Copertina di Sogni e favole di Emanuele Trevi

Un bilancio di una vita attraverso tre grandi maestri e il sogno di Pietro Metastasio

«Sogni, e favole io fingo; e pure in carte mentre favole, e sogni orno e disegno, in lor, folle ch’io son, prendo tal parte, che del mal che mi inventai piango e, mi sdegno». Inizia così, con i versi del grande poeta Pietro Metastasio, Sogni e favole di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie, 2019) un romanzo tra i più interessanti degli ultimi usciti, poiché un ibrido tra un’autobiografia di formazione e il racconto di tre influenti figure della cultura e dell’arte del Novecento.

L’ambientazione è quella della città dell’autore, una Roma fastosa e imponente e al contempo povera e popolare, set ideale per le contrapposizioni che dominano il romanzo: passato e presente, vecchio e nuovo, reale e immaginato.

Il “movimento” della narrazione passa attraverso le tre figure rievocate e scelte come maestri nella formazione della vita di scrittore di Trevi: il fotografo americano Arturo Patten, di cui è stato riconosciuto il talento sia in vita che dopo la morte, nel ’99; il critico Cesare Garboli, sicuramente la figura più complessa delle tre; la poetessa Amelia Rosselli, definita da molti la più grande personalità letteraria del secondo Novecento.

La storia si apre proprio con l’incontro con Patten: un Trevi diciottenne, lavora in un cineclub della capitale e dopo la programmazione di Stalker di Tarkovskij, si imbatte in Patten, che è seduto nell’ultima fila e indugia alla fine dello spettacolo, con le lacrime agli occhi. Riemersi dall’atmosfera ovattata del cineclub, Trevi e Patten, passeggiano, costeggiando la mole scura di Castel Sant’Angelo e danno inizio «a una corrente istantanea di intimità e attenzione». Si tratta di una passeggiata che diviene il nucleo della narrazione, il movimento della vita degli artisti che tra quelle vie di Roma sono realmente vissuti e le evocazioni, i sogni, la creatività che vi hanno lasciato, come preziosa eredità. A fare da filo conduttore i versi del poeta Metastasio.

Nel romanzo, scritto con una prosa curata e precisa, ma anche fluida, rapida, il tema dell’eredità del mestiere di intellettuale e di maestro, ricompare a ogni passo, conquistando anche il lettore più distratto. «Ogni finzione efficace tende a riprodurre un credibile surrogato di realtà, a far dimenticare le sue origini equivoche, fantastiche, a mimetizzarsi tra le cose-come-sono», spiega così l’autore, dipanando il filo tra sogno e reale, appunto, il senso della finzione nella vita e nell’arte, nella poesia del poeta Metastasio, che aleggia per tutto il romanzo. La sua poesia «andrebbe imparata a memoria e custodita nella mente come un’efficace formula di scongiuro, una sintesi magica della vita». In realtà, dei tre maestri scelti, viene messo in evidenza non solo il loro lato creativo e straordinario, ma soprattutto la consapevolezza che ciascuno di loro aveva dei propri limiti. E il conoscersi davvero, come personalità autentiche, senza finzioni, calate nel loro ruolo perché scelto e portato avanti sino alla morte, tra luci e ombre, sogni e favole.

In un perfetto doppio registro tra il sé e gli altri, Trevi, tesse il filo della connessione tra i grandi maestri – e il grande poeta – di cui ci parla e il suo punto di vista, che diventa un po’ il nostro, percorrendo le vie di una Roma ispiratrice. Cesare Garboli è il critico e certamente la critica è un’arte, ma ricorda Trevi, era anche un potere mondano, losco e grandioso, che si esercitava in un modo che Balzac aveva spiegato nelle Illusioni Perdute. La vita umana e quindi non solo quella dei defunti va decifrata – poiché non sempre la vita è evidente nelle sue intenzioni – ed è questo il terreno di caccia del critico. Trevi spiega che per chi oggi ha venti o trent’anni è difficile immaginare quanto fosse sconnessa, alla fine del Novecento, l’esistenza umana. Era per esempio normalissimo assentarsi e non dare notizie di sé, per giorni e giorni, settimane: ci si doveva pensare e immaginare con maggiore forza e pazienza, come un sogno che in parte è sempre reale.

«E poi, comunque vada, è pur vero che del tempo che ci è concesso noi facciamo un solo uso: lo perdiamo, non sappiamo fare altro che perderlo, e tutto il lavoro della nostra coscienza, con i suoi ricordi e le sue falsificazioni, è una minuziosa e disperata ricerca del tempo perso, e se qualcuno ci trasmette qualcosa prima di andarsene, non siamo venuti al mondo per sciogliere gli enigmi, ma per conservarli intatti e trasmetterli a nostra volta ancora più incomprensibili di quando li abbiamo ricevuti».

Gli artisti di cui ci parla l’autore si nutrivano della coltivazione dei sogni e delle vocazioni: così, seguendo degli aneddoti veri, riportati con fedele ricostruzione storica, emerge un tempo magico che puntava sull’arte e sulla cultura come una religione, come il senso del trattenere le cose che scorrono.

Trevi è bravissimo però a non cadere nel cliché della nostalgia a tutti i costi: la riflessione saggistica e il pathos narrativo e personale, diventano più che altro ottimi spunti di riflessione. E ci ricorda che «qualunque cosa si guardi con un grado adeguato di intensità, diventa letteralmente sovrannaturale, inizia a vivere di una vita propria e imprevedibile».

(Emanuele Trevi, Sogni e favole, Ponte alle Grazie, 2019, p. 224, euro 16, articolo di Antonella De Biasi)
copertina di fratelli di carmelo samona

Le domande della malattia

«Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato. Nessun altro abita con noi, e le visite si fanno rare. Ultimi rimasti di una famiglia che fu numerosa al tempo della mia giovinezza, ci muoviamo, ora, in una complicata gerarchia di silenzi».

Ormai più di quarant’anni fa, uno degli ispanisti più lucidi del secolo scorso, a cinquantuno anni, si converte alla narrativa e pubblica, anche grazie al sostegno di una piccola cerchia di affetti (tra cui soprattutto Natalia Ginzburg), un brevissimo romanzo: Fratelli (Einaudi, 1978; Sellerio, 2008). Oggi, purtroppo, questa storia non si conosce abbastanza e quello di Samonà è un nome sostanzialmente dimenticato.

Il primo dei suoi tre romanzi, a cui seguiranno poche altre prose, è molto breve e conta appena un centinaio di pagine. Se l’interesse fosse banalmente contenutistico, si potrebbe presentare questo libro in una frase: Fratelli racconta la vita quotidiana di un uomo e di suo fratello, malato di mente. Non è così. Per capire la qualità di questo romanzo, non è possibile accontentarsi della sua quarta di copertina.

Vale la pena riscoprirlo, perché le sue ambiguità strutturali, la grande cura stilistica, l’uso così calibrato del punto e virgola, il punto di vista inedito del narratore su un tema difficile come la malattia mentale, la riflessione sulla natura conoscitiva della letteratura e molto altro consentono senza problemi di annoverarlo tra i grandi romanzi degli ultimi quarant’anni, forse perfino del secondo Novecento. O ancora: l’assenza di una soggettività salda e strutturata, l’importanza del corpo come linguaggio, la serialità rituale delle azioni, la loro rarefazione, il disorientamento temporale che permea dall’inizio tutta la narrazione, la fallacia della memoria dell’io narrante e la precarietà dei suoi ricordi.

Sono legittimi alcuni dubbi sulla reciprocità della ricerca dei protagonisti e più generalmente sul loro rapporto. Il lettore conosce il fratello solamente dal punto di vista di un narratore che usa la parola e attraverso essa commenta i luoghi in cui la lingua non arriva (i silenzi, il corpo e quindi i movimenti, le azioni). La malattia, secondo Samonà stesso un «oggetto invisibile», traccia una linea di confine che il narratore, appurato il fallimento della lingua, difficilmente sa varcare. Nonostante ciò che hanno scritto alcuni commentatori, il tema del romanzo non è il doppio, perché senza il personaggio del fratello malato va da sé che tutta questa storia non avrebbe senso.

Fratelli sarebbe un monologo dell’io e non un incontro con l’alterità. Volponi, Malerba e Sanguineti si erano serviti di strategie narrative e artifici retorici per fingere che a parlare fosse la follia; Samonà, al contrario, sceglie di raccontare la sua storia dalla prospettiva razionale di un narratore che si crede sano e rifiuta di indovinare cosa prova chi soffre di un disturbo psichico. Ecco lo scarto fondamentale che compie rispetto alla narrativa italiana che lo precede: la malattia mentale, la follia, non comunicano più attraverso un linguaggio fintamente folle, o malato, inventato di sana pianta da uno scrittore che si diverte a immaginarsi un po’ pazzo. Scrivendo Fratelli, Samonà offre un’alternativa più rispettosa a chi vuole una trasfigurazione letteraria del rapporto tra la sanità e la malattia senza cedere alla tentazione in cui cadono coloro che, strumentando questa dialettica, creano artificiosamente un linguaggio visionario e allucinato, sperimentale da un punto di vista stilistico e lessicale, per raccontare il mondo dei sani.

Samonà non vuole lavorare a un’immagine della malattia. La grande originalità del suo romanzo dipende soprattutto da questo radicale cambio di paradigma conoscitivo. Fratelli è la storia di un rapporto umano, di coppia. Questa prospettiva inedita per raccontare la malattia è solamente una delle ragioni per riscoprirlo: un altro discorso meriterebbe il tema dell’alterità, perché pochi scrittori prima di Samonà hanno saputo interrogare il lettore così a fondo sull’importanza dell’altro per l’esistenza del sé.

Perché leggere Fratelli oggi? Una domanda che ha più risposte. Una tra le tante possibili è dello stesso Samonà, intervistato da Sira Testi a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del romanzo:

«Dal suo libro – domanda la Testi – mi pare emerga un grande insegnamento; l’amore è ancora lo strumento necessario ad appianare le difficoltà apparentemente insanabili che tormentano la vita e le relazioni dell’uomo moderno. Le sembra giusta questa chiave di lettura?»

«Sì, se per amore intende la tensione misteriosa e la volontà di conoscenza che ci spinge verso gli altri, e non dà alla parola – che è vecchia quanto il mondo ed è piena di significati diversi – un’accezione patetica o solo genericamente affettiva. Ma mi domando: è così importante il parere dell’autore in casi come questi? Io credo che siano i lettori, a cominciare da lei stessa, che danno autorità e consistenza a una chiave interpretativa. Il resto lo dirà, ovviamente, il tempo».

Quarant’anni sono sufficienti, non è ancora troppo tardi. Ora, come suggerisce lo scrittore, sta a noi la responsabilità di ricordarlo.

Quasi assente dalle librerie, ignorato da quasi tutti i manuali e dalle antologie, amato oggi da una piccola nicchia di intenditori, come potrebbe, Fratelli, ottenere il riconoscimento che gli spetterebbe? A un appassionato di Calvino o di Manganelli, di Del Giudice o di Lodoli, insomma dei narratori che nonostante il nuovo orizzonte esistenziale della letteratura seppero rinnovarsi, mantenendo allo stesso tempo una certa aderenza a una tradizione più umanistica secondo cui scrivere ha anche una valenza alta e conoscitiva, l’esordio narrativo di Samonà potrebbe senz’altro piacere. Conoscerlo significa anche porsi delle domande profonde sul presente e insieme rinunciare alla pretesa di trovarvi una risposta.

È possibile leggerlo interrogandosi sulle relazioni umane, sulla vita domestica di una malattia. rileggerlo ancora, più volte, per accorgersi che da questo esile libricino nascerà ogni volta un nuovo spunto di riflessione. Le qualità di questo romanzo naturalmente sussistono a prescindere dalla sua modernità. Siccome anche a distanza di anni sa ancora comunicare così tanto, non bisogna compiere l’errore di lasciarselo scappare.

(Carmelo Samonà, Fratelli, Einaudi, 1978; Sellerio 2008 | Recensione di Federico Musardo)
copertina di Il re ne comanda una di Mattioni

Madama Doré

Dopo più di mezzo secolo dalla prima edizione di Adelphi, la casa editrice romana Cliquot ha ridato alle stampe – e bene ha fatto – Il re ne comanda una (2019) dello scrittore triestino Stelio Mattioni (1921-1997), scoperto e molto apprezzato da un altro grande triestino, il critico letterario e consulente editoriale Bobi Bazlen. Il romanzo era fra i cinque finalisti del Premio Campiello nel 1969, vinto poi da L’airone di Giorgio Bassani.

«Uno scrittore che mi pare del tutto eccezionale. Non somiglia a nessuno, ha un mondo fantastico proprio e di grande forza, ed è misterioso sul serio, senza nessuna compiacenza fumistica» scriveva di lui Italo Calvino a Elio Vittorini, e questo romanzo ne è testimone con la sua trama che sconfina nel surreale, con protagonisti improbabili che però vestono caratteristiche comuni e verosimili, con la sua ambientazione collocata con tanto di indirizzo al centro storico di Trieste, ma allo stesso tempo avulsa dalla realtà e atemporale. Una pièce teatrale, una favola pirandelliana precisa nei dettagli, vivida e inquietante.

Una giovane donna semianalfabeta, oppressa dal matrimonio con un ubriacone e dai debiti che questi ha contratto, si presenta con le sue due figlie alla porta del creditore di suo marito in cerca di una nuova vita che non può che cominciare con il riscatto dei debiti. La casa del creditore si rivela un microcosmo autonomo e completamente isolato dal mondo, comandato da Lui, il creditore.

Ognuno ha un ruolo in quel mondo a parte che comprende un laboratorio che produce qualcosa di misterioso, un giardino che si rivela una giungla, e un harem che Lui domina con complesse regole erotiche. La figlia più piccola sarà presto risucchiata dal padre che assedia, ubriaco, la casa, per riprendersi le sue donne. La figlia più grande, accomodante e lasciva, si inserisce invece nell’ingranaggio, mentre la madre combatte per ricavarsi un ruolo dignitoso, ma soccombe, e anche quando le si offre la libertà sceglie il mondo chiuso.

Il Sessantotto era anche ribellione femminista e Mattioni si rivela un attento osservatore della condizione femminile. Tina, la protagonista, è priva di mezzi economici ed intellettivi, è anche sola, abbandonata a se stessa. Ciononostante vuole provvedere alle due figlie e cavarsela. La sua fuga è un grido disperato, un atto cieco, e difatti finisce di nuovo in una condizione di sudditanza che non sa più abbandonare. Scopre però la sessualità: dopo quindici anni di matrimonio prova per la prima volta il piacere erotico e sarà questo a trovarle un posto nella gerarchia del microcosmo di Lui. Un mondo alienante e alienato, dove in fondo anche il ribelle tollerato è allineato, dove tutti sono infelici, eppure saggiamente accondiscendenti nei confronti del proprio destino. Perché secondo Mattioni combattere contro la sorte è invano.

I personaggi impensabili e la trama imprevedibile non sarebbero comunque sufficienti per spiegare l’effetto magico che questa lettura esercita sul lettore. La lingua colta, densa e precisa, le scelte lessicali a volte sorprendenti concorrono in misura determinante alla seduzione di quest’opera.  «Mattioni scrive divinamente. La sua lingua è schietta, come quella di un thriller di oggi, ma non troverete una parola fuori posto, una metafora poco efficace, un dialogo noioso, non troverete nemmeno un passaggio confuso» dice Alcide Pierantozzi nella prefazione.

Per descrivere Mattioni molti ricorrono alla definizione “kafkiana”. Claudio Magris, uno dei massimi esperti di letteratura triestina, precisa: «Mattioni è stato spesso definito – anche da me – “kafkiano”, ma la sua surrealtà ha poco a che vedere con Kafka e si inserisce piuttosto in quella tradizione fantastica, puntigliosamente descrittiva e sottolineata di Kubin e di altri, inclini – a differenza di Kafka – a spiegare la realtà oscura piuttosto che a farla vivere nella sua nuda oggettività».

 

(Stelio Mattioni, Il re ne comanda una, Prefazione di Alcide Pierantozzi, Cliquot, 2019, pp. 248, € 18,00 | Recensione di Andrea Rényi)
Poster del film Noi su Flanerí

La paura allo specchio

Jordan Peele è diventato, con solo due film, un regista di culto con uno dei generi più vituperati e triti della cinematografia, l’horror. Scappa – Get Out, la sua opera prima del 2017, e Noi, nelle sale dal 4 aprile, si sono imposti come instant classic. Qualche anno fa se dicevi Peele, dicevi anche Key. Anzi, tipicamente dicevi Key & Peele, il duo comico americano, conosciuto anche dai frequentatori italiani di YouTube, che ha sfornato centinaia di sketch, principalmente su Comedy Central. Andate a (ri)vederli, quando potete, perché c’è tanto tessuto sociale degli Stati Uniti, tante piccole fondamenta per i lungometraggi futuri di uno dei due. Come gli artisti veri, Key & Peele usano la risata per fini a più ampio orizzonte.

Il passaggio alla regia ha permesso a Peele di ampliare i suoi orizzonti e di riportare sulla bocca di tutti la categoria social thriller. Ecco, più che l’horror, il genere che il regista Jordan Peele sta utilizzando e allo stesso tempo ridefinendo.

Noi si apre nel 1986, nell’iconico luna park sul lungomare di Santa Cruz, in California, dove la protagonista bambina entra quasi inavvertitamente nella casa degli specchi e viene traumatizzata dalla visione di una sua copia gemella. Trent’anni dopo, quella stessa bambina è una madre (Lupita Nyong’o) che va in villeggiatura con marito e figli proprio a Santa Cruz. Una notte un’intera famiglia di loro doppi in tuta rossa, guanti di pelle e forbici d’oro si palesa mano nella mano sul vialetto di casa. Dopo poco i quattro doppelgänger fanno inevitabilmente irruzione, dando il via a un confronto dove i significati metaforici hanno il merito di elevare la godibilità di una pellicola in cui il livello di tensione è costante, stemperato solo dal personaggio del padre (Winston Duke).

La prima parte di Noi, quella in cui conosciamo la famiglia di sosia sinistri, riprende tutti gli stilemi del sottogenere home invasion; più avanti gli ambienti si aprono, noi capiamo (un po’) di più quello che sta succedendo, ma non si perdono alcuni cliché del cinema horror (su tutti: i protagonisti devono essere così gustosi da uccidere che prima di sferrare il colpo mortale si assapora il momento e poi il momento e poi il momento…; con gli altri personaggi si sbriga la pratica e via).

Il secondo film di Jordan Peele è stato prodotto con un budget molto maggiore rispetto a Scappa – Get Out, e si vede. Scenografia elegante, ricco nella sua ombrosità e con una colonna sonora varia e non banale, indice dell’orecchio fino del regista. È soprattutto l’interpretazione di Lupita Nyong’o a dare la spinta film. Il suo doppio ruolo gioca con luci e ombre psicologiche ma anche fisiche, con una pelle e degli occhi che potrebbero essere candidati sin d’ora per la fotografia ai prossimi Oscar. La voce della sua alter ego (degna di un video ASMR) è il rantolo pacato di chi cerca di spiegare Nietzsche dopo aver ricevuto una punizione di Roberto Carlos in pieno stomaco. Terrificante, bravissima.

Noi si apre a più chiavi di lettura, non solo a quella più evidente della lotta ai propri demoni interiori. È la versione in tuta rossa di Nyong’o che risponde serafica alla domanda su chi siano: «Siamo americani» a farci capire che ancora una volta Peele sta parlando anche del suo paese ( e del resto il titolo originale è Us, e US è la sigla degli United States). Prima dell’uscita del film Peele ha provato a mantenere un profilo basso, parlando della sua opera come di un semplice film dell’orrore, ma l’asticella posta da Get Out era lì per essere saltata.

Si impegna per saltarla, Peele, quell’asticella, e non possiamo fare a meno di notarlo; i simboli, i riferimenti e i livelli di interpretazione sono tanti, forse troppi e forse scolastici, e c’è il rischio che lo spettatore analizzi le scene con l’abaco in mano e si perda il piacere della visione. Noi ha un respiro sociale, parla degli ultimi (di lotta di classe e ipocrisia borghese?), ma è anche, soprattutto, un grandissimo film di genere.

Peele ha dichiarato che i protagonisti dei suoi film continueranno a essere afroamericani. Nessun pregiudizio, ma i film coi bianchi sono roba già vista, ha detto. Ha delle idee, questo regista, ed è solo all’inizio. Continueremo a tenerlo d’occhio e pare proprio che non saremo i soli.

 

(Noi di Jordan Peele, horror/thriller, 2019, 116’)

copertina di Un giorno verrà di Giulia Caminito

Di fede, amore e speranza

L’utopia, nel suo essere irraggiungibile, ha in sé una sua specifica forza, un’energia propulsiva di movimento che oggi molti scrittori percepiscono tristemente spenta nel dibattito nazionale. Tra loro c’è anche Giulia Caminito, nelle grandi utopie che hanno scritto e riscattato la storia d’Italia, cerca ispirazione per i suoi libri lanciando indirettamente un messaggio anche alla società.
Guardare per credere la copertina del suo ultimo libro, Un giorno verrà (Bompiani, 2019), unica nel suo genere nell’attuale panorama letterario.
«Non l’ho scelta io, ma quando l’ufficio grafico di Bompiani me l’ha proposta mi è piaciuta subito. È la pagina di un quotidiano di inizio Novecento e già a prima vista racconta di un mondo passato capace di grandi passioni, di genti orgogliose di innalzare la bandiera e di lottare per i propri ideali e la propria fede. Mi è sembrata un’efficace rappresentazione dell’intero progetto».

 

Di fede, speranza e amore, non è solo un riferimento al sottotitolo del libro ma è la sostanza di cui è intessuto l’intero romanzo, ben ancorato alla storia e al territorio in cui si svolgono le vicende di cui scrivi. Da dove viene l’idea da cui sei partita?

Anche in questo caso, come è stato per La Grande A, il nocciolo iniziale viene da una storia familiare. Il bisnonno di mia madre era un anarchico anticlericale vissuto proprio a Serra de’ Conti, un bellissimo borgo marchigiano nell’entroterra di Senigallia. Ho visitato la zona, raccolto materiali a Serra e all’archivio anarchico di Fano. Il movimento anarchico, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni venti qui aveva accesi sostenitori: ho immaginato che il capostipite della famiglia Ceresa, Giuseppe, fosse un anarchico della prima generazione, uno di quelli che ha passato la gran parte della vita in carcere. E che fosse stato lui a contagiare i nipoti: Nella, una ragazza ribelle che viene costretta dal padre al convento, e Lupo, il più forte e determinato della famiglia, l’unico che diventerà un anarchico.

 

Hai un chiaro talento nel fondere insieme vicende storiche realmente accadute e trame narrative che nascono e si nutrono del verosimile. L’abbiamo già visto con il tuo primo romanzo, che ti è valso il premio Bagutta per l’opera prima, il premio Giuseppe Berto e il Brancati giovani. Questa volta hai scelto un periodo storico molto lontano e che è anche poco studiato…

È vero, ma proprio per questo trovo che sia un periodo che andrebbe riscoperto. E io ho cercato di raccontarlo. I protagonisti, infatti, incrociano nel loro percorso tutti i grandi avvenimenti di inizio Novecento: la Settimana rossa, la Grande guerra, l’epidemia di Spagnola; sullo sfondo, lo scontro tra socialismo e anarchia, la conversione di Mussolini. In tutto questo un anarchico come Lupo vive delle sconfitte continue: dopo ogni rivolta arrivano poche conquiste e tante rese. È così anche dopo la Settimana rossa, l’Italia non si trasforma in Repubblica grazie a quella ribellione, anzi, la repressione contro gli anarchici si fa più aspra, gli spazi per la lotta ridotti. Eppure Lupo non perde il suo credo politico.

 

Lupo è un personaggio magnetico dall’inizio alla fine, e lo è proprio perché in lui arde forte la fede anarchica. Ma nel romanzo tu proponi al lettore anche un’altra fede, quella religiosa, senza però contrapporle mai. Perché?

Perché non si possono raccontare quegli anni a Serra de’ Conti tralasciando il fatto che proprio lì c’era un convento di clausura guidato da una badessa, la Moretta, dalla fede bollente che, senza uscire mai dalle mura del convento, riuscì ad aiutare la gente del borgo con generosità e impegno. In Un giorno verrà riprendo la storia realmente accaduta e documentata di questa grande donna, la cui statua è tutt’oggi visibile nel museo in cui il convento è stato trasformato. Era una donna nera, rapita nel suo paese in Africa, e venduta come schiava all’età di otto anni. Riscattata da un prete, arrivò in Italia dopo un lungo viaggio in mare agli inizi dell’Ottocento e finì in convento. Qui fu prima una ribelle dispettosa. Poi, invece, si innamorò di Dio e nel suo nome divenne fortissima. Quel che mi ha colpito di questa donna è che ha vissuto l’intera esistenza chiusa dietro un muro, eppure da lì è riuscita a esercitare un potere deciso e, pur sottostando alle gerarchie ecclesiastiche, è rimasta nella Storia alimentando e trasformando la vita della comunità con la sua fede. Misticismo e anarchia hanno molto in comune e i conventi furono luoghi in cui vennero messe in pratica in piccolo molte dinamiche auspicate dall’anarchia per la riorganizzazione sociale».

 

 

Lupo e Clara, la badessa, hanno un loro fuoco che li muove e li illumina. Gli altri personaggi di Un giorno verrà invece subiscono delle imposizioni. Vuoi dire che chi è protagonista della sua vita è l’uomo o la donna che si concede una grande passione, una fede?

In parte è proprio così. Nella famiglia Ceresa, Luigi, il capofamiglia, è un uomo pavido, opportunista e anafettivo, incapace di amare i propri figli. Un uomo che si cura solo dei propri interessi e sarà proprio questo a portarlo all’estinzione. La moglie è cieca, un po’ in tutti i sensi, mentre i loro figli muoiono quasi tutti tranne tre: Lupo, il bambino bestia, scuro; Nicola, il piccolo troppo fragile per fare qualunque cosa e una femmina, Nella, cresciuta dal nonno con ideali anarchici, costretta al convento dal padre. Luigi pensa di poter ricoprire senza sforzo il proprio ruolo di capo famiglia e di bottegaio, ma sotto i suoi occhi la famiglia si sbriciola e l’attività va in malora, senza alcuna credenza dalla sua, Luigi è l’uomo che patisce e non sa procedere nella disgrazia, diventare altro da sé, rinascere.

 

È proprio Nella il legame tra la vita del convento e quella oltre le mura, a Serra, dove vivono due fratelli diversissimi tra loro come Lupo e Nicola…

Sì, Nella è la sorella che Lupo e Nicola non hanno mai conosciuto, sparita da casa prima della loro nascita. Attorno a lei c’è un silenzio che nasconde un segreto. E anche il sentimento di fratellanza che lega i due ragazzini non è semplice. Nicola è fragile, impacciato, ha terrore di tutto: è un bambino di mollica. Lupo invece è la personificazione della forza cieca, dell’opposizione assoluta verso la chiesa e il potere in generale. Dovranno capire come essere fratelli senza famiglia, in cosa credere, come stare vicini e come crescere lontanissimi.

 

Uno dei temi di Un giorno verrà è la fratellanza. Perché lo trovi così importante?

Durante il mio percorso universitario ho approfondito il tema della fratellanza durante la Rivoluzione francese, quando si decise di inserirla nella triade rivoluzionaria per la presenza nelle città delle confraternite. Poi la fratellanza si è inabissata politicamente. Sono rimaste vive la fratellanza e sorellanza grazie a Dio o grazia al padre/madre, quindi per legami di fede o di sangue. La domanda a cui è difficile rispondere è: si può essere fratelli e sorelle, senza padre/madre e senza Dio? Il compagno politico è il fratello o è l’amico pubblico? Sono riflessioni a cui ho dedicato alcuni studi e che hanno nutrito anche le due coppie di fratelli e sorelle di Un giorno verrà.

 

Come scrittrice hai deciso di combattere anche un’altra battaglia, denunciando la palese estromissione delle donne dal canone del Novecento. Al contempo cerchi di riportare alla luce voci di autrici di grande valore che la storia della letteratura ha dimenticato.

Sì, è una battaglia a cui tengo. Provo a parlarne insieme a molte e molti altri dove posso e tutte le volte che posso. Ho fatto degli esperimenti in qualche liceo che mi hanno lasciata profondamente amareggiata. I ragazzi e le ragazze conoscono poco e male le scrittrici nel nostro Novecento, in molti non sanno neanche chi sia Elsa Morante. La situazione non migliora negli studi universitari monografici e non, né tanto meno nei manuali per la formazione sia liceale che accademica. Rimane forte l’impegno di associazioni, fondazioni, studiose e studiosi che da anni cercano di mantenere vivo questo patrimonio di donne e pensatrici. Io arrivo dopo, ma provo a fare la mia parte nelle scuole, nelle librerie o biblioteche, ovunque vengano ben accolte le nostre letterate e il loro lascito.

(Giulia Caminito, Un giorno verrà, Bompiani, 2019, pp. 240, euro 16)
coperina di È sempre bello su flanerí

Il miracolo mancato di Niccolò Contessa in È sempre bello

A febbraio le strade di Roma e Milano vengono tappezzate di poster anonimi. Lo sfondo è rosso, le frasi brevi. In alcune si intravede una ragazza con un panino in mano. Niente di più. È la campagna pubblicitaria del nuovo album di Coez, È sempre bello, uscito lo scorso 29 marzo.

Che sia un caso o no, la presenza di Niccolò Contessa nella scrittura e nella produzione di quest’album fa supporre che dietro a questa scelta di marketing ci possa essere una sua intuizione. Se c’è, infatti, qualcuno in Italia che riesce a creare attesa attraverso l’anonimato, nascondendosi, è proprio il leader de I Cani: gli albori della sua carriera sono stati segnati dai suoi concerti con in testa un sacchetto di carta – tanto che, all’epoca, si vociferava potesse essere un progetto segreto di Max Gazzè o di Max Pezzali.

E il tocco di Contessa si sente. Non come sarebbe stato necessario, ma è facile scontrarsi con alcune sue tipiche soluzioni: per esempio l’attacco di “Catene”, che potrebbe benissimo uscire dal periodo di Glamour. Perché Contessa avrebbe potuto raddrizzare la cifra stilistica dell’album, aprire la scrittura di Coez verso altre dimensioni, provare a sperimentare nuovi linguaggi, ma di fatto è riuscito semplicemente ad assecondare i tempi che corrono.
È inquietante, infatti, quanto sia facile riconoscere certe inclinazioni melodiche e timbriche a volte alla Calcutta, a volte alla Tommaso Paradiso.

Bisogna ricordare, inoltre, che Coez una volta era un rapper. Ora viene cantato anche da personaggi illustri della politica, ma le sue origini ci raccontano altro. L’immagine Coez rapper è tenuta in segreto in un qualche museo archeologico della musica italiana. Figlio di nessuno è un album che appartiene a un passato che non ha avuto alcun futuro. L’artista dalle origini campane è, oramai, in tutto e per tutto uno degli esponenti dell’itpop. Da Non erano fiori – siamo nel 2013, la rivoluzione de I Cani è già in atto – passando per Niente che non va, fino al grande successo con Faccio un casino ma siamo in piena contro rivoluzione calcuttiana – Coez ha riproposto tutto il prontuario del perfetto cantautore da cameretta che scrive cori da stadio.

Se i primi due si rifacevano palesemente a Cesare Cremonini, padre putativo involontario dell’itpop, gli ultimi due sono il risultato di un modo di intendere il processo artistico come fine e non come causa.

E se in Faccio un casino poteva esserci ancora qualche spunto interessante (l’atmosfera che si respira in “Still fenomeno”, spazzata poi via dalla furba e impalpabile “Faccio un casino”), in È sempre bello ci troviamo in un abisso retorico appesantito all’inverosimile da una poetica che sa di adulti che scrivono come adolescenti per adolescenti per riempire i palazzetti di adolescenti – fatta eccezione per l’aliena “Vai con Dio”, che sembra scritta da un Vasco Rossi millenial. E se portare i giovanissimi nei palazzetti o nei teatri,come sta facendo in questo periodo Carl Brave, non è un male, è fondamentale tracciare delle linee . Come esiste una letteratura per ragazzi, ma non alla Le avventure di Huckelberry Finn di Mark Twain, dove i destinatari finali erano gli adulti, sarebbe onesto catalogare questo universo come musica per ragazzi, dove i destinatari finali sono i ragazzi.

Con È sempre bello Coez non riesce a togliersi di dosso quella patina che, oramai, lo rende uguale agli altri. Niccolò Contessa non riesce nel miracolo, anzi. La collaborazione artistica tra i due finisce per dare alla luce un album mediocre di cui non si sentiva la necessità.

Copertina di Resoconto di Rachel Cusk

Solo chi ascolta sa raccontare

«Non accade nulla in questo romanzo. Eppure accade di tutto». Così il New York Times inscatola il senso intimo e ultimo di Resoconto (Einaudi, 2018, traduzione di Anna Nadotti), primo atto della trilogia di Rachel Cusk, canadese di nascita, inglese di adozione.

Può calamitare come biglietto d’ingresso? Dipende dalle aspettative. Chi si approccia a un libro come a uno snodo d’incidenti a catena, o a un acquazzone proverbiale potrebbe lamentarsi di uscirne troppo asciutto. Al di qua di quanto sobbolle sotto abiti e pelle. O della febbre accollata alle ossa. Una storia molto simile al suo titolo. Specchio e confine della sua emanazione.

Faye, una scrittrice londinese, è in procinto di partire per la Grecia, dove non l’aspettano ruderi e sole, ma un corso di scrittura creativa. S’imbarca, com’è inevitabile nel luogo in cui viaggio e racconto s’attorcigliano chiedendo soltanto di non distinguersi. In aereo il suo vicino di posto inizia a narrarsi, a rovesciarle sul fianco litri di vita piovuta. I suoi successi, i contraltari del fiasco, i matrimoni raccolti come funghi di dubbia natura, i figli su cui tutto è sfumato, i tradimenti come boccate di vento, il crollo economico, una piccola barca su cui rifiatare.

È lì che la invita, nelle crepe di muro e di tempo che il suo lavoro potrà concederle. Ed è lì che il Resoconto prosegue. In quel rettangolo di mare, al largo ma non al riparo, si condensa l’imbarazzo di uno scambio già profondo e non richiesto. Movenze, parole, schiena e affanno di quell’uomo fungono da schermo, superficie distorta e riflettente delle inquietudini che ondeggiano, sopra e sotto la schiuma.

«Avrei potuto nuotare per chilometri, fino all’oceano: un desiderio di libertà, un impulso a muovermi, mi trascinava come fosse uno spago legato intorno al mio petto. […] Era semplicemente il desiderio di fuggire da ciò che avevo. Lo spago non portava da nessuna parte, se non in lande sempre più distese di anonimato».

Lei che ascolta e custodisce, lei che afferra quel fiotto rovente e ci ritrova le sue squame. La sua voglia di evaderle.

Bastano i brani dell’altro, le scie di sale e frustrazione seminate in quelle ore, a comporre il suo ritratto. Ciò che Faye ha realizzato e il combustibile bruciato nel frattanto. La sua incapacità di filtrarsi dalle cose: «Era all’incirca così che mi sentivo, esposta da ciò che vedevo, e da ciò sconfitta».

È in compagnia di un uomo che non le piace affatto, eppure non si sottrae. Si lascia scalfire e la trama dell’altro diventa artefice del proprio percorso. Avviene anche con Angeliki, autrice in giro per l’Europa incrociata ad Atene, che a sua volta si tramuta nello scrigno di altre esistenze, captate lungo la via. L’equilibrio familiare in perenne oscillazione, il dilemma fendente dell’essere madre, il lavoro come salvezza e detonazione.

Avviene con Elena, amica bellissima e lacerata. Che intercetta il suo compagno mentre dichiara ad un’estranea di non volere più figli e senza preavviso si sente espropriata dal suo futuro, che in quel Resoconto abbranca più sostanza che in mille altri angoli di coppia. Avviene con gli allievi del suo corso.

Ogni personaggio si forma così, dalle scorie esalate nell’incontro col prossimo, dall’impatto con le storie carpite come conchiglie improvvise. E in questo effetto ineludibile abita il destino della scrittura. Anche di quella che non lascia inchiostro. La tendenza a ri-formulare noi stessi e i nostri inquilini di strada attraverso confessioni e mancanze. Mantenere alcune tracce, altre disperderle. Ricostruirci in base a ciò che ci sembra importante.  Che resta un capitolo. Da leggere o da creare.

Quanto siamo bravi a scrivere i testi delle nostre vite? Quanti dialoghi sbaviamo? Quanti intrecci ci fanno da scheletro e quanti altri diffondono briciole? E quante briciole trattiamo da scheletri o viceversa?

Insomma, cosa manca alle nostre scelte per forgiare un buon romanzo? E quanto siamo il riflesso di ciò che gli altri riportano? Quesiti che galleggiano a varie altezze nel lago denso di questo volume, in cui la protagonista, alter ego di Cusk, si conferma tale nella sua veste e nella sua abilità di narratrice. Di lei sappiamo poco, di lei sappiamo che entra in relazione.

Che è colei che impugna i fili. Detentrice dell’intelaiatura, ma in fondo non padrona. A possederla per intero sono solo le vicende inserite. E sotto questo aspetto nodale, Resoconto ricorda libri che sono piccoli sterminati castelli di testimonianze, architetture di singole cronache in cui ognuna ha il suo peso specifico, come La tredicesima storia di Diane Setterfield, Conta su di me di Jorge Bucay o il famoso L’albergo delle donne tristi di Marcela Serrano.

Con un linguaggio sempre lucido e affilato, Rachel Cusk ci offre spicchi di un frutto prezioso: la bellezza molteplice delle nostre inconsistenze. Tutte qui, tutte altrove. Pronte a tradirci. E a farsi perdonare, per volte infinite.

 

(Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi, 2018, Traduzione di Anna Nadotti, pp. 192, € 17.00 | Recensione di Cristiana Saporito)
Poster del dumbo di Tim burton su Flanerí

Per volare ci vuole ben altro

La nuova onda di rifacimenti degli storici cartoni animati in live action colpisce questa volta Dumbo, il quarto classico nella storia della casa di animazione di Walt Disney. La nascita del primo Dumbo non era stata semplice. Prodotto in fretta e furia, nel 1941 per cercare di assorbire le perdite economiche dell’esperimento Fantasia, il film sull’elefantino volante passò per le mani di sette diversi registi. Ci fu una lunga discussione tra Walt Disney e la RKO, incaricata delle distribuzione, sulla durata ibrida del film: 64 minuti, non un lungometraggio, non un corto. La RKO consigliava di allungare, o accorciare, per rientrare in una delle due categorie, ma Disney si rifiutò. Alla fine, Dumbo incassò solo 1 milione e mezzo di dollari negli Stati Uniti a fronte di costi di produzione che arrivarono fino al milione. Fu necessario aspettare la fine della seconda guerra mondiale e una nuova presentazione a Cannes nel 1947 per far conoscere il film in tutto il mondo e avviarlo sulla strada della gloria.

Per questa nuova versione la Disney ha chiamato Tim Burton, regista dalla visionarietà ultra celebrata e storico collaboratore della major, ormai alla quarta regia. Il copione, affidato a Ehren Kruger (sceneggiatore del contestato Ghost in the Shell), reimposta il punto di vista del film dando largo spazio agli umani, assenti nella versione a cartoni animati. Siamo nel 1919, subito dopo la prima guerra mondiale. Il veterano Holt Farrier fa ritorno negli Stati Uniti senza un braccio e senza più una moglie, morta di influenza mentre lui era in Europa. Ritrova i suoi due figli e il circo Medici, per cui lavorava come ammaestratore di cavalli, ormai in rovina. La fortuna inattesa si presenta in forma di un cucciolo di elefante con le orecchie enormi. Sembra uno scherzo della natura, che inciampa a ogni passo, ma quando si scopre che è in grado di volare diventa l’attrazione principale del circo.

È sempre difficile confrontarsi con i classici, soprattutto quando non è possibile riproporli come il pubblico li ricorda e li ha amati. Come già era successo per Alice in Wonderland, Burton rivisita il materiale originale. Qui la scelta è quella di dare maggiore spazio agli uomini e lasciare gli animali a un ruolo secondario. Eliminata ogni forma di antropomorfismo, Dumbo e le altre creature del circo non parlano, comunicano con gli occhi e con i loro versi. Via Timoteo, l’amico topo mentore di Dumbo, via i corvi neri che donano la piuma magica. Spazio a tanti nuovi personaggi e a una nuova impostazione.

Questo Dumbo 2019 è un film per famiglie confezionato senza impegnarsi ad andare oltre la soglia del necessario. Siamo di fronte a un prodotto senza guizzi, realizzato con il solo scopo di riempire le sale in attesa del prossimo, ennesimo, rifacimento live action (a maggio arriva Aladdin, ad agosto Il re leone). Tim Burton si limita al minimo indispensabile per onorare il contratto, così come il suo cast, che, pur mettendo insieme una serie di nomi interessanti come Colin Farrell, Eva Green e la coppia Michael Keaton – Danny De Vito, di nuovo con Burton ventisette anni dopo Batman – Il ritorno, si accomoda sul compitino.

Il copione crea giusto le basi minime per una nuova storia di contorno alle avventure dell’elefantino. I personaggi sono appena accennati e ogni sviluppo della trama è un semplice pretesto per andare avanti un altro po’. Anche gli eventuali scopi educativi dei vari inviti ad andare oltre le apparenze, a credere nei propri sogni, sembrano messi lì senza convinzione.

Si salva solo il piccolo Dumbo, straordinaria creatura in animazione computerizzata, con occhi vivi e dolci che catturano tutte le attenzioni del pubblico.

(Dumbo, di Tim Burton, 2019, fantastico, 112’)

copertina di tutte le mie mamme di renata piątkowska

Quante mamme si possono avere? L’orrore nazista attraverso gli occhi di un bambino

«Ogni giorno il signor Szymon Bauman viene al parco. Con il suo cappotto lungo e il cappello nero passeggia per i vialetti e ogni tanto, appena si sente stanco, si siede su una panchina. Può restare seduto così per ore e ore. I suoi occhi sono socchiusi, sembra che stia sonnecchiando. Ma non dorme, e probabilmente nessuno di voi indovinerebbe a cosa sta pensando». Comincia così Tutte le mie mamme (La Giuntina, 2019) della scrittrice polacca Renata Piątkowska (1958), autrice di numerosi libri per l’infanzia che le sono valse l’Ordine del sorriso, il premio internazionale assegnato dai bambini a chi si è particolarmente impegnato in loro favore. A parlare è un piccolo frequentatore del parco al quale un giorno il vecchio signore decide di raccontare la sua storia.

Szymon, questo il nome del signore, è ebreo. Da bambino viveva a Varsavia e conduceva un’esistenza felice: aveva dei genitori che gli volevano bene, una sorella più grande, Chana, e un amico del cuore, Dawid, che abitava nel suo stesso palazzo e con cui giocava spesso alla guerra. Un giorno però la guerra arriva davvero e Szymon si rende subito conto che è ben diversa da un gioco: le bombe buttano giù il suo palazzo e lui e la sua famiglia sono costretti a rifugiarsi in casa della zia Róża.

Ora gli ebrei devono portare una stella gialla sul petto e subire ogni genere di angherie dai tedeschi. Un giorno, il padre cade in una retata e non fa più ritorno. Poco dopo la famiglia di Szymon è costretta a trasferirsi nel ghetto; inizia per loro una vita dominata dalla paura e dalla fame. A peggiorare le cose interviene la malattia della zia, che viene ricoverata in ospedale, e quella della madre, che cerca faticosamente di tirare avanti.

Una mattina, mentre questa è in cerca di cibo, arrivano i tedeschi e portano via Chana. Il piccolo Szymon sente tutto dal suo nascondiglio sotto il letto; è terrorizzato e pieno di sensi di colpa, perché non ha potuto fare nulla per salvarla. Poco dopo le condizioni della madre peggiorano, la situazione si fa davvero drammatica, ma a questo punto compare come per miracolo l’infermiera Jolanta, che si prenderà cura dei due. Sarà a lei che la madre chiederà di organizzare la fuga di Szymon dal ghetto.

A questo punto occorre fare una digressione, perché l’infermiera Jolanta è esistita davvero. Il suo vero nome era Irena Sendler (1910-2008) ed era membro dello Żegota, il Consiglio per l’aiuto agli ebrei, un’organizzazione segreta polacca. In quanto impiegata dell’assistenza sociale Irena aveva un lasciapassare per entrare nel ghetto, dal quale fece uscire più di 2500 bambini.

La sua figura, rimasta nell’ombra fino al 1999, divenne famosa in tutto il mondo dopo che alcuni studenti del Kansas misero in scena uno spettacolo teatrale ispirato alla sua opera, Life in a Jar (La vita in un barattolo). Da allora è considerata universalmente un’eroina e il Memoriale di Yad Vashem le ha conferito il titolo di Giusta tra le nazioni. Alla fine del libro ne viene fornita una breve biografia.

Jolanta fa imparare a Szymon il suo nuovo nome: Stanisław Kalinowski. D’ora in poi dovrà fingere di non essere ebreo e imparare l’Ave Maria e il Padrenostro. Quando giunge il momento, dopo l’addio straziante alla madre Szymon viene fatto uscire dal ghetto nascosto in un camion e affidato a quella che considererà la sua seconda mamma, Maria, che lo tratterà come un figlio.

Un giorno, purtroppo, Szymon parla ad alta voce della stella gialla che prima portava al braccio ed è costretto a sparire. Jolanta gli fa imparare un altro nome, Maciek, e lo porta in una cittadina vicino Varsavia dalla sua terza mamma, Ania. Qui troverà altri tre bambini fuggiti anche loro dal ghetto. Alla fine della guerra i tre bambini ritrovano le loro famiglie e anche Szymon, dopo qualche tempo, viene rintracciato dalla zia Pola, dalla quale viene a sapere che il padre e Chana sono morti in campo di concentramento. Pola era diventata la sua quinta mamma dopo quella vera e dopo Maria, Ania e naturalmente Jolanta. Il recupero dei bambini da parte dei parenti era riuscito grazie a un ingegnoso espediente ideato da Jolanta, che aveva seppellito in un giardino un grosso barattolo contenente i bigliettini con i nomi dei ben 2500 bambini che aveva salvato e con gli indirizzi delle famiglie che li avevano accolti.

 Tutte le mie mamme fa parte della nutrita schiera di libri che parlano ai bambini di un tema difficile come l’Olocausto, da Quando Hitler rubò il coniglio rosa, il classico di Judith Kerr, a Stelle di cannella di Helga Schneider o a Una valle piena di stelle di Lia Levi. Qui l’orrore del nazismo viene descritto attraverso lo sguardo fresco e innocente di Szymon, che pur non capendo il mondo degli adulti ne percepisce tutta l’ingiustizia e l’insensatezza e ci accompagna nel ghetto di Varsavia mostrandoci gli orrori che gli tocca vivere, ma anche tante persone buone, animate dall’amore per il prossimo.

Attraverso il suo racconto i piccoli lettori hanno inoltre la possibilità di entrare in contatto con la cultura e le tradizioni ebraiche, nonché di imparare il valore della memoria e cosa significhi ricordare le atrocità per evitare che accadano di nuovo.

Il racconto del vecchio signore è accompagnato passo passo dalle bellissime illustrazioni di Maciej Szymanowicz.

 

(Renata Piątkowska, Tutte le mie mamme, ill. di Maciej Szymanowicz. trad. di Barbara Majchrzak, Giuntina, 2018, pp. 48, euro 15, articolo di Raffaella Belletti)

 

Copertina del romanzo Montpelier Parade su Flanerí

Ritorno a Dublino

Karl Geary è un attore e sceneggiatore irlandese all’esordio come scrittore con Montpelier Parade, pubblicato in Italia da Playground con la traduzione di Massimo Bentini. Un’opera prima che ha attirato non poche attenzioni. Geary ha dimostrato una capacità non comune nel ricostruire la Dublino degli anni Ottanta, sospesa tra miseria e crescita, con uno stile preciso e non scontato.

Montpelier Parade segue l’adolescente Sonny, garzone in macelleria di umile famiglia, che perde la testa per una donna più grande, Vera, misteriosa e bellissima, ricca e distante dal suo mondo. L’incontro con Vera apre un mondo nuovo a Sonny, fatto di possibilità mai pensate prima. Questi due mondi così lontani finiscono presto per attirarsi e scontrarsi in modo irreversibile.

Geary ha deciso di guardare indietro nel tempo per il suo esordio, tornando alla Dublino della sua adolescenza. L’autore ha lasciato l’Irlanda molto giovane, quando aveva l’età di Sonny. Si è trasferito a New York con solo un numero di telefono da chiamare e nessun contatto. Ha avuto una vita insolita, è entrato nel giro musicale lavorando nel leggendario club Sin-é, ha fatto il modello per Madonna nel controverso libro Sex ed è poi arrivato al cinema.

Lo abbiamo incontrato a Roma dove è ospite dell’Irish Film Festa e gli abbiamo fatto alcune domande su Montpelier Parade.

Partiamo dall’inizio. Nel primo capitolo del romanzo Sonny assiste alla morte di un uomo – un cliente della macelleria che viene travolto da un furgone fuori dal negozio. Quando Sonny lo raggiunge, già morto, steso sul marciapiede, gli sfila dalla tasca un pacchetto di sigarette e se lo prende. Non è un inizio comune. Ci sono molti elementi: la morte, l’istinto, la paura, la freddezza di Sonny in quel piccolo furto dal cadavere. Come mai hai deciso di far partire Montpelier Parade così?

La prima frase del libro è «Il mondo d’oggi è un posto spaventoso», ed è vero. La morte è ovunque. Sonny sta diventando un uomo, è ancora innocente ma è chiamato a fare qualcosa, perché Vera sta morendo.
Il piccolo furto è un’immagine vitale, serve a fissare due cose: prendiamo tutti qualcosa dai morti, prendiamo i loro ricordi, la loro esperienza, il loro sapere, e Sonny farà la stessa cosa più tardi con Vera; in secondo luogo volevo sfidare le convinzioni del lettore. Non c’è niente di macabro nel rubare da un cadavere. Sonny è povero, e la povertà richiede azioni pratiche. Non si può buttare nulla. Più avanti vediamo che regalerà quelle sigarette a suo padre, che adora segretamente.

Hai scelto un insolito punto di vista in seconda persona per il romanzo. Era la tua idea iniziale o ci sei arrivato durante la riscrittura o l’editing?

Non volevo usare la seconda persona. Ho provato con la prima e la terza, ma sentivo che mancava qualcosa. A un certo punto mi sono accorto che questa barriera del “tu” ci permetteva, stranamente, di avvicinarci a Sonny. La seconda persona ha creato un’intimità particolare, come se quella seconda persona non fosse il lettore ma un protagonista che non vuole o non sa fare i conti con il suo stesso racconto.

Ci sono tre donne molto diverse nella vita di Sonny. Sua madre, che prova a tenere insieme la famiglia mentre il marito butta i soldi nelle scommesse; la sua amica Sharon, che lo tratta sempre male e con un’onestà brutale; Vera, la misteriosa donna inglese benestante di cui si innamora. Tutt e e tre le donne sono fondamentali nella sua crescita. Tutte e tre le donne lo aiutano come possono, anche se sembra che gli stiano facendo del male, come quando sua madre lo prende in giro perché torna a casa con un libro. Parliamo di queste donne e del ruolo che hanno nella vita di Sonny.

Sì, sono tre donne fondamentali. Ci sono anche uomini nel romanzo, ma la loro presenza è a tratti violenta, o minacciosa. Sonny è diffidente, non sa bene come comportarsi con loro.
Sua madre ha il compito atroce di preparare i suoi figli al mondo che li aspetta, alla dura realtà delle loro vite. E lo fa, in modo inconsapevole, frenando i loro desideri, abituandoli a non volere più di quello che possono avere. Li protegge da quello che desiderano.

Ho letto che quando avevi vent’anni hai scritto un romanzo che non è mai stato pubblicato. Nel 2003 hai scritto il film Coney Island Baby e dieci anni più tardi un documentario. So che ti ci sono voluti più di quattro anni per finire Montpelier Parade. Hai in programma di continuare a scrivere in futuro, per il cinema o altri romanzi?

Grazie per la domanda. Dopo aver finito Montpelier Parade mi sono messo a lavorare all’adattamento per farne un film, e sono quasi tre anni che lavoro a un nuovo romanzo. Incrociando le dita dovrebbe essere quasi pronto.

Ti sei trasferito a New York quando avevi sedici anni. Negli Stati Uniti hai vissuto da subito una vita che potremmo definire parzialmente pericolosa e molto eccitante, dall’esperienza al Sin-é alle foto con Madonna e poi i primi passi nel cinema con Peter Fonda. Come mai hai decido di guardare indietro al tempo di Dublino per il tuo primo romanzo?

Parzialmente pericolosa?!? Mi piace! Sì, è vero, forse la promuoverei a particolarmente pericolosa! Sono arrivato a New York nel 1988, in piena epidemia di crack e AIDS. Avevo 16 anni, quaranta dollari e un numero di telefono. Forse un giorno scriverò di quel periodo, ci ho provato ma non ho ancora trovato il modo giusto. New York è un argomento sconfinato, può togliere spazio a temi più piccoli che mi interessano di più. Comunque, penso che quando lasci una città o un paese inevitabilmente ti rimane addosso, lo porti con te, e scriverne crea un altro tipo di problemi. I ricordi possono inciampare e portare troppo romanticismo, e non era una storia d’amore classica a interessarmi.

Copertina di Attraverso la finestra di Snell di Pergola

La farfalla monarca

Così, di primo acchito, l’unica cosa che avevano in comune Raúl Diaz e Raúl Moreno, era il nome. Per il resto, Raúl Diaz era alto e grassoccio, sempre ben rasato, mentre Raúl Moreno era basso e magrolino, e portava dei lunghi mustacchi con la barba incolta. Raúl Diaz, poi, si vestiva sempre con giacca e cravatta, Raúl Moreno la sua unica giacca sdrucita che aveva indossato qualche volta per dare gli esami all’università del Canada dove aveva passato diversi anni, la teneva chiusa nell’armadio, e una cravatta non se l’era messa mai. Portava invece sempre una giacca beige da pescatore, di quelle senza maniche, e dei pantaloni con grosse tasche laterali. Se parliamo di soldi, quello che Raúl Moreno aveva messo da parte con fatica in una ventina di anni, trentamila pesos, Raúl Diaz lo guadagnava in un giorno. Anche se i conti della sua ditta lui, Raúl Diaz, li teneva tutti su dei quaderni da registro, mentre Raúl Moreno usava tecnologie avanzate per analizzare i suoi dati ecologici. Raúl Diaz, la tecnologia avanzata la vendeva in tutto il Messico, in forma di gigabyte da usare per i cellulari. C’era da chiedersi cosa ci facessero a cena insieme a un ristorante di Coyoacán, a Città del Messico, visto che uno era vegetariano, Raúl Moreno, mentre l’altro mangiava qualsiasi cosa.
Ecco, quello che facevano, era parlare di farfalle. Più precisamente, della monarca. Era stato il capo di Raúl Moreno a fissargli questo appuntamento a pranzo col magnate dell’informatica Raúl Diaz, che non si sa mai, aveva detto, magari ci finanzia la nostra ricerca, sai, è un tipo a cui piace sponsorizzare avvenimenti di qua e di là, basta che poi ci sia il logo della ditta Diaz da qualche parte, e se serve noi ce lo mettiamo il logo, anzi ci facciamo pure le magliette, se serve.
Allora, Raúl, chiedeva Raúl Diaz mentre scartava un tamal ripieno di carne di maiale e cipolle, spiegami un po’ come è venuta fuori questa storia delle farfalle regina? Monarca, disse Raúl. Ah, è vero, monarca, sì monarca, in questi giorni ne sento spesso parlare di ’ste farfalle, ma cosa è successo, sono in pericolo, si stanno estinguendo? No, disse Raúl, non si stanno estinguendo, ma sono molto diminuite, negli ultimi anni, per via del disboscamento delle zone di ibernazione nel Messico, e poi per via di una pianta di cui si cibano le farfalle negli Stati Uniti, una pianta che cresceva insieme al granoturco, e che è stata eliminata dagli erbicidi. Ma, disse Raúl Diaz, se questa pianta è stata eliminata negli Stati Uniti, l’effetto si sarà visto soltanto lì, no? Eh no, disse Raúl Moreno, il fatto è che la monarca è una farfalla migratoria. Quelle che si vedono negli Stati Uniti, sono le stesse che poi vengono a svernare qui da noi. Incredibile!, disse Raúl Diaz pulendosi la bocca con un enorme tovagliolo ricamato, capisco gli uccelli, quelli si sa che migrano anche per molte miglia, ma una farfalla, io credevo che le farfalle non si spostassero così tanto, incredibile, dagli Stati Uniti fino a qui!
Ce ne sono molte di cose incredibili, in questa storia, disse Raúl Moreno, è una storia lunga, iniziata tanti anni fa. Negli Stati Uniti e in Canada i biologi si erano accorti che queste farfalle d’inverno sparivano, era un mistero, dove sparivano, pensavano si nascondessero per il freddo, ma dove andavano a finire? Un bel mistero, c’è gente che ha dedicato una vita, a questo mistero. C’era un ricercatore, John Goodman, e pure sua moglie, stavano dietro alle farfalle ma non si raccapezzavano più, avevano capito che le farfalle se ne andavano, coi primi freddi, ma dove si andavano a cacciare? L’unico modo sarebbe stato di marcarle, una cosa che si fa facilmente con altri animali più grossi o resistenti, ma con le farfalle c’è voluto un bel po’ di tempo per inventarsi dei marcatori piccoli che non danneggiassero le farfalle. Ma i Goodman ci riuscirono, erano i primi anni Settanta, fabbricarono dei marcatori piccolissimi e ci scrissero su “Per favore inviare all’università di Toronto, dipartimento di zoologia”. Così facendo, iniziarono una cosa che oggi chiamiamo scienza dei cittadini, cioè il coinvolgimento di volontari per un progetto scientifico. E non solo per recuperare i marcatori, ma anche per piazzarli sulle farfalle.
Chiesero aiuto tramite annunci sui giornali, a volontari e studenti delle scuole che coi loro professori si misero a marcare le farfalle. Immaginati, orde di studenti che correvano sui prati con i loro retini, a caccia di farfalle, e i loro professori dietro, con quaderni su cui scrivere cosa avevano trovato. A furia di cercare, venne fuori che il punto dove venivano avvistate le monarche era sempre più a sud, fino in Texas, poi però le farfalle scomparivano. Di là dal confine c’era il Messico, e i Goodman capirono che avrebbero avuto bisogno anche dell’aiuto dei messicani. Fecero mettere un altro annuncio sul giornale, questa volta un giornale messicano, per chiedere aiuto a volontari. Pensa un po’, lo interruppe Raúl Diaz, masticando a bocca aperta, con la mia rete di telefonia, a fare ’sta cosa oggigiorno ci metteremmo meno che a mangiare questo tamal. Eh, disse Raúl, proprio di questo ti volevo parlare, ma prima se vuoi finisco la storia dei Goodman. Sì, disse Raúl che nel frattempo aveva ordinato un altro piatto di tamales, sì, m’interessano questi Goodman, continua, continua.
Allora, disse Raúl Moreno, diversi messicani risposero all’annuncio, soprattutto due, una coppia anche loro, come i Goodman, erano entusiasti, si misero a cercare per tutto il Messico, in lungo e in largo. Alla fine venne fuori che diverse monarche erano state avvistate nella regione del Michoacán. Andarono lì con la loro jeep e infatti le monarche c’erano, erano dappertutto, nei boschi dell’altopiano. Lo dissero ai Goodman, che risposero, okay, benissimo, ma che ne sappiamo che sono le farfalle che vengono da qui? Dovreste trovare i marcatori, sono quelli la prova! La coppia di messicani continuò a cercare, ma niente. Tornarono sull’altopiano del Michoacán ai primi di novembre dell’anno dopo, la festa dei morti impazzava in tutto il Messico, loro invece stavano lassù sugli altopiani a caccia di farfalle marcate. Arrivò fine dicembre, i Goodman stavano festeggiando il Natale in famiglia, e intanto aspettavano notizie che non arrivavano mai. Decisero di partire per il Messico subito dopo Capodanno. La coppia di messicani li accolsero a casa loro, poi li portarono sull’altopiano, dove in effetti c’erano milioni di monarche sugli alberi, sui tronchi, sui rami, dappertutto. Goodman e la moglie si misero a cercare: gli bastarono cinque minuti, a John Goodman, per trovare la monarca PS 397, una farfalla marcata da un paio di studenti del Minnesota nell’estate precedente. Quella farfalla aveva percorso almeno tremila chilometri, per un paio di mesi, aveva volato. Incredibile, Madre de Dios! Incredibile, disse Raúl Diaz, mentre scartava l’ennesimo tamal.
E non finisce qui, disse Raúl Moreno, la storia s’infittisce. Naturalmente, dopo quella scoperta i Goodman non volevano dirlo a nessuno dove era il luogo di svernamento, se no un sacco di gente sarebbe andata a vedere le farfalle e avrebbe rovinato tutto. Adesso si sa dove sono questi siti, e infatti sono visitati da migliaia di turisti, anche troppi direi, ma c’è voluto un po’ per scoprirli tutti, e ancora non si conosce tutta la rotta migratoria. Ma partiamo dall’inizio.
Le farfalle, il loro scopo principale, è di riprodursi. Come i conigli, disse Raúl Diaz, infervorato da questa cosa. In un certo senso, disse Raúl Moreno. Infatti, dopo appena cinque giorni dalla nascita, già iniziano a darci dentro. E vanno avanti così, accoppiandosi e riproducendosi, per tutta la vita, che però è piuttosto corta. Corta?, disse Raúl Diaz, ma come fanno a volare per tutta questa migliaia di chilometri se vivono poco? Aspetta, ora ti spiego, le monarche, hanno molte generazioni nell’arco di un anno. Partiamo da quelle che sono nel Sud degli Stati Uniti. A primavera nascono, e subito ci danno dentro. Come conigli, interruppe Raúl Diaz, a cui piaceva quest’accostamento. Eh?, disse Raúl Moreno. Come conigli, rispose l’altro. Ma, esattamente, come fanno a accoppiarsi?, chiese Raúl Diaz che ora non mangiava neanche più i suoi tamales. Eh, disse Raúl Moreno, c’è tutto un rituale, il maschio prende le ali della femmina con le zampe posteriori, intanto che stanno volando, poi finiscono a terra, infine ricominciano il volo nuziale, e tutto questo può andare avanti anche per una dozzina di ore. San Cristóbal!, disse Raúl Diaz, che si stava tutto eccitando, altro che i conigli! Eh sì, disse Raúl Moreno, e così le monarche intanto che si accoppiano, migrano verso nord, cioè un po’ s’accoppiamo, un po’ migrano. Non fanno moltissimi chilometri ma sempre verso nord. E lo stesso fanno i loro figli e i figli dei loro figli, passando ovviamente dai vari stadi di uova, larva, crisalide, fino all’adulto, che si accoppia per tutta la vita. Che, come ti dicevo, è corta, solo un mesetto al massimo, per queste tre o quattro generazioni estive. Alla fine dell’estate, però, nasce una generazione speciale, una generazione che vive molto di più di tutte le altre, fino a otto o nove mesi, le Matusalemme delle monarche. Caspita, fece Raúl Diaz, otto mesi passati a accoppiarsi sono un bel po’!
E invece, queste Matusalemme, disse Raúl Moreno, non ci pensano nemmeno a accoppiarsi, almeno non subito, come fanno le altre. Loro, le Matusalemme, hanno una cosa sola in mente, migrare verso sud, dal Canada e dagli Stati Uniti fino a qui, in Messico. Volano per ore e ore, senza cibarsi. Ci mettono un mese o due, per arrivare fin qui. Arrivate sull’altopiano, bum, fine corsa, capolinea, si fermano. E perché?, chiese Raúl Diaz. Perché esattamente non lo sappiamo. Quello che si sa è che queste matusalemme hanno della magnetite sia nella testa che nel torace. Volano verso sud usando la loro bussola magnetica e poi, guarda caso, i nostri altopiani sono pieni di anomalie magnetiche che potrebbero aiutare le farfalle a ritrovarcisi. E se uno continuasse a andare a sud dell’altopiano, bum, c’è una vallata, quindi è possibile che loro si fermino proprio lì per quello. E lì sull’altopiano, finalmente si riposano per cinque mesi, fino alla primavera successiva. E così finalmente si accoppiano anche loro. Come conigli!, disse Raúl Diaz. Non subito, rispose Raúl Moreno, soltanto quando la temperatura inizia a salire, a fine inverno, giusto in tempo prima di ripartire. Come, ripartono? Per dove?, chiese Raúl Diaz. Eh, rispose Raúl Moreno, un pezzetto del tragitto verso nord, lo fanno loro, le Matusalemme.
Incredibile, questa storia!, disse Raúl Diaz, ne ho viste di cose strane in vita mia, uomini d’affari bizzarri e donne strampalate, ma queste farfalle le battono tutte! Ma io cosa posso fare, al telefono mi hai detto che avevi un’idea per me, cosa c’entro io con le farfalle? Eh, rispose Raúl Moreno, oggi conosciamo molte cose delle monarca, ma non ancora tutto. E se vogliamo capire quello che succede, che poi ci serve per conservare la specie, dobbiamo fare come i Goodman, ma usando la tua rete di telefonia, come stavi dicendo prima. Già, disse Raúl Diaz, invece degli annunci sul giornale, faremo molto prima, noi! Non solo, aggiunse Raúl Moreno, basterebbe fare un’app con cui i ragazzi, gli studenti, i turisti, tutti quelli che vogliono, possono mettere le loro fotografie della monarca su un sito georeferenziato, così inizieremo a scoprire esattamente da dove passano le monarche, durante la migrazione. Un’app! Bellissimo, disse Raúl Diaz, un’app, ma sì, tutta la mia telefonia mobile, al servizio delle farfalle! Mi piace, questa cosa, Raúl!, disse Raúl Diaz. Mi fa piacere, mi fa molto piacere, disse Raúl Moreno, mentre guardava i tamales nel suo piatto, ormai erano freddi.

 

“La farfalla monarca” è tratto dalla raccolta di racconti Attraverso la finestra di Snell – Storie di animali e degli umani che li osservano di Paolo Pergola, uscito il 28 marzo per ItaloSvevo editore.

Paolo Pergola è un ricercatore in zoologia. Membro dell’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale) dal 2012, tra i suoi libri: Passaggi. Avventure di un autostoppista (Exòrma 2013), Festeggiamenti (FUOCOfuochino 2014), Di cosa parliamo quando parliamo (FUOCOfuochino 2018), Posizioni in classifica (Babbomorto editore 2018), Lessico famigliare. Operazioni alla lettera (In Riga Edizioni, 2018), Aurelio e lo scrivano. Tentativo di esaurimento (In Riga Edizioni, 2018). Suoi racconti sono stati pubblicati su «Almanacco 2017» e «Almanacco 2018» (Edizioni Quodlibet).

Attraverso la finestra di Snell: Per quanto Paolo Pergola sia uno scienziato affermato e serio nel suo lavoro di ricerca, senza che le due cose siano in un qualche e apparente modo collegate, è anche un membro dell’Opificio di Letteratura Potenziale. E questa è forse la principale premessa per quello che, senza essere un libro di divulgazione scientifica, parla di scienziati, zoologi, e del loro oggetto di studio, gli animali. Se la scienza cerca di spiegare il mondo, i quattordici racconti qui raccolti ci mostrano quali divertentissimi e appassionanti fatti possono accadere quando il mondo, in questo caso degli animali, viene messo sotto osservazione. La scrittura di Pergola riesce a decentrare la nostra attenzione e destare la nostra meraviglia, con un’accuratezza e un’ironia che ricordano quelle di Italo Calvino delle Cosmicomiche e di Ti con Zero.

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copertina di hype aura su flanerí

Milano ha creato i Coma_Cose

A Victor Hugo, molto probabilmente, non sarebbe piaciuto il disco d’esordio dei Coma_Cose. Per lui il calembour è «la fiente de l’esprit qui vole», in Hype Aura è uno dei pilastri. Attorno ai giochi di parole e all’omofonia, infatti, ruota il senso dei nove brani che compongono l’album. L’alterazione linguistica è il codice con cui il duo milanese riesce a veicolare il proprio messaggio e, quella che può sembrare una gabbia stilistica, finisce per essere la loro fortuna.

Il giocare costantemente con le parole, tra l’ironico e il sarcastico, mischiato a un’estetica palesemente hipster del duo, citazioni pop e a un pop travestito da hip hop, possono far pensare all’ennesimo fenomeno che sfrutta il momento per emergere. E, per quanto l’estetica possa farlo presagire, abbiamo a che fare con qualcos’altro. Il linguaggio dei Coma_Cose è fresco, pieno di guizzi, dinamico, agli antipodi rispetto alla stantia produzione diffusa ultimamente – un altro grande amante contemporaneo dei giochi di parole, Fedez, è l’esempio chiaro per cui questa è un’arte che non fa per tutti.

«Ma una gioia prima della fermata di Centrale»

«Alice guarda i gatti perché i Kanye West»

«Però questo Naviglio è meglio della Senna che di sicuro non ci muori in curva».

I Coma_Cose sono milanesi e Milano è una presenza costante, quasi eccessiva. Quasi ossessiva. Milano al momento è una sorta di El Dorado reale: oggi tutto ruota a quelle latitudini. O almeno questa è la sensazione che accompagna la capitale lombarda dall’Expo in poi. È finito il tempo delle battutacce come panacea del conflitto Milano-Roma, complice anche uno spostamento lento del baricentro musicale, dove l’immaginario un po’ alla volta inizia a migrare da Roma verso la Lombrardia: tralasciando i milanesi Ghali e Mahmood, con “Milano Roma”si può assurgere Tommaso Paradiso a traghettatore di questo esodo.

In Carl Brave e Franco126 Roma risulta essere solo uno scenario, qualcosa con cui non si riesce a dialogare, il ricordo di un paesaggio che accompagna la quotidianità, gli amori e le sconfitte. Ma Roma è una città morta. Roma è una città che vive perennemente nella sua memoria. E quindi si muove come uno spettro alle spalle di quello che succede ai sue romani. Milano, invece, è una città viva: in Hype Aura i luoghi di Milano sono le canzoni, le canzoni sono i luoghi di Milano.

Nel 2011 – altra epoca, aspetto che segna il trapasso – Niccolò Contessa era riuscito a con Il sorprendente album d’esordio dei cani a cantare Roma come qualcosa che vibrava: «Gli artisti in circolo al Circolo degli Artisti» è stato il manifesto di quel momento storico. I Coma_Cosa riprendono quella capacità di inglobare la propria città, farla musa e foraggiatrice di idee, passano attraverso a questi anni di ibrido pop/hip-hop/rap e con talento riescono a scrivere un album che guarda al futuro e non si specchia felice di essere uguale a tutti gli altri.

E il futuro dei Coma_Cosa è il punto più interessante: nell’ascolto di Hype Aura è intrinseco uno sguardo verso il loro prossimo album. Lo si intravede, spogliato di certe logiche che dominano questi giorni e che, per forza di cose, hanno influenzato questo loro esordio. Osando forse un po’ di più, continuando a costruire universi linguistici stranianti, saremo di fronte a qualcuno che potrà essere qualcosa di più di un semplice calembour.