copertina di Da dove vengo di Joan Didion

Perdere tutto

«La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. Il problema dell’autocommiserazione». È l’inizio dell’opera più famosa di Joan Didion, L’anno del pensiero magico (il Saggiatore, 2008), quel libro che le restituì la fama e il riconoscimento che desiderava da sempre. Non erano bastati i giorni rigorosi dedicati alla scrittura, cercando un’autorevolezza in quell’America lieve e vaporosa, più impegnata a riempirsi il bicchiere che a interrogarsi sul passato. Per diventare l’ultima diva della cultura americana fu necessario, invece, perdere tutto, mostrarsi fragile, diventare pelle e ossa.

In due anni Joan Didion vide morire il marito John Gregory Dunne e la figlia Quintana. Rimase sola, per la prima volta: senza John a correggerle gli articoli, e senza quella bambina, accolta insieme alla certezza di poter soffocare gli errori che sua madre aveva commesso con lei.

Per sopravvivere al dolore occorre lucidità, come ci ha insegnato Agota Kristof; ma anche abituarsi all’idea che nulla ci appartiene, neppure la terra che calpestiamo. Conformarsi al vuoto, ricordarsi di mangiare, di uscire, persino di respirare: la vita di Joan Didion divenne un susseguirsi di piccole azioni riparatrici. Dei rituali, in grado di dissimulare il ricordo di una vita perfetta. La memoria gioca brutti scherzi: e quando si rimane soli, nelle grandi case di New York, il rischio è quello di cominciare a raccontarsi una storia talmente bella da sostituire la realtà.

Il talento di Joan Didion è tutto qui: nella capacità di arrivare al cuore della questione, di servirsi della scrittura per spogliare le cose, scarnirle e mostrarle nel momento esatto in cui precipitano.

Non è una disposizione connaturata, la sua, ma una dote affinata grazie al dolore e a una certa benestante arrendevolezza.

L’ossessiva ricerca di un minimalismo letterario e ontologico comincia in realtà anni prima, con un altro lutto e un altro libro, complesso e di una lucidità degna di Truman Capote: Da dove vengo (il Saggiatore, 2018) è un’opera che sfugge a qualunque definizione: si presenta sotto le mentite spoglie dell’innocenza autobiografica, in cui, però, la dimensione emotiva sembra svanire, per affondare nello storicismo letterario.

È il 2001: John e Quintana sono ancora vivi ma Joan Didion perde sua madre in un caldo pomeriggio di maggio. L’aveva chiamata il giorno precedente da New York e lei, come sempre, aveva riattaccato prima che la conversazione finisse. Un’abitudine irritante, mutuata da quella mentalità pragmatica e schietta tutta californiana, che aveva finito per indurire i tratti caratteriali e somatici delle donne della sua famiglia. Perché se è vero che la terra non appartiene a nessuno, è altrettanto vero che noi apparteniamo implacabilmente ad essa.

Ma cosa accade quando la nostra terra è viziata da una storia bellissima, ma falsa? Cosa accade a noi, alle nostre vite, al nostro passato? È ciò che cerca di spiegare minuziosamente Joan Didion in questo libro analizzando testi letterari, saggi e articoli.

«Non c’è filosofia in California» scriveva Josiah Royce a William James: ad eccezione della mitologia del ritorno, questa terra è avvelenata da un individualismo sanguigno che il racconto ha trasformato in slancio vitale, in conquista legittima.

«La California resta per me ancora impenetrabile, un faticoso enigma, come per molti di noi che veniamo da lì. Ce ne preoccupiamo, la correggiamo, la sottoponiamo a revisione, cerchiamo invano di definire la nostra relazione con lei e la sua relazione con il resto del paese», scrive la Didion, prima di analizzare il romanzo The Octopus di Frank Norris che indaga i legami sotterranei fra la terra e la costruzione della ferrovia. Lo sguardo a sangue freddo nell’anima fragile del suo paese non può fare a meno di soffermarsi sulla cittadina di Lakewood, un tempo paradiso del dopoguerra e trasformatosi negli anni Novanta in luogo di confine tra normalità ed errore. Lei stessa ne raccontò gli episodi di criminalità e gli scandali provinciali in un reportage apparso sul “New Yorker”: «Quando le cose andavano bene e c’erano i soldi da distribuire, queste città smentivano Marx: riuscivano a far crescere il proletariato e insieme a cooptarlo, chiamandolo borghesia».

Sobborghi cresciuti intorno all’area commerciale e al fondamento della socialità virile: il cittadino modello di Lakewood, ci ricorda la Didion, è un uomo bianco, molto giovane, sportivo, che lavora in fabbrica, anzi si identifica con la fabbrica, paga le tasse e mette da parte i soldi per un futuro migliore. Poi però, un giorno, tutto cambia: e quel mondo che sembrava normale, diventa il segno ostensivo di un intero Paese, fragile e impietoso. Era il 1993: Quintana era ancora viva e John le correggeva gli articoli.

 

 

(Joan Didion, L’anno del pensiero magico, il Saggiatore, pp. 200, € 18,00; Joan Didion, Da dove vengo, Il Saggiatore, pp. 252, € 24,00 | Articolo di Elisa Carrara)
Poster di Avengers: Endgame su Flanerí

La fine dei supereroi

Per fare una recensione senza spoiler di Avenger: Endgame, il nuovo, attesissimo, film Marvel destinato a frantumare ogni record di incassi della storia del cinema, bisogna non parlare del film.

Ci sono talmente tante rivelazioni e colpi di scena che ogni riferimento un minimo approfondito alla trama finirebbe per rovinare la visione del pubblico. Parleremo, quindi, soprattutto, del progetto Avengers e di come questo film segni la naturale – e per certi versi ovvia – conclusione di una fase.

Avengers: Endgame parte da dove lo scorso anno era finito Avengers: Infinity War. Dopo lo scontro con Thanos, la popolazione dell’universo è dimezzata. Anche i Vendicatori contano molte perdite. Tony Stark è alla deriva nello spazio insieme a Nebula, Captain America cerca insieme ai supereroi superstiti un modo per farlo tornare a casa e riportare in vita tutte le vittime di Thanos.

È meglio non dire altro della trama. Basterebbe poco per arrivare a rivelazioni indesiderate. Diremo solo che ci saranno dei ritorni, che ci vorrà del tempo per preparare un piano e che non sarà facile.

Con Endgame arriva la fine di un’epoca. Il progetto che la Marvel ha costruito fin dal suo esordio al cinema undici anni fa arriva a una prima conclusione. Non ci sono dubbi: siamo di fronte alla più grande saga cinematografica di tutti i tempi. Non la migliore – che è un giudizio soggettivo – ma sicuramente la più grande – che è invece un dato oggettivo: la più strutturata, la più ragionata in ogni dettaglio. Ognuno dei ventidue film visti fino a questo momento ha avuto la sua funzione. Ha introdotto nuovi personaggi, ha ampliato l’universo narrativo e ha contribuito, anche solo con sequenze di pochi minuti o secondi, alla costruzione di un’unica grande storia.

È uno sforzo produttivo senza precedenti, che ha cambiato le regole del cinema e gli equilibri dei box-office. I film commerciali sono cambiati in modo irreversibile. Esistono solo i franchising, gli universi cinematografici, e tutto è iniziato con il primo Iron Man, undici anni fa.

Avengers: Endgame segna un primo punto e a capo per la Marvel. Per congedarsi dalla sua stessa leggenda, lo studio di Kevin Feige ha deciso di puntare su un film colossale sin dalla durata. 182 minuti. Una cosa mai vista per un cinecomic.

A impressionare è la tenuta narrativa del film, compendio dell’intero progetto Marvel. In Endgame ci sarebbe materiale narrativo potenziale per almeno cinque film. È inevitabile, vista la quantità di protagonisti presenti sullo schermo, ma riuscire a tenere alta l’attenzione del pubblico per tre ore è uno sforzo che merita di essere riconosciuto.

Certo,non è proprio un film perfetto. Avengers: Endgame deve trovare un equilibrio tra tutte le sue varie anime e finisce per essere, paradossalmente, squilibrato. Un po’ commedia, un po’ dramma, molta azione ma altrettanta riflessione, tanti sentimenti, momenti di gloria e grandezza per quasi tutti i personaggi coinvolti, molto politically correct. Troppe anime tutte insieme, troppi fili da tenere uniti a tutti i costi. A risentirne è la trama. Banalizzata nei suoi sviluppi, semplificata nei suoi passaggi cruciali e tutto sommato scontata nelle sue conclusioni.

Non si può, però, fare altro che riconoscere la grandezza di quella che è un’impresa cinematografica senza precedenti. Cosa succederà dopo non si sa. Cosa è successo fino a oggi verrà ricordato a lungo dai film degli Avengers.

(Avengers: Endgame, di Joe e Anthony Russo, 2019, azione, 182’)
Copertina di 1969 di Achille Lauro su Flanerí

1969: la storia indifferente di Achille Lauro

Di Sanremo 2019 rimangono due cose: le polemiche imbevute di razzismo a proposito della presunta italianità di Mahmood, reo di avere un padre egiziano, e l’esposizione al grande pubblico di Achille Lauro. I tatuaggi in faccia che si spostano da Instagram a Rai 1 non sono passati inosservati. Un artista con alle spalle una carriera da trapper che arriva sul palco dell’Ariston con un pezzo rock, “Rolls Royce”, e che in questo aprile esce con il suo quinto album, 1969.

Lauro si è prestato benissimo al ruolo di rock star, aiutato anche da Morgan – da sempre Bowie dipendente –, nel ruolo di personaggio di rottura nei confronti del conformismo imperante del festival che, nonostante i tentativi genuini di Baglioni di andare contro tendenza, continua a vivere di certe soluzioni stucchevoli e retoriche. C’era una contrapposizione implicita tra le facce da bravi ragazzi di  Ultimo e il Volo e quella da criminale dei social di Lauro, diversa anche da quella ripulita di Mahmood. Una soluzione narrativa che ha dato i suoi frutti, quantomeno in termini di share televisivo.

Lauro, con un pezzo che vive di un riff alla chitarra alla “1979” degli Smashing Pumpkins cantata da un ex trapper Vasco Rossi – ma che di fondo si rifà anche a quell’indolenza di un gruppo mancato, il Managment del dolore post-operatorio -, è riuscito a catturare l’attenzione, far discutere, far parlare di sé. L’Italia si era divisa di nuovo in due: una scelta che sapeva di bagarre sportiva: Achille sì, Achille no.

1969, quindi, era atteso con la curiosità di cosa sarebbe stato dell’autore di Ragazzi madre. Cosa avrebbe comportato l’apertura a un nuovo pubblico, la necessità di andare a colpire nuove fette di mercato. Cosa sarebbe stato del passato di uno dei trapper italiani più importanti.

Si avvertiva la pericolosità che viveva dietro queste premesse. Quest’ultimo lavoro è, in definitiva, una creatura amorfa, senza identità. Poche idee e confuse. Pochi spunti. Un’enorme camera in disordine dove viene riprodotto un guaito stonato che canta di macchine e di come sommariamente vanno le cose. Lauro non è riuscito a prendere le sue qualità – il talento e l’esperienza – e a gestire la mole di input che gli hanno ispirato l’album. 1969 è un cut up di musica e parole messe alla rinfusa.

Rolls Royce” è un pezzo che funziona da traino, ma quello che si porta dietro è veramente poco significativo. “C’est la vie”, l’altro singolo, somiglia al brano d’esordio di un concorrente di Amici, “1969” è la versione non rock di Rolls Royce: per il resto, i brani sembrano gli scarti di Auff!! dei già citati Managment a cui ogni tanto è stata aggiunta un po’ di trap.

Quello che era emerso a Sanremo non si concretizza in 1969. La rock star scrive un album soft rock smielato con qualche incursione di aggressività posticcia. Achille Lauro rimane solo quello con i tatuaggi a Sanremo che cantava “Rolls Royce”: l’ascolto di 1969 lascia indifferenti. Tra il prima e il dopo non cambia nulla.

copertina di "Necropolis" di Giordano Tedoldi

Nelle cripte più oscure

Giordano Tedoldi è uno degli autori più interessanti del panorama italiano perché la sua scrittura è un mistero: sfuggente nella forma quanto chiara per immaginario e fascinazioni, riluttante a cristallizzarsi in ragionamenti geometrici quanto fondata su solidi riferimenti filosofici. Tedoldi avanza a tentoni nel suo universo, eppure tiene traccia del cammino già fatto. Un procedere fra i detriti che ha visto l’inchiostro coagularsi nelle forme più disparate: i personaggi irrita(n)ti e disforici di Io odio John Updike, la Roma granguignolesca di I segnalati, il divertissement schizoide Deep Lipsia, le meditazione girardiana in Tabù. Necropolis (Chiarelettere, 2019) si presenta come il testo più immaginifico dell’autore, poiché intessuto sulla distopia – il leitmotiv che percorre ogni capitolo della collana Altrove – e giocato sul progressivo accumulo di elementi fantasmagorici.

In una società futuribile i cui presupposti storici non sono ben specificati, il Maresciallo Yarden visita le sconfinate Necropoli dell’Est e dell’Ovest per ripercorre il suo passato e trovare un giusto luogo di sepoltura. Ad accompagnarlo il nipote adolescente Rama, ideale contraltare “puro” rispetto al cinismo dello zio. Il mondo-necropoli costruito da Tedoldi è un organismo vivo sebbene canceroso; il viaggio di Yarden ricorda la struttura dantesca: l’Inferno della Necropoli Ovest si presenta come un valzer di allucinazioni e voci evocate dall’oltretomba, Yarden si confronta con vecchi compagni d’armi, maestri, familiari, personaggi di spicco che lo vorrebbero come vicino di loculo.

Ne viene fuori una galleria di simboli dell’Occidente in declino, immersi nel reagente di una narrazione grottesca che li fa deflagrare. Alla Necropoli Ovest si succede una zona intermedia in cui il protagonista intrattiene un rapporto amoroso, è il Purgatorio della carne, animato da rimandi freudiani e nietzschiani, un campo narrativo in cui l’autore può rinnovare il repertorio già mostrato in Tabù. Il terzo movimento è quello della Necropoli Est: un Paradiso lanciato in orbita (si tratta di una stazione spaziale), regolato dalla ragione illuministica e dal trionfo della robotica. In essa Yarden sperimenterà la dissociazione fra mente e corpo, la dissoluzione della soggettività umana nella quieta – quanto stolida – architettura razionale della macchina.

Legato a doppio filo con il viaggio di Yarden è quello iniziatico del nipote Rama. La dialettica fra i due è costante, bilaterale; da una parte Rama viene iniziato alla vita adulta attraverso il contatto con il tessuto necrotico della propria società, del passato di guerre che ha forgiato l’ordine della necropoli; dall’altra Yarden trova nel nipote una bussola, una figura idealizzata che preserva ancora le potenzialità positive ormai assenti nel Maresciallo, annegate nel sangue dei suoi turpi atti. Nel viaggio di questo nucleo familiare – come in una moderna Strada – l’uno si compenetrerà all’altro, scoprendo le sfumature dell’animo umano.

Molti sono i temi evocati – mai trattati pedissequamente – da Tedoldi: il rapporto con la memoria, innanzitutto, la frequentazione dei ricordi che diviene riscoperta del rimosso sia personale che collettivo. Poi i destini generali della nostra umanità: non vi è nessun monito millenarista, ma un semplice interrogarsi sulla crepa sociale, economica, emotiva, culturale da cui la razza umana è risucchiata. Nonostante le geometrie distopiche, l’autore guarda, più che al genere, alla letteratura anticlassica. Siamo dalle parti degli sberleffi di Bontempelli e Savinio o del marinismo barocco. Se nei romanzi precedenti la fantasia oscura di Tedoldi era imbrigliata nelle labili strutture del romanzo borghese, in questo caso – grazie al campo d’azione illimitato – l’autore sprofonda nelle visioni più disparate, comunicando al lettore come attraverso una seduta medianica. Non rimane che accedere a stanze proibite, e sdraiarsi sul letto di Procuste della letteratura perturbante.

 

(Giordano Tedoldi, Necropolis, Chiarelettere, 2019, pp. 282, euro 16, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di "Dove finiscono le parole" di Andrea Delogu

Quando il mondo è scritto in una lingua straniera

Ne sono sempre stata convinta. Prima ancora di saperlo. Quello che chiamiamo “mondo” è solo una macchia di pagine, un’occasione di voci e tempeste su cui la vita nevica, come una fitta continua, inseparata dal suo odore e dalla febbre del suo inchiostro. Insomma, io che non ho conosciuto quasi niente che non fosse rinchiuso da un libro, io che non ho mai imparato a pedalare, ma sfreccio su un romanzo senza frenare gli occhi perché su quella pista proprio non posso deragliare, non riesco a immaginare neanche una scheggia d’universo che non sia fatta di parole. Uno scarto di sbadiglio che non ci chieda l’urgenza di essere letto, dato che è lì, appollaiato nel suo imperativo. Per me leggere è un prurito, una tosse convulsa, uno spasmo amoroso che trasuda dai polmoni. Diciamo un atto involontario camuffato da lavoro. Quindi, avvicinarsi al testo di Andrea Delogu è stata certamente un’esperienza un po’ straniante. Siamo in terra di antipodi, nell’emisfero opposto a quello di avvitamenti e fiction in cui sento di giocare in casa.

Dove finiscono le parole (Rai Libri, 2019) è semplicemente la storia non facile della sua autrice. Non si racconta qui per la prima volta. L’ha fatto già nel 2014 con La collina (Fandango Libri), realizzato insieme ad Andrea Cedrola, in cui squaderna la sua infanzia a bordo della bolla di San Patrignano, comunità di recupero per tossicodipendenti. Il suo passato da figlia di figli fragili, frantumati dalla droga e ricomposti dal coraggio, viene esperito e narrato come una rara avventura. Un privilegio d’incontri che le è rimasto addosso.

Questo è un altro angolo della sua stanza. Come esplicita già il sottotitolo, quello della sua dislessia. Quello di una persona per cui leggere è tutto tranne che un istinto.

Andrea è una ragazzina brillante, pronta a cogliere, a discutere, curiosa di fiutare le correnti e le domande che piovono per innaffiare le cose. Ma da subito si accorge che le parole, quelle scritte, impattano su di lei come un pianetoide. Sono un corpo estraneo, roccioso, un incontro oscuro in cui “mamma” si confonde con “mucca”, mentre per il suo migliore amico quei primi istanti di lettura sembrano provenirgli dalla pelle, così naturali, così destinati alla sua bocca. «All’epoca stavo appena cominciando a rendermi conto che qualcosa non funzionava nel mio rapporto con le lettere, perché lui le gestiva benissimo e non mostrava alcuna esitazione, mentre io stavo lì a riflettere, a guardarle, a capovolgerle, ribaltarle, e continuavo a faticare da matti per dar loro un senso».

Andrea inizialmente non si allarma, vuole salvare il suo guscio e si convince solo di conoscere un piccolo prodigio.

Ma la scena a scuola non cambia. Quando si tratta di leggere, il confronto con la pagina si tramuta in una prova a cronometro, una scalata contro una vetta pensata per scivolarci sopra e il giudizio che si forgia su di lei, in classe, in un contesto educativo di fine anni ottanta totalmente impreparato a riconoscere i disturbi dell’apprendimento, è quello di un’alunna svogliata, intorpidita dalla noia, incapace di sintonizzarsi con i ritmi del gruppo, intelligente ma incostante, solo per sua volontà.

E col tempo, con i passaggi di grado, questa percezione non s’inclina. “Dislessia” è ancora un termine alieno, che nessuno pronuncia accanto al suo caso. Andrea si diploma con fatica, schivando ogni anno lo spettro della bocciatura, sorretta dall’appoggio dei suoi compagni di studio che, al contrario di quanto spesso avviene, si attivano per sostenerla senza additarla.

Per fortuna, parallelamente a un mondo codificato per farla sudare e sentire in crisi, esiste un sistema in costante espansione, quello della comunicazione mediale, della tv, da cui fin da piccola impara la sua lingua, e poi quello della Rete, una piattaforma di occasioni sempre nuove, di canali audiovisivi in cui Andrea riesce ad esprimersi senza impigliarsi negli spigoli. Un giorno, un semplice video su YouTube intercettato da sua madre, le permette di appurare che tutti quegli stenti, quei decenni di sconfitte e lentezze davanti a un testo scritto hanno un nome e una diagnosi. E quell’esatto istante scioglie il peso di una rivelazione.

Ora Andrea sa, Andrea può, riesce a ottenere con chiarezza una “lettura” del suo quadro in cui quei segni si accavallavano come ricami di divieti. Ma c’è di più, perché tra provini, contratti e successi, quella radiotelevisiva diventa la sua dimensione professionale, in cui mostrarsi con la scioltezza di altri mezzi. Dove finiscono le parole può cominciare la storia di molti e questo volume, ideato e scritto come una chiacchierata, senza traccia di pretesa o velleità letteraria, offre un’escursione garbata e semiseria in una vita non comune, ma toccata da una condizione più diffusa di quanto si creda. Riconoscere e stimolare i propri figli, i propri studenti, individuare i disagi e non agire da analfabeti di fronte ai loro altri linguaggi, sono questi i bisogni reali, quelli che costano tempo e pazienza, da parte di chi impara e di chi insegna, di chi cresce e di chi ama.

Un libro che si accoda a una scia di titoli importanti, per restituire il senso sempre speciale ed esigente di ciascun bambino e delle sue risorse, come Un pesce sull’albero di Lynda Mullaly Hunt (uovonero, 2016) o Il bambino che disegnava le parole di Francesca Magni (Giunti, 2017).

Un libro bello? Un libro utile a chi ritiene che per lui i libri e i boschi che contengono siano solo un problema. Mentre ancora una volta fanno parte della soluzione.

 

(Andrea Delogu, Dove finiscono le parole, Rai Libri, 2019, pp. 235, euro 17, articolo di Cristiana Saporito)

copertina di Madonna col cappotto di pelliccia di Sabahattin Ali

Feroce è il ricordo più di ogni altra cosa

Ho letto questo romanzo su consiglio di un matematico turco, e anche se a Istanbul erano i giorni di Gezi Park, fra i tanti temi di cui avremmo potuto discutere durante le contestazioni io e lui non facevamo che parlare di cibo: eravamo quindi entrambi impreparati ad affrontare una conversazione che non riguardasse mozzarelle o baklava. Lo scambio fu concitato e rapidissimo. Mi mostrò Kürk Mantolu Madonna di Sabahattin Ali ed esclamò: «Fucking amazing! Leggilo!»

Mi spiegò che Madonna col cappotto di pelliccia (Fazi Editore, 2019), pubblicato quasi in sordina nel 1943, era ormai stabile in cima alle classifiche turche e oggetto di un frenetico passaparola in quel periodo di grande fermento politico. Molto di quell’entusiasmo era probabilmente figlio delle vicende dell’autore, Sabahattin Ali, intellettuale turco arrestato più volte perché critico nei confronti delle politiche di Atatürk, e assassinato nel 1948 durante un tentativo di fuga in circostanze ancora oscure.

Iniziai a intuire il perché di tanta eccitazione. Gli chiesi quindi se fosse un saggio politico. «No», rispose secco, «it’s a love story». Non capii: in quei giorni così convulsi, perché una storia d’amore? Quell’urgenza inspiegabile mi spinse a cercare il libro. Sarebbe arrivato in Italia solo tempo dopo, nel 2015 per le edizioni di Scritturapura e nel 2019 appunto per Fazi, nella traduzione di Barbara La Rosa Salim.

Mi avventurai allora nell’edizione francese scoprendo la storia di un incontro, ad Ankara, negli anni Trenta, tra un giovane uomo fresco di assunzione − voce narrante − e il suo collega Raif Effendi. «Viso onesto», «sguardo un po’ assente», Raif viene descritto come «un uomo mediocre, senza tratti distintivi». Deriso da colleghi e superiori, vive in casa una solitudine non dissimile da quella che sopporta in ufficio. La famiglia, chiassosa e arrogante, pare quasi non conoscerlo.

Ci si chiede, lettore e narratore insieme, con una presunzione senza pudore: cosa vive a fare quest’uomo? Cosa nasconde, se nasconde qualcosa, quest’esistenza senza slanci e senza colore?

Il colore nascosto è il nero, si vedrà, come il taccuino che racconta i giorni berlinesi di Raif, inviato nei primi anni Venti in Germania per specializzarsi nella produzione del sapone. Riservato, di «una timidezza che sapeva d’assurdo», il giovane Raif si muove come ubriaco in un Paese confuso e sfiancato dall’inflazione («“Ecco, questa è l’Europa”, dicevo. “Perché tanto chiasso?”»), finché in una galleria d’arte non inciampa nel malinconico autoritratto di Maria Puder: «Cosa c’era in quel dipinto? […] Una strana espressione, un po’ selvaggia, un po’ altera, uno sguardo potente che non avevo mai notato in nessun’altra». Un critico paragonerà quel dipinto alla Madonna delle Arpie di Andrea del Sarto, perché ritratto di una Vergine diversa, priva di «innocenza esasperata»: la Madonna di del Sarto, come la Maria berlinese con il cappotto di pelliccia, era «una donna che aveva cominciato a disprezzare il mondo».

Prima su tela, poi in carne e ossa nel cabaret dove la incontra, Raif scorge in Maria Puder la meta di un’estenuante ricerca di senso, il motivo del suo vagare. Un incontro che si consuma rapidissimo in lunghe passeggiate, frequenti malintesi, confessioni (Maria, che non riesce a innamorarsi, dice di avere «molti lati maschili» – aggiungendo, «Forse è per questo che sono sola» – e confessa di intravedere in Raif qualcosa «che è tipico delle giovani donne»).

Non saranno felici a lungo, il lettore lo immagina dal primo incontro. Non immagina invece la ferocia del ricordo di quella felicità. Perché il racconto di un amore abbia avuto successo così tardi e in tempi così bizzarri, ancora non si sa. C’è chi suggerisce che, in un paese fortemente polarizzato come la Turchia, Madonna col cappotto di pelliccia sia visto come qualcosa da amare – finalmente – all’unanimità, un classico cui aggrapparsi in acque tempestose.

A noi è arrivata una storia di incomunicabilità, di occasioni e felicità perdute – una vita priva di senso non merita di essere vissuta, sembra proclamare Ali, e non vi è consolazione nemmeno nel succedersi delle stagioni – ma anche il racconto di un amore che libera e completa, in una Berlino che corre verso giorni bui.

 

(Sabahattin Ali, Madonna col cappotto di pelliccia, traduzione di Barbara La Rosa Salim, Fazi Editore, 2019, pp. 210, € 16.00 | Recensione di Fabrizia Conti)
copertina di LP5 su flanerí

Lp5: l’ennesima meraviglia di Apparat

Apparat è tornato. LP5 è tra i suoi lavori più riusciti, stimolanti e complessi. A tre anni dall’ultima collaborazione con i Modeselektor e a sei dal suo ultimo lavoro da solista, The Devil’s Walk – lasciando per un attimo da parte Krieg Und Frieden (Music for Theatre), un lavoro per una trasposizione teatrale di Guerra e Pace commissionata da Sebastian Hartmann –, l’artista tedesco ci ricorda per quale motivo Apparat è Apparat: un musicista che mette al servizio del lavoro meticoloso il proprio talento e che scrive un album iper stratificato che, un po’ alla volta, si mostra nella sua interezza.

LP5 non è infatti facilmente comprensibile. Quantomeno non lo è ai primi ascolti. Ma già lì si intuisce come Apparat abbia mirato in alto. Più in alto rispetto al passato. LP5, nel suo non dare molti punti di riferimento, può risultare eccessivamente etereo: i pezzi tendono a confondersi l’uno nell’altro, in un’enorme nebulosa di synth e beat dove emerge l’altrettanto voce immateriale. La sua digestione e metabolizzazione sono lente e faticose: un pop elettronico che nega a sé stesso la sua propria essenza, che si dilata nel tempo, che ragiona quasi come post-rock declinato al pop.

Confrontando LP5 con il suo passato prossimo, l’impatto con il sottovalutatissimo The Devil’s Walk, che può vantare tra le sue fila elegantissimi capolavori pop come “Song of Los” e “Candil  de La Calle”, risultava molto meno ostico. Apparat scriveva un ottimo disco, ma molto più immediato.

Qui non si accontenta e cerca di costruire qualcosa di più cerebrale, che di volta in volta svela la sua parte più emotiva.

È innegabile che anche in LP5 l’influenza di Thom Yorke sia una costante. Ma la carriera di Apparat è segnata dalla presenza di quello che a tutti gli effetti può essere considerato il suo mentore assieme ad Aphex Twin: senza il leader dei Radiohead, più che i Radiohead stessi, i suoi album non sarebbero mai stati gli stessi – qui, sul finale di “Caronte”, c’è una chitarra che sa di Reckoner portata dentro una Arpeggi riscritta da Apparat.

Ovviamente ci sono anche i Sigur Rós. Apparat ha avuto la felicissima intuizione di saper coniugare gli ambienti sigurosiani all’elettronica, dando un’ulteriore dimensione, un seguito e un significato altro a quel periodo d’oro degli islandesi a cavallo del 2000.

Interessante, invece, è la presenza del quasi coetaneo Bon Iver, una novità. Il suo 22, a Million è sicuramente uno dei punti di riferimento che Apparat aveva ben fisso in mente prima e durante la stesura di LP5. Prima dell’ultimo lavoro del musicista americano, gli universi di Bon Iver e Apparat non erano non così dissimili, ma comunque troppo distanti. Oggi, invece, sono più vicini che mai. “Laminar Flow”, infatti, è l’ultimo Bon Iver, in tutto e per tutto. Le modulazioni vocali, il beat, le pause tra una frase e l’altra. Apparat sa che 22, a Million è una pietra miliare della musica pop degli anni ’10 e la guida per il futuro: cerca quindi di capire se per lui quella sia una strada percorribile e, in questo episodio specifico, lo fa benissimo.

LP5 è l’opera matura di Apparat, un lavoro che necessita di pazienza, ma che poi si rivela come una benedizione. Apparat è quello di cui la musica (che sia elettronica, che sia pop, che sia idm) ha bisogno. È quello di cui ha bisogno l’ascoltatore di questi anni. La sua lettura e interpretazione sono fondamentali e con quest’ultimo album l’artista tedesco si conferma un gigante del ventunesimo secolo.

Copertina di Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola

Il tennis secondo Matteo:
tra saggio, romanzo, diario e almanacco

Ho smesso di seguire il tennis il giorno in cui Gustavo Kuerten ha deciso di appendere la racchetta al chiodo. Ricordo ancora la prima volta in cui lo vidi giocare: Roland Garros 1997. Sulla terra rossa di Parigi, Guga si aggiudicò da numero 66 del mondo – e appena ventunenne – il torneo più prestigioso del circuito al pari di Wimbledon. Credo che a farmi innamorare di Kuerten sia stata la sua flemma, l’aria perennemente rilassata e non molto sveglia, il cesto di capelli biondiccio, da fattone, la propensione alla sfiga e agli infortuni. Se fosse stato un calciatore brasiliano, certamente lo avrei odiato, ma da tennista era tutta un’altra storia, perché all’epoca si iniziava già a stravedere per Federer – Mister Perfezione, il compagno che in classe non ti fa mai copiare – mentre erano da tempo sulla cresta dell’onda l’insulso Sampras, con la sua faccia da commedia sentimentale americana, l’accidioso Tim Henman (detto “Timbledon” per… non aver mai vinto a casa propria?), l’insopportabile Hewitt e Andy Roddick, lui ideale protagonista per un “American Pie”. A salvarsi, soltanto la follia di Safin, Agassi e Ivanišević.

Se non ho mai conosciuto altri fan sfegatati di Kuerten, se il suo addio è passato tutto sommato in sordina, è perché Guga ha rappresentato tutto il contrario della retorica tanto cara agli appassionati di tennis e delle altre discipline, la stessa retorica che ha fatto le fortune dell’ormai onnipresente storytelling legato al mondo sportivo.

In questa retorica, Matteo Codignola sguazza con sapienza tra le storie di Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 2018). Dal baule di foto e aneddoti, volti e ricordi, l’autore riesce a estrarre una manciata di vicende di “tennisti eminenti” – come li chiama lui parafrasando Aubrey – davvero straordinarie. Come ci ricorda il Nostro, la difficoltà, in un’operazione di questo genere, è che «il gioco in sé non si lascia quasi raccontare», perché il tennis «si sottrae alla parole» (pag. 23).

E allora ecco che a innescare la narrazione, che spazia continuamente dalla digressione personale alla storia dello sport, è il ritrovamento in un mercatino di alcuni vecchi scatti che immortalano tennisti del passato nel vivo dell’azione. Si parte, per esempio, da Vic Seixas – sorridente nel suo tartan con racchetta sotto braccio – per passare poi a Van Alen e alla sua riforma del gioco.

In certi casi, i capitoli finiscono per risultare dispersivi, e il passaggio da una vicenda all’altra non sembra beneficiare dell’opportuna fluidità, risentendo, forse, di un gioco d’incastri che l’autore ha dovuto attuare in fase di stesura per far quadrare il proprio progetto di libro.

Con il procedere della lettura, il continuo passaggio di testimone e la sovrabbondanza di materiale finiscono per costringere i ritratti in due categorie di cui la letteratura sportiva ha ormai fatto largo abuso: quella del tennista “genio e sregolatezza” e quella del “maniaco della disciplina”.

A questi, si aggiungono, di tanto in tanto, alcuni scivoloni che non rendono merito a una narrazione complessivamente brillante. Un paio di esempi? Limitiamoci a una divagazione filosofica sul suono della palla (l’odore della carta no?) e a un aneddoto sul perfezionismo della casa editrice Adelphi (nuova questa!):

«Senza suono il tennis non esiste, in questo Torben ha sempre avuto ragione. Come andrà una partita si capisce dai palleggi di riscaldamento, dall’eco dei primi colpi, che cambia ogni giorno, o anche a ogni ora a seconda di un numero fastidiosamente alto di fattori; per capire se una volée sarà veramente corta, angolata, non raggiungibile dall’avversario, non serve guardare, basta il meraviglioso suono grattato delle corde, che si ottiene solo con una certa angolazione del piatto, e solo se quest’ultimo incontra la pallina nella frazione di secondo giusta; chi sia in campo, e come stia andando il match, lo si capisce anche solo avvicinandosi allo stadio, perché il tennis di ogni giocatore ha un suono inconfondibile» (pag. 42).

«Dovendo aspettare di essere ricevuto, passeggiavo avanti e indietro, e a forza di sfiorare la coppia, un brandello di conversazione alla volta ho capito a proposito di cosa uno dei due – quello alto – cercasse di rassicurare più o meno invano l’altro: no, insisteva, a pagina 368 delle Considerazioni di un impolitico – che di pagine ne conta 624 – non c’era assolutamente una riga larga» (pag. 18).

Ciononostante, così come spesso avviene quando si parla di “sport delle origini”, il lawn tennis raccontato da Codignola riporta alla luce episodi affascinanti e una stagione nella quale passione, dilettantismo e imprevisti di vario genere, tramutarono le prime generazioni di atleti in una sottospecie di carrozzone in costante movimento.

Tra le tante storie – memorabile il ritratto di Gottfried von Cramm, l’elegante gentiluomo che si esibì in una metaforica pernacchia a un certo Goebbels – ve ne è una che rimbalza ripetutamente tra i capitoli del libro, e che meriterebbe un romanzo o un saggio a parte. Il tennis, così come lo conosciamo adesso, è stato infatti per lunghi decenni una disciplina dilettantistica.

Paradossalmente, in uno degli sport più aristocratici che siano stati brevettati dall’essere umano, i soldi che circolavano non erano tantissimi, ci si contentava, tutt’al più, di un letto e della possibilità di viaggiare, come testimonia Dick Savitt in un’intervista del 1951: «La tournée in Europa mi è piaciuta molto, ho visto un sacco di posti senza cacciae un soldo. Non guadagniamo nulla, ma siamo spesati di tutto» (pag. 216).

Un’affermazione che probabilmente avrà fatto tenerezza a Jack Kramer, ex tennista e abilissimo impresario, inventore del tennis professionistico, un universo parallelo per instancabili globetrotter, “un piccolo inferno quotidiano” nel quale gli stessi atleti si potevano affrontare anche centinaia di volte nello stesso anno.

«Era un tennis solipsistico, notturno, anche cupo. Narcisistico, ossessionante, e sotto anche demoniaco. Si giocava per e contro se stessi in una galleria di specchi scuri, tentando di spostare il limite sempre più avanti» (pag. 238).

«Per un dilettante diventare professionista non era un processo indolore. Equivaleva a cambiare sport, passando da una stagione che aveva quattro picchi […] a una programmazione che prevedeva solo pause di spostamento; e da una legione di avversari quasi inesistenti per tutti i primi turni a una sola nemesi, fortissima» (pag. 232).

Pancho Gonzales, Tony Trabert, Lew Hoad, Ken Rosewall, Rod Laver. Furono moltissimi i campioni a cedere alle lusinghe più o meno aggressive di Kramer, che inseguiva i migliori del mondo «per i cinque continenti, suonando il campanello a ore indecorose, un contratto estremamente redditizio (per entrambi) in una mano, l’altra a introdurre il suo avvocato, con la copia da restituire firmata nella borsa» (pag. 98).

Ve li immaginereste, oggi, Djokovic e Nadal, accanirsi in una partita della durata di mesi, mentre il resto del circuito è impegnato a Wimbledon per disputarsi la coppa (e il rimborso spese del viaggio)? Forse no, e infatti, nel 1968, proprio Kramer fu uno degli artefici della fusione dei due mondi, dando vita a una versione del tennis più simile a quella dell’era contemporanea.

Questa è soltanto una delle molte – forse troppe – storie chiamate in causa dalle “vite eminenti” di Codignola. Per scoprire il resto, si rimanda alla lettura di quest’opera a cavalcioni tra saggio, romanzo, diario e almanacco.

Completa il libro una bibliografia essenziale nella quale viene finalmente citato Gianni Clerici, il cronista che, insieme all’uomo dei numeri Rino Tommasi, ha saputo raccontare il tennis meglio di chiunque altro in Italia. Per leggerezza, dovizia di particolari e autoironia, questo libro ricorda per certi versi le loro interminabili telecronache da Flushing Meadows o dal Centre Court, divenute ormai leggenda. Raccontare uno sport che sfugge alle parole, dopotutto, non è impresa affatto semplice.

 

(Matteo Codignola, Vite brevi di tennisti eminenti, Adelphi, 2018, pp. 290, euro 22, articolo di Martin Hofer)
copertina di schimmelpfennig in un chiaro gelido mattino

Incontri ravvicinati col selvaggio (che è in noi)

Lupus in fabula. L’espressione qui calza da guaina, restando splendidamente incagliati sul piano letterale. Perché anche in questo caso, come nel più inamidato corredo di fiabe per ragazzi, compare un lupo. Dopo di che, le somiglianze si eclissano e il romanzo del drammaturgo tedesco Roland Schimmelpfennig, In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo (Fazi Editore, 2019, traduzione di Stefano Jorio) non rischia certo di finire affastellato tra bottini e rottami di letture per bambini. E se capitasse, consigliamo vivamente di rimuoverlo dal cumulo.

Questa infatti non è la storia di un lupo. Lui c’è, lui perdura. S’affaccia all’improvviso, gemmando dal freddo polacco, scavalla la frontiera e continua a transitare. Per tutto il tempo. Ma questa non è la sua storia. È molto altro, molto intorno. È la sostanza di ciò che attraversa. È quella degli occhi che l’incontrano; dello sciame scompigliato dei suoi svariati avvistamenti.

Nella linea di demarcazione tra due Stati e come recita il titolo, nel midollo dell’inverno europeo, una bestia si mette in marcia in direzione di Berlino. Di che si tratta? Ma sì, è un lupo. Oppure un cane, pieno di nebbia randagia.  Procede zigzagando. O magari in linea retta? L’evento preoccupa, sconvolge, elettrifica, innesca un vespaio di personaggi tutti pronti a impattare con l’avvento alieno. E tutti hanno una ferita addosso. Sono ammaccati, sanguinanti, malamente ricuciti.

Ecco qualche esempio: due adolescenti fuggiaschi, figli di naufraghi dell’alcol. Lei viene percossa da sua madre, con qualche breve segnale di annuncio, un piatto rotto, un equilibrio sbeccato e poi via con i pugni, che cadono come asteroidi, sul viso, quasi al centro dell’orbita, fino a lasciarla inginocchiata. Lui ha un padre dipendente dal bicchiere, che si accorge di suo figlio nel momento in cui svanisce, esattamente come accade ai giocattoli dei bimbi, che scompaiono un palmo sotto il tavolo e diventano vitali. Diventano vivi. Agnieszka ha vent’anni e si sostenta come può, fa le pulizie per uffici o per gente ricca. Ha un ragazzo polacco come lei, che per lavoro oscilla al di qua e a di là del confine.

Stanno insieme da più tempo di quanto ne ricordino e sono ormai un palazzo vecchio, uno di quelli che Tomasz demolisce per campare. Solo che lui su quelle macerie si è adagiato e le chiama “casa”. Lei no, lei cammina altrove e pesta tutti i cocci. È su di loro che vortica il peso maggiore, su di loro che atterra gran parte dell’interesse. Gli altri personaggi risultano comunque minori e sagomati con poca efficacia.

Intanto il lupo sbuca, come uno spettro della DDR, infilza la foschia, disarma le attese. C’è chi vorrebbe ucciderlo, solo per provarsi che esisteva, chi lo immortala per sfruttare l’accaduto, monetizzarci quanto basta, accedere alla fama. Ognuno estorce all’imprevisto la sua razione di riscossa.

Restando sempre solo. Questo non muta, non c’è apparizione che squarci la condanna di ciascuno. Sono tutte piccole bolle smagliate, in moto perenne dentro un campo corroso, scalcinato, incapace di creare legami, di farsi sistema. E questo non può che suonarci familiare, imparentato con i nostri eterni affanni, con la smania di piacere a chi non conosciamo. Di tracciare traiettorie eclatanti. Non importa quanto verosimili.

E chi ci scorre accanto, lo fa senza toccarci. Preoccupato com’è di irrigare finzioni. I suoi abbaglianti villaggi di vetrine. Il lupo è l’occasione possibile, l’occasione mancata, lambita e schivata da un volo di inetti. Una presenza animalesca, che ricorre spesso in tante opere recenti, dal potente romanzo di Jodi Picoult chiamato (neanche a farlo di proposito) La solitudine del lupo all’avventuroso e ancestrale L’ultimo lupo di Jiang Rong, per non parlare della slavina di saggi eto-filosofici incentrati sulla cifra indomita e selvatica di questo esemplare, tra cui Il lupo e il filosofo di Mark Rowlands (che ormai è quasi un classico) e Duemila giorni con i lupi di Jim e Jamie Dutcher.  Insperato ritorno all’autentico?

Qui di speranza non c’è odore e non c’è impronta. C’è un pulviscolo di esseri stremati. E il lupo passeggia sui loro detriti. Dentro una favola asciutta, minuscola come il suo titolo. Buia e smagrita, come una belva affamata.

 

 

(Roland Schimmelpfennig, In un chiaro, gelido mattino di gennaio all’inizio del ventunesimo secolo, traduzione di Stefano Jorio, Fazi Editore, 2019, pp. 232, € 18.00 | Recensione di Cristiana Saporito)
Copertina di L'esclusa di Luigi Pirandello

“L’esclusa”, gli esclusi

Siamo nell’ultimo decennio dell’Ottocento, quando ormai sono state poste le basi, anche in Italia, di una società di massa che decollerà, nei primi anni del Novecento. Sono anni di grandi cambiamenti socio-politici, del potere della sinistra storica e della nascita del Partito socialista italiano nel 1892. Questi mutamenti influenzano, naturalmente, anche il mondo degli intellettuali del tempo che acquisiscono come termine di riferimento per le proprie opere la nuova realtà economica e sociale. È questo, in parte, lo scenario su cui stagliano tutte le vicende di L’esclusa di Luigi Pirandello.

Scritto nel 1893 e originariamente titolato Marta Ajala, il romanzo d’esordio di Pirandello affronta un percorso lungo quasi un trentennio prima di giungere all’edizione definitiva del 1927.

La vicenda narrata ruota intorno alla figura della giovane Marta: costei è scacciata dal marito, Rocco Pentàgora, con l’accusa di adulterio dovuto a uno scambio epistolare con l’avvocato Gregorio Alvignani. La condanna nei confronti della protagonista è unanime: la comunità intera la giudica colpevole. Marta, nonostante il peso del pubblico diniego e il successivo dissesto economico della sua famiglia, afferma con forza la propria innocenza.

Tutto ciò avviene in un piccolo paese della provincia siciliana. Nell’opera tuttavia vi è un’alternanza di luoghi (paese/Palermo, Palermo/paese) che segue un percorso parabolico pari a quello psicologico di Marta; un viaggio, fisico e introspettivo, che si rivela fallimentare e che potrebbe essere definito un sentiero obbligato anche per altri personaggi, che siano o non siano deuteragonisti. L’acme di questa parabola viene raggiunta a Palermo, da qui, pian piano, si va incontro a una lenta e inesorabile discesa-ritorno sia della protagonista, che di tutta la storia, sino al punto di partenza, lì dove è avvenuto il non-tradimento: il piccolo paese di provincia nel quale viene “ristabilito l’ordine”.

Perché parlare di un testo che ha più d’un secolo di vita? Si tratta di un’opera estremamente attuale. La parabola fallimentare di Marta, nel suo percorso verso l’emancipazione lavorativa e sessuale, in una società, quella della Sicilia di fine Ottocento, fortemente arretrata e patriarcale, le trappole della vita (convenzioni sociali e familiari) e l’incomunicabilità umana, tematiche care a l’autore, sono tutti elementi riscontrabili nella letteratura contemporanea e nella nostra quotidianità.

Presupponendo che debba tutto essere sagacemente contestualizzato, è incontrovertibile il fatto che Pirandello sia stato il capostipite di quella nostra letteratura che ha dato voce alla crisi umana quale conseguenza dell’industrializzazione di fine Ottocento, sviluppando la teoria della frantumazione dell’io, attraverso i suoi personaggi.

Nei suoi scritti, analizza un mondo in cui decade l’idea di una realtà oggettiva, univocamente interpretabile con gli schemi della ragione. Anche oggi, con maggior vigore, si può parlare di relativismo gnoseologico in relazione alla condizione degli individui. Alla crisi dell’io otto-novecentesca si aggiungono nuovi elementi: l’essere perennemente connessi in una rete virtuale, ha, se si vuole, ulteriormente approfondito la cognizione del dolore dell’uomo. Soli, indifesi, costretti, per sopravvivere, all’autoinganno, più che mai gli uomini 2.0 sembrano incapaci di utilizzare la filosofia del lontano, riscontrabile, se pur embrionalmente, già in L’esclusa.

In poche parole l’atarassia consigliata da Pirandello è una chimera o nel peggiore dei casi si è trasformata in un pericoloso individualismo. Tutto ciò è definibile come specchio di una società che si sgretola, individuabile in tanti altri romanzi contemporanei, spaziando in vari ambiti geografici: da Il cardellino di Donna Tartt, a Lionel Asbo di Martin Amis, dalle Correzioni di Jonathan Franzen a Cecità di José Saramago. Il parallelismo tra tutti questi testi, con quello di L’esclusa, con l’obiettivo di cercare di analizzare e interpretare la realtà sociale, non appare forzato, se, come già posto in evidenza, tutto viene esplicato anche storicamente. La società di Marta e la nostra sono mondi in crisi, entrambi in frantumi. E questa è una sorta di prova di come il disfacimento umano sia ciclico.

Forse, solo la riflessività, umoristicamente intesa, può spingere l’uomo oltre il baratro delle crisi ritornanti della sua esistenza.

 

copertina di "sei ricco, coniglio" di John Updike

Per cosa stiamo invecchiando

Ci sono: un uomo, una donna e un ragazzo, poi ancora il traffico, l’odore di benzina, l’inflazione che puoi quasi annusare nell’aria, gli amici, le auto. Ci sono i vivi e i morti, e una vita da attraversare. Dieci anni più tardi, Harry Angstrom è a capo della Springer Motors, una delle due concessionarie Toyota nell’aria di Brewer. È ricco, finalmente, e le cose questa volta sembrano proprio girare per il verso giusto, in barba all’America, che invece è in sfiducia, pare ingarbugliarsi in se stessa mentre spende soldi che è destinata a perdere. Questo maledetto mondo, pensa Coniglio, sta finendo la benzina, «ma a lui non lo fregano». Magari stavolta il mondo finisce e non fa in tempo a sconfiggerlo ancora.

È interessante notare il progressivo cambiamento di sguardo, da parte di Updike, quando si mettono a confronto gli incipit dei tre volumi: nel primo, il decadimento era tutto di Coniglio, e il mondo intanto sembrava fiorire; nel secondo, il declino di Harry si contrappone all’ascesa statunitense, eppure l’occhio dell’autore sceglie di indugiare soprattutto sulle mancanze di quest’ultima, quasi che il declino del suo personaggio fosse il sintomo, se non la profezia, di uno scontento collettivo prossimo a verificarsi; in Sei ricco, Coniglio (Einaudi Stile Libero, 2014) la situazione è ribaltata: l’America – il mondo intero – fatica e Coniglio si arricchisce. Ci sono state sconfitte e cadute, mentre intanto il mondo ballava sulle note del rock ’n’ roll e guardava se stesso dallo spazio, e adesso è il tempo della rivincita. Sembra essere il tempo della rivincita. Ci sono state, soprattutto, le morti: quelle in scena (la piccola Rebecca, la giovanissima Jill) e quelle fuori dal racconto (Fred, Ma’, Pa’). Bisogna essere grati ai nostri morti, pensa Harry. «La grande verità a proposito dei morti è che lasciano spazio.»

Quando Updike scrisse questo romanzo, agli occhi del mondo – e della sua America – egli era già John Updike, scrittore di talento (erano già usciti Il centauro nel ’63 e Coppie nel ’68), affermato – seppure già un po’ osteggiato – e appunto realizzato. Ma soprattutto Updike era un uomo di mezz’età, proprio come il suo protagonista, e il pensiero della morte e della vecchiaia trova enorme spazio tra queste pagine, come inevitabile. Non ci è dato sapere esattamente quanto dell’uomo Updike sia stato riversato in Harry Angstrom, ma l’impressione è che la foggiatura di questo personaggio sia stato per l’autore quasi catartica e forse in parte consolatoria.

Una delle principali grandezze di questo romanzo sta nel fatto che riesce a essere, allo stesso tempo, il più intimo e il più americano della saga. È molto probabile che sia proprio questo il “grande romanzo americano”, se si considerano quegli elementi che molti autori – nel cinema quanto in letteratura – hanno cercato di mettere assieme per disegnare l’America e il suo sogno, le sue contraddizioni e le sue vanità, le paure, le guerre e le speranze di nascita e rinascita.

È un romanzo innegabilmente (anche) politico. È un romanzo “collettivo” – ma non corale – e insieme talmente personale da sfiorare, in certe parti, la forma di un diario con un’estensione narrativa. La morte è presenza fissa, si annusa nell’aria e si annida nel cuore, si intravede fra le rughe della pelle e si annuncia nella fiacchezza del corpo che decade (a breve si arenerà, come mamma Springer alla fine dell’ultima corsa in macchina) e che attende – non può far altro che attendere: ogni ribellione è un atto individuale d’ingenuità – lo smorzare della luce, la decomposizione, il nulla.

È un romanzo (anche) di fantasmi. Ammoniscono, acuiscono, non smettono di morire. Harry evita gli specchi perché non riflettono più un corpo fulgido, ritrae lo sguardo e pensa «eppure la vita è bella», ed è crudele che questa sia soltanto la conquista dell’età matura, che non si arrivi a questa certezza già da giovani. Adesso lo sa, che la vita è bella, il pensiero non si limita a un sentore o a una speranza, e non si capacita che anche i vecchi possano pensare lo stesso.

Il romanzo è intriso di realtà; non di “semplice” realismo: proprio di realtà. Quant’è opprimente e disordinata, e insieme necessaria e imperdibile, la realtà. Occorre avere una particolare accuratezza, e s’intende talento, per inquadrare il disordine del reale – che è il mondo, che siamo noi – senza risultare disordinati. Updike ce lo aveva – e forse nessuno, in questo senso, ne ha mai avuto di più. Il processo di costruzione della scena sembra essere vissuto – o perlomeno visto – più che immaginato, e le moltissime scene che si susseguono sono poi ricondotte a un tessuto connettivo che si compone dell’anima stessa del protagonista.

La “trama” del romanzo si riduce a pochi passaggi – se non altro, a molti meno rispetto ai due che l’hanno preceduto – trovando forza nel suo intrecciarsi alla storia più ampia, che si regge su un grande punto focale (sostanzialmente, semplicemente: la vita di un uomo). Updike giostra magistralmente il ritmo narrativo – lento, compassato – attraverso un ritmo stilistico che è invece frenetico nella sua eleganza e corre o rallenta insieme ai pensieri e alle suggestioni di Coniglio.

Pur consapevoli di quanto spesso si sia fatto abuso del termine, già dal Novecento in poi, non è errato dire che questo è un romanzo molto proustiano, perché contempla il tempo, lo misura, lo teme, lo subisce e lo attraversa. I salotti dei Guermantes equivalgono alle serate dagli Harrison, il caso Dreyfus alla crisi degli ostaggi statunitensi in Iran, e nel mentre le chiacchiere sono simili, solo ribassate al livello medioborghese. Intanto Harry invecchia consapevolmente e Nelson, suo figlio, si fa uomo. Per la prima volta Updike concede a Nelson l’esclusiva di alcune scene e all’improvviso, quasi senza accorgersene, i pensieri del padre si sospendono in favore di quelli del figlio (che a sua volta sta per diventare padre).

I rapporti umani appaiono straordinariamente sinceri prima che credibili – sinceri perché candidamente imperfetti, ingombranti, sbilanciati, meschini. Gli errori sono imperdonabili, e così gli affetti: non ci si perdona un amore che finisce. Ma c’è troppa vita e poco tempo, e allora anche i rancori si sciolgono (Charlie, che è stato l’amante di sua moglie Janice, è forse l’unico amico di Harry), ma si portano addosso insieme agli anni e agli acciacchi. Non è mica vero, che ciò che non uccide fortifica: ogni colpo subìto ci fa più piccoli.

Updike, prima ancora di Coniglio, è consapevole che il tempo della propria generazione è finito – e a giudicare dai suoi toni, è difficile credere che ne sia stato soddisfatto. Cos’è rimasto del benessere degli anni Sessanta, di quell’entusiasmo galoppante, dei viaggi interstellari e del grande sogno di pace e di speranza? Intendiamoci: il disprezzo crescente di Coniglio è innanzitutto corporeo, un rifiuto all’invecchiamento e al disfacimento della bellezza. Ma, insieme ai corpi, anche le idee sembrano essere invecchiate male – e il peggio è che le prossime non sembrano migliori o più efficienti. Invecchiare non ci rende necessariamente più saggi o più buoni, e Updike, che nel frattempo invecchiava lui stesso, lo sapeva bene. Invecchiare, a volte, ci sporca soltanto – e ci deprime, ci consuma, ci spegne mentre noi vorremmo bruciare ancora. Invecchiare ci peggiora, perché peggiora il corpo – e il corpo è l’unica cosa reale che si vede e che si sente, mentre i pensieri, e così le intenzioni, rimangono oscuri agli altri, e di lì la frustrazione del fraintendimento. Contaminato dal tempo, il corpo di Janice sta perdendo la sensualità di una volta, così l’eccitazione è per Coniglio un’altra ricerca che però non ha la forza – psichica e fisica – di affrontare, e accresce la frustrazione. Il sesso perde quasi completamente la sua funzione ricreativa e si fa solo tentativo di afferrabilità del reale. Invecchiare sembra far capire anche quest’altra cosa: che il sesso c’entra poco con l’amore (e allora le coppie si sciolgono per una notte e lo fanno volentieri, nemmeno per gioco ma per esperienza). Harry ha bramato il corpo giovane non ancora trentenne di Cindy, ma è finito con Thelma che è vecchia e ammalata. In quest’episodio risiede la realtà (ri)costruita da Updike, che racconta la storia di Coniglio esattamente per quello che è: la vita di un uomo che vince e che perde.

Non calca la mano, Updike. Non riempie la storia di tragedia – nessuno muore, la vita questa volta ha vinto – ma la compone di dramma umano, che è involontariamente ironico e bellissimo, crudo e insuperabile. Il mondo sta finendo poco a poco, pensa Coniglio, e i giovani si fanno belli come se la festa fosse appena cominciata. Coniglio sa che sta morendo – come Janice, come tutti – e vorrebbe evitarlo, ma stavolta sa che scappare non si può, e allora gli riesce più facile immaginarsi che il mondo muoia insieme a lui. Nelson scappa, invece, ed è l’altra faccia del mondo, quella che Harry ha respinto ma non ha dimenticato. È stanco di essere giovane, mentre papà e mamma sono stanchi di invecchiare – e allora è la vita, sempre, che ci stanca. E a cosa dobbiamo tutta questa stanchezza? Che cos’ha prodotto?

Harry torna dal viaggio. Ha una casa sua, adesso, tutta per lui e per Janice. Nelson è via ma tornerà. Lui lo sa, non si può scappare per sempre. Pru, sua nuora, ha rischiato di perdere la bambina, ma ce l’ha fatta. Questa volta Dio ha avuto clemenza. È così che funziona, non si muore tutti i giorni. Harry la prende in braccio e sa che quel fagottino lo invecchia terribilmente. Non è più Coniglio, astro nascente della pallacanestro. È Harry Angstrom, marito di Janice Springer, nonno di una bambina. Lo culla fra le braccia, quel futuro che non vedrà. Ecco: la vita produce semplicemente la vita. Ma è già abbastanza, è già moltissimo. Sì, Coniglio, ti sbagliavi. Lo sapevi anche tu, che sbagliavi. Il mondo non finirà con noi – ed è a questo che dobbiamo il compito di lasciarlo più bello di come l’abbiamo trovato.

(John Updike, Sei ricco, Coniglio, trad. di S. Bertola,  Einaudi Stile Libero Big, 2014, pp. 600, euro 22)
copertina di Togliatti Boulevard su flanerí

Ancora itpop per Bomba Dischi: l’esordio esausto di Clavdio

Si sa che la primavera galleggia sempre in una bolla malinconica fatta di ricordi, di infanzia e di spensieratezza; e in questa di primavera ci sarà anche CLAVDIO a solleticare la nostra memoria indolenzita. Anticipato dai singoli “Cuore”, “Ricordi” e “Nacchere”, Togliatti Boulevard è la nuova scommessa di Bomba Dischi, l’ormai nota etichetta romana indipendente che continua a credere nel potenziale di questa città.

Le nove tracce che compongono Togliatti Boulevard sono l’esordio di CLAVDIO, ma non di Claudio Rossetti che da oltre dieci anni porta avanti diversi progetti sotto altrettanti nomi – Il Rondine con l’album Può capitare a chiunque ciò che può capitare a qualcuno (La Fame Dischi, 2014) e Blue order project (dal 2006). Basta questo, quindi, per capire che CLAVDIO non ama chiudersi e rinchiudere la propria musica entro i limiti di un unico genere. Non si tratta tuttavia di sperimentazione inquieta quanto piuttosto di curiosità fanciullesca per tutto ciò che è nuovo. Togliatti Boulevard è un album di semplice fruizione che gioca sull’alternanza di synth pop spinto e pezzi nudi che si reggono solo su voce e chitarra.

Esistono dischi organici che devono essere ascoltati per intero altrimenti rimane la sensazione di essersi persi qualcosa; sono dischi in cui ogni singola traccia si rivela elemento imprescindibile per capire il progetto nel suo complesso. Togliatti Boulevard non rientra in questa categoria in quanto si affida anche e troppo a pezzi deboli, quasi forzati, che vengono lasciati indietro da quelli che presentano una potenza emotiva convincente − oltre ai singoli già usciti, “Foto” e “Le tue gambe”. Tralasciando queste sbavature non di poco conto, Togliatti Boulevard ha comunque una sua valenza e riesce a raccontare stralci di un passato che è al tempo stesso collante indelebile e memoria da cui liberarsi. Inoltre, la voce di CLAVDIO non accenna mai alla rassegnazione, al contrario si carica di una profonda ironia con cui gratta via ogni rischio di rimorso. E senza dubbio è questa la cifra stilistica più originale del giovane cantautore romano, nonché l’elemento che gli permette di distaccarsi, almeno in parte, da personaggi come Calcutta e simili.

La ricompensa per chi ama la musica è qualcosa di semplice e intangibile; non è altro che un attimo pieno di lucidità, è il momento in cui ci si accorge di essere incappati in qualcosa che vale la pena ascoltare con attenzione. Togliatti Boulevard è una ricompensa a metà, è un privilegio mozzato che però consente ancora di prendere coscienza della necessità di emozionarsi. Anche se per poco tempo.