Un sarto nel vuoto

È una storia di avanzi e ritagli e del sarto Franz Reichelt che guarda in su mentre cuce. Il giovane austriaco è ossessionato dalla moda e dall’aviazione ed è per amore di entrambe le cose che nel 1898 lascia Vienna e si trasferisce a Parigi. Lì apre bottega e comincia a vestire le più ricche e capricciose dame del ii arrondissement e non solo. Mentre ricama giacche e camicette di raso, si appassiona pure alle crinoline e ai loro faux-cul. Studia quelle complicatissime architetture di metallo che come per magia plasmano sotto le gonne i sederi più sporgenti e posticci di Parigi. Le donne fanno a gara a chi ce l’ha più alto e Franz le asseconda. Cuce e solleva, solleva e cuce e più innalza più gli affiora un’idea che calza sul suo assillo come un guanto: confezionare un mantello volante e staccarsi finalmente dalla terra che gli va stretta.
A colpi di ago e filo imbastisce la sua tuta, poi arruola tutti i manichini della sartoria e gliela fa indossare lanciandoli giù dal quinto piano del palazzo. Dopo ogni test prende metro, forbici e taglia il superfluo. Misura, calcola, rattoppa; centimetro dopo centimetro insegue la leggerezza. Per ogni scampolo che defalca Franz si esalta, al punto che bisognerebbe ancorarlo a terra per non farlo volare via dall’entusiasmo. Quasi cento lanci e decine di fantocci mutilati non bastano a realizzare qualcosa che assomigli anche lontanamente a un volo, così passa al collaudo personale e non importa quante volte si schianti su balle di fieno piazzate dai suoi assistenti, lui vuole volare, come un supereroe.
Franz ha trovato il suo scopo, anzi la sua direzione, capisce che deve procedere verso il cielo ma gli manca il trampolino per farlo, gli mancano i metri che solo la Torre Eiffel gli può dare. Sale il 4 febbraio del 1912, gli è sufficiente il primo piano per lanciarsi ma prima sfila davanti a una folla di cronisti e cineasti che rende difficoltoso l’ingresso. In mezzo a centinaia di curiosi ci sono pure quattro funzionari dell’Aéro-Club di Francia che scuotono la testa, Franz accenna un saluto con aria di sfida. Indossa una coppola e degli stivaletti di vernice nera, inoltre ha due baffoni che insieme ai venticinque chili di stoffa e armatura del suo camiciotto, lo fanno camminare tra i fotografi come fosse un tricheco.
Sono le otto del mattino e sulla rampa di lancio tira un vento gelido. Con due saltelli spiega le ali e ne testa l’apertura: 12 metri quadrati di stoffa che dovrebbero farlo planare sui giardini di Campo di Marte come un gabbiano; sono anni che si immagina la scena. Poi con un piede sul parapetto e l’altro su uno sgabello rimane quasi un minuto imbambolato a guardare giù con la condensa che gli esce dalla bocca. Mentre sta in bilico sul vuoto, la tuta sembra uno scafandro e lui più che un aviatore pare un palombaro dei cieli. Per almeno tre volte accenna a tuffarsi, non si è mai sentito così pesante in tutta la sua vita, poi però trova il coraggio. Il lancio dura un paio di secondi e mentre precipita si vede solo un grosso panno che cade, come se il sarto fosse diventato improvvisamente di stoffa. Quella terra da cui voleva allontanarsi adesso è una calamita che lo tira a sé, poi lo schianto sul suolo ghiacciato e una nuvola di polvere che si alza come nei cartoni animati, quasi per scherno. Da quel momento di Franz Reichelt si ricorderanno le abilità sartoriali e soprattutto un volo in cui di sbagliato c’era solo la direzione.
Franz voleva volare, magari sfruttando qualche corrente ascensionale ma la forza di gravità lo ha riportato coi piedi per terra, anzi con tutto il corpo; i suoi 62 chili moltiplicati per circa 60 metri d’altezza hanno fatto il resto. Il notaio che lo aspettava in basso per certificarne l’impresa, ora ne attesta il decesso mentre misura la violenza dell’impatto rilevando la fossa lasciata dal corpo. Dalla tasca del cappotto nero sfila un righello di legno del tutto uguale a quello del sarto. Lo strumento che serviva a Franz per misurare lo spazio tra sé e il cielo, il funzionario lo punta nella direzione opposta affondandolo nella buca, e neanche di poco. Poi lo brandisce e mostra alla folla la distanza volata verso il centro della Terra da quello scampolo di Icaro.

 

“Un sarto nel vuoto” è tratto dalla raccolta di racconti Come vedi avanzo un po’ – 15 biografie marginali di Stefano Scanu, uscito per ItaloSvevo editore.

 

Stefano Scanu è nato a Roma nel 1975, dove continua a vivere svolgendo il lavoro di libraio in una delle più grandi librerie di catena della capitale. Ha compiuto gli studi in Lettere. ha collaborato con Radio Deejay, Radio Rai e con le riviste Towner-Moleskine e Perdersi a Roma. Tra i suoi libri ricordiamo la raccolta di versi Come un albero per un ampolla (Giulio Perrone, 2014), e Buio in sala. Guida breve ai cinema di Roma (Giulio Perrone, 2016),  e Il disordine del mondo. Piccolo atlante dei luoghi fuori posto (Ediciclo, 2017).

Come vedi avanzo un po’: Vite avanzate da e verso qualcosa. Biografie fatte di resti, di persone scivolate ai margini e finite su questi fogli giusto il tempo di fermarsi prima di avanzare di nuovo. Il genere biografico può essere squisitamente narrativo: dipende da come certe storie vengono raccontate, ma anche da come i protagonisti hanno vissuto le loro vite. Nel caso di Franz Reichelt, Spike Jones, Félix Fénéon, Vera, Peg Entwistle, Sir Walter Arnold, William Salice, Fortunato Arrighi, Vincenzo Pelliccione, Paul Wittgenstein, Thomas Midgley, Prince Randian, Giachino Veneziani, Diego Maradona do Nascimento da Silva ed Eugeniu Iordăchescu, si tratta di vite sghembe, non propriamente ordinarie, e neanche eroiche: ma che qui prendono luce in tutto il loro splendore letterario.

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Copertina di L'amore che dura di Livia Ravera_flaneri

La resa dei conti con i nodi del passato

Cosa ci spinge a chiederci ancora come sarebbe stato se gli eventi della vita avessero preso pieghe diverse? Cosa ci porta a scrivere, consegnando agli atti della nostra vita, i tasselli di quello che viviamo e soprattutto di quello che abbiamo vissuto? A questi quesiti cerca di dare una risposta L’amore che dura di Lidia Ravera (Bompiani, 2019).

La vita scorre ma si lotta per restare: e i quaderni di Emma, la protagonista di questo malinconico ma vibrante romanzo d’amore, sono la prova “carnale” che certi fili non possono essere spezzati e anzi, costituiscono la base per le decisioni e per le conseguenze del nostro futuro.

Emma e Carlo sono due ultracinquantenni che si sono amati per venti anni – sono anche stati marito e moglie – e si sono conosciuti che erano due ragazzini pieni di sogni e di ideali. Hanno condiviso delle battaglie importanti, si sono sempre sostenuti l’un l’altra e hanno coltivato quella passione che rappresenta un filo prezioso per la loro unione, ma anche per la stessa trama del romanzo.

Emma è un’insegnante per vocazione, protegge i suoi studenti che chiama i “miei figli finti”, si sente spesso responsabile della felicità e del benessere degli altri, è un’altruista; Carlo è un creativo, fa il regista, vuole raccontare il mondo attraverso la sua pupilla interiore e ha i suoi schemi di autoconservazione ben collaudati. Sono il primo amore dell’uno e dell’altra e pare impossibile che la vita, crudele e divergente, li metta di fronte a un bivio che li porterà a dividerli e a sugellare l’idea che, da un certo momento in poi, i loro ideali non combacino più – a differenza dei loro corpi e della loro chimica unica – e vorrebbero in effetti, due vite diverse.

L’autrice, con una scrittura fluida e incalzante, individua il punto di rottura fra i due nel desiderio di maternità di Emma, che si offre di aiutare una sua giovane alunna incinta – esclusa dalla sua famiglia che vive un forte disagio sociale –, ospitandola a vivere a casa sua, e nella spinta ambiziosa di Carlo, che invece vuole trasferirsi a New York. Emma decide di restare a Roma, dedicandosi ai suoi alunni e a Samantha che darà presto alla luce una bambina; Carlo parte, investendo le sue energie nel cinema.

Ognuno quindi ha scelto una vita diversa: ma l’incipit del romanzo si apre su un incontro che i due hanno fissato in una Roma assolata. Emma ha con sé dei quaderni preziosi dove ha annotato dei pezzi della sua vita che riguardano anche Carlo e come scrive «quando evochi il passato per raccontarlo, si addensa in una forma: diventa vero. Copre i vuoti della memoria: il racconto è l’unico reperto durevole».

I due non riescono comunque a parlarsi: Emma viene investita mentre pedala in bicicletta verso l’appuntamento con il suo primo, grande, indelebile amore. Sarà Carlo stesso a soccorrerla e in ospedale dovrà incontrare Alberto, l’uomo che Emma ha sposato dopo di lui, e Franny, la bambina che lei ha avuto subito dopo la loro separazione e che stabilirà con il “gag”, il “grande amore di gioventù” della madre, un’empatia immediata. Forse perché molti nodi non sono stati ancora sciolti, chiariti e riguardano le vite sia di Carlo che di Emma.

 L’amore tra Carlo e Emma è un amore interrotto ma che non ha mai smesso di essere protetto e coltivato: l’autrice ci mostra, utilizzando una storia piena di quotidianità e colpi di scena, che il sentimento genera dipendenza e che in fondo nessuno vuole veramente essere libero: vogliamo essere noi stessi e amati per quel che siamo e dovremmo imparare dal dolore, guardarlo negli occhi e nominarlo.

La condivisione di questo dolore, ma anche dei momenti positivi, attraverso la scrittura di Emma è la colonna vertebrale del romanzo: è la traccia che Carlo, Alberto e Franny stessa – assieme al lettore – devono seguire mentre lei combatte in un sonno scuro, sospesa tra la vita e la morte.

Ecco perché giunge un momento in cui districare i nodi del passato diventa un compito presente che si proietta nel futuro: Lidia Ravera ci consegna una storia autentica, che si legge tutta d’un fiato, che ci mostra che, anche dopo anni, le impronte più vere della vita possono ancora essere riconosciute e affrontate, senza lasciare nulla in sospeso. Il romanzo esplode con una rivelazione che colpisce, esalta e riconsegna un nuovo finale e un nuovo senso all’intera storia.

 

(Lidia Ravera, L’amore che dura, Bompiani, 2019, pp. 416, euro 18, articolo di Antonella De Biasi)
Poster di Il traditore su Flanerí

“Il traditore” offre il meglio del cinema italiano

Con Il traditorMarco Bellocchio porta avanti un discorso cinematografico sul Novecento italiano capace di scavare nel profondo dell’essenza dello spirito nazionale, di smascherarne le ambiguità e i paradossi, di capirne l’umanità profonda.

Buongiorno notteVincereBella addormentata e adesso Il traditore. Quattro film storici nell’arco di sedici anni per raccontare personaggi e momenti tra due secoli. La capacità enorme di Bellocchio di raccontare il Paese attraverso i suoi protagonisti trova qui una delle forme più alte, grazie anche all’interpretazione strabiliante di Pierfrancesco Favino, ormai consapevole del suo stato di grandissimo e proprio per questo capace di spingersi sempre un passo più in là.

Il traditore del titolo è Tommaso Buscetta, cosiddetto Boss dei due mondi di Cosa Nostra e collaboratore di giustizia fondamentale, a partire dagli anni Ottanta, per smantellare l’apparato della mafia siciliana. Il film di Bellocchio si concentra sugli anni dell’arresto e della collaborazione. Buscetta si era sistemato in Brasile dopo essere evaso dal carcere italiano. Dall’America Latina gestiva un traffico di droga verso gli Stati Uniti e assisteva impotente alle ritorsioni contro la sua famiglia ordinate da Totò Riina durante gli scontri tra clan. Quando nel 1983 la polizia brasiliana lo arresta e lo estrada in Italia, Buscetta decide di collaborare con la giustizia non riconoscendosi più in Cosa Nostra.

Senza mai staccarsi dal loro protagonista, Bellocchio e i co-sceneggiatori  Francesco La Licata, Francesco Piccolo, Ludovica Rampoldi e Valia Santella hanno restituito il racconto di uno dei momenti più delicati della storia recente fondendo cronaca e finzione.

Senza seguire un ordine cronologico rigoroso ma affidandosi piuttosto a una sequenza di suggestioni sparse, Il traditore unisce cronaca e finzione e prende molto dai temi cari al cinema di Bellocchio. Al centro di tutto c’è la famiglia, come sempre è sin da I pugni in tasca e fino al recente Fai bei sogniBuscetta ha tante famiglie: quella di sangue, di figli, fratelli e mogli uccisi e minacciati dalla mafia; quella di Cosa Nostra; quella dello Stato con Giovanni Falcone e gli agenti della scorta che lo fanno.

Tre famiglie diverse che condizionano le scelte e le azioni, che pesano e bloccano. E proprio per questo lasciano solo. La solitudine, altro elemento fondamentale per Bellocchio, è la vera dimensione di Buscetta, lontano da tutti e perseguitato dal passato, come nell’immagine finale che lo vede sul tetto della sua villa di Miami, armato di mitra, a difendere la casa dalla notte.

Sempre isolato, come nella scena iniziale che diventa lo specchio dell’ultima, in quella festa di esponenti mafiosi in posa per una foto, tutti vicini, tutti abbracciati.

Non è un solo un film sul boss dei due mondi. È un film su cosa vuol dire essere mafiosi, su cosa è la mentalità mafiosa. Buscetta rinnega la sua storia, disgustato dalla violenza che si è scatenata contro la sua famiglia. Non fa la stessa cosa Totuccio Contorno (interpretato da Luigi Lo Cascio), anche lui collaboratore di giustizia ma incapace di staccarsi dalla sua natura criminale. Non lo fa Pippo Calò (Fabrizio Ferracane), migliore amico di Buscetta ma fedele a Riina e ai suoi ordini.

Con Il traditore Bellocchio è riuscito a fare cinema civile – e storico – di alta qualità come non si vedeva da anni. La sceneggiatura, solida e accurata, è accompagnata da una regia che si concede numerose variazioni di registro, che mette insieme elementi pop in stile Il divo di Sorrentino o Narcos, che sa rallentare e seguire strade più inaspettate.

Fondamentale per la riuscita del film è l’interpretazione di Favino. Con un impressionante lavoro di mimesi vocale, l’attore romano è riuscito a costruire un personaggio memorabile, sempre in bilico tra fragilità e arroganza, tra ridicolo e malinconia.

A Cannes non è arrivato nessun premio, in Italia intanto ci sono undici nomination ai Nastri d’argento. Sarebbe bello se Il traditore riuscisse ad avere una visibilità internazionale.

(Il traditore, Marco Bellocchio, 2019, drammatico, 145’)

F. Scott Fitzgerald e l’Italia di Antonio Merola

Scott Fitzgerald e il topos del doppio

Sembra si debba al meccanico di Gertrude Stein — come rimprovero a un assistente che non era riuscito a riparare la sua Ford T — la celebre definizione di Génération Perdue che la scrittrice statunitense (1874-1946), tra le personalità di maggior spicco del modernismo, fece sua per definire il gruppo di scrittori che da giovani avevano partecipato alla Grande Guerra, restando per il resto della loro vita profondamente segnati da quella esperienza. Tra questi, un posto speciale nella critica letteraria italiana spetta a F.S. Fitzgerald (Saint Paul, 1896 – Los Angeles, 1940), come ci racconta Antonio Merola in questo libricino snello di sole 96 pagine, F. Scott Fitzgerald e l’Italia (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), che si offre come utile promemoria del tortuoso riconoscimento editoriale di un autore straniero tra i più controversi e farraginosi della prima metà del XX secolo.

Infatti, tra i protagonisti della Lost Generation — dei quali ricordiamo Hemingway, Miller, Steinbeck, Eliot, Dos Passos, Pound, Remarque, ecc. — Fitzgerald è quello le cui fortune critiche sono state, nel nostro Paese, maggiormente avverse e tormentate, trovando quasi unanime consenso di vedute solo negli ultimi anni. Ripercorrendone la storia dalle prime traduzioni di Fernanda Pivano di Tenera è la notte (1949) e di Il grande Gatsby (1950), che vennero sostanzialmente ignorate dal pubblico, Merola ne analizza la lenta riscoperta nel secondo dopoguerra e, via via fino a oggi, il progressivo e crescente interesse focalizzatosi intorno alla sua opera.

Forse l’italica incomprensione del suo talento può farsi risalire già al 1924 quando, ubriaco, Fitzgerald prese a pugni un tassista romano, dando così probabilmente il via al mito della sovrapposizione romantica vita reale-romanzo, che tanto lo danneggerà. Infatti, inizialmente considerato da Elio Vittorini niente di più e niente di meno che uno scrittore frivolo dell’Età del Jazz, al punto di includerlo nella celeberrima antologia Americana (1941) nella sezione Eccentrici, una parentesi, Fitzgerald viene in buona sostanza equivocato, ridotto a semplice maschera del proprio tempo, epitome di quei ruggenti anni venti da rotocalco fatti di atmosfere notturne e depravate tutte alcol, droghe, pailettes luccicanti e malfamati locali speakeasy.

Persino la traduzione di Montale del racconto The Rich Boy (Il giovin signorino), non ci restituisce appieno il grande autore americano nella sua complessità, né l’ammirato contributo critico di Cesare Pavese a Il grande Gatsby — nel quale la segreta speranza del protagonista che il passato possa rivivere come un tempo non è dissimile da quella che spinge al ritorno gli stessi personaggi pavesiani — fu sufficiente, nel ’49, a riscattarlo dalla restrittiva quanto ingiusta nomea di dandy raffinato, sregolato e superficiale, destinata ad accompagnarlo come un’ombra per i decenni a venire.

Il merito della più recente critica italiana, ci dice Merola, consiste nel tentativo di sollevare Fitzgerald dalla reputazione di letterato leggero, dissociandolo dalla leggenda biografica dell’uomo dissoluto e bon vivant che tanto gli ha nuociuto, soprattutto nell’Italia gravata dal fascismo prima e dal dopoguerra poi, che ha scelto di preferirgli intellettuali meno intimisti e maggiormente calati nel panorama sociale e politico contemporaneo quali ad esempio Hemingway, Caldwell e Faulkner.

Ma strumento privilegiato per comprendere appieno la substantia del grande scrittore statunitense è soprattutto il topos del doppio: quel doppio oscuro della pazzia di Zelda, l’amata moglie per le cui costose cure psichiatriche scriverà molti racconti commerciali destinati alle riviste popolari di grande consumo; il suo proprio doppelgånger diviso tra alcolismo e facciata mondana, che lo costringe a muoversi come il fantasma di se stesso; lo sdoppiamento del cercare Zelda in un mondo altro, quello della scrittura – ciascun personaggio femminile della produzione fitzgeraldiana è intessuto di lei – lontano tanto dalla clinica quanto, ancor di più, dalla realtà; soprattutto il duplice sentire della coppia biografica Francis Scott-Zelda, vera chiave di volta per uno studio interpretativo e puntuale dell’intero corpus.

È qui, di fatto, il cuore di F. Scott Fitzgerald e l’Italia: nell’idea di approcciarsi ad un’analisi dell’intera sua produzione allargando l’orizzonte della riflessione fino ad includere il binomio reale marito-moglie, ma in una prospettiva rovesciata rispetto allo sguardo della passata critica, che vedeva in lui l’uomo dissoluto indifferente ai movimenti della Storia. Lontano dal leggere il suo lavoro come specchio di un’egoistica chiusura personale, Merola ci propone, al contrario, un Fitzgerald in cui il dato biografico — in special modo il legame amoroso con Zelda — non è mero escamotage a pretesto di trame e personaggi, bensì motore primo da cui nascono senso e significato della sua opera.

(Antonio Merola, F. Scott Fitzgerald e l’Italia, Giuliano Ladolfi Editore, 2018, pp. 96, euro 10, articolo di Claudia Cautillo)
Copertina di L'ora del mondo di Matteo Meschiari

Lo sguardo ecocentrico di Matteo Meschiari

La scrittura di Matteo Meschiari è importante perché pone alla base uno sguardo diverso, inconsueto per tematiche e focalizzazione, o almeno parzialmente estraneo alle mode culturali contemporanee, dominate dalla lallazione di vite post-borghesi e dall’ossessivo scrutare la lanugine nel proprio ombelico. Possiamo definire “sguardo ecocentrico” la postura dell’autore, attento a rilevare i legami fra specie umana e ambiente, a cartografare gli esiti dell’azione dell’uomo sulla natura. Lo spazio narrativo di Meschiari si dispiega fra l’irriducibilità dell’ente naturale e il sedimentarsi dell’operato umano, a tracciare il campo d’indagine sono gli strumenti dell’antropologia e della letteratura. Un’operazione condotta sul piano della narrativa, che attraversa la fascinazione saggistica per darsi al regno del racconto, nel tentativo di metaforizzare una ricerca intrapresa in primis seguendo la bussola dell’estetica. In queste coordinate si iscrivono le storie di Artico nero e l’epica di Neghentopia, l’ultimo romanzo – L’ora del mondo, pubblicato negli eleganti volumi di hacca edizioni – non fa eccezione.

Il racconto si struttura come una favola arcadica ambientata sull’Appennino tosco-emiliano, perno della vicende è l’incontro fra Libera e l’Uomo-Somaro: sono due entità archetipiche, quella dell’allievo e del maestro, benché non è sempre chiaro chi sia l’uno e chi l’altro. Libera è invitata a conoscere la natura, a respirare l’anima dei luoghi mentre il paesaggio le parla tramite il manifestarsi di entità che simboleggiano gli elementi dell’ambiente circostante. Al suo fianco L’Uomo-Somaro le descrive il sedimentarsi della cultura nella natura, la storia dei luoghi che è soprattutto storia dell’azione umana.

Non c’è nulla di idealizzato nella parabola di Meschiari, il rapporto con il paesaggio non è solo rapporto con il proprio io, ma riconoscimento della specie nel campo di forze che l’ha generata, e quindi razionalizzazione delle possibilità ulteriori di sopravvivenza. Per questo nell’Arcadia tosco-emiliana permane, nell’importanza del suo valore storico-estetico, il segno della Resistenza, i luoghi di una Storia mai pacificata che parlano a Libera con la stessa forza delle memorie geologiche di laghi e fiumi. E sono importanti anche i luoghi della modernità – strade, caseggiati, capannoni – perché delineano la volontà trasformatrice dell’uomo.

A metà fra racconto filosofico e favola sospesa fra incanto e disincanto, Meschiari organizza un romanzo diviso in bozzetti, ricco di fascino e incontri al limite del dialogo morale. Una narrazione che può dirsi veloce come una leggenda orale e levigata come il lavoro di un umanista cinquecentesco. La volontà è uscire dalla propria zona di comfort e spostare lo sguardo non più sull’uomo che guarda l’uomo, ma sulla natura che incontra la specie più evoluta. La prosa cesellata, minimale riesce nell’intento di descrivere i luoghi con allusività, mimare un parlato piano, e delineare in maniera icastica l’avanzare di Libera. Perché nel procedere arcadico della protagonista sopravvivono le fascinazioni e le inquietudini della cultura contemporanea, Libera e l’Uomo-Somaro somigliano ai pellegrini de La strada di McCarthy, sono due viandanti alla ricerca dello sconfinamento in territori ulteriori come lo scrittore e il bambino ne La lucina di Moresco.

Le storie di Matteo Meschiari sono racconti da sussurrare ai bambini, in modo da iniziarli a uno sguardo diverso, più consapevole e completo rispetto alla cultura che ha nutrito i loro genitori. Allo stesso tempo sono meccanismi formali complessi in grado di soddisfare la mente più arguta.

È doveroso guardare a questo autore che non si interessa delle beghe quotidiane di questa o quella classe sociale, ma abbraccia tutto ricordandoci che il vero atto politico è ripensare la dialettica con il pianeta che ci è stato dato da custodire.

(Matteo Meschiari, L’ora del mondo, hacca edizioni, 2019, euro 15, pp. 175, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di Liberato su Flanerí

Liberato è più del fenomeno Liberato

Il 13 febbraio 2017 esce un video girato da Francesco Lettieri, già autore tra gli altri dei video di Calcutta. La canzone si chiama “Nove maggio” ed è di Liberato, un ibrido trap/hip hop con il cantato in napoletano. C’è una ragazzina che si muove tra le vie di Napoli cantando e ballando. Nient’altro. Poi, nello stesso anno, il 9 maggio, esce il suo secondo video, “Tu t’è scurdat’ ‘e me” e lì, attorno alla storia dell’innamoramento di due ragazzi, si manifesta fisicamente Liberato. E lo fa come lo conosciamo ancora oggi, a due anni di distanza. Di spalle, con l’oramai bomber iconico con la scritta LIBERATO.
Il 9 maggio 2019 esce il suo primo disco, Liberato.

È sotto gli occhi di tutti che il grande clamore attorno a lui sia dovuto al suo avere un’immagine ma non un’identità, aspetto che lo separa da altri casi eclatanti di anonimato come quello di Elena Ferrante o di Banksy (per quest’ultimo, dopo i recenti fatti accaduti a Venezia, rimandiamo il giudizio).

Come si sono fatte ipotesi su chi ci possa essere dietro alla scrittrice de L’amica geniale (una su tutti, Anita Raja, traduttrice e saggista napoletana) e al più famoso street artist al mondo (da tempo si dice che possa essere Robert del Naja, leader dei Massive Attack), lo stesso è stato fatto per Liberato: dal collettivo formato da Shablo, Priestess, Calcutta e Izi, al poeta di Scampia Emanuele Cerullo, passando per il blogger Wad, fino a Livio Cori, che abbiamo visto duettare con Nino D’angelo a Sanremo e che al momento sembra il più quotato.

Liberato è la frattura tra identità e immagine, concetti amplificati e deformati a dismisura da internet e, chiaramente, dai social. Liberato è un cortocircuito: declinato alla musica, in quest’epoca quindi condivisibile attraverso Youtube e simili, viene cliccato e condiviso anche solo per la curiosità che produce la domanda Chi è Liberato?. Liberato svela, coscientemente o no, certi meccanismi perversi, coadiuvati dai social, che ruotano dietro al mercato della musica di oggi, che creano tendenze e mode. O addirittura veri e propri generi.

Anche Niccolò Contessa de I Cani, quasi dieci anni fa, ci aveva provato: il video con la sola foto di un cane de “I pariolini di diciott’anni”, quello di “Velleità” con i ragazzi con i sacchetti in testa e poi il sacchetto in testa nei primi live avevano scatenato una caccia a chi si celasse dietro a quel nome tanto comune quanto trasgressivo. Al punto che, all’inizio, si vociferava potesse essere un progetto di Max Gazzè o di Max Pezzali.

Ma erano altri tempi, i social stavano iniziando a svilupparsi e l’esperimento durò relativamente poco. Dall’adagio “I Cani, ma sono uno” che andava di moda in quegli anni parlando di chi fosse l’autore di “Hipsteria”, Niccolò Contessa negli anni si è appropriato dell’identità de I Cani, incarnandosi in qualcosa che da suo, filtrato dal dedalo che è internet, non era più suo.

Il progetto Liberato, invece, sembra basare la sua esistenza sul non avere un nome esaustivo (un nome e un cognome) ma ancora di più una o più facce. Liberato è un’idea che proietta un’ immagine (sia nei video, sia nei live) priva di identità. Un qualcosa di incorporeo, immateriale, intangibile pur essendolo corporeo, materiale e tangibile.

Spogliato di tutto questo, che comunque è parte necessaria per affrontare il discorso Liberato, rimane la musica. Il problema di fondo è proprio che la musica per Liberato non è tutto. Perché il suo (il loro?) album d’esordio ha da dire molto.

La musica napoletana è, erroneamente, oggi, accostata esclusivamente a un certo mondo neomelodico declinato a un immaginario cafone e criminale: matrimoni e Gomorra. Questo magari ha creato un certo pregiudizio su Liberato e sulla sua produzione artistica. Ma la musica napoletana, si sa, è ed è stata soprattutto altro: Carosone, Caruso, Murolo. Liberato attinge da lì, passando per le sperimentazioni di Nino D’angelo, quello della svolta etnica di A ‘nu passo d’’a città, fino ad arrivare a oggi, verso un sound che sta tra Jamie XX e SBTRKT. Dove il napoletano viene esaltato in tutta la complessa naturalità, nella bellezza derivata dalla sua poca intelligibilità per chi non lo mastica, nella sua musicalità

Dalla più famosa “Nove maggio” a “Je te voglio bene assaje”, da “Tu me fa ascì pazz’” a “Tu t’e scurdat’ ‘ e me”, siamo di fronte a brani iper ascoltabili al limite del ruffiano, ma che riescono a non infastidire mai, pieni di una coerenza stilista ben precisa e una cifra artistica difficilmente imitabile.

Chiunque ci sia dietro a Liberato, oltre all’enorme esperimento di marketing, ha dato vita a un lavoro importante che, al di là dei gusti personali, segna un ulteriore momento fondamentale degli ultimi 10 anni della musica italiana dopo I Cani, Calcutta e Ghali.

Poster dell’ottava stagione di Il trono di spade

La fine del gioco

[Se non conoscete il finale di Il trono di spade non troverete spoiler. Comunque, si fa riferimento a avvenimenti che succedono nelle stagioni finali della serie, per cui se non siete in pari e non volete brutte sorprese è meglio se non leggete]

Si è concluso pochi giorni fa Il trono di spade, la serie tv evento che ha risucchiato le attenzioni di un pubblico sempre più grande nell’arco di quasi un decennio. Per chi avesse vissuto in un altro pianeta, Il trono di spade è uno show targato HBO, ideato da David Benioff e D.B. Weiss, tratto dal ciclo di romanzi di George R.R. Martin Le cronache del ghiaccio e del fuoco.

Parliamo di un’epopea fantasy in una terra immaginata con molti elementi di realismo – politica, sesso, violenza – e qualche elemento magico – draghi e non morti.

Sin dalla sua prima messa in onda nel 2011, Game of Thrones ha raccolto consensi per l’enorme qualità del prodotto. Grande scrittura, attori in parte, effetti speciali sempre più grandiosi e una trama complicata e piena di elementi collegati in un intreccio mai banale e di grande fascino.

Potendo contare sul supporto dei libri di Martin – 5 tomi di circa mille pagine l’uno pubblicati a partire dal 1996 – Weiss e Benioff hanno avuto vita relativamente semplice nel costruire il mondo televisivo del Trono di spade. Si sono presi le loro libertà, adattando e deviando dal materiale romanzesco, e hanno creato un prodotto tra i più riusciti della storia dell’intrattenimento.

Ci sono state altre grandi serie di successo, ma come Game of Thrones mai. È il primo prodotto di un’epoca diversa, di internet veloce e social network, di blog, indiscrezioni e teorie. È stato uno spettacolo capace di cambiare le abitudini e di creare un culto collettivo che ha finito per essere il problema più grande della serie stessa.

Ci sono due fasi del Trono di spade. La prima arriva fino al 2015 e coincide con la messa in onda delle prime cinque stagioni tratte da altrettanti libri di Martin. Dalla sesta in poi, nel 2016, gli showrunner hanno dovuto andare avanti senza il supporto dei romanzi, visto che gli ultimi due volumi della saga sono ancora in fase di scrittura.

Questa frattura tra le due fasi è coincisa, anche, con l’aumento esponenziale dell’attenzione del pubblico verso la serie. Il cliffhanger con cui si concludeva la quinta stagione, con uno dei protagonisti, Jon Snow, a terra agonizzante dopo essere stato pugnalato apparentemente a morte, ha scatenato la caccia agli indizi sulla sua morte. Si è propagato un chiacchiericcio che ha amplificato il successo e le aspettative per la sesta stagione, che probabilmente è stata una delle più riuscite di tutto lo show.

Sembrava che, senza i libri, la serie potesse andare avanti con ancora maggiore vigore. La settima e l’ottava stagione hanno però mano a mano deluso le aspettative, lasciando molti spettatori con un senso di profonda amarezza.

Siamo arrivati all’esagerazione di petizioni online per chiedere che l‘ultima stagione venga riscritta e rigirata.

La qualità è calata in modo drastico in quello che era l’elemento più forte del Trono di spade: la scrittura dei personaggi, delle loro sfumature  e della loro complessità. C’è un primo livello di protagonisti che attraversano, ognuno in modo diverso, un arco narrativo fatto di traumi, sconfitte e crescita, e un secondo, ancor più popolato, di personaggi che si portano appresso ferite da vite precedenti, come i due grandi cospiratori Varys e Lord Baelish, come Brienne di Tarth o il Mastino.

Le stagioni a marchio Weiss e Benioff hanno spazzato via i personaggi di seconda fascia, uno degli elementi di forza di tutta la serie, relegandoli a ruoli marginali e quasi macchiettistici rispetto alla loro tormentata grandezza.

È questo il difetto più grande del Trono. Ha perso la capacità di raccontare personaggi ambigui e renderli comunque interessanti. Lo scavo è sparito, rimane la superficie, e un affanno continuo a compiacere il pubblico dandogli quello che si aspetta. Da un lato, un esplosione di momenti romantici senza nessuna costruzione e credibilità, primo tra tutti la relazione tra Jon Snow e Daenerys. Dall’altro un susseguirsi di colpi di scena che hanno il solo scopo di stupire, non di spiazzare come succedeva nelle stagioni migliori. Sono diventati puri espedienti per levare di torno trame e personaggi troppo complessi da mandare avanti.

Il finale di Game of Thrones sembra un paradosso rispetto a tutto quello che aveva impressionato della serie fino a quel punto. Il pubblico non era mai al sicuro, le coordinate classiche della serialità televisiva non servivano a nulla per orientarsi nei reami di Westeros. Le due stagioni conclusive sono invece schiacciate dal peso delle aspettative del pubblico, dall’attenzione morbosa a ogni dettaglio trasformata in puro e semplice gioco di rimandi, dalle teorie dei fan, dalla caccia ossessiva al momento sensazionale per svoltare la puntata.

Eravamo abituati alle esplosioni, sono rimasti i fuochi d’artificio.

Copertina di Dov'è casa mia di Davide Coltri su Flanerí

Riportare le differenze che ci separano dagli altri

Davide Coltri è prima di tutto un operatore umanitario. Dopo aver vissuto molti anni a Beirut e aver prestato opera in paesi come Iraq, Sierra Leone, Turchia e Siria, Davide ha pubblicato con minimum fax (2019) una raccolta di racconti dal titolo Dov’è casa mia – Storie oltre i confini che contiene le storie di alcune persone realmente incontrate dall’autore sulle quali poi la letteratura ha agito, in alcuni casi modificando qualche dettaglio, in altri ipotizzando un finale, ma mai distorcendo la realtà dei fatti. Incontro Davide al Salone del Libro di Torino, è sorridente, affabile; a prima vista le tracce che si porta dietro della sua esperienza sono un’estrema cordialità, dei gesti pazienti e una profonda predisposizione all’ascolto. Ci sediamo al bar esterno, con il tendone a farci da copertura per il meteo di questo maggio impazzito.

 

 

Davide, il titolo del libro, Dov’è casa mia, richiama in maniera ambigua sia un’affermazione che una domanda aperta. Alla lettura del libro, d’altra parte, sembra ragionevole supporre però che la risposta ci sia e che possa essere un generico “in nessun luogo”. Quale dritta dai in qualità di autore?

 

Sicuramente c’è un senso di spaesamento che, prima ancora che toccare i singoli protagonisti, è toccato a me. A un certo punto del mio percorso, quello che poi ha condotto alla crisi personale da cui è nato il libro, mi era realmente impossibile capire in quale luogo potessi sentirmi a casa. Non riuscivo a riconoscere come miei i luoghi di origine qui in Italia, sentivo spesso più vicini posti in cui ero stato in missione, seppure li sapessi distanti, nel tempo e nello spazio. Alcuni dei luoghi in cui ho lavorato – Iraq, Tanzania – mi sono rimasti dentro come una casa vera e propria, perché là si è creato un vero rapporto sia con la gente che con il paesaggio, indipendentemente dalla durata della missione. Il ritorno in Italia, invece, era sempre difficoltoso, un sentirsi alieno, spesso per l’impossibilità di condividere quello che avevo visto. Spiegare il mio lavoro è molto difficile.

 

Quali sono le difficoltà che hai incontrato nel raccontare le tue esperienze e come hanno influenzato l’ideazione del libro?

Come ti dicevo, il problema è spesso la mancanza di una narrazione che permetta attraverso dei riferimenti comuni di accedere a quello che voglio dire. Mancando le coordinate per collocare le mie esperienze, ho rinunciato più di una volta a parlare perché i racconti incontravano scarsa attenzione o riscuotevano successo solo quando toccavano il “sensazionale”. Quando mi trovavo a raccontare di essere stato sequestrato allora riuscivo a farmi strada nell’ascolto degli altri, ma mancava tutto il resto della mia vita. Tornare significava essere assalito dalla quotidianità “normale” degli amici, la routine del lavoro, i bambini, ma quanto riguardava me diveniva non comunicabile. Ecco, per sentirsi “a casa” mancava il fatto di riconoscersi ed essere riconosciuto dagli altri. È stato questo mutismo che mi ha indotto a scrivere.

 

Per quale motivo, percepita questa esigenza di ordinamento ed elaborazione dell’esperienza, hai deciso di strutturare una narrazione in prima persona? Non sarebbe stato più oggettivo raccontare le vicende in terza persona dal momento che non sei tu il protagonista dei racconti, ma le persone che hai incontrato?

In un primo momento doveva essere così infatti. Quando sono stati scritti c’era proprio l’esigenza di trattare le vicende che mi avevano sconvolto in modo da dargli una forma e una progressione narrativa, con un certo distacco. E per questo la mia volontà era l’utilizzo della terza persona e la forma racconto. È stato poi un lavoro di editing che ha spostato i testi in prima persona, il che ovviamente mi ha forzato a reimpostare molte idee da capo in un lavoro di riscrittura per me molto faticoso, verso il quale ero molto riluttante agli inizi. Alla fine però mi sono convinto e devo dire che adesso sono anche molto grato a Gazoia [editor di minimum fax, n.d.r.] per il suo lavoro, soprattutto per la coerenza che siamo riusciti a imporre al libro, limitandone – spero – le problematiche. Ho capito poi che la narrazione in prima persona mi permetteva di aderire meglio agli scopi del mio raccontare. Per la vicinanza che ho avuto con le persone che sono poi diventate i protagonisti, per me era infatti più naturale un’immedesimazione completa con loro. Soprattutto perché con queste persone ho condiviso momenti densi, anche di tensione, e nonostante il loro retroterra culturale completamente diverso dal mio mi sono, come dicevo prima, sentito più a casa, più vicino a loro che ad altri in Italia. Le esperienze condivise hanno fatto sì che mi ritrovassi a raccontare le vicende di persone incrociate nella mia vita per un paio di mesi o poco più con la stessa intensità con cui avrei raccontato le vite dei miei più cari amici. È di nuovo una questione di riconoscimento. Mi sono trovato a dover spiegare me stesso davanti a un curdo o a un burundese più che davanti a un mio ex compagno di classe, e questo mi ha fatto iniziare a credere fortemente nell’esistenza di un sostrato comune tra tutti gli umani, che esiste e, nonostante venga continuamente ricoperto dall’accentuazione delle differenze, non ci deve allontanare dal fatto che di base le ambizioni e i modi di vivere che le persone hanno sono molto più simili di quanto si pensi.

 

Dal tuo libro emerge un’idea binaria di confine. Da un lato si assiste a un inasprimento dei confini e dei limiti che essi impongono, dall’altro, invece, sembra che gli stessi vadano progressivamente in pezzi e che anzi le crisi a cui si assiste durante la lettura siano causate proprio dalla perdita di riferimenti, dalla frantumazione delle barriere. Da un lato quindi il confine si radicalizza, dall’altro si atomizza, ma qual è il vero problema, la sua presenza o la sua assenza?

Il libro vuole avere un’impronta cosmopolita e illuminista. C’è una comunanza di intenti e umanità che è più profonda dei confini intesi sia come geografico-politici che culturali. Questa comunanza non è scontata; è spesso sepolta sotto le stratificazioni, la cultura di origine, l’educazione la religione. Ma c’è un tentativo che è proprio quello umanitario, combaciante col lavoro che faccio, che è andare a vedere al di sotto di tutte queste cose quale sia l’elemento che ci accomuna. Dopo, è vero che il rapporto con il confine più tradizionale è ambivalente. Io da un lato vedo la totale arbitrarietà dei confini, il loro essere artefatti, ma vedo anche che il confine spesso protegge che si volge ad elemento positivo. Varcare un limite per uscire da un paese in guerra significa spesso ottenere la salvezza.

 

Le rare volte che l’Europa emerge nel libro pare affiorare più come un’idea che come una realtà vera e propria. Mai presente, l’Europa (o l’Occidente) è evocata come una realtà ideale piuttosto che pragmatica, che si presenta sotto forma di richiami culturali più che come vera garanzia di riscatto e realizzazione.

Penso che tu abbia ragione. Spesso mi è capitato di incontrare persone che chiamassero Europa dei luoghi geograficamente lontani, realmente distanti da ciò che è per noi europei l’Europa. Una volta per esempio, parlando con una rifugiata, mi racconta che suo fratello «è in Europa», le chiedo allora dove e mi risponde – in Sud Corea. Al di là del mio evidente stupore ho capito che per lei Europa era ovunque ci fosse semplicemente più libertà e più benessere. È vero quindi che per chi non ne fa parte, Europa è non è un territorio geograficamente definito ma evoca un’idea di stabilità.

 

I tuoi protagonisti sono sempre giovani e spesso in antitesi con il contesto in cui si trovano. Pensi che sia peculiare delle nuove generazioni vivere un contrasto con i padri nel tentativo di svincolarsi dalla tradizione? E che ruolo ha in questo il contatto con il mondo occidentale, coi suoi modelli economici e culturali?

Per risponderti devo puntualizzare una cosa. Le società africane o mediorientali sono esattamente sfaccettate e varie quanto lo possono essere le culture occidentali; è in questa differenza che l’elaborazione della tradizione da parte dei giovani punta a un distacco rispetto alle concezioni degli anziani. Queste però sono sempre le ultime a dettare legge perché sono quelle che impostano il sistema culturale in cui i miei personaggi e le persone che ho conosciuto si muovono. Il limite quindi non è un’apertura delle culture non occidentali a un globalismo di massa che cattura i giovani distaccandoli dai vecchi, ma è un processo più lineare e intra-culturale. Quello che mi importa, fuori e dentro il libro, è rendere conto sia delle tendenze ovviamente maggioritarie di un certo tipo di cultura sia per contro delle loro sfumature, dell’ampio spettro di esperienze che non vanno ridotte ad una narrazione semplicistica che è quella che poi appiattisce i rilievi e le diversità, che schiaccia sul cliché le culture e tende ad omologarle per darne una versione monolitica. Questo è ovviamente assurdo perché tanto più si va nello specifico quanto più una cultura rivela, come dicevo, le sue infinitesimali particolarità. Io mi chiedo se non sia possibile, piuttosto, alla luce del processo globale di cui parlavi, tentare di indebolire le identità, spostando il peso su ciò che ci determina realmente. Per quanto riguarda il ruolo intrusivo dell’Occidente penso che all’interno di questo processo di fluidificazione dei confini in realtà l’economia occidentale alla fine manifesti un’altra sua faccia negativa. Il capitalismo infatti cerca costantemente di rimarcare i confini, di sottolineare delle differenze, di alimentare ostilità tra le culture. Non trovo casuale che l’Arabia Saudita, ovvero il paese più fortemente identitario tra quelli del Medio Oriente, sia alleato degli Stati Uniti. E il rimarcare il discorso identitario ovviamente crea problemi, primo tra tutti la mancanza di spirito critico; non c’è niente di illuministico nell’approccio capitalista.

Sullo sviluppo di certe culture nel campo dei diritti io credo poi che i percorsi tra i popoli possano essere autonomi. Può benissimo esserci una persona non esposta all’Occidente che desidera per esempio un matrimonio omosessuale e che magari agirà in quella direzione indipendentemente dalla resistenza che incontrerà nella sua tradizione. L’errore dell’Occidente è rivendicare costantemente la paternità e la diffusione di idee che invece, ho visto, possono perfettamente nascere in seno a popoli e geografie lontanissime e culturalmente autonome. Le conquiste dell’uomo possono darsi in diversi punti del mondo, secondo diverse coordinate, senz’altro dovute all’incontro tra diversità, che è chiave della conoscenza, ma non sotto il copyright dell’Occidente.

 

Negli ultimi anni alcuni romanzi a tema mediorientale-africano hanno avuto notevole successo, penso a Shukri al-Mabkhout edito da e/o o ancora di più ad Exit West di Hamid. In che rapporto sei con questi autori, con la letteratura di viaggio e quali consideri essere i tuoi modelli?

Il problema di libri come Exit West è scadere nella descrizione di un contesto esotico con dei personaggi che sono sostanzialmente occidentali, avulsi dalla situazione e che con essa, però, lottano. Mi è sembrato un libro un po’ inautentico onestamente, ai limiti del fastidioso, che strizzasse l’occhio a un pubblico di certo non esposto a queste storie, portandogli in buona sostanza uno stereotipo. Non c’è cosa peggiore dei libri con questo tema dove i protagonisti sono “sbiancati”, occidentalizzati. Forse è un pessimo risultato che ha come punto di partenza il nobile tentativo di annullare le differenze (e le distanze), ma così non funziona. Ci sono altri libri con pretese anche meno realistiche che però riescono a modo loro a rendere un contesto in maniera più calzante, penso per esempio alla distopia che è Frankenstein a Baghdad di Ahmed Saadawi (e/o). La mia paura più ovvia era quella di commettere lo stesso errore che imputo a Exit West, ma mi sono sforzato di andare in direzione opposta. Per quanto riguarda poi la letteratura di viaggio, devo dire che mi è sempre sembrata eccessivamente esotizzante. Grazie alla mia esperienza personale ho perso rapidamente questa patina esotica e i posti come l’Iraq o il Burundi sono diventati posti “normali”, da valutare senza alcuna fascinazione, ma secondo un rapporto molto pragmatico. Paradossalmente la letteratura su cui mi sono formato è letteratura che parla di reduci, che è un po’ come mi sono sentito, alla luce di queste esperienze; sono stati fondamentali i racconti bellici di Hemingway, Per Esmé: con amore e squallore di Salinger, Omaggio alla Catalogna di Orwell. Poi, tra le esperienze di immedesimazione in un contesto, come quella di Orwell, ricordo mi colpì un racconto di London, L’agente dell’abisso o i romanzi picareschi di Steinbeck. In generale prediligo una letteratura che esperisce più di una che osserva. Per il resto posso dirti che ho scoperto il racconto leggendo Carver, ma la sua influenza si nota poco, solo a livello di stile.

 

In che termini quest’attenzione al non occidentalizzare i racconti, a non rendere intrusivo il tuo punto di vista, ha impattato sulla costruzione e sulla resa della prospettiva dei tuoi personaggi?

Secondo me è possibile evitare di ridurre i protagonisti dei racconti a vuoti specchi che riflettono quello che siamo, e la risposta sta nell’incontrarsi dentro le diversità. È compito doveroso riportare le differenze, soprattutto per me che le ho vissute, che mi separano da Khalat o da Theogéne, ma allo stesso tempo rendere una dimensione che sia in grado di essere partecipata, sono io – che ho le coordinate per farlo – che immetto il lettore nella loro prospettiva, ponendolo a contatto con ciò che non sa. D’altro canto ho cercato anche di rendere quella complessa sfaccettatura delle culture di cui i miei protagonisti fanno parte e di cui abbiamo parlato, nonostante tentino di svincolarvisi. Quello che ho tentato di fare è rendere la contraddizione di figure come Khalat che pur non volendosi sposare è costretta a farlo proprio per adattarsi al nuovo contesto di fuga, ma per assecondarlo non ha altri modi che erodere le proprie ambizioni e, paradossalmente, rientrare nella tradizione da cui le sue aspirazioni sognavano di distaccarla. Il libro non vuole raccontare la rottura con le radici, ma la complessità contraddittoria che è l’incontro tra le aspirazioni personali, la tradizione e le circostanze. Questo rapporto impone ai protagonisti di produrre il miglior risultato possibile senza però tradire nessuno di questi elementi e qui sta la loro lotta, nel libro come in vita.

(Davide Coltri, Dov’è casa mia, minimum fax, 2019, pp. 181, euro16)
“L’assassinio del Commendatore. Libro secondo. Metafore che si trasformano ” di Murakami Haruki

La catabasi del ritrattista

Con Metafore che si trasformano, questo il sottotitolo del secondo libro de L’assassinio del Commendatore (Einaudi, 2019), Murakami sembra apparentemente rinunciare a una delle caratteristiche principali della sua produzione narrativa, ovvero il finale aperto. Infatti quasi tutte le ipotesi e supposizioni emerse nel primo libro sembrano trovare una loro risposta e realizzazione. Dunque, questa seconda parte, assumendo i contorni del giallo tradizionale, risulta essere la più realistica delle opere dell’autore giapponese. Ma sempre di realismo magico si tratta. Non mancano, come sempre, gli elementi paranormali. Buona parte del racconto è ambientato infatti nel regno della metafora, un mondo in cui vengono meno le coordinate di spazio e tempo.

Ritroviamo infatti il nostro ritrattista, in una sorta di catabasi, rincorrere come un fantasma delle sue paure più recondite, per scoprire come avvicinarsi alla morte. Del resto, solo amore e morte sono in grado di interrompere il ciclico connettersi degli spazi e dei tempi. Laddove Ulisse era disceso nel regno dei morti per incontrare l’indovino Tiresia e interrogarlo sul proprio destino, salvo rimanere sul liminare, il nostro protagonista come Enea o Dante, lo attraversa e se ne lascia plasmare e trasformare.

A innescare il corso degli eventi è la scomparsa di Marie, la ragazzina che egli aveva iniziato a ritrarre nel primo libro per «catturare la sua vera natura». Non gli interessa infatti la bellezza di un soggetto ma «ciò che si celava al di là, in fondo al suo essere». A questo punto i personaggi del quadro di Amada prendono vita e vengono in soccorso del nostro protagonista. Le sfere degli avvenimenti innescati iniziano così a girare a vuoto contro il corso del tempo e il giovane pittore si ritrova nella buca dietro il tempietto da cui di notte avvertiva il suono della campanella.

Come Dante nella Commedia, si fa archetipo della umanità intera: nel suo percorso l’uomo cade spesso in molte buche brutte e profonde da cui fatica a risalire. Ma ecco che quando si tocca il punto più basso della disperazione e si è smisuratamente soli, ci viene in soccorso qualcuno. Riuscirà dunque a ritornare nel mondo reale, pur rimanendo sempre sospeso alla ricerca di una verità sempre ambigua e sfuggente.

C’è sempre un altro livello al di sotto della realtà. Il realismo coglie solo il visibile. Per esprime ciò che è invisibile, inesistente o coperto, ci vuole altro. Con il suo stile unico Murakami riesce a esprimerlo anche in questo romanzo. È fluido il confine fra quanto sta accadendo e quanto il personaggio sta rammentando, sognando o ricapitolando.

Tutti i personaggi di Murakami sono stratificati e complessi. In loro si può delineare un tratto comune: l’adolescenza li ha segnati in maniera indelebile: eventi drammatici come la perdita del migliore amico morto suicida in Kafka sulla spiaggia o la morte della sorellina più piccola come qui. Dunque, tutti i suoi protagonisti hanno vissuto la fase di transizione dalla giovinezza all’età adulta attraverso degli episodi traumatici che ne hanno definito la personalità e il percorso esistenziale.

Altro tratto comune è la solitudine del protagonista. Anche il nostro protagonista, ennesimo suo alter ego, è immerso nella solitudine e nella profondità del comporre. Nel Mestiere dello scrittore affermava: «[…] scrivere un romanzo, soprattutto un romanzo lungo, è qualcosa che si fa in solitudine. A volte ho l’impressione di stare seduto in fondo a un pozzo».

Forse è così che ci sentiamo anche noi lettori alla fine di questa ennesima avventura surreale e onirica di Murakami, seduti in fondo al pozzo, tremendamente soli, eppure con la voglia di dare una sterzata alla nostra esistenza o di ricominciare in un eterno ritorno.

 

(Murakami Haruki, L’assassinio del Commendatore. Libro secondo. Metafore che si trasformano,  trad. di Antonietta Pastore, Einaudi, 2019, pp. 440, euro 20, articolo di Chiara Gulino)
Copertina di I Am Easy to Find dei The National su Flanerí

Il primo grande album minore dei The National

Anche quando i The National non riescono a raggiungere lo standard The National riescono a scrivere un grande album. Un bellissimo paradosso che definisce la grandezza di questa band arrivata oggi, con I Am Easy to Find, all’ottavo album. I National sono uno dei pilastri della musica pop/rock 2000 e lo confermano anche quando, stranamente, compiono quello che più che un elegante passo indietro sembra un non-passo. Nato dalla collaborazione con il regista Mike Mills, quest’ultimo lavoro non riesce a seguire in tutto e per tutto la splendida discografia del quintetto dell’Ohio.

Per quanto sia un lavoro imponente nelle sue sedici tracce, complesso, tortuoso e per questo idealmente intrigante, sembra privo, salvo in alcuni momenti, di quella magia che li accompagna da Boxer in poi. È godibile, pur se stancante. Stancante nel suo essere godibile. Quell’imponderabile che accomuna i grandissimi, conclamata qualità che permea i cinque americani, in I Am Easy to Find sembra non trovare posto, dispensata solo in alcuni momenti.

Se i primi tre album (The National, Sad Songs For Dirty Lovers e Alligator) erano dei buonissimi lavori che però non riuscivano a emergere del tutto – o che, almeno, non raggiungevano le vette di quello che poi sarebbe stato -, è dal 2007, anno di uscita di Boxer, che le cose cambiano. È lì che il suono che ora è il suono dei The National si è definito, consolidandosi in High Violet e Trouble Will Find Me, sfociando nello scurissimo e ispiratissimo Sleep Well Beast. È dalle prime note di piano di “Fake Empire” che Matt Berninger è diventato l’autore di primissimo livello che è oggi, coadiuvato dalla sapienza dei fratelli Dessner: da “Guest Room” a “England”, passando per “I Need My Girl”, fino alla carveriana “Guilty Party”, l’evoluzione e le conferme di un artista che sta scrivendo la storia della musica pop/rock.

È la prima volta in cui c’è la sensazione che la ricerca dei The National si sia un po’ bloccata e che alcune soluzioni siano state, se non riciclate, quantomeno pensate meno che in passato. Il timbro della batteria di Bryan Devendorf, da sempre simbolo dei The National tanto quanto la voce baritonale e sofferta di Berninger, non riesce a superarsi, ma anzi, si crogiola nel suo sapersi vincente. Una sorta di incubo per chi vede nella rappresentazione di quella ritmica un esempio da studiare, una guida sull’interpretazione della batteria del futuro – salvo, poi, tornare a splendere in alcuni brani, su tutti “Rylan” e “Quiet Light”.

I Am Easy to Find è piena di voci femminili: Gail Ann Dorsey, Sharon Van Etten, Lisa Hannigan, Kate Stables, Mina Tindle e Eve Owen accompagnano Berninger. Se l’obiettivo era quello di spezzare, la sensazione è che alla fine abbiano sigillato una certa staticità insita già in partenza nel discorso narrativo-sonoro dell’album.

Di base è la prima volta che alcuni brani dei The National risultano fondamentalmente anonimi. Quella che è da sempre una loro caratteristica, il riuscire a immergersi completamente nei loro brani caratterizzandoli a tal punto da far emergere, per ognuno, una propria unicità, in I Am Easy to Find stenta a manifestarsi. Il che rende il blocco centrale dell’album confondibile e straniante proprio perché opera dei cinque americani.

I The National sono sempre i The National e da loro ci si aspetta sempre il meglio. Giunti al 2019 la band guidata da Matt Berninger scrive il suo primo grande album minore. Un momento che forse sarebbe dovuto arrivare e che è arrivato. Il rimpianto, alla fine, è quello di non avere tra le mani il solito grande album dei The National, ma qualcosa che gli somiglia e che non è abbastanza.

copertina di Piccola enciclopedia del fallimento

Elefanti bianchi

Per una tradizione antica, i sovrani del Siam talvolta regalavano ai propri cortigiani degli esemplari di elefante bianco. Questi rarissimi animali erano considerati sacri e non potevano essere utilizzati per alcuno scopo. Il prezioso dono quindi conduceva rapidamente al tracollo economico l’intera famiglia a cui era destinato, che riceveva implicitamente anche l’obbligo di provvedere al mantenimento dell’animale senza poterlo sfruttare in nessun modo. Oggi il termine elefante bianco è utilizzato per riferirsi a tutte quelle opere architettoniche fallimentari: palazzi, ponti, strade e monumenti di smodata bellezza, le cui spese di costruzione o manutenzione sono capaci di annientare le comunità per le quali erano state pensate. L’elefante bianco più famoso di tutti i tempi si trova a Montréal ed è lo Stadio Olimpico costruito per ospitare alcuni dei giochi delle Olimpiadi del 1976. Un’architettura complicatissima che, dal progetto alla realizzazione, è costata ai cittadini un debito pro capite di ben un miliardo di dollari, estinto solo nel 2006.

Le vicissitudini più bislacche legate a questi giganti del fallimento riguardano però i casi in cui essi furono costruiti con l’idea di risollevare le sorti di un luogo o di una comunità, producendo conseguenze e contraddizioni inaspettate. In Sicilia, la città di Gibellina Nuova sorse sulle rovine di un’altra, divenuta fantasma dopo il terremoto del 1968. Nel tentativo di riqualificarla si decise di renderla uno spazio aperto agli artisti: così se si passeggia per le sue strade si possono ancora ammirare la Chiesa Madre di Ludovico Quaroni, i Giardini Segreti di Francesco Venezia, la Porta del Belice di Pietro Consagra e molto altro ancora. Una città d’arte contemporanea completamente deserta e in stato di abbandono. Le erbacce e i rifiuti rilasciate dagli appassionati d’arte che vi si recano sono gli unici abitanti del posto.

A volte nemmeno la bellezza arriva a mitigare le sorti degli elefanti bianchi; a provarcelo è il Ryugyong Hotel di Pyongyang, più di trent’anni di lavori e un primato, quello di costruzione più brutta della storia dell’umanità, ottenuto ancora prima di essere ultimato. Il grattacielo, 105 piani, 335 metri e un costo totale di 750 milioni è completamente vuoto, usato come antenna per le telecomunicazioni.

 

“Elefanti bianchi” è tratto da Piccola Enciclopedia del Fallimento di Davide Bart Salvemini, pubblicato da hoppípolla edizioni.

 

Piccola Enciclopedia del Fallimento, con le tavole di Davide Bart Salvemini, raccoglie le storie più bizzarre legate al tema della disfatta. In aperta polemica con la natura motivazionale di certi manuali che affollano gli scaffali delle librerie, raccoglie esempi memorabili di fallimenti e speranze disattese: un inno alla fallibilità umana e alla bellezza di alcune storie di sconfitta.

Leggi le altre Estrazioni

copertina di Presunzione di Luca Mercadante

L’altra Campania
di Luca Mercadante

Nell’era del romanzo globale è molto facile che gli scrittori siano influenzati dalle letterature straniere piuttosto che da quella nostrana. Un situazione proficua dal punto di vista culturale, perché apre nuovi scenari e ulteriori possibilità di narrazione, ma in un certo senso “deleteria” per la costruzione di lingua e stile. Il confronto principale che deve avere lo scrittore è quello con la lingua in cui scrive: non conoscere il proprio canone – al di là dell’ignoranza sul sedimentarsi di tematiche e dibattiti all’interno della propria cultura – significa non aver avuto modo di confrontarsi direttamente con la propria lingua materna. Non so quali siano le influenze di Luca Mercadante, che esordisce con Presunzione (minimum fax, 2019), ma nella maturità della sua scrittura mi sembra di scorgere la limpidezza stilistica di Arpino e Parise. Una lingua levigata, piana, costruita frase su frase e disposta in modo da reggere un edificio dalle fondamenta solide.

Presunzione è un ottimo romanzo innanzitutto per la solidità della trama e la consistenza della narrazione: scene ben architettate, narrazione scandita senza eccessi, personaggi dalla psicologia coerente, dialoghi mai troppo letterari. Senza personalismi l’autore si fa da parte, dando spazio al punto di vista dei suoi personaggi, che riesce – come nei migliori romanzi a impianto classico – a rivestire di meraviglia persino il quotidiano. Come per la lingua, anche il microcosmo di Mercadante è marcatamente italiano: racconta la provincia di Caserta dagli anni sessanta in poi. Si tratta di una ricostruzione in presa diretta, mai forzata o caricata dell’eccessivo peso della memoria, mai inficiata da qualche manierismo d’atmosfera. In un periodo storico in cui la Campania è diventata elemento importante dell’immaginario italiano tramite il ritualismo barocco dei racconti di camorra, narrazioni in grado di riportare anche un punto di vista meno estremo – come questa o Tutte le promesse di Raffaele Mozzillo – sono necessarie e positive.

Mercadante racconta la storia della famiglia Guida: Bruno è un ragazzo non troppo problematico, ma alle prese con le ubbie dell’adolescenza, per questo come molti ragazzi si trincera verso il disgusto dei suoi simili e la presunzione di essere migliore. Accanto a lui suoi padre, ossessionato dalla scomparsa del fratello Piero, una figura che rappresenta sia per lui che per il figlio l’incarnazione dei propri sogni di evasione. Ogni membro della famiglia Guida ha un rapporto peculiare con la propria terra e le difficoltà croniche dell’immoto Meridione: Piero le attraversa scomparendo, suo fratello le combatte fino a scontrarvisi, Bruno cerca di esorcizzarle tramite un distacco che non gli riesce troppo bene. È proprio negli occhi del giovane che si agitano le potenzialità, i vettori contrastanti dell’adolescenza, ed è proprio dal limbo dell’immaturità che nasce il disegno più vero della sua terra, di cosa significa vivere in un territorio solcato da ferite evidenti.

La bravura di Mercadante sta nel ricostruire l’ambiente scolastico in cui si muove Bruno – microcosmo ulteriore nel microcosmo meridionale – senza mitizzare gli anni dell’adolescenza né porre l’accento su un eccessivo trasgressivismo. La storia scritta dall’autore risulta organica perché non cerca di stupire a tutti costi, e così facendo colpisce riconnettendosi con le memorie particolari di ogni lettore. In questo romanzo riflessivo e pacato si annida lo sguardo di una scrittore maturo, in grado di arrivare all’essenza delle cose eludendo l’ansia da prestazione che attanaglia molte penne nostrane. Chi legge Presunzione non avrà timori di sorta, si immergerà nella storia lasciando che il meccanismo mimetico prenda il sopravvento.

(Luca Mercadante, Presunzione, minimum fax, 2019, pp. 270, euro 18 euro, articolo di Giovanni Bitetto)