sherwood anderson critica

Maestro americano

Spesso si cita Sherwood Anderson (1876-1941) soltanto per riferirsi a un autore capace di influenzare la fortuna letteraria di altri ben più conosciuti al grande pubblico. È così che si definisce Anderson come il precursore di Hemingway e Faulkner, anche se il primo, nell’esigenza di sottolineare la sua ormai acquisita indipendenza, arriverà a parodiarne lo stile dopo la pubblicazione di Riso nero (1925) con il suo Torrenti di primavera (1926).

Eppure già da molti decenni la critica americana riconosce l’assoluta centralità della sua opera. Per comprendere fino in fondo questa importanza basti considerare il tempo e il luogo della sua nascita: settembre 1876, Camden, Ohio. Il giovane autore, terzo di sette figli, si trova dunque a vivere un’epoca segnata dal radicale cambiamento degli Stati Uniti. Un mutamento sia sociale sia soprattutto economico con il passaggio dalla «repubblica rurale» (A.a. V.v. Storia degli Stati Uniti, ed. Einaudi, 1964) secondo la visione del presidente Thomas Jefferson a potenza industriale capace di imporsi su scala globale. A partire da allora infatti i piccoli villaggi del Middle West popolati da campagnoli, droghieri e reverendi non costituiscono più il centro vitale del Paese perché oramai l’epica americana si è spostata verso i maggiori centri industriali dove nelle fabbriche trovano impiego quasi tutti i suoi figli.

Come sostiene Irving Howe: «Il Paese stava sperimentando quello che lui [Sherwood Anderson] avrebbe in seguito definito “un’improvvisa e quasi universale trasformazione dalla vecchia società artigianale alla nostra moderna società industriale”». Lo stesso Anderson, dopo essersi cimentato in gioventù in diversi lavori e servito l’esercito americano nella guerra ispano-americana (1898) si stabilì con la moglie nella città di Elyria, Ohio per dedicarsi agli affari, attività solida e profittevole che abbandonò pochi anni dopo per stabilirsi a Chicago e dedicarsi alla scrittura. Qui incontrò autori che appartengono a quella che verrà successivamente definita la Chicago Renaissance: Edgar Lee Masters, Theodore Dreiser, Ben Hecht, Carl Sandborg e nel 1916 diede alle stampe il suo primo romanzo: Windy McPherson’s Son, in parte autobiografico, dove il protagonista, Sam McPherson, abbandonata la provincia per Chicago, ricerca un significato alla propria esistenza attraverso gli affari e la difficile relazione con la moglie Sue Rainey.

Sarà proprio la provincia, protagonista della civiltà americana preindustriale e colta oramai nel suo progressivo svuotamento demografico ed economico, lo sfondo principale scelto da Anderson per la sua opera migliore e più celebrata: Winesburg, Ohio (1919). Ispiratosi alla Clyde dove trascorse la prima giovinezza questa cittadina immaginaria, Winesburg, come pure di fantasia sarà la futura Contea di Yoknapatawpha di Faulkner, diventa il simbolo di quel mondo tradizionale in declino.

Protagonisti di questa fine lenta e senza fragore sono i pochi abitanti tra cui spicca il giovane George Willard, cronista del giornale cittadino, ideale coetaneo di Anderson e filo conduttore della serie di racconti in cui si raccolgono le varie confessioni. In ciascuna di esse incontriamo una serie di figure molto diverse tra loro: dalla madre di George, che sognava un futuro nel mondo dello spettacolo, al forestiero del famoso “Tandy”, da Alice Hindman, delusa dal primo amore, al reverendo Curtis Hartman ossessionato invece dal bel corpo di Kate Swift. Questi «meravigliosi provinciali» secondo l’espressione utilizzata da Cesare Pavese in La letteratura americana e altri saggi (ed. Einaudi, 1990) sono tutti diversi per età, sesso e ruolo sociale e apparentemente bidimensionali giacché di loro spesso conosciamo soltanto il nome e la professione, eppure in ciascuno emerge una sorprendente, prepotente, interiorità che li isola, seppure per un breve istante, distintamente come individui. È il caso della già citata Alice Hindman, abbandonata  dall’innamorato, che cela sotto i panni della dimessa commessa di un negozio un irrefrenabile desiderio d’amore, oppure del fattore Ray Pearson disperato nella sua condizione di padre e marito rimasto «fregato dalla vita».

Scrive a proposito il già richiamato Irving Howe «Figure come il Dr. Parcival, Kate Swift e Walsh Williams non sono e non sono destinate ad essere “personaggi a tutto tondo” come è lecito aspettarsi in un romanzo realista; esse sono frammenti di vita, scorti per un istante, le macerie della sofferenza e della sconfitta. In ciascuna storia uno di loro emerge, timidamente o con una falsa sicurezza, alla ricerca di fratellanza e amore, quasi impazziti dalla ricerca di un contatto umano. Nel contesto di Winesburg, questi “grotteschi” non sono importanti come personaggi a sé quanto piuttosto come sintomi o esempi di quella “fame indefinibile” di senso che è la vera preoccupazione dell’autore».

Tante sono le analogie tra i «grotteschi» di Winesburg e le malinconiche anime di Spoon River. Proprio l’attenzione all’interiorità delle sue figure rappresenta un elemento cardine dello stile andersoniano, stile che trova la sua più efficace espressione nel genere qui utilizzato dall’autore: una raccolta di racconti.

È del racconto infatti che Sherwood Anderson sarà riconosciuto già allora dai contemporanei l’indiscusso “Maestro americano”. Una fortuna tale da oscurare i successivi romanzi tra cui Molti matrimoni (1923) e Riso nero (1925). Nessuno di essi infatti, nelle parole di critici e lettori, riuscirà più a superare Winesburg che sarà riconosciuto come assoluto modello del suo genere.

Così, secondo quanto riportato dalla voce Modernists Portraits: Sherwood Anderson in Annenberg/PBS project “American Passages”: «L’opera [Winesburg, Ohio] aveva applicato alcune delle tecniche sperimentali del Modernismo (prospettive multiple e in particolare l’interesse per l’introspezione psicologica) al racconto e aveva incontrato l’elogio dei critici per il realismo e l’innovazione. Lo stile di Anderson è semplice, nonostante la complessità dei temi; seguendo le vite di personaggi repressi da una società indifferente ai bisogni individuali, le storie rivelano il tumulto interiore di questi in conflitto con le aspettative della società. Recensendo Winesburg, Ohio un critico del Chicago Tribune aveva notato che “Sherwood Anderson è spesso crudo nel linguaggio, non ha un senso estetico del valore delle parole; ma ha un’ intensa visone della vita, è un cauto e acuto osservatore e ha registrato qui un estratto di vita che dovrebbe proiettarlo alla pari dei più importanti scrittori contemporanei del Paese”».

Ancora Martha Curry in The Heath Anthology of American Literature, A.a. V.v. scrive: «Anderson diede il suo grande contributo alla letteratura americana nel genere del racconto […].Inoltre Winesburg non è una collezione di racconti isolati ma è una raccolta di racconti, un ciclo di storie che nelle parole dell’autore “si intrecciano l’un l’altra”. In Winesburg, oltre al fatto che le singole storie posseggono ciascuna una propria bellezza e unità il ciclo stesso acquista una propria integrità artistica grazie alle reciproca relazione tra di loro. Esempi di cicli di racconti americani che seguirono Winesburg sono In Our Time di Hemingway, Cane di Toomer, Georgia Boy di Caldwell, Gli invitti e Go Down, Moses di Faulkner».

Il lettore che ha familiarità con tutta la letteratura americana successiva non avrà a questo punto difficoltà a riconoscergli quella stessa importanza che la critica statunitense oggi gli tributa e che è ben riassunta nelle parole di W. Faulkner: «[Sherwood Anderson] Fu il padre di tutta la mia generazione di scrittori».

 

Copertina dell'album M01 dei Meds su Flanerí

Il bellissimo esordio dei Meds

M01, il primo lavoro dei romani Meds, è un suicidio. In un momento storico musicale come quello che stiamo vivendo, scrivere un album del genere, che spazia dall’idm, all’elettropop, alla techno, in inglese, somiglia al decidere di partire in guerra senza armi. Quello che può essere genuinamente un assecondare la propria sensibilità artistica e le proprie pulsioni, in questo caso, vista l’altissima qualità profusa nell’arco di tutto l’album, può avere i connotati di un atto di ribellione.

Per questo è fondamentale parlare anche di gruppi esordienti come i Meds: per ricordare che possono essere prodotti in Italia lavori che non rispondano perfettamente a canoni estetico-stilistici preconfezionati, di cui il mercato si nutre e che in questi anni sta prendendo una piega sinistra. E perché, spogliato di una cerebralità percepibile immediatamente dall’insieme nome del gruppo-titolo dell’album-copertina, M01 è un album fortemente ascoltabile e godibile. Chiaramente non alla Tommaso Paradiso, ma è un lavoro decisamente incentrato sulla ricerca della melodia vocale, che emerge in maniera importante, attorno alla quale ruota un universo sonoro dove la sensazione netta è che nulla sia lasciato al caso.

Un brano in particolare, “NBF”, ha un livello di scrittura che lo rende spendibile per un pubblico che non deve per forza definirsi come nicchia, ma che può trovare consensi a livello trasversale. Pieno di Thom Yorke – più The Eraser che Tomorrow’s Modern Boxes – e quindi di Apparat (anche nella sua accezione Moderat), è costruito in tal modo da dare spazio a un ritornello iper orecchiabile senza essere melenso, stucchevole o furbo.

Da queste parti non si ricorda un qualcosa del genere. Neanche da Wrongonyou, artista italiano che scrive in inglese e che può in parte essere assimilato ai Meds.

Attenzione, comunque: le qualità di M01 non emergono solo in contrasto con quello che oggi definisce il panorama musicale. Sarebbe scorretto relegare M01 a negativo di un mondo dove la normalità è l’itpop, la trap o i proseliti di X Factor. I tre hanno tirato su un album scritto e prodotto con una precisione davvero eccezionale: la già citata “NBF”, o “Talk with the fire”, potrebbero essere ascoltate in uno dei qualsiasi mega festival sparsi tra l’Europa e gli Stati Uniti.

Ma è tutto l’album ad avere una sua coerenza sonora e narrativa: l’apertura e la chiusura sono assegnate a due pezzi strumentali, “Intro” e “Track 0”, che suggeriscono una certa ciclicità insita nell’album. “Intro” spazia da un ambient industriale che chiede aiuto ai Kraftwerk di Radioactivity e va a finire, idealmente, in “Track 0”, nella techno che negli anni è andata a mischiarsi con l’indie (“Flux” dei Bloc Party, per esempio). E viceversa.

Al loro interno, cinque brani pop imbevuti di idm e glitch dove i già citati Thom Yorke e Apparat fanno da guida e dove una voce che a volte vibra come Anthony and the Johnson si muove tra lande radioheaddiane.

Sarà pur vero che M01 è un suicidio, ma non è una sconfitta. L’esordio dei Meds è un ottimo lavoro che merita di essere ascoltato non solo perché esteticamente bello, ma anche perché vendibile. L’inglese è uno scoglio enorme da superare: basta pensare all’esperienza degli Afterhours per capire come sia complesso entrare per gli artisti italiani nel mercato italiano con l’inglese. Ma i tempi sono altri e magari l’approccio prima o poi cambierà.

Copertina di “Riposa, Coniglio” di John Updike

Perdonami
mentre il giorno muore

Nel saggio con cui si apre la versione Einaudi di Sei ricco, Coniglio, Julian Barnes traccia una mappatura della carriera di John Updike a partire dalla notizia della sua morte. In queste righe lo scrittore inglese pone l’accento sulla sua vasta produzione, che, oltre a essere straordinaria per qualità, è sconosciuta nella sua interezza perfino ai suoi fan più devoti. Coppie, si legge, è il libro che ha avuto maggior successo (e anche quello che ha incassato più critiche), La versione di Roger il preferito di Barnes, Il Centauro quello preferito dallo stesso Updike. Fra queste – senza dimenticare Il colpo di stato, Nella fattoria, Sposami o anche Villaggi la tetralogia di Coniglio gioca probabilmente il ruolo più importante, a partire dalla sua concezione.

Il più grande miracolo compiuto da Updike è stato quello di essere riuscito a calare il proprio personaggio all’interno della Storia senza alcun affanno, creando l’illusione che sia perfino quest’ultima a piegarsi al volere dell’autore. Questo incanto, che accompagna il lettore durante l’intera tetralogia, è dovuto al fatto che Updike era stato un acuto osservatore della propria generazione, interprete dei tempi mentre i tempi cambiavano.

È evidente come, nel corso degli anni e degli appunti utili a plasmarlo, il personaggio abbia assunto sempre più la forma del suo creatore, quasi una sorta di propulsore delle azioni e delle parole che non potevano trovare posto nel mondo reale. Coniglio riflette le paure e i desideri di una grossa fetta di americani sopravvissuti alla guerra ancora giovanissimi, con la giusta età per ricordarne lo spavento senza averne patito quell’orrore consapevole dei propri padri o dei fratelli maggiori. Harry si trova appena un passo oltre quella generazione perduta che era stata raccontata da Remarque alla fine degli anni venti. È un passo fondamentale, questo, che contribuisce a spiegare le simpatie di Harry alle politiche belliciste – e che sono state, insieme a molto altro, la causa dell’atteggiamento ostile del pubblico verso la tetralogia.

Ma per capire il rispetto quasi reverenziale – che pure non risparmia le critiche – che Coniglio avverte nei confronti delle istituzioni e della patria oltre gli uomini che le rappresentano, occorre andare un po’ più a fondo. La caratterizzazione dell’anti-eroe elaborata da Updike passa attraverso una peculiarità paradossale, che scorrendo le pagine capiamo farsi simmetria. L’architettura di questo grande progetto letterario regge sulla simmetria molto più di quanto si possa immaginare – ed è forse anche per questo che tornano i rimandi al 2001 di Kubrick? La simmetria è completezza, stabilità, ordine, e si traduce quindi nella composizione quaternaria del ciclo (quattro è il numero della Materia, come quattro sono i venti principali, le stagioni, le fasi lunari, i punti cardinali, le arti liberali appartenenti alla sfera matematica).

Quattro è anche il numero degli elementi naturali, e compiendo un piccolo sforzo sembra possibile attribuirne uno a ogni romanzo (il fuoco che brucia la casa nel secondo, l’acqua mai così presente come nel terzo, l’aria che richiama il cielo – e quindi la dimensione oltre questa vita, il paradiso o qualcosa di simile a cui poter credere – e che quindi chiude appunto la simmetria in una storia che era iniziata sulla terra così opprimente nella sua evidenza).

La poetica di Updike, che trova probabilmente in questo ciclo la sua effettiva sublimazione, si compone di un dialogo modulato tra costanti e variabili. Il sesso, la fuga, Dio e la famiglia sono elementi fissi che realizzano la concezione stessa dell’opera. I personaggi sono in questo senso semoventi, ovvero hanno un’anima immutabile ma rispondono di una coerenza che è molto più umana che letteraria (sono, cioè, credibili e quindi poco prevedibili) e soprattutto subiscono gli eventi, che determinano invece gli elementi variabili.

Gli incipit dei romanzi tracciano una linea – che poggia su elemento particolare – che viene mantenuta fino alla fine. Se si presta attenzione, ci si accorge che questo elemento (il simbolo della tematica che avrà maggiore rilevanza) è riconducibile a una sola parola che viene poi sistematicamente ripetuta nelle sue forme declinate o sinonimiche. Naturalmente ogni tema si riconduce al corpus e quindi si rafforza, ma emerge nella sua nitidezza – diremmo che risalta – per ogni volume che gli corrisponde.

Nel primo, la tematica dello sguardo è introdotto dalla frase «Coniglio […] si ferma e osserva benché abbia ventisei anni». Nel secondo, all’interno del periodo iniziale viene ripetuta due volte la parola “luce”, che sarà l’elemento principale lungo tutte le pagine e che diventerà, nel finale, il fuoco («Alle quattro in punto, gli uomini escono dalla tipografia: pallidi, spettrali per qualche attimo, abbacinati, finché la luce esterna cancella quell’espressione da continua luce artificiale che si portano dietro.») Terzo e quarto capitolo sono in questo senso più strettamente collegati, e la tematica dell’uno (il declino/disfacimento) è il preludio della tematica dell’altro (la morte).

L’ultimo volume della tetralogia, Riposa, Coniglio è senz’altro il meno autonomo: si allaccia ai precedenti (soprattutto al terzo, per ovvie ragioni) con un’aderenza necessaria alla sua migliore comprensione. Se Sei ricco, Coniglio era stato anche un libro di fantasmi, Riposa, Coniglio lo è prima di ogni cosa. Ma c’è un ribaltamento importante: qui è Coniglio stesso a farsi fantasma. Si direbbe, tanto per usare un’espressione facile, che Coniglio assaggia in anticipo la propria morte – e in questo senso la sua ultima fuga può essere letta per la sperimentazione voluta di un mondo senza di lui, come Frank Capra aveva fatto, con molto più romanticismo, con George Bailey nel suo La vita è meravigliosa. Harry sospende la propria vita e si accorge però che nessuno lo cerca («Il telefono non squilla. Dio è in linea.»), e allora tanto vale abbandonarla per davvero, rinunciare al rimorso e al peso del corpo.

Fin dalla prima pagina Updike non sembra lasciare al lettore molte speranza (la parola “morte”, e quindi “morire”, “ammazzare”, “finire”, “funereo”, si ripete con una costanza sbalorditiva, si ritrova anche nelle situazioni più vitali, nelle incidentali, negli annunci alla tv, e si accompagna alla parola “fato”). Questa volta la morte non giunge alla fine e non determina la risoluzione della storia: è troppo presente, si è infiltrata anche nelle attività che più di ogni altre richiamano alla vita, e la storia ha un finale segnato (che Updike annuncia costellando la narrazione di interventi autoriali, come quando scrive « – Andrà tutto bene – mente Janice.»).

In questo romanzo, la morte si è infilata ovunque. Si nasconde nel sesso (l’Aids) e nel cibo (il colesterolo alto). Si è presa anche lo sport (non solo a Coniglio è preclusa la possibilità di giocare, ma è costretto ad assistere al ritiro e alla morte dei propri idoli). Ecco: lo sport ci invecchia prima, perché una carriera sportiva è un arco di tempo assai limitato entro cui non è possibile indugiare. Uno degli indizi più significativi che Updike lascia al lettore è la progressiva perdita di vista da parte di Coniglio. Consapevoli della rilevanza che la vista ha sempre avuto all’interno di questa storia, capiamo che un mondo che non si vede è per Coniglio un mondo che sta cessando di esistere.

Gli uomini sono soliti ripetere che poco prima di morire tutta la vita ci passerà davanti agli occhi. I ricordi, nelle ultime duecento pagine, sono ovunque, di una plasticità perfino superiore a quella avuta nei precedenti romanzi, e hanno questa funzione. Il ritmo lentissimo di queste pagine ha sostanzialmente la funzione di dilatare il tempo, e quindi di ritardare la fine. Questa è forse la concessione più benevola che Updike fa al proprio protagonista, che può invece essere visto come una sorta di martire negativo (per l’autore stesso, innanzitutto, e per gli uomini tutti).

Coniglio continua a ricadere negli errori e acuisce le proprie colpe pur bramando genuinamente un perdono che è consapevole di non meritare. Updike riproduce su carta una vita piena di bassezze e di meschinità, ma è poi straordinariamente bravo a incastrare queste azioni in una storia – in un’anima, in un corpo, in un momento – che le renda comprensibili anche quando non sono giustificabili. Simone Weil scriveva che ogni peccato è il tentativo di colmare un vuoto.

Dopo oltre millecinquecento pagine, tuttavia, nemmeno il lettore può dirsi capace di perdonare un personaggio che solo di rado ha saputo desistere alle tentazioni di commettere una colpa. Il processo di invecchiamento che Harry subisce anzitempo passa in primo luogo nello scemare dell’attività sessuale (uno scemare di suggestioni e di intensità di desiderio prima ancora che di consumazione). L’azione più abietta che Harry compie in vita, e che gli costa le parole più dure che Janice gli rivolge («Non ti perdonerò mai, mai, mai»), è innanzitutto una risposta a questo processo – oltre che a un’errata identificazione in Pru, che gli appare «innaturalmente immobile, come un coniglio». Tutte le colpe perpetrate da Coniglio non sono che il rifiuto di una dimensione terrestre e vincolante. Coniglio non agisce per portare dolore e, anche se questo non può salvarlo, mostra una certa indulgenza, o umana compassione, verso i propri rivali (“nemici” sarebbe un termine troppo pesante).

Ciononostante il senso di competizione gli resta attaccato addosso. Il tentativo di superamento di questa dimensione determina ogni azione; l’impossibilità a superarla – e a superarsi – determina il circolo vizioso del peccato, che è quasi inconsapevole perché dimentico del dolore degli altri.

Questo è anche il primo volume in cui Coniglio si ritrova a vestire i panni del nonno. Il rapporto tra padre e figlio rimane pieno di contrasti e incomprensioni, tenuto in piedi da alcuni obblighi e da quell’affetto tacito e irrazionale che possono avere solo i legami di sangue. Verso i nipoti, invece, Harry avverte un dovere morale per cui pure sa di non essere all’altezza. I bambini rievocano un tempo d’innocenza che c’è stato ed è passato per tutti, lui compreso, e questo ricordo acuisce il rimorso della colpa. Soprattutto, però, i bambini vivono in un mondo che non contempla la morte («Ha un senso infantile dell’immortalità e lui ne è custode.»)

A margine: proviamo per un momento a galleggiare sulla retorica del lettore preoccupandoci di non affondare. Sempre nel saggio introduttivo al terzo volume, Julian Barnes confessa che durante la lettura delle ultime duecento pagine si era trovato a rallentare, specificando: «[…] non perché non volessi che il libro finisse, quanto perché non volevo che Coniglio morisse».

Molti, sfruttando appunto quella retorica, ripetono che i personaggi letterari sono immortali, ma è una (bianca) bugia. Avete presente quella sensazione di illogica malinconia che ci pervade alla fine di un percorso che non ci appartiene? Mi spiego meglio: quando si chiude una stagione sportiva, quando terminiamo la serie tv che avevamo preso a seguire settimane fa, quando finiamo di ascoltare per la prima volta l’album musicale che stavamo aspettando. Ci sembra di aver lasciato, in quel tempo già andato, qualcosa di nostro. Un giorno trasmetteranno di nuovo le stesse puntate, dopo l’estate si aprirà una nuova stagione e, se volessimo, potremmo riascoltare quelle canzoni già adesso. Ma non importa, perché sarebbe solo una diminuzione dell’emozione che abbiamo provato, dal momento che ci sarebbe negata l’imprevedibilità di allora, la sorpresa che ci ha estasiato. E, se anche noi ci dimenticassimo delle note di quella canzone, dell’andamento di quella puntata, ci sarebbe semplicemente concessa un’operazione di recupero, avendo già compiuto una volta quella di scoperta.

I personaggi di un romanzo o di un racconto, proprio come le persone della nostra vita, hanno una storia che esiste a prescindere da noi. Come gli uomini, quando poi muoiono, possono soltanto essere ricordati.

(John Updike, Riposa, Coniglio, trad. di Mario Biondi, Einaudi Stile Libero Big, 2017, pp. 712, euro 22, articolo di Giuseppe Del Core)
Copertina di "La bambina che amava troppo i fiammiferi" di Gaétan Soucy

La sfida di tradurre scintille

«Un lavoro di formica e di cavallo». Così Natalia Ginzburg condensava il senso funambolico della traduzione, incidendo il corpo vivo dell’opera di Proust. Quel tradimento alchemico e irrinunciabile senza cui come sosteneva George Steiner «abiteremmo province confinanti col silenzio». Restituire e restare infedeli, perdere e salvare, in un travaso di frammenti che conservi l’intero. In pochi libri come in quest’ultimo piovuto tra le grinfie la tensione incandescente di chi passeggia su una faglia inquieta come quella del linguaggio è un elemento che non si può solo citare in corso d’opera. Perché ha la forza detonante di una fatica primordiale. Un rischio estremo, che può ripartorire un testo, o condannarlo a balbettare.

Francesco Bruno, traduttore di Jean Michel Guenassia, Jean Giono ma anche dell’alter ego di J.K. Rowling Robert Galbraith, ha svolto una missione. E pur mutandola non l’ha scalfita. Una missione con un titolo che giura faville, La bambina che amava troppo i fiammiferi del canadese Gaétan Soucy. Uscito in versione originale più di venti anni fa e apparso in Italia nel 2003, ma non baciato dalla giusta attenzione, riaffiora oggi con una nuova pubblicazione sempre per i tipi di Marcos y Marcos.

Storia maligna, favola nera, incrudelita dalla tenerezza della sua sorgente. A raccontare è una voce adolescente, cresciuta dentro un incubo scambiato per realtà. Il suo territorio vitale è tutto un’enorme allucinata distrofia familiare. Non c’è niente di vagamente normale, per quanto la normalità sia affidabile come contenitore, in ogni spiffero del suo resoconto, in ciò che riferisce, in ciò che omette, e in ciò che si mescola nel suo asse mediano.

Ci sono due figli, che si chiamano “Fratello” l’un l’altro, perché altri nomi non sono necessari e la vicenda s’innesca quando il loro padre muore. «Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spirato all’improvviso. La sua spoglia contratta in un dolore di cui restava soltanto la scorza, i suoi decreti finiti di colpo in polvere, tutto ciò giaceva nella stanza al piano di sopra da cui papà, ancora soltanto il giorno prima, ci comandava in tutto e per tutto».

Questo patriarca/aguzzino fino all’ultimo legifera e possiede l’esistenza dei suoi due discendenti, segreti compresi. Li esilia in un castello diroccato come i loro scheletri, stabilisce norme impossibili, distribuisce «busse» se si accorge che sono disattese. Li lascia arenati in uno stato brutale, da cui solo uno dei due riesce a emanciparsi.

Tuffandosi nei dizionari della sua biblioteca, leggendo Spinoza e Saint-Simon e poi impugnando il suo incunabolo. L’altro è un fratello grezzo, primitivo, frustrante nella sua lentezza («tutto e sempre delude in mio fratello. Non si può sognare con lui»). Così, quando restano soli e immolati al loro squilibrio, non rimangono che le parole, quelle che filtrano l’orrore e la sconcezza di un passato fangoso che spenna lo scandalo poco a poco, fino a disvelarsi nelle ultime pagine.

È un vocabolario eccezionale, guizzante, frutto di un’urgenza, di un istinto e di una naturale vocazione alla libertà. «Cucuzza», «sanguinaccio», «catalessina», sono solo alcuni esempi per plasmare una dimensione intima e creativa che oscilla da pendolo perfetto tra forme scabre e raffinatissime; una sferzata fiabesca di acrobazie espressive difficili da rendere potabili, architettate come meccanismo di difesa e riscrittura del vissuto. Una creatura a cui è stata negata presenza materna, identità sessuale, limpidezza di legami familiari, relegata in una capsula distopica avara di qualunque dolcezza.

Eppure, malgrado l’abominio accovacciato in ogni angolo di trama, si resta stregati dalla sua Weltanschauung, quella visione del cosmo velata di epico stupore, che riesce a custodire una forma d’incanto, a sperare nell’amore di un uomo narrato come un cavaliere, a sopravvivere alla morte della legge cercando una bara per suo padre, a farsi culla di una nuova vita.

Mass media e letteratura sconcertano di scampoli oscuri, paradigmi d’infanzia straziata che sputano schegge sopra o sotto la pelle. Raramente come in quest’ultimo periodo l’editoria ha ospitato romanzi di “mal-formazione”, come i recenti Salvare le ossa di Jesmyn Ward, Mi chiamo Irma Voth di Miriam Toews, L’educazione di Tara Westover, Mio assoluto amore di Gabriel Tallent e non sorprende che i soggetti intrappolati in un mondo distorto (da ossessive affettive o religiose) siano spesso bambine, private di scelte essenziali, di strade aperte su cui incallire i piedi e le vittorie.

Finzioni ben cesellate, che echeggiano episodi forgiati perfino meglio nel mostruoso, quelli appollaiati ogni giorno in cronaca nera, a ricordarci che quella tra i sessi è ancora una guerra, che lo scarto tra ciò che vorremmo e ciò che tocchiamo è più tagliente del desiderio. Donne che fanno paura, da quando iniziano a esistere, che sarebbe più comodo rannicchiare in un forziere ed estrarre alla bisogna.

Ma invece no. Invece si scrive, come fa Gaétan Soucy, che ci ha lasciato troppo presto, con pochi romanzi allattati di promesse. Di lui, nella sezione biografica all’interno del sito di Marcos y Marcos è riportato che abbia avuto «un’infanzia senza storia». Chissà, se in quelle crepe non documentate, è vissuto un bambino che amava i fiammiferi, innamorato del buio e dei suoi strappi, che è diventato adulto per consegnarci il paesaggio dietro ogni fessura.

 

(Gaétan Soucy, La bambina che amava troppo i fiammiferi, trad. di F. Bruno, Marcos y Marcos, 2019, pp. 192, euro 16, articolo di Cristiana Saporito)
Copertina di Il dono di saper vivere di Tommaso Pincio

Un tentativo di fallimento letterario

L’ultima opera di Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere (Einaudi Stile Libero, 2018), è uno di quegli oggetti letterari che sembra sfuggire a facili catalogazioni: è in parte una narrazione biografica perché ripercorre tratti della vita del Caravaggio, in parte autobiografica perché mischia alla biografia dell’artista lombardo episodi della vita dell’autore stesso.

Da un lato, il racconto di un uomo rinchiuso in una cella per un omicidio che afferma di non aver commesso, dall’altro la storia dell’autore e dei suoi anni trascorsi in una galleria d’arte posizionata nel labirintico centro della Roma barocca.

L’autore imbastisce non una, ma più storie senza trama, per realizzare un’opera ibrida in cui si confronta con il faticoso e doloroso atto del narrare; nell’inseguire l’ombra di Caravaggio, Pincio orchestra un romanzo sull’indugiare nella scrittura e si confronta con l’ansia del fallimento del suo tentativo letterario.

Il romanzo abbonda di spie intertestuali, seminate ovunque. Per dare un’idea del fitto sistema di corrispondenze letterarie e artistiche che sono dietro il lavoro di Pincio, basti la vertiginosa lista di citazioni racchiusa solo nei primi capitoli: il romanzo si apre con la descrizione delle geometrie asfissianti e degli elementi della cella in cui il protagonista è recluso, che alimentano il rimuginio della voce narrante; la finestra con le sbarre orizzontali e quelle verticali della porta, i libri impilati, lasciati lì e non letti, tra cui l’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert; altro richiamo letterario è quello al grande romanzo dell’attesa e delle aspettative, Il deserto dei Tartari, che viene spesso tirato in ballo per evocare la sensazione di stasi che prova il narratore quando confinato in attesa dell’arrivo di avventori nella galleria d’arte.

La voce del narratore ha un tono schietto e disilluso, che mette in fila considerazioni sulla sua vita, non ammantando mai la candida insofferenza che prova verso di sé. Il monologo prosegue quasi senza pause, se non per le interruzioni di alcune enigmatiche figure che presenziano nella prima parte; tra queste, troviamo l’avvocato del carcerato, personaggio effimero e sfuggente che ricorda le apparizioni nabokoviane di Invito a una decapitazione, unica presenza umana a consolare l’animo del recluso, con scarsi risultati. Incapace di dare una svolta eroica alla propria vita, il protagonista continua a rileggere gli eventi della sua esistenza continuamente; viene ricreata nella scrittura una forma ossessiva del rimuginio, l’arte di star fermi a guardare le cose per vederci dentro simboli, presagi e indizi della manifestazione del destino.

A circa metà libro la narrazione si interrompe bruscamente. Dalle sbarre delle carceri il racconto si sposta, per condurci al centro di una caotica Roma barocca, precisamente nei luoghi delle scorribande caravaggesche, dove prende avvio il tracciato autobiografico. Per fatalità la galleria in cui l’autore ha lavorato per anni è proprio in via di Pallacorda numero 17, sede del famigerato delitto di Caravaggio.

L’autore comincia così un’indagine parallela su Caravaggio, realizzando un saggio che ripercorre il mito dell’artista nelle forme che ha assunto nel tempo, alla ricerca dei motivi per cui «Caravaggio si vende sempre, è la mania del suo tempo». Pincio passa in rassegna informazioni storiche, letture iconologiche di quadri, vite di critici d’arte, dicerie, chiacchiericci e maldicenze sul pittore, senza operare una distinzione tra materiali documentari più attendibili e quelli appartenenti alla narrazione popolare.

La ricostruzione quindi affronta svariati temi, per esplorare le manie di uno degli artisti che sembra aver ossessionato tutti, facendo in particolar modo leva sul misterioso fascino costruito sulla sua biografia e sull’opera. Ciò che è a cuore all’autore è scoprire perché la vita di Caravaggio si offra a una narrazione più accattivante per il pubblico rispetto ad altri, andando oltre la semplice messa a fuoco del fascino saturnino del personaggio maledetto.

La complessa struttura del romanzo tiene insieme un’identità fittizia e una reale; tra queste due dimensioni ci sono continui scambi e la narrazione procede facendo costantemente dentro e fuori dalla cornice metaletteraria e sembra che mettendo in crisi questa soglia si determini il senso di inconcludenza che Pincio cerca di rendere con la sua opera.

«Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde con quello della finzione è un gioco molto rischioso. A spingerlo troppo oltre, si finisce come niente in uno stato prossimo alla follia in cui i due mondi sembrano sfuggire al controllo del narratore per comunicare tra loro e, come fossero attività pensanti, autonome e mosse da uno scopo preciso quasi malefico, dànno l’impressione di passarsi informazioni di nascosto e scambiarsi i ruoli.»

Ricorda Martin Middeke, autore di uno degli studi pioneristici sulle biografie che ibridano fatti e finzione, che in questo tipo narrazioni (da lui definite con il neologismo biofiction) il rapporto tra autore e protagonista della biografia non è mai causale. La differenza rispetto ad altre biografie di finzione è che in questo caso il personaggio di Caravaggio è messo a confronto diretto con l’autore, il quale si esplora e si racconta tramite un sistema di specchi che coinvolge il personaggio “biografato”.

Questi aspetti fanno di questo romanzo un’opera molto più grande di quanto sembri, nella quale si ha una linea del metaromanzo, con la sua complessità strutturale, un’altra saggistica, sugli aspetti della vita di Caravaggio ricostruita e le finali considerazioni sul realismo della sua arte e quella autobiografica, che a sua volta si confonde e flirta con il metaromanzo iniziale; frammentando l’identità del narratore in due, tra il falso specchio e la storia del gallerista, la vita stessa di Caravaggio è chiamata a costruire il significato più profondo della storia e spiegare qualcosa sulla vita stessa dell’autore, per condurci nel nucleo intimo del vizio condiviso da tutti i personaggi, quel «dono di non saper vivere», attorno a cui Pincio allestisce il suo tentativo di fallimento letterario.

 

(Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi Stile Libero, 2018, pp. 200, euro 17,50, articolo di Valentina Barisano)
Copertina di "Sopra e sotto la polvere" di Alessandro Chiappanuvoli

Dopo

a: caserma dei vigili del fuoco,
io spero questa lettera vi trova bene e vi trova di salute e che e una felice sorpresa a voi. scusa non sono bravo a scrivere pero o deciso di scrivere perche voi avete cambiato la mia vita. io sono quello anziano uomo di via don luigi sturzo voi ricordate?
questa lettera e dificile a scrivere io sento. per la mia malattia io sempre ero arrabbiato con dio e tutti e o deciso non doveva dire mai grazie a nessuno come se era la colpa di loro. io mai o sentito una canzone un tuono un ucello cantare la voce di persona io mai o gridato fisciato cantato o detto ti amo a nessuno. Pure a la mia moglie che pure lei e sorda.
quando o conosciuto la mia moglie era 63. io per 46 anni non o detto ti amo mai a la mia moglie. questo con lingua dei segni noi parliamo. pensava sempre che nostro non era amore che noi stiamo insieme perforza perche abbiamo stessa maledizione.
io aveva rabbia perche altri non sanno come e stare la vita in tutto silenzio. non sa come e non sentire e mai possono sapere come vedere la casa cadere senza rumore e tu non gridi e resta tutto dentro. la colpa non e di altri e la colpa non e pure a dio lo so. la mia moglie dice sempre io ero arrabbiato con dio e con lei. io bevevo prima. o vergogna oggi. non so se gente capiva. la mia moglie pero si capiva.
la mia moglie aiutava a me prima pero con tempo io diventavo piu cattivo e quando lei guardava me io aveva piu rabbia e io picchiava lei. lei guardava in silenzio ma io capisce oggi che era un uomo cattivo perche teneva la mia moglie in silenzio piu di silenzio di nostra malattia.
io non bevo niente da quello giorno che voi aiutava a noi. sono felice perche o fatto pace con dio lui e con me. non o piu paura. oggi e felice e vuole dire ti amo a la moglie.
tanto tempo e tante persone a aiutato a me di trovare voi. oggi io e la mia moglie stiamo a un map lontano da la nostra casa che non ce piu. tanto tempo per trovare voi ma piu tempo per me di scrivere questa lettera. non e facile pero io vuole dire solo grande grazie a voi.
perche voi siete angeli. voi siete angeli veri di tutti noi. i angeli di dio.
con il cuore mio per sempre grazie angeli miei grazie.

Controluce tutto sembrava normale, i contorni lineari, ma bastava voltare lo sguardo perché la città mostrasse le sue ferite: il turbinio degli elicotteri scuoteva l’aria, fracassava i timpani, si aggiungeva alle sirene spiegate dei mezzi di soccorso. Il resto dello spettro acustico era occupato dal vocio che veniva dalla strada.
La luce finiva leggera negli occhi, portava con sé la tempra dei mesi autunnali e la pace di quelli estivi. Era insolitamente caldo per il periodo, un caldo che di lì a poco avrebbe fiaccato i movimenti, ci avrebbe resi abulici, dipendenti dall’adrenalina e infine ci avrebbe lasciati aggrappati alla sola forza di volontà. Ma la terra era friabile e la pietra asciutta, e questo avrebbe facilitato il nostro lavoro. Sotto le macerie, però, l’ossigeno, la polvere e i gas si stavano già mescolando, trasformando la speranza in un estenuante conto alla rovescia.
Avevo ripreso servizio da più di quattro ore, dopo una di riposo. Altri colleghi invece erano arrivati senza staccare. Tolto l’elmetto, mi tamponai il sudore.
Con un balzo fui di nuovo sul cestello dell’autoscala. Guardai in basso, la piccola strada era ormai invasa da carabinieri, poliziotti, unità cinofile, volontari della Protezione Civile, forestali, giornalisti. C’erano anche i civili, più simili a fantasmi che a persone, appollaiati qua e là, a terra, sulle auto. Quasi nessuno riusciva a stare in piedi e quei pochi dovevano sostenersi gli uni con gli altri. Davanti a loro c’erano i brandelli delle loro esistenze: valigie, vestiti, scarpe, buste della spesa, lampade, sedie, coperte, mobili, suppellettili di ogni genere. Attendevano, non potevano far altro. Si sudava e il sudore si mischiava alla polvere.
L’autoscala Magirus, sprigionando un forte odore di frizione bruciata, si muoveva lentamente. La mia squadra era un’unità di appoggio addetta alla perlustrazione degli edifici pericolanti e al recupero di eventuali civili presenti: in realtà cercavamo cadaveri. Alla guida, il collega sembrava più un chirurgo che un autista, capace di destreggiarsi con un camion di nove metri come fosse una Smart, nonostante i crampi al polpaccio sinistro. Ai piedi della scala reclinabile, il manovratore mi catapultava da un palazzo all’altro tra balconi, finestre e mura sfondate. Intorno al Magirus si muoveva la cosiddetta ‘fanteria’, un caposquadra e due di noi, completamente coperti di polvere. Il mio compito era di ispezionare gli appartamenti ai piani alti e rilevare presenze. Nessun recupero fino allora, ma gli edifici da perlustrare erano molti.
Sulla città aleggiava una coltre di pulviscolo giallo, al passaggio degli elicotteri si creavano vortici simili a tempeste di sabbia. L’abside sfondata di una chiesa e la cupola spaccata di un’altra rivelavano i loro interni come fossero corpi nudi. In lontananza vedevo altri Vigili del Fuoco su tetti, balconi, alle finestre, dentro le mura sfondate; le pareti sventrate dei palazzi mostravano intimità, guardarle m’imbarazzava.
Dove non riuscivo a ispezionare arrivavano le mie grida. Penetravano nelle crepe polverose, riecheggiavano in salotti sgangherati, cucine franate, camere da letto violate, bagni esplosi. Non una voce, non un lamento, l’unico rumore era la vibrazione cadenzata del ferro in tensione costretto dal peso disarticolato del palazzo, come un lamento.
«Libero. Ripeto. Edificio libero. Passo» dissi, disegnando cerchi nell’aria con le braccia.
Ordinai la discesa e l’ingranaggio della scala si attivò, i pioli iniziarono a sovrapporsi lentamente avvicinandomi al terreno. Mi poggiai con la schiena al passamano e l’acciaio dei moschettoni cozzò contro la lamiera.
L’ammasso di corpi nella strada si fece sempre più nitido, via via ne distinguevo i dettagli, le bocche spalancate, il sudore rappreso, il rossore dei visi, le lacrime, i singhiozzi, il tepore dei respiri: una platea assorta, straziata oppure operosa, ansimante; un misto di speranza e disperazione, di preghiere e di bestemmie. Le macerie esplose dagli edifici sembravano schizzi di sangue. Alcune vetture erano rimaste schiacciate. Briciole di cemento, mozziconi di pilastri, schegge di tegole, di forati, persino ringhiere di qualche balcone disegnavano una specie di mappa. Potevo intuire dove le cose erano andate per il verso giusto e dove c’erano stati feriti, oppure morti.
Un piccolo escavatore si faceva largo tra i resti di due palazzi, una ventina di metri più in là. Grattava via i detriti con delicatezza. Le antenne erano rimaste quasi tutte dritte, i comignoli invece erano crollati. Due cani, seguiti dai rispettivi operatori, ci camminavano sopra, la testa china e il muso infilato tra le zampe anteriori. Tra gli infiniti odori umani compressi lì sotto, cercavano quelli più intensi, in una corsa contro il tempo: ogni minuto riduceva drasticamente le possibilità di trovare superstiti.

L’ingranaggio della scala si attivò di nuovo e i pioli iniziarono a distanziarsi per allontanarmi ancora dal terreno. C’eravamo spostati davanti a un edificio beige, con tapparelle marroni dentro riquadri bianchi; davano l’impressione di trovarsi davanti alle caselle del gioco del tris. Tra il cemento armato e le mura le crepe erano profonde; qualche casella non aveva retto e si era sfracellata al suolo aprendo squarci domestici. Sintonizzai la Puma sul canale nazionale.
«Altre due salme trovate…» biascicò una voce «sono due giovani. Il numero totale sale a…»
Tornai subito sul canale diretto.
Arredamento antiquato: un divano logoro rivolto verso un televisore a valvole, merletti ovunque, al centro del soffitto un lampadario a sette braccia da cui pendevano miriadi di gocce di cristallo, i ripiani della libreria pieni di enciclopedie mai usate. Attesi prima di entrare, il mio sguardo fu catturato dal verde intenso di una collina su cui si ergevano alcune antenne radiotelevisive. Le nuvole sembravano impigliarcisi, invece erano molto più alte. Le montagne lontane avevano ancora le cime orlate di neve. Inspirai a pieni polmoni prima di saltare dentro passando dal muro sfondato. Dopo il salone, entrai in cucina, in bagno; il resto dell’appartamento era scarno, arredato in modo casuale. Era una casa di studenti, me ne resi conto dalle camere. Libri sparsi ovunque, appunti, penne, foto e poster appesi alle pareti, bottiglie vuote fracassate a terra.
Ispezionai, piano per piano, ogni appartamento, forzando gli avvolgibili delle finestre. Qui abita una famiglia con tre figli, qui una coppia di mezz’età, qui una coppia con una bimba piccola, pensavo. Gridare mi sembrava inutile ma lo facevo: c’è qualcuno?, mi sentite? Entravo nelle vite altrui e camminavo tra le loro cose in punta di piedi. I letti erano disfatti, il primo cassetto del comò in camera da letto era sempre aperto, i portagioie vuoti, gettati qua e là vestiti spiegazzati, a terra una baraonda di oggetti rotti, chincaglierie miste a calcinacci, vetri. Non un rumore a parte lo scricchiolio dei miei passi, non una voce. E ovunque crepe, squarci, buchi, tramezzi crollati.
«Libero. Passo» dicevo prima di tornare nel cestello.
Completai l’intera facciata che dava sulla strada, poi, dalle finestre laterali, anche quella opposta. Dietro la prima palazzina, altre due file di quattro piani scendevano incassate lungo il dorso della vallata. Avremmo dovuto perlustrare anche quelle.
«Edificio sgombro. Interrogativo» gracchiò la ricetrasmittente.
«Affermativo. Passo».
«Occappa, Giorgio. Ti tiriamo giù».
I pioli riniziarono a sovrapporsi. Guardai in basso e scorsi la squadra di terra allontanarsi dall’edificio e mescolarsi con la gente in strada. Il ronzio delle voci mi ridestò. Ero stanco. Dovetti voltarmi per concedermi ancora qualche attimo di calma. Allora vidi una specie di scintillio, un movimento impercettibile di fronte a me nel varco buio di una parete completamente sfondata al terzo piano di un edificio della seconda fila.
«Alt! Passo» gridai nella Puma.
La scala si fermò.
«Prendo i comandi. Ripeto. Prendo i comandi. Passo».
Sorvolando un boschetto di pioppi da cui saliva umidità, mi avvicinai lentamente al buco. La parete dell’appartamento era crollata verso l’esterno e aveva investito la ringhiera che ora restava appesa nel vuoto assieme a pochi indumenti ingialliti.
«C’è qualcuno?» gridai con le mani attorno alla bocca.
Nessuna risposta.
Sganciai il moschettone e mi accostai alla paratia. Una folata di vento sfrangiò le cime degli alberi e m’investì facendomi gelare il sangue. Con un balzo atterrai sul balcone senza toccare la ringhiera.
La carta da parati, bombata in più punti, se ne stava appiccicata ai muri controvoglia. In alto, negli angoli, c’erano macchie di umidità. Un grosso armadio di mogano si era staccato di almeno due palmi dalla parete; nello specchio dell’anta spalancata si rifletteva la mia immagine. Una palla di vetro rosa faceva da lampadario. Sulla spalliera c’era un quadro della Vergine cinto da un lungo rosario fluorescente. Ai lati del letto disfatto, davanti ai comodini, c’erano due paia di ciabatte logore. Le piastrelle del pavimento erano verdi, screziate di pietruzze bianche. Oltre un vecchio tappeto rosso scarlatto, quattro occhi sbarrati mi stavano fissando. Erano due anziani, un uomo e una donna. Stavano immobili sotto il letto e mi guardavano.
«Presto!» dissi «Venite fuori!»
Non si mossero, continuavano solo a fissarmi.
Mi avvicinai con cautela, sotto i piedi scoppiettavano vetri, frammenti. Quando fui vicino, mi chinai e gli tesi il braccio. Solo allora i loro occhi liquidi si mossero, spostandosi sulla mia mano. Li tirai fuori continuando a parlare, ma le parole sembravano attraversarli. Li condussi sul balcone, tenendoli sottobraccio, in un silenzio irreale. Facevo gesti eloquenti che loro seguivano, senza ribattere. Per farli entrare nel cestello dovetti prenderli in braccio uno alla volta sporgendomi molto oltre la ringhiera. Si aggrapparono come bambini.
Quando i pioli iniziarono a sovrapporsi avvicinandoci al terreno, con un movimento lentissimo e delicato la donna mi prese il viso tra le mani. I suoi capelli bianchi fluttuavano nel vento come ragnatele. Prima si sfiorò le labbra, poi si coprì le orecchie e con il capo fece cenno di no. Mentre il brusio dalla strada tornava a crescere, ci abbracciammo.

 

“Dopo” è tratto da Sopra e sotto la polvere – Tutte le tracce del terremoto di Alessandro Chiappanuvoli, in uscita il 16 maggio per effequ.

 

Alessandro Chiappanuvoli (L’Aquila, 1981) dal 2016 si occupa di terremoti per Internazionale. Ha pubblicato Lacrime di poveri Christi – Terzigno: cronache dal fondo del Vesuvio (Arkhè, 2011), un reportage narrativo sullo scandalo rifiuti in Campania, e la silloge di poesia golgota (Zona, 2013). Suoi scritti e articoli sono apparsi su Stella d’Italia. A piedi per ricucire il Paese (Mondadori, 2013), Il Manifesto, Il Messaggero, Effe – Periodico di altre narratività; e sui blog Nazione Indiana, Il Primo Amore, Doppiozero e altri.

Leggi le altre Estrazioni

 

“La straniera” di Claudia Durastanti

Le parole che non ho detto

Dopo il brillante esordio (Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra) che le valse la vittoria al Mondello Giovani, cui seguirono A Chloe, per le ragioni sbagliate (Marsilio, 2013) e Cleopatra va in prigione (minimum fax, 2016), Claudia Durastanti cambia genere con La straniera e torna in libreria edita da La Nave di Teseo.

Alzi la mano chi non ha pensato a Camus, quando ha saputo che il libro si sarebbe intitolato La straniera. Proprio Camus, nei suoi taccuini, spiegò il sentimento di nostalgia delle vite degli altri. «Viste dall’esterno, costituiscono un tutto. Mentre la nostra, vista dall’interno, sembra dispersa». Continuiamo, conclude, a inseguire un’illusione di unità. Questo bisogno universale spinge gli individui – quelli coscienti – ad acuire questa nostalgia, ed è in fondo, se vogliamo, lo stesso bisogno che cerchiamo di appagare attraverso la lettura: la storia di una vita, anche inventata, che non sia la nostra.

D’altro canto, la stessa ragione porta gli individui a raccontarsi – o, appunto, a scrivere. Il processo che sta alla base della scrittura, e che si palesa già da bambini in modo inconsapevole, è un tentativo di fare ordine, e non a caso i nostri primi scritti sono spesso autobiografici (diari, insomma). Quando poi cresciamo, non rinunciamo al bisogno di raccontarci, ma capiamo che la nostra vita è banale, che, per quanto si abbia sofferto, in qualche parte del mondo ci sarà sempre un dolore più struggente, un amore più intenso, e che in fin dei conti non siamo i protagonisti di nessuna grande storia – ma è comunque la nostra.

La straniera non è un diario e nemmeno un romanzo, ma un po’ le due cose insieme, un memoir che inizia con una storia che l’autrice non ha vissuto – l’incontro fra mamma e papà, la vita dell’uno e la vita dell’altra – e che forse per questo è stata assorbita come le favole belle che ci vengono raccontate da bambini. Un uomo sordo e una donna sorda s’incontrano e si sposano: è una storia di magia o un evento più che normale? La risposta sia lasciata agli altri, quel che conta è che è una storia vera – e le storie vere sono proprio così, tra la magia e l’ordinario, e infatti anche quell’amore finisce, ma resta il racconto. Resterà per sempre, quello, se sapremo conservarlo, e, ascoltandolo dall’esterno, ci sembrerà un tutto e avremo ricostruito quell’unità (che non c’è più).

Il merito maggiore di Durastanti è da ritrovare in quello che il libro non fa. Su tutti, c’è il merito di non assegnare risposte universali: la ricerca personale produce un’analisi personale e sta al lettore trovare i punti di contatto. Nessun moralismo, poche prediche, pochi ammonimenti – anche i consigli sono allusi e passano attraverso il racconto. Si è evitato, ed è importante, un processo di vittimizzazione e/o glorificazione del disabile e della disabilità.

La scelta di una narrazione che procede a pezzi – di puzzle più che di mosaico – si rivela indovinata, perché frammenta la storia – alcuni di questi frammenti, peraltro, sono piuttosto autonomi – e consente una lettura accelerata. La prima sezione è più romanzata, in alcune parti perfino romanticizzata, e ha una certa tendenza a caricare ogni cosa – ogni luogo, soprattutto – di poesia. D’altra parte, è più interessante il rovescio della visione idilliaca dell’America, vista con gli occhi di chi in America ci è nata (dall’interno, appunto). «A me pareva di stare in un posto molto simile al New Jersey», dice Durastanti a proposito della Basilicata. L’avreste mai detto? Ecco, un’altra cosa che non c’è ed è bene che non ci sia: la mistificazione dei luoghi d’appartenenza. Forse perché ce n’è più di uno ed è difficile scegliere. Forse perché maturità significa disillusione e la disillusione demistifica.

Maturità e disillusione, appunto. Cosa significa davvero crescere: farsi più domande o farsi soltanto quelle giuste? «Cosa sarebbe successo a me, se fossi nata altrove?» è forse la prima domanda pesante che si pone la Claudia bambina, dopo aver letto un racconto al tempo delle elementari, e che con ogni probabilità segna un punto di rottura tra una vita e l’altra. Nel corso del libro, Durastanti torna a essere ciò che racconta. È bambina da bambina, ragazza da ragazza, donna da donna, e i rimandi a un tempo secondo – il presente, appunto – finiscono il più delle volte in un inciso. Le sezioni dedicate all’amore costituiscono forse la sola eccezione e sono anche quelle in cui la voce si concede un tono più perentorio («A volte pensiamo che solo la tragedia potrà mondarci da quel che siamo, ma non è vero»). Per il resto, le domande superano le risposte («[…] non so dire se questo sia un atto sublime o degradante», «sappiamo come finiscono le vite?»). Molte le citazioni – forse troppe – di libri o di film che ricreano un certo tempo in un certo spazio.

Lo sforzo di un memoir non è creativo, ma d’impostazione. Quando un autore scrive la propria storia, la conosce ma vuole padroneggiarla (nella sua ricostruzione). Conosce i personaggi che l’hanno arricchita, deve soltanto scegliere quali salvare e a ciascuno assegnare un ruolo. Poi, la prospettiva; in questo caso, la comunicazione. La parola e il linguaggio, l’esattezza della terminologia e le manchevolezze inevitabili della traduzione. Noi e gli altri, ma in questo caso sé e sé (esiste un pensiero univoco nella mente di chi è nato in un posto e ora vive in un altro?).

La scelta di raccontare prima la storia dei genitori e in seguito la propria accentua il parallelismo tra la condizione di mutismo e quella di straniero: entrambi devono comunicare con un ambiente ma non hanno (ancora) i mezzi per poterlo fare. In fondo, niente è universale nel linguaggio dei segni – perfino i colori hanno un significato diverso da cultura a cultura.

Nell’annunciare l’uscita del suo libro, Claudia Durastanti ha specificato che non ha voluto dedicarlo a nessuno in particolare, perché ogni pagina è in qualche modo una dedica a qualcuno. Ognuno di noi è tutte le parole che dice, tutte le azioni che fa. Di conseguenza, è soprattutto le azioni che non ha compiuto, le parole che non ha detto. Siamo in fondo quello che la situazione del momento ci permette di essere. Va da sé che non siamo mai soltanto noi o completamente noi: siamo i posti in cui siamo cresciuti che si mischiano ai posti in cui capitiamo, le persone che abbiamo conosciuto che ritroviamo in quelle che ci sono intorno. Questi distacchi – di tempo e di spazio – fanno la nostra disarmonia col mondo.

Durastanti, con quest’opera che è rientrata nella dozzina finale allo Strega, trova il modo di dire grazie ai luoghi e alle persone, alla vita per le fortune immeritate – come immeritate sono le fortune di tutti: il posto in cui siamo nati, la classe d’appartenenza, i talenti naturali, le ricchezze che abbiamo ereditato – restituisce, attraverso il racconto, dignità alle sconfitte e cerca, con la scrittura, una giustificazione ai propri dolori e un significato alla propria storia.

(Claudia Durastanti, La straniera, La Nave di Teseo, 2019, pp. 258, euro 18, articolo di Giuseppe Del Core)
“Ornamento” di Juan Cárdenas

Una droga che parla di coppia, ragione e natura

Ornamento (Edizioni Sur, 2018) è il primo romanzo di Juan Cárdenas tradotto in Italia. Si tratta di una narrazione in prima persona attraverso il diario di un medico incaricato di registrare le reazioni di quattro pazienti volontarie a cui viene somministrata una droga che ha effetto solo sulle donne. A una prima lettura il libro è disorientante, la sensazione è di essere accompagnati dal protagonista in un mondo distorto senza ricevere troppe spiegazioni. Con una lettura attiva però ci si rende conto che il libro è una sorta di caccia al tesoro, ma cosa stiamo cercando esattamente? Il tema della droga sembra essere più che altro un pretesto accattivante per trattare una serie di argomenti nascosti tra le righe.

Un concetto ricorrente è quello della coppia. Il laboratorio in cui viene sintetizzata la droga è gestito da una coppia di gemelli, a fare la guardia alla struttura c’è una coppia di cani a cui si aggiunge una coppia di scimmie ragno. Il protagonista e la moglie, seppur con un rapporto altalenante, sono una coppia affiatata. Aggiungendo uno strato di significato, è possibile leggere il concetto della coppia come riflesso di un tema più ampio, quello dell’equilibrio o della simmetria. Ogni rapporto a due è “disturbato”, a un certo punto, da un altro elemento. In particolare il rapporto tra il protagonista e la moglie sarà scombussolato dall’introduzione nella coppia della paziente numero 4. Inizialmente l’inserimento di un nuovo elemento sembra ridare vita al rapporto a due, poi però l’equilibrio viene compromesso e la paziente numero 4 pagherà le conseguenze del dissesto.

Cárdenas crea delle simmetrie perfette e inevitabilmente fragili. Qualsiasi ornamento si decida di inserire in un equilibrio armonico porterà all’irrimediabile deteriorarsi dello stesso. Il concetto di coppia disseminato accuratamente tra le pagine, suggerisce una chiave di lettura interessante se lo si applica alla droga. La sostanza può essere considerata come l’elemento che si pone nel rapporto a due tra coscienza e incoscienza. Sebbene la droga sintetizzata in questi laboratori non abbia effetti collaterali evidenti sulle singole consumatrici, provocherà una sorta di psicosi collettiva non appena verrà commercializzata. Si tratta dell’ennesima reazione provocata da un elemento terzo che s’inserisce in un equilibrio anche solo apparente.

Altro tema ricorrente è il rapporto tra razionale e irrazionale. Nei monologhi della paziente numero 4 incontriamo quasi sempre il ricordo di una melodia che parla del conflitto tra ragione e sentimento, fede e ragione, istinto e ragione. Il mondo costruito da Cárdenas è pulito, asettico, ordinato. Un mondo eccessivamente razionale che sembra aver bisogno di un irrazionale, ecco perché la sintetizzazione di questa droga, che però non ha alcun effetto eccessivo: provoca più che altro l’aumento della libido. Anche la droga quindi (l’irrazionale) è stata costruita con una certa razionalità che sembra essere imprescindibile nel mondo costruito da Cárdenas.

A livello più generale, il protagonista compie un percorso di progressivo allontanamento dagli ambienti artificiali del laboratorio per avvicinarsi alla natura ed entrarci in contatto. Questo movimento è reso da una prosa inizialmente disadorna, essenziale, che si arricchisce progressivamente. Lo si nota anche a livello puramente grafico sfogliando il libro. I capitoli iniziali sono brevi, con frasi molto corte, mentre le ultime pagine sono un fiume in piena di parole con poca punteggiatura e nessun a capo. Il diario del protagonista passa dall’essere un mero raccoglitore d’informazioni tecniche a un vero e proprio strumento di espressione della propria intimità, pieno di ornamenti.

 Il libro, quindi, funziona se lo si legge cercando qualcosa, prestando attenzione a ogni riga. A ogni lettura si aggiunge uno strato di significato in una costante caccia all’indizio suggerita già dalla copertina che raffigura una donna che sposta il telo dal quale è ricoperta. O forse si sta nascondendo con questo telo; ed ecco ritornare l’ambivalenza tra due significati che non solo è ricorrente nel testo ma che è anche il sentimento con cui si sfoglia l’ultima pagina del libro.

 

(Juan Cárdenas, Ornamento, trad. di Chiara Muzzi, Edizioni Sur, 2018, pp. 140, euro 15, articolo di Giulia Fuisanto)
Poster del film Il campione su Flanerí

Il ragazzo si farà

Il campione è un film coraggioso sin dal tema di cui sceglie di parlare. Non c’è una grande tradizione di film sportivi in Italia. Di film sul calcio ancora meno. A parte le parentesi comiche degli anni Ottanta, da L’allenatore nel pallone ai vari derivati con Gigi e Andrea e Alvaro Vitali, ci sono state un po’ di commedie anche valide in anni più recenti come Amore, bugie e calcetto e il film corale 4-4-2 Il gioco più bello del mondo, e poco altro.

Ci sono gli interventi d’autore, o con grandi personaggi coinvolti, vedi Il presidente del Borgorosso Football Club con Alberto Sordi, o Ultimo minuto di Pupi Avati, con Ugo Tognazzi. La grande eccezione è rappresentata da L’uomo in più, racconto sugli ultimi, più che sul calcio, che segnò il debutto di Paolo Sorrentino con uno sguardo già chiaro.

Per il suo esordio, Leonardo D’Agostini guarda da una parte e dall’altra. Il campione è una commedia, ma vuole essere anche di più.

Al centro c’è Christian Ferro, giovanissimo talento dell’As Roma tutto genio calcistico e sregolatezza fuori dal campo. Dopo un furto al centro commerciale con gli amici di sempre, il presidente della squadra decide di obbligarlo a studiare per metterlo in riga. Per continuare a giocare dovrà passare un esame a settimana e a fine anno prendere il diploma. Come precettore gli viene affiancato Valerio, un ex professore che non conosce affatto il mondo del calcio e vede in Christian solo un ragazzo viziato. Il rapporto tra i due è difficile all’inizio, ma quando trovano il modo giusto di comunicare diventano amici.

Dietro il primo film di Leonardo D’Agostini, già regista e sceneggiatore per fiction Mediaset, ci sono due dei personaggi più interessanti del nuovo cinema italiano: Matteo Rovere e Sydney Sibilia. I due registi a cui si devono quasi tutti i film più innovativi degli ultimi anni – la trilogia di Smetto quando voglio, Veloce come il ventoeIl primo re– hanno prodotto Il campionecon la loro casa di produzione Groenlandia.

Il supporto di Rovere e Sibilia ha garantito a D’Agostini la libertà di andare oltre i classici confini della commedia nazionale. Il campione ha il coraggio di cercare un linguaggio nuovo, capace di contaminare i generi. Di base siamo di fronte a un doppio racconto di formazione: da una parte il giovane calciatore che trova dei nuovi valori in cui riconoscersi, dall’altra il professore che recupera il se stesso che aveva abbandonato. C’è un po’ di Will Hunting e un po’ di Scialla!, per rimanere negli orizzonti nazionali. La differenza è che il giovane da educare è ricco e viziato.

Christian Ferro è circondato da opportunisti di vario livello, dai suoi amici a suo padre, dalla fidanzata all’agente, e dall’amore quasi violento del suo pubblico. Valerio è l’unico che lo tratta in modo diverso, come una persona.

Il contenuto morale del film mira a rivalutare l’educazione e i valori di un tempo nella società di oggi fatta di apparenza e consumo. È uno spunto interessante e portato bene avanti da D’Agostini, che ha scritto insieme ad Antonella Lattanzi e Giulia Steigerwalt.

Il difetto c’è, perché il dramma è troppo presente nella vita dei due protagonisti, ingombrante ed eccessivo rispetto all’equilibrio del film. È un problema comune al cinema italiano, che qui finisce per appesantire e porta a cercare la soluzione in un finale troppo veloce e troppo consolatorio.

Sono di più i pregi, però. La descrizione del mondo del calcio è realistica, sia quando si parla del giro di affari sia nella rappresentazione del gioco.

Andrea Carpenzano si conferma, dopo Tutto quello che vuoi e La terra dell’abbastanza, il nuovo attore da tenere d’occhio. Accanto a lui, Stefano Accorsi si trova a suo agio nel ruolo del professore lavorando su corde meno conosciute del suo repertorio d’attore.

(Il campione, Leonardo D’Agostini, 2019, commedia, 105’)
copertina di "L'insonnia dello spirito" di Emil Cioran

Le lettere dell’amicizia fra Cioran e Ţuţea

La Bucarest dei primi anni trenta del Novecento rappresenta, dal punto di vista culturale, una fucina di intellettuali e letterati bohémien, la maggior parte dotati di una verve geniale fuori dal comune. Si riunivano al Casa Capşa, ricettacolo di accese discussioni politiche e asilo di sfaccendati con l’inclinazione alla diatriba.

Tutti più o meno giovani e tutti accomunati da un’insofferenza riguardo all’allora attuale situazione socio-politica della Romania, questi individui erano febbrilmente proiettati verso una radicale rigenerazione spirituale del proprio paese, del quale attaccavano ferocemente l’inettitudine a livello storico e soprattutto la quasi costitutiva mediocrità a livello intellettuale.

Da questo humus culturale fiorirà un’amicizia la cui durata, grazie alla sua autenticità e in virtù di una profonda affinità spirituale, sfiderà gli inevitabili eventi storici che seguiranno. Mi riferisco all’amicizia tra Emil Cioran e Petre Ţuţea, due figure di spicco della cosiddetta “Giovane generazione”, riunitasi attorno alla personalità carismatica del professor Nae Ionescu – «aveva un fascino straordinario, un grande seduttore» affermerà molti anni dopo lo stesso Cioran. Entrambi all’epoca simpatizzanti dell’ala di estrema destra rappresentata dalla Guardia di Ferro – un manipolo di fanatici capitanati dal carismatico Corneliu Zelea Codreanu e ispirati alle direttive più estreme del fascismo europeo – si ritroveranno poi, seppur motivati da cause differenti, a rinnegare i loro eccessi di gioventù legati all’esaltazione sciovinista di quel periodo.

In particolare Cioran, successivamente al suo trasferimento in Francia e alla separazione dall’amico nel 1937, giungerà alla maturazione filosofica di uno scetticismo radicale e non esiterà a definire quella fase della sua vita come “patologica”, abiurando in blocco quegli ideali e vergognandosi di aver ceduto al fascino dell’azione dell’individuo nella Storia («come ho potuto essere colui che ero?»).

Per quanto riguarda invece Petre Ţuţea, soprannominato il “Socrate della Romania” per le sue spiccate doti oratorie, a seguito di travagliate vicende personali e politiche che lo porteranno a essere incarcerato dopo la guerra, non si tratterà di una vera e propria abiura bensì di una conversione religiosa. Durante il periodo di detenzione, infatti, egli abbraccerà la fede cristiana: «Ho pensato allora all’esistenza di una forza sopracosmica e trascendente, chiamata Dio. Solo Lui poteva riuscirci, vale a dire, liberarmi dalle catene».

Il dialogo epistolare tra i due intellettuali rumeni, riportato in L’insonnia dello spirito (Mimesis, 2019), abbraccia un periodo temporale che va dal 1936 al 1941 e rivela i tratti di un’amicizia di rara purezza, fondata su di un legame che, nonostante le diverse strade che entrambi presero e la radicale diversità di vedute, permarrà costante nel corso del tempo: «Caro Petre, tu e altre due persone fate parte della categoria di coloro a cui penso ogni giorno – che io lo voglia o no», scrive Cioran nel luglio del 1936, e così Petre, nel 1974: «Caro Emil, ti chiedo di credere alla mia costante amicizia».

Un reale rapporto di amicizia, dunque, la cui autenticità ha per fondamento un sentimento più nobile rispetto a quello dell’amore – «l’amicizia mi lega al mondo molto più di tutti gli istinti» –, poiché risulta immune da penosi compromessi e non necessita, all’occorrenza, di attenzioni forzate, di ridicoli sotterfugi o di bugie, in quanto si nutre altresì di un’onestà reciproca e di un’incondizionata sincerità. Questo termine ricorre spesso nelle lettere di Ţuţea, egli ne fa la parola che sigilla l’immensa stima che nutriva nei riguardi di Cioran, insieme al rammarico per il fatto che lui, Petre, era troppo inetto per praticarla a tutto tondo, dal momento che si trovava invischiato nella sfera politica ed era incapace di rinunciarvi: «Nella mia vita ho pensato e sentito come te. La differenza tra di noi consiste nel mio rifiuto di praticare una sincerità assoluta, perché sarei voluto diventare un politico e gioire della stima della folla stupida», al contrario di Cioran, che con la politica non ebbe niente a che fare e che incarna semmai l’opposto del pensatore engagé.

L’uno scettico radicale, l’altro transfuga in una dimensione mistico-cristiana, Emil e Petre, nel corso degli anni e nonostante la lontananza, nutrirono un profondo e affettuoso interesse verso il destino dell’altro – come inequivocabilmente si avverte dal tono delle lettere.

Entrambi si vedono accomunati dalla nostalgia del passato, quando da giovani poterono godere dell’intima vicinanza in un clima, quello della Bucarest degli anni trenta, in cui si era liberi di dar sfogo alla propria stravagante personalità, dove gli sfaccendati flâneurs del pensiero, i cosiddetti “falliti” – che non facevano nulla, ma a ogni modo erano per Cioran «dotati di un’intelligenza eccezionale» – si incontravano e discutevano al caffè, stringendo amicizie tanto più significative in quanto dettate dal più genuino disimpegno. Fino ad arrivare poi a alla condivisione meno felice, fondata sulla constatazione della propria irriducibile solitudine – «Sono felice di poter essere qui da solo, terribilmente solo» –, dell’inevitabile sofferenza esistenziale e della faticosa «insonnia dello spirito» che tale sofferenza genera.

Dotata di una prefazione che delinea un’esauriente ricostruzione storico-biografica e di un apparato critico di note che per la loro puntualità non lasciano decisamente niente a desiderare, la raccolta epistolare L’insonnia dello spirito, curata da Antonio Di Gennaro, si rivela una preziosa perla all’interno della collana che raccoglie il carteggio delle corrispondenze avute da Cioran nel corso della sua vita.

 

(Emil Cioran, L’insonnia dello spirito, trad. di Ionuț Marius Chelariu, Mimesis, 2019, pp. 90, euro 6, articolo di Daniele De Cristofaro)
Copertina dell’album Fru Fru di Edda su Flanerí

Musica per orecchie sghembe

La follia non si improvvisa, si costruisce nel tempo. Nei due anni che lo separano da Graziosa utopia  Edda decostruisce se stesso – ancora una volta – e rinasce in Fru fru, album disfunzionale che ha come intento dichiarato quello di essere leggero, proprio come l’emblematico wafer scelto a mo’ di immagine per la copertina.

Fru fru è un monologo strampalato, volutamente incomprensibile ma non per questo privo di senso. Edda risulta indecifrabile, non lascia spazio ad alcun appiglio razionale, rimane solo l’istinto di continuare ad ascoltare il suo vortice cosmico. Maschile e femminile si confondono, materia e spirito si sostituiscono l’uno all’altro senza tregua. Cade ogni confine spaziale, crolla ogni barriera dell’animo. In “Ovidio e Orazio” Edda ricorda; in “Samsara” celebra la sua fede al movimento Hare Krishna; in “The soldati” e “Italia gay” ironizza, mentre in “Edda”, canzone di incredibile delicatezza, rivela la fragilità con cui ha affrontato la morte della madre. Inutile cercare un leitmotiv, al suo posto c’è il perdurare di un flusso di coscienza ininterrotto.

Le nove tracce risultano sfuggenti, si aggrappano a sonorità degli anni Sessanta e Settanta; il risultato è confuso, al limite dello sconclusionato ma senza ombra di dubbio onesto. Edda, infatti, non filtra nulla, canta quello che pensa anche e soprattutto quando il pensiero non è finito ma rimbalza senza sosta da un’associazione mentale ad un’altra. La natura sghemba di Fru fru dunque è al tempo stesso espressione artistica del trasformismo di Edda e conferma che, quando si abbandona ogni timore, il cambiamento può essere un processo individuale tangibile.

Fru fru è un album di canzonette piene di grovigli, è un gioco di richiami in cui la vita e le scelte personali di Edda si mischiano con la realtà esterna. Ne deriva un universo privato chiuso e autoriferito in cui il rischio di sentirsi di troppo è alto. Il punto, però, è che Edda non cerca comprensione, cerca se stesso. E lo fa con coraggio.

copertina di "Il buio a luci accese" di Hayden

Il surrealismo malinconico di David Hayden

La città di Pordenone rappresenta un polo culturale defilato ma vivissimo, basti pensare al festival Pordenonelegge e all’opera di scrittori come Gian Mario Villalta, Tullio Avoledo, Massimiliano Santarossa. La casa editrice Safarà ha sede a Pordenone ma lo sguardo ben puntato sul meglio della narrativa internazionale. È grazie all’opera di Safarà che è arrivato in Italia – con colpevole ritardo – un autore considerato un classico della speculative fiction come Alasdair Gray. Ma non è il solo colpo in canna della giovane casa editrice: pescato nuovamente dalla cultura anglofona, David Hayden è uno scrittore dublinese a cavallo fra Irlanda e Stati Uniti, Il buio a luci accese è la sua prima raccolta di racconti. Hayden ha ripreso la lezione dei padri della short story postmoderna – Donald Barthelme, Stanley Elkin, John Barth – e l’ha trasportata in un’atmosfera favolistica europea, creando una miscela di interesse sorprendente.

Proprio Barthelme appare come il nume tutelare dello scrittore: al suo stile si rifà la prosa misurata di Hayden, un incedere di frasi precise che descrivono situazioni surreali, aprendosi nello scarto di una visione inaspettata. Basta leggere l’incipit di “Sortita”, il racconto di apertura, per rendersi conto di trovarsi in un mondo con regole proprie: «Ne è passato di tempo da quando sono saltato giù dal cornicione». Il cortocircuito cognitivo fra tempo e gesto suicida e tempo passato ci spiazza, ed è proprio lì che Hayden allarga lo spazio narrativo, opera nel frangente più surreale per orchestrare una parabola dal sapore onirico. “Sortita” racconta di un uomo che cade infinitamente, passando la sua vita nell’atto liberatorio della discesa.

Ma è solo uno dei molteplici casi messi in scena, nel microcosmo di Hayden prendono la parola personaggi spiantati e sognatori indefessi: un banditore intrattiene un dialogo sul senso della vita con il suo vicino di roulotte, un gruppo di borghesi si gioca dei brutti scherzi durante una cena, un uomo visita la sua casa di infanzia ricordandosi un episodio in ogni stanza. Hayden illumina alcune situazioni sospese nel vuoto senza preoccuparsi di chiarirne i presupposti, permane solo un nocciolo di senso espresso nei gesti surreali dei personaggi, nei dialoghi che dietro l’apparente umorismo nascondono tonnellate di malinconia.

Ci troviamo di fronte a un animale ibrido, uno scrittore con la capacità compositiva di David Means e la fantasia infantile e deliziosa di George Saunders. Se nella forma Hayden è imparentato con la letteratura americana, nell’essenza rimane un europeo, poiché colora l’immaginario favolistico a cui da vita con il folklore della terra di origine, senza rifarsi esplicitamente alle leggende irlandesi, ma prendendo spunto per i profili e le vicende bislacche narrate. L’effetto nel lettore è quello di stare leggendo racconti particolari, tanto spiantati nei temi quanto pregni dal punto di vista del significato.

Racconti che incuriosiscono e suscitano il riso, ma che a fine lettura lasciano un senso di amaro, una malinconia strisciante, ambivalente, come svegliarsi da un sogno confuso senza sapere se fosse o meno un incubo.

C’è in Hayden un distaccato voyeurismo, l’attrazione per l’inconsueto e la meraviglia per le superfici di un mondo in continua mutazione. È lo stesso effetto di vedere giocare tanti bambini una mattina di sole, prima che arrivi un improvviso temporale e i bambini si disperdano, lasciando il cortile vuoto mentre le risate ancora rimbombano. In quell’attimo di sospensione – fra lo spaesamento e il ricordo – opera lo scrittore irlandese, donandoci un album di personaggi vagamente beckettiani sospesi nel nostro presente perenne. È proprio attraverso una visione tanto laterale, per di più sorretta da parole scalene, che l’arte del racconto torna alla lezione del già citato Barthelme, ovvero a essere «una cosa pelosa che ti spezza il cuore». Hayden ce lo ha spezzato ripetutamente, ed è riuscito a farci ridere di questo.

(David Hayden, Il buio a luci accese, trad. di R. Duranti, Safarà, 2019, pp. 200, euro 16, articolo di Giovanni Bitetto)