eliza, il suocero di Anne, Casimiro, conservatore attratto dal progresso, la servitù, le famiglie dei Verra e dei Gariglio, il giovane imprenditore tessile Enrico, che Anne sceglierà di finanziare.

Anne che diventa il fulcro della tenuta del Mandrone, proprietà della famiglia del marito Prospero, passa da un ruolo di reclusione e di solitudine, a uno attivo, votato all’emancipazione – con la complicità del suocero Casimiro – e si lega al cambiamento e al fermento dell’Italia che vuole mutare, che sta mutando.

Il Risorgimento della Cibrario attraversa a passo ampio i caffè e i salotti, le vecchie tenute piemontesi e non solo, le strade e le campagne: «Le autorità sono preoccupate che ci possano essere disordini violenti, ma ti confesso che a me la gente sembra più entusiasta e contenta che aggressiva. Cantano e accendono fuochi per strada. Non era mai accaduto che l’aristocrazia liberale marciasse a fianco della borghesia e del popolo».

 

(Benedetta Cibrario, Il rumore del mondo, Mondadori, 2018, pp. 756, euro 22, articolo di Antonella De Biasi).

 

Il ritorno di Thom Yorke, tra sogni e robot

Giugno 2019. Nelle metro e lungo le strade di diverse città del mondo, tra cui Londra, Milano, Dallas, Amsterdam e Tokyo, spuntano fuori delle strane pubblicità di una presunta società chiamata Anima che riuscirebbe, grazie a una Dream Camera, a catturare i sogni che inevitabilmente svaniscono appena ci svegliamo. Thom Yorke non è nuovo a questo genere di cose: c’è sempre stato un occhio di riguardo nei confronti dell’idea della promozione dei propri lavori, dai blips di Kid A, all’up to you di In Rainbows fino ai giornali di The King Of Limbs e alla distribuzione su BitTorrent del precedente Tomorrow’s Modern Boxes. Quindi, nonostante si vociferasse che Anima potesse essere un’idea della macchina distopica Black Mirror, altro non era che il lancio pubblicitario del terzo lavoro da solista del leader dei Radiohead, Anima, uscito insieme al corto di Paul Thomas Anderson in streaming su Netflix.

Sono tredici anni che Thom Yorke, parallelamente ai Radiohead, si è messo in proprio. Escludendo Amok degli Atoms for Peace e l’ultima bellissima colonna sonora per il Suspiria di Luca Guadagnino, l’artista inglese ha scritto tre album, diversi tra di loro ma profondamente simili. Tre album che manifestano la propria bellezza nella notte.
Oggi, con Anima, ci troviamo di fronte al suo disco più ambizioso, più complesso, più oscuro.
Perché da The Eraser in poi, la scrittura dei brani è cambiata: se il suo esordio era, nella forma, un album pop imbevuto di elettronica, già con Tomorrow’s Modern Boxes  quei crismi andavano scemando, forte delle tante esperienze con Modeselektor e Flying Lotus – che anche oggi hanno influenzato il processo creativo di Thom Yorke.

Ma è con Anima che i brani vanno diluendosi nel tempo, uscendo quasi del tutto da una certa logicità del pop, di cui Thom Yorke può fare scuola (da “Fake Plastic Trees” a “Karma Police”, per citare i più immediati): la sua conoscenza in quest’ambito è fondamentale per arrivare al punto in cui è arrivato con Anima. Negandola, ha potuto dare vita a un lavoro in cui non ci sono appigli, ma in cui non ci si perde mai. Qui è la grandezza di un autore come Thom Yorke: riuscire a scrivere un lavoro elettronico, sperimentale e farlo esprimere come qualcosa di fruibile, a trasformare l’incorporeo in materiale.

Anima è The Eraser tredici anni dopo, dove Thom Yorke si è scrollato di dosso certe paure, staccandosi dalla sua confort zone e andando a cercare di spingere più in alto, cercando di tirare fuori l’universo multiforme dell’inconscio, interpretandolo magistralmente da un punto di vista sonoro e lirico. Il passaggio di Tomorrow’s Modern Boxes, in quest’ottica, è stato fondamentale per costruire l’estetica di Anima: certi passaggi vengono riproposti, ma in maniera evoluta. Thom Yorke può osare, può andare oltre.

Anima ha una coerenza estetica importante, ma ci sono due brani che svettano sopra gli altri, andando a far parte di diritto nel meglio mai scritto da Thom Yorke: “Dawn Chorous” (di cui in 10 anni si è detto un po’ di tutto, tra cui che fosse il titolo di “Give Up The Ghost”, di “Codex” e di “The Numbers”) e “The Axe”. Il primo è un brano volutamente monocorde, in cui il cantato monotono e commovente sembra fare da contraltare al coro dell’alba degli uccelli del titolo, una sottrazione concettuale superlativa. Il secondo, che sembra nascere dalla coda finale di “Reverse Running” degli Atoms For Peace, è l’ennesimo scontro tra l’uomo e la macchina interpretato da Thom Yorke, con un incipit che sembra riprende la leggenda per cui Michelangelo Buonarroti, rivolgendosi al suo Mosè, gli chiese “Perché non parli?”, prendendolo a colpi di martello:

«Goddamned machinary / Why don’t you speak to me? /One day I’m gonna take an axe to you»

Il crescendo finale, poi, ha un impatto sonoro/emotivo che può sembrare quello di una “Cymbal Rush” scritta oggi.

Anima è l’opera più coraggiosa di Thom Yorke dai tempi di Kid A, con cui condivide l’essere un punto di svolta: per i Radiohead il capolavoro del 2001, per Thom Yorke quest’ultimo. Può sembrare poco ortodosso pensare che Anima possa essere un seguito ideale di Kid A. I Radiohead nel 2001 si trasformavano definitivamente in una band che andava a cambiare la propria natura, plasmando il modo di percepire la musica popolare del nuovo millennio. Allo stesso modo, oggi, Thom Yorke si trova tra le mani un lavoro che per lui è un punto di non ritorno e che il tempo potrà definirà come nuova guida per il futuro della musica.

copertina di Khalat, di Giulia Pex

L’altra anima del viaggio

Questione di prospettive. Da che parte stiamo mentre sfila il racconto? Sempre in platea, imbracati, ammortizzati, incapsulati nel conforto del salotto quando lo schermo tuona. Senza colpirci. Il rullo scorre, il mondo brucia e noi siamo seduti. Da lontano, si sa, le fiamme non graffiano. Ingolliamo frammenti, avanzi di Apocalisse, centrifugati con poco risciacquo nella spirale che mescola la nostra serie tv all’ultimo acquisto di cibo on line. Trasformando tutto in fiction.

E chi sono quei corpi di squame, quei pesci senza branchie infilzati alle onde? Quelle braccia salate che chiedono terra mentre sputano acqua? E da dove provengono tutte quelle emergenze? Forse sbucano tutti da un solo Paese di fame, creato allo scopo di minacciarci la pelle o gli acidi sonni. Ci interroghiamo, col prurito del disagio o nei momenti migliori, con lo scampo portatile del senso di colpa. A risponderci spesso intervengono le storie, quelle che non abbiamo scelto, che incombono come corvi sui nostri appetiti, le vite sceneggiate dal caso che sbalza un destino al di là della sponda.

Altre volte, invece, c’è chi non si accontenta di guardare indisposto al di qua del mare, chi queste voci se le va a cercare, le sente fremere come ferite e da loro riceve la schiettezza del dolore, il senso semplice e ineluttabile di una traccia sommersa. Nessuna pretesa di verità assoluta, solamente il barlume di un profilo, la vicenda di un nome tra tanti, ammassati su un barcone in attesa di futuro.

Davide Coltri è un italiano trasferito a Beirut, quindi anche lui un migrante, e da lì porta avanti progetti umanitari nel campo dell’istruzione. Il suo testo Dov’è casa mia? (minimum fax, 2019) è uno scrigno di passi raccolti come pietre, inventati soltanto dalla realtà, testimonianze di chi ha lasciato e scommesso, lottato e perduto, ma restando in piedi.

Uno di quei volti è quello di Khalat, (Hoppípolla Edizioni, 2019), ragazza curda catapultata fuori dalla sua città, sotto scacco della guerra civile siriana. Ed è un volto che ora possiamo osservare, grazie all’iniziativa della giovane casa editrice Hoppípolla, dedicata ai graphic novel e alla contaminazione di forme narrative.

Ad assegnarle densità e contorni ci ha pensato Giulia Pex, 26 anni, disegnatrice e fotografa che ama ibridare i gesti, fondere i linguaggi, tratteggiando un diario di bordo e un quadro emotivo di una donna ostinata e fedele a se stessa.

Una donna che studia contro chi la vorrebbe raddolcita d’ignoranza, che vola a Damasco per ripararsi dai subbugli, che si rintana il cuore nei versi di Prévert, che non accetta di farsi femmina come sembra prescritto. Suo fratello viene reclutato con la forza nell’esercito e costretto a sparare ai ribelli. L’assenso sarebbe il solo suono previsto, ma lui si oppone, protesta, scontando con la vita quell’atto di conferma della propria dignità.

Per Khalat si spalanca il vortice del viaggio, quel buco nero in cui assorbire l’essenziale di un’esistenza a rischio: «Biancheria intima, vestiti, una giacca per l’inverno, scarpe comode, un cellulare vecchio ma resistente, i pochi soldi che avevo», ecco come condensare in valigia le minutaglie della speranza. Frangenti d’angoscia e di svolta, risucchiati nel dettaglio di un maglione piegato e di un paio di mani aggrappate a un manico.

Tutto lì, non c’è spazio per altro e neanche il tempo offre un buon nascondiglio. Di nazione in nazione (come mostrato chiaramente alla fine dell’opera) si snodano l’esodo e la sfida di ogni tappa. Dalla Siria alla Turchia, poi in Grecia e attraverso Macedonia, Serbia e Ungheria fino alla Germania. Fino a un campo di accoglienza, fino a un appartamento che inghiotta il suo odore, un angolo di mondo da chiamare “casa”. Dove amore e famiglia siano un dono imprevisto.

Tavole profonde e malinconiche, con un segno intenso e delicato nello stesso ritaglio di sguardo, e un uso del colore puntuale e mirato, pronto a incidere l’istante con grazia e precisione. Ma a volte ciò che viene omesso, l’espressione che non compare è ancora più ingombrante della scena in primo piano, perché ogni scorcio è poco più di una nota, uno squarcio di parola allunata tra gli oceani. Miracoli del non detto e della sua poetica. Tutto il resto non lo sapremo, non è fatto per noi, che invochiamo soluzioni semplici e d etichette immediate.

Narrare per immagini serve anche a questo, aggiungere toni incalcolati e personali a dimensioni impacchettate a dovere per ingrassare il mercato dello scontro. Giulia Pex non è di certo l’unica ad aver scelto questo mezzo. Sio e Nicola Bernardi hanno incontrato tante identità in transito nei centri d’accoglienza straordinaria dell’imperiese e da questa esperienza è nato Storiemigranti, un percorso di fumetti e ritratti ricalcati sulle impronte di chi ha imbarcato la salvezza su un gommone.

Hamid Sulaiman affronta ancora la catastrofe siriana nel suo Freedom Hospital, radunando in un ospedale clandestino un microcosmo sociale complesso e contraddittorio. E la mostra ideata da uno spunto di Gipi Migrando, gridando, sognando. Storie di migranti nello sguardo del fumetto mediterraneo ripropone il punto di vista dei viaggiatori, di quelli che si muovono nella metà incerta del mare. Quel mare che è lo stesso per tutti, anche quando lo scordiamo.

Da un brano di Baricco che la mia adolescenza ha molto amato: «Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere?»  O una sterminata pagina dove affondano le stelle. Altre, invece, imparano a nuotare.

 

(Giulia Pex, Khalat, Hoppípolla Edizioni, 2019, pp. 108, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)
BANNER DELLA CALL PER AUTORI 66THAND2ND EFFE

#opencall: Siamo alla ricerca di storie di sport e di autori che sappiano raccontarcele

effe – Periodico di Altre Narratività e 66thand2nd hanno avviato una collaborazione per realizzare una raccolta di racconti di ambientazione sportiva. Sacrificio, dedizione, ambizione, ma anche intelligenza, estro e fortuna. E, naturalmente, vittoria e sconfitta. Quello dello sport è un terreno narrativo vasto e poco esplorato, nel quale però convogliano, da qualunque angolazione lo si guardi, sentimento e competizione. Cerchiamo voci che siano in grado di raccontarci questo mondo.

Coloro che parteciperanno con il proprio racconto a questa call avranno la possibilità di essere selezionati e inclusi in una raccolta curata da effe – Periodico di Altre Narratività e pubblicata da 66thand2nd.

Inoltre, la casa editrice selezionerà un autore, tra quelli inclusi nella raccolta, perché sviluppi il proprio racconto in un romanzo da pubblicare nella collana Attese, oggetto di apposito contratto di edizione da negoziarsi separatamente tra le parti.

La partecipazione al nuovo contest è condizionata alla lettura e all’accettazione delle previsioni del regolamento. I racconti, rigorosamente inediti, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail cognome, nome e titolo.

La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 25.000 e le 60.000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 31 ottobre 2019 e la partecipazione è gratuita.

 

 

effe – Periodico di Altre Narratività è un semestrale di narrativa inedita illustrata, ideata da Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee. Nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano contemporaneo. Su effe i racconti di autori esordienti, scelti attraverso un attento scouting, trovano spazio accanto a quelli di scrittori già affermati. La tiratura limitata e la distribuzione diretta, vis-à-vis con i librai indipendenti, ribadiscono la volontà del progetto di pensare al libro come il risultato di un lavoro artigianale. effe è anche un volume itinerante che a ogni uscita viene presentato in giro per l’Italia, coinvolgendo attivamente librai, addetti ai lavori e lettori nel dibattito sulla lettura e sulla narrativa contemporanea.

 

66thand2nd: a New York, all’incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la Seconda Avenue si è formato oltre dieci anni fa il primo nucleo del progetto editoriale di 66thand2nd, che nel nome e nel marchio ha voluto rendere omaggio a quelle origini, senza mai dimenticare di guardare con curiosità e attenzione ai fermenti letterari degli altri paesi. Una doppia componente che trova riscontro nelle cinque collane e negli oltre centocinquanta titoli che formano il catalogo della casa editrice.
Attese è la nostra collana di letteratura sportiva, che si è già guadagnata uno spazio privilegiato tra gli appassionati del genere, ma anche tra tutti gli avidi lettori di narrativa. È il contenitore ideale per tutti quei libri in cui è lo sport a innescare il desiderio e il gioco della scrittura. Da una costola di Attese, è nata poi la collana Vite inattese, che raccoglie memoir di personaggi emblematici di diverse discipline sportive, con un occhio di riguardo all’unicità delle loro vicende umane e professionali.

Copertina di Persone normali di Sally Rooney

La voce di una generazione

Persone normali (Einaudi, 2019) è l’attesissimo secondo romanzo dell’autrice irlandese Sally Rooney, che lo scorso anno ha raggiunto una popolarità mondiale grazie al suo debutto Parlarne tra amici. L’esordio, chiacchieratissimo e apprezzato dai più, è stato presentato come un ritratto convincente dei millennial che sembravano finalmente aver trovato nella penna di Rooney un’abile portavoce. Allo stesso tempo, alcune delle critiche rivolte al romanzo sottolineavano quanto poco ci fosse di comune e generazionale in una vicenda che parlava di giovani universitarie alle prese con reading di poesia e relazioni extraconiugali. Rooney si difese prontamente dichiarando di non aver mai intenzionalmente raccolto la sfida del cosiddetto ritratto generazionale, quanto piuttosto di aver descritto un mondo molto più circoscritto, quello da lei osservato, e di aver cercato di renderne le dinamiche e dar voce ai personaggi attingendo alla sua realtà. L’autrice si porta dietro questa aura di profeta della generazione di Snapchat – o almeno così recitava l’altisonante strillo di copertina di edizioni originali e tradotte del suo esordio – e queste sono le premesse che hanno fatto sì che l’uscita del nuovo libro fosse carica di attese e alte aspettative.

La storia prende avvio quando i due protagonisti, Marianne e Connell, sono due studenti di una scuola superiore di Sligo, nell’Irlanda nord-occidentale. All’autrice non importa presentare formalmente i personaggi, basti sapere che sono teenager molto intelligenti, fin da subito introdotti come i “più bravi della scuola”, e sono i loro dialoghi a tratteggiare le loro caratteristiche, essendo la prosa di Rooney molto essenziale e concentrata sul parlato. I due si conoscono molto intimamente ma in pubblico fingono di non avere nulla a che fare l’uno con l’altra, per via della reputazione di Marianne, la quale nella gerarchia sociale della scuola è all’ultimo posto, essendo emarginata e vittima di bullismo. Per quanto Connell non si senta affine all’ambiente che discrimina Marianna, non se ne distanzia né lo condanna con fermezza, per via della sua ansia e della sua insicurezza che fanno sentire in trappola anche lui. Questo comporterà l’allontanamento dei due fino a quando non si incontreranno all’università per iniziare una relazione in cui le dinamiche di forza sembrano essersi rovesciate: il senso di inadeguatezza adesso è invece pane quotidiano di Connell, il quale, ritrovandosi nella prestigiosa università di Dublino, si percepisce come proveniente da una classe sociale inferiore e si ritrova al Trinity College in un clima molto diverso da quello del liceo, nei suoi confronti ostile e inospitale. Adesso è Connell a misurarsi con il senso di marginalizzazione dal contesto sociale.

I protagonisti si ritrovano uno di fianco all’altro, costruiti per analogie e differenze. Se da un lato condividono la questione della impopolarità e delle difficoltà sociali, la disparità economica che i due ragazzi vivono resta un tabù non affrontato: Connell deve lavorare durante ogni periodo libero dallo studio e sua madre lavora nella magione della famiglia di Marianne, la quale invece si può permette addirittura di affermare ironicamente durante una conversazione telefonica quanto lavorare sia immorale. Nonostante siano in costante dialogo tra loro e parlino continuamente di libri, film, cultura, politica, sessualità, non arrivano mai a prendere di petto il tabù della loro storia, gli squilibri che causano i loro veri problemi e soprattutto i fraintendimenti che finiscono per allontanarli.

I problemi che i giovani affrontano nel delicato passaggio da scuola a università non vengono tenuti fuori dal libro: parlando del contesto scolastico irlandese, i personaggi si scambiano opinioni sulle prospettive future e soprattutto del prezzo economico (e anche psicologico) che alcune carriere richiedono fin dall’ingresso nel mondo accademico. Spesso sono messi a fuoco gli ambienti accademici e le aule che Connell, da studente prodigio che deve ancora acquisire sicurezza, osserva silenziosamente. A volte sembrano peccare di autenticità, come spesso accade quando ci si ritrova in circoli culturali in cui la posa conta più della capacità di analisi, l’enumerazione delle letture fatte più del confronto con i testi stessi: «A poco a poco però ha iniziato a chiedersi come mai in classe tutte quelle discussioni fossero cose astratte e carenti di dettagli testuali, e alla fine si è reso conto che la maggior parte degli iscritti in realtà non leggeva». Altre volte gli accessi dei personaggi si fanno più esplicitamente polemici: «Era cultura intesa come manifestazione di classe, letteratura elevata a feticcio per la sua capacità di offrire agli eruditi finte esperienze emotive, cosicché in seguito potessero sentirsi superiori agli incolti delle cui esperienze emotive amavano leggere».

Come è possibile che i personaggi di Sally Rooney siano tanto complessi e sfaccettati pur essendo descritti in maniera tanto semplice? È lo stesso mistero della sua lingua, che rifiuta particolari artifici e riesce a nascondere dietro la sua apparente semplicità l’abilità di mostrare sfumature psicologiche sottili e originalissime. Allo stesso modo ci sono a volte delle false piste, la storia sembra che stia prendendo una piega addirittura banale, quando all’improvviso Rooney piazza la sterzata e riconduce la vicenda in una dimensione più originale, spesso violenta e cruda. Al di sotto della storia d’amore c’è una storia di violenza e delle ripercussioni che ha sulla sua vita sentimentale e non. Anche la depressione, presente pure in Parlarne tra amici, qui invece presentata da un punto di vista leggermente diverso e affrontata con il candore a tratti brutale dello stile di Rooney, che lascia che temi complessi si esplorino tramite episodi ed esperienze dei personaggi.

Un aspetto altrettanto interessante è anche la struttura del testo: ogni capitolo introduce una data e descrive lo stadio delle vite dei due protagonisti e la relazione che intercorre tra loro in quel determinato momento. A volte il salto temporale è di poche ore, molto spesso di alcuni mesi, e così vengono raccontati tre anni di relazione, dal 2013 al 2015. È questo il metodo che Rooney architetta per presentare l’arco del rapporto tra i due personaggi; tale procedimento rende possibile seguire i percorsi di crescita di entrambi, come se all’avanzare delle pagine corrispondesse l’evoluzione dei protagonisti. Le pagine iniziali partono da quello che sembra un banale cliché da telefilm americano, e presentano i due protagonisti in una fase embrionale del loro rapporto; i loro pensieri, i loro scambi, ma soprattutto la loro capacità di analizzarsi e parlare dell’inviolabile tabù che orbita attorno alla loro relazione, sono coerenti con quelli che sono pensieri e azioni di diciottenni, che seppure brillanti studiosi e abili conversatori ancora faticano a costruirsi un’autocoscienza e confessarsi l’un l’altro. Molto spesso è proprio sul non detto che si basano molti degli intoppi e arresti che incontrano i due personaggi. Man mano che il romanzo va avanti, invece, le situazioni iniziano a rivelarsi in maniera cristallina, mostrando la maturazione dei personaggi mentre si scontrano con i problemi della crescita e con i loro singolari caratteri.

Come in Parlarne tra amici, anche in questo romanzo ritorna lo scambio epistolare sotto forma di e-mail. Parafrasando Lauren Collins in un articolo del New Yorker, l’uso di Internet non è esplicitamente tematizzato da Rooney, almeno quanto la lettera non lo fosse in Jane Austen, bensì solo un medium che è stato in un certo senso talmente tanto assimilato da far diventare la comunicazione online un nuovo tipo di prosa. Mentre nell’esordio lo scambio tra i personaggi era uno dei nodi cruciali del racconto, qui l’e-mail non è altro che una dimensione più intima che i due protagonisti adottano in un momento di distanza, che gli permette di spiegarsi e di connettersi intimamente; la corrispondenza online rappresenta per entrambi una vita di fuga dalla loro realtà, ma anche un momento di approfondimento della loro stessa vita.

«Il tempo mentre digita si addolcisce, appare lento e dilatato. Non saprebbe spiegare perché le mail a Mairanne lo assorbano tanto, ma non ha l’impressione che sia una cosa banale. La sensazione è che il gesto di scriverle sia espressione di un principio più ampio ed essenziale, qualcosa della sua identità, o di ancora più astratto, che ha a che fare con la vita stessa».

In effetti, trattare Sally Rooney come colei che decanta la sua generazione significherebbe sottostimarla. Vengono in mente le parole di Hanna della puntata pilota di Girls «I don’t want to freak you out, but I think that I may be the voice of my generation. Or at least, a voice of a generation». Ma al di là della vicenda del ritratto generazionale più o meno credibile, uno dei tratti più interessanti dei suoi lavori è quello di riuscire non solo a dar voce alle individualità di personaggi realistici, ma anche a tener conto e mostrare come l’ambiente circostante e il sistema socioculturale in cui sono calati agisce su loro, modificando i loro rapporti e le loro vite.

Quando si arriva al termine di questo racconto, è doveroso interrogarsi sui motivi di quella che sembra una vera e propria mania per la scrittrice e sui possibili motivi della sua crescente popolarità. Viene da pensare che molto faccia il fatto che questo sia un libro di amanti di libri. Il mondo dei personaggi di Rooney è a contatto costante con la lettura e forse è nella condivisione della familiarità di questa pratica che il pubblico si lascia sedurre e travolgere dalle vicende dei suoi libri. Connell ce lo ricorderemo come il ragazzo che mentre sta leggendo Emma si sente troppo scosso dal fatto che il signor Knightley sposerà Harriet e deve chiudere il libro per questo senso di agitazione: «Si trova un po’ ridicolo, a farsi prendere così dal dramma dei romanzi. Preoccuparsi per dei personaggi di finzione che si sposano tra loro sembrerebbe intellettualmente poco serio. Ma tant’è: la letteratura lo commuove».

(Sally Rooney, Persone normali, trad. di Maurizia Balmelli, Einaudi, 2019, pp. 248, euro 19,50, articolo di Valentina Barisano)
Copertina di Zuleika apre gli occhi

La Siberia e il destino femminile

«Questo romanzo appartiene a un tipo di letteratura che credevamo irrimediabilmente perduto con il crollo dell’URSS. In epoca sovietica potevamo contare, infatti, su una nutrita pleiade di scrittori dalla doppia cultura, scrittori figli di una delle tante minoranze etniche dell’impero, ma che sceglievano di scrivere in russo». Inizia con queste parole la prefazione di Ljudmila Ulickaja al romanzo Zuleika apre gli occhi (Salani, 2017), opera prima della quarantaduenne scrittrice tatara Guzel’ Jachina che però mostra una maturità non certo da esordiente in questo libro voluminoso, molto composito, e impossibile da dimenticare.

Sì, in epoca sovietica la lingua russa ospitava molti autori non russi che oltre ad essere grandi scrittori padroneggiavano anche la lingua alla perfezione, come il kirghiso Ajtmatov, o i kazaki Kim e Sulejmenov. Il russo era anche la lingua veicolare che permetteva l’accesso alle opere di quegli scrittori sovietici non russi che preferivano scrivere nella loro lingua madre, come il georgiano Otar Chiladze, ma potevano raggiungere il meritato successo internazionale solo tramite la traduzione russa dei loro libri. Con il crollo dell’Unione Sovietica questo patrimonio si è disperso, grande quindi è la gioia di poter sconfinare di nuovo in un’altra cultura di quell’area, stavolta tatara, con Zuleika apre gli occhi, opera pluripremiata e molto apprezzata non solo dalla Ulickaja ma anche da un altro grande contemporaneo noto anche in Italia come Evgenij Vodolazkin.

La trama tocca punti così estremi da sfiorare l’incredibile, ma sappiamo che la dittatura staliniana andava anche ben oltre. Finita nell’elenco dei kulaki, i contadini possidenti, nel 1930 Zuleika viene deportata come una delinquente qualsiasi. Dopo un viaggio durato sei mesi in un vagone bestiame arriva in Siberia dove partorisce, in condizioni inenarrabili, il figlio concepito prima della deportazione. Lo tira su nella taiga, trova se stessa, e trova persino l’amore nella persona del comandante russo che aveva assassinato suo marito. Sembra fiction, eppure la storia poggia su basi solide: è la ricostruzione della deportazione della nonna dell’autrice che elabora quindi insieme una tragedia familiare e una storica, in  uno dei capitoli più vergognosi della storia russa. Il romanzo unisce l’avventura alla quiete narrazione tipica dei grandi classici, ricca di colori, odori, suoni e sfumature sentimentali. Un’opera profonda ed estesa, un caleidoscopio di figure tipiche che rappresentano la società sovietica di un’epoca tragica; un grande romanzo in senso lato, di cui alcune parti potrebbero vivere anche vita autonoma. Il primo capitolo, Un giorno, per fare un esempio: è il quadro della vita quotidiana di una donna tatara qualsiasi, definita all’interno dei recinti costituti dal focolaio e dalla parete della stanza riservata alle donne nella società patriarcale.

Il titolo, Zuleika apre gli occhi, ricorre cinque volte nel corso del romanzo, per contrassegnare le cinque fasi principali della vita della protagonista, che si riscatta con molta sofferenza e con coraggio estremo, tirati fuori non per scelta ma per necessità. Il libro vanta una ricca selezione di allegorie, simboli, parafrasi e episodi surreali. In qualche caso proprio questi ultimi li ho trovati straripanti ed è l’unica nota critica che mi permetto di muovere al libro. Ho trovato straordinaria invece la parafrasi di Il Verbo degli uccelli del mistico e poeta sufi persiano Farid Al-Din ’Attar (morto nel 1221), uno dei capolavori della letteratura persiana, che viene inserita in vari punti della trama, principalmente sotto forma di una favola che Zuleika racconta al figlio. Un’allegoria di una bellezza travolgente, così come il sottinteso inno alla gioia per la vita, una fede nella luce che illumina l’oscurità, una forte impronta positiva che impregnano anche le pagine più tragiche, fino a riuscire a renderle addirittura luminose. Il raro dono di raccontare la tragedia senza deprimere, di insegnare la Storia senza saccenteria.

L’aspetto che colpisce di più nello stile narrativo di Guzel’ Jachina è la plasticità della tecnica cinematografica, la capacità di far vedere e non solo di far leggere. Allevia la fatica del lettore offrendogli solo piacere. È anche merito dell’eccellente lavoro di Claudia Zonghetti, pluripremiata traduttrice di molti autori russi del calibro di Tolstoj, Dostoevskij, Grossman, Bulgakov e Politkovskaja. Solo forse l’autore conosce il proprio testo meglio del suo traduttore che vive in simbiosi con esso anche per molti mesi. In più, il traduttore è anche un appassionato e profondo conoscitore della letteratura che traduce, quindi fonte preziosa di riflessioni, aneddoti, informazioni e suggerimenti. Approfitto dunque della disponibilità di Claudia Zonghetti per passarle la parola, pregandola di parlarci liberamente di Zuleika apre gli occhi e della letteratura delle etnie non russofone della Russia.

Zuleika e le altre:
Zuleika apre gli occhi non è solo e soltanto un romanzo (necessario) sulla collettivizzazione forzata e la deportazione di interi popoli (argomenti di cui poco o nulla si sa e si legge, in Italia), e nemmeno è solamente la storia (straordinaria) di una donna fragile con un carico di sofferenze e prove che pochi riuscirebbero a sopportare. Zuleika apre gli occhi è un esempio misurato e straordinario di come la Storia entra nella storia, ma in una combinazione talmente intensa e insieme rarefatta, che in certi punti il confine tra realtà e fantastico è labilissimo (quando non viene proprio scavalcato del tutto), e ci si ritrova immersi in una situazione fuori del tempo, fra antichi usi e strazi moderni, fra personaggi realissimi da un lato e figure al limite della stilizzazione dall’altro (che da tanta stilizzazione, però, traggono la propria poderosa forza evocativa).

È vero, sì: Zuleika è una storia scritta come raramente capita. Precise ma asciutte, le descrizioni accompagnano chi legge in una realtà altra (nel tempo e nello spazio) senza nulla concedere all’esotismo da cartolina, e la narrazione è talmente intima da ricordare la voce calda e profonda dei “fuori campo” dei vecchi film epici. Ha scritto un critico russo che «leggendo di Zuleika che accarezza il naso di un puledro, subito si ha la percezione fisica della sua mano ruvida e del velluto del manto dell’animale; se Zuleika ha freddo, il riflesso pavloviano del lettore è di rannicchiarsi sotto il plaid; se ha paura, viene fatto di controllare con la coda dell’occhio se c’è qualcuno, alle nostre spalle». Quella di Guzel’ Jachina, insomma, è una scrittura che il romanzo storico non aveva mai conosciuto prima: fresca nonostante l’argomento rovente, agile nonostante il piombo degli eventi narrati, visiva, cinematografica quasi (e dalla cinematografia viene infatti l’autrice), che offre con una leggerezza quasi straniante, a volte, l’orrore di ciò che accade.

Negli ultimi anni ho tradotto con grande curiosità tre romanzi di tre scrittrici profondamente radicate nella loro cultura di origine, ma che hanno guardato alle proprie storie scegliendo il filtro di una lingua “altra”, pur se altrettanto propria. Se per Guzel’ Jachina il tataro era la lingua dei nonni e che con i nonni è scomparsa o quasi, nel caso di Alisa Ganieva (La montagna in festa, la Nuova frontiera), cresciuta in Dagestan, e di Narine Abgarjan (E dal cielo caddero tre mele, Francesco Brioschi editore), armena, entrambe perfettamente bilingui, la scelta del tramite si poneva eccome.

Entrambe hanno usato il russo per dar voce ai propri personaggi, ma entrambe hanno colorato le pagine con innesti dell’altra loro lingua, imponendoci (per fortuna) di aprire gli occhi e le orecchie a lettere e suoni nuovi. Lo stesso, del resto, ha fatto Guzel’ Jachina, che per Zuleika ha attinto a piene mani agli etnoculturemi turco-tatari e al folclore locale.

E di folclore, cibo, spiriti e spiritelli, storie quasi dimenticate, abiti e arredi-madeleine sono piene le pagine di tutti e tre i romanzi, diversissimi fra loro (si spazia dal tema spinosissimo del nuovo Islam caucasico di Alisa Ganieva, alla dekulakizzazione di Guzel’ Jachina, alle catastrofi naturali e umane dell’Armenia di Narine Abgarjan), ma altrettanto uniti da una fortissima volontà di rinascita, di commistione, di mescolanza nel rispetto del diverso e, soprattutto, dal desiderio di conoscenza dell’altro da sé, che del diverso allontana la paura. E il compito della letteratura, del resto, è da sempre questo.

 

(Guzel’ Jachina, Zuleika apre gli occhi, trad. di Claudia Zonghetti, Salani, 2017, pp. 504, euro 19,90, articolo di Andrea Rényi)
Poster della seconda stagione di Fleabag su Flanerí

“Fleabag” non è la miglior serie al femminile di sempre

Su Prime Video, la piattaforma di streaming di Amazon, c’è una piccola serie britannica imperdibile. Si chiama Fleabag, letteralmente sacco di pulci, l’ha prodotta BBC Three, l’ha ideata, scritta e interpretata la commediografa Phoebe Waller-Bridge, e nell’arco di due stagioni, dodici episodi e circa 300 minuti complessivi è riuscita a ridefinire il concetto di scrittura televisiva.

Fleabag è il soprannome della protagonista, una giovane donna londinese alle prese con una famiglia complicata, un’attività che non decolla e una serie di rimpianti che la perseguitano. Nella prima stagione deve affrontare il rimorso per la morte – suicidio? incidente? – della sua migliore amica e socia di cui si sente responsabile, nella seconda l’infatuazione potentissima per un uomo inavvicinabile: un prete cattolico. In mezzo ci sono la sorella e il suo viscido marito, il padre e la sua nuova compagna – una specie di compendio di tutte le matrigne delle favole –, i debiti, gli uomini sbagliati e un porcellino d’India.

La prima stagione è arrivata nel 2016, la seconda nei primi mesi del 2019. Waller-Bridge è partita da un suo premiato testo teatrale del 2013, un monologo portato in scena a Londra sulla vita della protagonista. Ci doveva essere una sola stagione, poi è arrivata la seconda, che dovrebbe essere l’ultima.

Senza rivelare troppo a chi deve ancora vederla, Fleabag segue in due atti la caduta e la ascesa della sua protagonista. La prima stagione si concentra su un precipitare lento, costante e comune a molti in una serie di (in)evitabili errori alimentati dalla mancanza di autostima. La seconda segue le fasi conclusive di una ristrutturazione personale iniziata negli anni non mostrati sullo schermo.

Interpretata con classe da attori britannici più o meno noti – la matrigna è Olivia Colman, premio Oscar quest’anno per La favorita; il prete è Andrew Scott, già Moriarty nello Sherlock BBC –, Fleabag ha nella scrittura intelligente, provocatoria e anticonvenzionale il suo punto di forza.

In tanti nelle scorse settimane si sono affannati a parlare della seconda stagione di Fleabag, e in generale dello show, come «la miglior serie al femminile di sempre». La verità, più semplice e ampia, è che Fleabag è una delle serie tv meglio scritte di tutti i tempi.

La capacità che ha di trasmettere la disperazione e le speranza della protagonista e degli altri personaggi, di costruire psicologie con semplici tratti puntando quasi sempre sulla sola ironia, la rende un prodotto unico.

L’intuizione, semplice, già vista, ma comunque efficace e a suo modo sorprendente, di permettere alla protagonista di infrangere la quarta parete e rivolgersi al pubblico crea una vicinanza che diventa presto empatia totale.

Sparsi qua e là ci sono una serie di momenti televisivamente perfetti, compreso il finale, lieto e amaro allo stesso tempo. Di sicuro, i ritratti femminili che vengono fuori sono quanto di più consapevole, sincero e allo stesso tempo dissacrante si sia visto nelle serie tv, ma parlare di Fleabag come uno spettacolo al femminile vuol dire limitarne la grandezza.

La folle malinconia di Mac Demarco

Quando ci si imbatte nella traccia numero sei di Here Comes the Cowboy, “Choo Choo”, è facile chiedersi qualcosa di simile a «Perché continuo ad ascoltare Mac DeMarco?» Su una base funky, il cantautore canadese con il suo falsetto riproduce il suono del treno per tutti i quasi tre minuti di canzone. Un brano che sembra non avere ragione di esistere, buttato lì a caso.

La risposta è piuttosto facile: DeMarco è anche questo, DeMarco è così, DeMarco è la boutade alla DeMarco. È il nonsense delle interviste su Weird Wibes e il tentativo di autopenetrazione anale con una bacchetta durante un concerto. Quindi è anche il cantare il suono di un treno, come in una canzone per bambini nichilisti «Choo Choo/Take a ride with me/Choo Choo/Come and die with me».

Nel suo universo nulla è serio e quindi tutto risulta incredibilmente serio. Ma soprattutto vero. Perché Demarco è, nel bene e nel male, autentico. Here Comes the Cowboy, il suo quinto album, è qui e ce lo testimonia.

Forse leggermente meno ispirato del suo bellissimo predecessore, il suo nuovo lavoro ci mostra comunque un cantautore che è arrivato a un certo punto della sua carriera ancora carico e ispirato. Come in This Old Dog, è il tempo a farla da padrone. Per quanto il personaggio DeMarco possa a volte ingurgitare l’artista DeMarco, non bisogna scordarsi delle sue notevoli qualità artistiche. Ma ciò che conquista è la sua capacità nel saper gestire il tempo. Here Come the Cowboys, come il suo predecessore, ha un tempo interiore che differisce da quello di molte pop/rock alternative band di oggi. Lui decide quando far accadere una cosa e la cosa è percepibile, quasi tangibile.

Anche perché un’apertura come “Here Comes the Cowboy” è quello che qualsiasi produttore sconsiglierebbe, anzi, che prenderebbe e cestinerebbe, agli antipodi con la ricerca di immediatezza e fruibilità: tre minuti precisi dello stesso giro di chitarra e la voce annoiata che ripete unicamente «Here Comes the Cowboy».

L’idea di noia è qualcosa che appartiene a quest’album. Una noia, però, non stantia. Una noia che si inerpica lungo i tredici brani, li prende e li fa splendere.

In questo DeMarco è eccezionale: riuscire a far sembrare divertente, o quantomeno piacevole, anche una cosa noiosa.

Facilitato dall’immaginario suggerito dal Cowboy del titolo, il sound è un country suonato sulla luna in un futuro remoto, scritto da uno che si finge lo scemo del villaggio. Forti sono come sempre le influenze di Damon Albarn, sia nel modo di inclinare la voce, ma anche per quanto riguarda alcune soluzioni: “Baby Bye Bye” sembra il lato disilluso di “Tender”.

Here Comes the Cowboy non è a livello di This Old Dog, ma riesce a tenere botta con il tempo che, in ogni caso, continua a passare. Mac DeMarco è un’artista che si spende, che si dà. Mac DeMarco è l’amico fuori di testa a cui invidi il suo talento senza odiarlo mai.

Poster italiano del film Beautiful Boy

“Beautiful Boy” spreca il talento dei suoi attori

Dopo la presentazione a Toronto e alla Festa del cinema di Roma 2018 arriva nelle sale italiane Beautiful Boy, film di droga e amore familiare interpretato da Steve Carell e Timothée Chalamet.

Basato sui libri autobiografici dei due protagonisti, il giornalista David Sheff e il figlio Nick, Beautiful Boy racconta la storia di una famiglia dilaniata dalla tossicodipendenza del giovane figlio. È una vita apparentemente felice, quella dell’adolescente Nick. Ha un ottimo rapporto con il padre, con la sua seconda moglie e i suoi due fratellastri. È bello, intelligente, interessante, avrebbe un ottimo futuro davanti a sé. La droga la incontra per curiosità, più che per disperazione, e quando arriva alle metanfetamine tocca un punto così basso da cui non riesce più a risalire. Ci prova, si attacca al padre, alla madre, tradisce la loro fiducia, si riscatta, ricade.

Il regista belga Felix Van Groeningen si era imposto all’attenzione internazionale nel 2012 con il film Alabama Monroe, candidato all’Oscar per il miglior film straniero nell’anno della vittoria di La grande bellezza. Per il suo esordio nel cinema statunitense sceglie di affidarsi ai suoi interpreti per una storia di sentimenti forti e difficili come già aveva fatto per il suo film più celebre.

La straordinaria coppia di interpreti regge in piedi il film. Steve Carell riesce con sempre maggiore credibilità a proporsi come attore drammatico – quest’anno era anche in Benvenuti a Marwen – facendo dimenticare la sua fama di comico. Timothée Chalamet si conferma, ruolo dopo ruolo, uno dei maggiori talenti in circolazione.

Il titolo arriva da una canzone omonima di John Lennon, quella in cui ha scritto «la vita è quello che ti capita mentre fai altri piani». L’ex Beatles l’aveva scritta per il figlio Sean nel 1980 e il testo è una specie di sintesi dei desideri di padre di David per il figlio Nick.

Beautiful Boy riesce a descrivere in modo verosimile la caduta nella droga, grazie anche allo sceneggiatore Luke Davies che ha avuto problemi di tossicodipendenza in passato. Non dà colpe, né alla famiglia – David è risposato, ha altri due figli, la madre è assorbita dal lavoro – né al ragazzo. La droga, semplicemente, succede.

Ci sono dei momenti che funzionano molto, come la fredda determinazione con cui il padre decide di smettere di credere alle ennesime bugie/promesse del figlio e quella paura orribile di vederlo come una minaccia per i suoi fratelli.

Quello che il film non riesce a fare è trovare il giusto equilibrio per raccontare la storia di padre e figlio.

La sequenza di cadute, risalite, fiducia tradita e preoccupazioni parentali diventa in fretta ripetitiva. Non manca una certa retorica nell’affrontare il discorso, da un lato con un’enfatizzazione stereotipata degli effetti delle droghe, dall’altra nei discorsi sull’importanza della volontà e della forza. Peccato perché si finisce in fretta per sprecare il materiale narrativo interessante e i due interpreti, oltre agli elementi di corredo come l’ottima colonna sonora strutturata su pezzi anni Novanta.

(Beautiful Boy, di Felix Van Groeningen, 2018, drammatico, 111’)