Poster di Borgen - Potere e gloria

Le conseguenze del potere

Nello stesso anno in cui la televisione danese mandava in onda la terza stagione di Borgen. Il potere, gli Stati Uniti lanciavano su Netflix House of Cards. Era il lontano 2013, e la piattaforma statunitense sarebbe arrivata in Italia soltanto due anni dopo. A guardarne ora la quarta stagione prodotta da Netflix, camuffata da nuova serie televisiva con il titolo di Borgen. Potere e gloria, potrebbe sembrare che la Danimarca abbia voluto proporre una versione europea della celebre House of Cards. In realtà, scorrendo indietro nel tempo ci si accorge che l’Europa, per una volta, ha battuto gli Stati Uniti di ben tre anni, dando per prima in pasto al pubblico gli intrighi di potere che stanno dietro agli apparati politici. Anche letterariamente parlando il continente europeo mantiene il primato, visto che House of Cards nacque originariamente come romanzo, dalla penna del britannico Michael Dobbs, nel 1989, poi adattato l’anno successivo in una miniserie trasmessa dalla BBC.

Eppure, l’arma del potere che affascina e strega la politica, fino a trasformarne i suoi rappresentanti in strani esseri, talmente cinici e opportunisti da manipolare qualsiasi cosa, anche la vita stessa per fini di morte, sembra tagliata su misura per il personaggio di Frank Underwood, a cui Kevin Spacey ha prestato il suo celebre volto. Non ci si aspetterebbe mai, in un paese come la Danimarca, che gli intrighi nei palazzi del potere possano celarsi dietro una democrazia nordica così apparentemente lontana dalle macchinazioni.

In realtà, questa nuova stagione di Borgen – da cui anche il titolo che riprende il soprannome dato al Palazzo Christiansborg di Copenaghen, dove hanno sede il Parlamento, l’ufficio del Primo Ministro e la Corte Suprema – ribadisce il concetto: il potere può nascere dalla manipolazione, dalla menzogna, dall’ipocrisia, dalla disonestà, anche nel modello democratico-corporativo dell’Europa settentrionale. E può impossessarsi addirittura di una donna, laddove il potere viene spesso considerato unico appannaggio del sesso maschile. La protagonista delle quattro stagioni, infatti, Birgitte Nyborg, si fa strada nel mondo politico danese per le sue qualità comunicative.

È capace di attrarre voti e affiliare elettori al partito di cui è fondatrice nella terza stagione, i Nuovi Democratici, per l’umanità dimostrata durante l’intera carriera, tanto da diventare la prima donna ad assumere la carica di Primo Ministro. Qualcosa di diverso dalle macchinazioni di Capital Hill naturalmente c’è: tutto è molto meno eccessivo e spregiudicato, tanto che Birgitte è capace di fare un passo indietro, riconoscendo pubblicamente la sua sconfitta morale di fronte alla forza del potere che conquista con facilità, ma con altrettanta velocità coinvolge chi cade nelle sue trame in una rete di cause ed effetti da cui è poi molto difficile districarsi.

Tutto ruota intorno a un tema molto nobile: quanto si è disposti a sacrificare effettivamente per la salvaguardia del clima e dell’ambiente. La scoperta infatti di un giacimento di petrolio in Groenlandia, l’isola nazione più grande del pianeta, parte integrante del Regno di Danimarca, mette in crisi gli equilibri interni fra i due governi locali, ma anche quelli mondiali, tirando in ballo oligarchi russi sanzionati dall’UE a seguito della guerra in Ucraina, droni cinesi che vengono abbandonati fra le montagne innevate, interessi economici statunitensi che tirano le fila della diplomazia internazionale. In mezzo sta Birgitte Nyborg, in questa stagione ministra degli esteri danese, che si districa fra i malcontenti del suo partito, per il quale la salvaguardia dell’ambiente è un tema di fondamentale importanza, e le richieste spesso svantaggiose addotte dai molti osservatori coinvolti nel futuro guadagno petrolifero.
Le nuove puntante di Borgen hanno quindi il pregio di essere molto attuali per le tematiche trattate, e molto europee, o meglio nordiche, per la soluzione che alla fine si fa strada. Manca naturalmente la sfrontatezza e il fascino di una produzione come House of Cards, come l’originalità di una stagione che, sebbene sia presentata da Netflix come serie tv a sé stante, ripropone intrighi e personaggi già noti al pubblico televisivo.

Copertina di Trilogia della guerra

Il crimine senza fine del secolo

In Prima della pioggia, film del 1994 del regista macedone Milcho Manchevski sul conflitto balcanico, appare spesso la seguente frase, molto esemplificativa della natura della guerra: «Il tempo non muore, il cerchio non è rotondo». La guerra si rinnova nel tempo, ma nel rinnovarsi risulta sempre uguale a sé stessa: cambiano gli attori, ma le macerie e lo sradicamento risultano sempre gli stessi.

Questo discorso sembra calzante anche per Trilogia della guerra dello spagnolo Agustín Fernández Mallo (Utopia, 2022), libro che segna il rilancio dell’autore spagnolo dopo un primo tentativo di pubblicazione da parte di Neri Pozza con Il sogno della Nocilla nel 2007. Questo libro è un insieme di tre storie – per questo il titolo – diverse fra loro ma legate da uno stesso fil rouge: non tanto la guerra, quanto il “postguerra”, ovvero gli effetti e le tracce del conflitto nelle vite e nei luoghi ritratti dalle tre storie. Uno scrittore sull’isola di San Simón che con la scusa di un convegno sulle reti digitali si mette sulle tracce della guerra franchista; Kurt Montana, un ex ufficiale della guerra in Vietnam che millanta di esser stato il quarto uomo a viaggiare sull’Apollo 11; una donna sulla costa della Normandia alla ricerca di sé e del suo passato. Tre storie diverse, ma da considerarsi capitoli di un unico grande libro che è, per dirla à la W.G. Sebald, una «storia naturale della distruzione»: della storia, cioè, della guerra.

Non è un caso che si tiri in ballo Sebald, poiché il modo di procedere di Fernández Mallo è lo stesso. Il primo aspetto che i due hanno in comune si può riscontrare a livello di contenuto: non solo la presenza di divagazioni, ma anche l’impiego della tecnica del patchwork nell’uso di immagini e di testi letterari di varia natura, che vanno da Un poeta a New York di Federico García Lorca al racconto breve Multiproprietà di Jeffrey Eugenides. Questo dato è interessante, in quanto Fernández Mallo è fra i fondatori della “generazione Nocilla”, gruppo letterario spagnolo noto anche come “afterpop”, che deve il nome a una marca di crema spalmabile spagnola a base di cacao e nocciola e che teorizza la frammentarietà del testo, l’interdisciplinarità, l’uso di testi altrui, l’ibridazione di generi letterari e la commistione di cultura alta e bassa. Questa idea dell’ibridazione è stata approfondita nel saggio del 2018 Teoría general de la basura (Teoria generale della spazzatura, inedito in italiano), secondo cui si fa arte e letteratura a partire dai residui di ciò che ci ha preceduto.

Un altro elemento che lega Fernánez Mallo a Sebald è lo stile. Come Sebald, anche l’autore spagnolo utilizza un fraseggiare ipotattico – meno estremo, però, rispetto all’autore tedesco –, fatto di frasi secondarie che si incastonano l’una nell’altra per riprodurre una concatenazione tematica che stordisce il lettore e riproduce lo smarrimento e lo sradicamento causati dalla guerra. Allo stesso tempo, Mallo utilizza una struttura ad anelli, tipica non solo del già citato Prima della pioggia – anch’esso tripartito –, ma anche dello stesso Sebald e di Daniel Mendelsohn. Nel suo Tre anelli, l’autore aveva presentato questa particolare struttura narrativa come un abbandonarsi a una digressione che «si rivela in realtà un cerchio, dato che la narrazione finisce per ritornare alla storia nel punto esatto in cui se n’era discostata». Questo ritorno, però, continua Mendelsohn, è segnalato «dalla ripetizione di quella stessa formula fissa o scena ricorrente che aveva marcato il momento del distacco». Qui entra in gioco un tema tanto caro a Sebald: la coincidenza, che, come sottolinea Vanni Santoni in un suo articolo su Trilogia della guerra per «La Lettura», risulta presente anche nella narrativa di Fernández Mallo. In questo caso, la coincidenza – o eco, come scrive Santoni – serve per rimediare a un’apparente assenza di collegamento fra i tre libri.

Se, dunque, in Prima della pioggia le tre parti sono congiunte dal ricorrere di una frase, e le quattro storie degli Emigrati di Sebald sono connesse grazie all’onnipresente figura del cacciatore di farfalle, le tre storie – o i tre anelli – di Fernández Mallo sono collegate fra loro dal ricorrere di diversi elementi: la frase «The Crime of the Century», il verso del poeta Carlos Oroza «è un errore dare per scontato ciò che fu contemplato», la bakery Antonio’s o il riferimento al Kentucky Fried Chicken e alle immagini del vomito e dell’astronauta. Questi elementi di coincidenza sono, però, da ricollegarsi alla teoria della spazzatura citata prima, che riecheggia nelle parole dell’uomo che nel primo libro si spaccia per Salvador Dalí:

«“Ragazzi, non si dovrebbe riutilizzare la spazzatura, bisognerebbe lasciarla in pace, la spazzatura un giorno o l’altro ci seppellirà, ci farà fuori, ma non per eccesso, bensì per difetto, se ricicliamo tutto, dove andrà a finire la memoria? Come ci riconosceremo nel passato se tutto viene radicalmente trasformato? […] Se la eliminassimo o la trasformassimo del tutto, se la riciclassimo completamente, ci separeremmo dalla Storia, dalla nostra Storia, ed entreremmo in una specie di realtà parallela rispetto alle civiltà che ci hanno preceduti e con cui siamo paradossalmente imparentati […]”».

La spazzatura è da intendersi in senso metaforico: gli elementi di coincidenza che ritornano nelle tre storie sono parti di quella che nel terzo libro viene definita «storia a frattale», ovvero un susseguirsi di strati e strati di Storia in cui i traumi della guerra vengono sepolti creando una Storia altra che spetta ai personaggi riscoprire – come succede, di nuovo, in Austerlitz di Sebald, dove dietro al Fort Breendonk o alle abitazioni del vecchio ghetto di Terezín si nascondono le tracce delle atrocità dei nazisti. Lo scrittore del primo libro, per esempio, scopre che dietro l’albergo e la sala conferenze dell’isola di San Simón si cela un vecchio campo per prigionieri della guerra civile spagnola. Il fantomatico astronauta Kurt Montana del secondo libro, invece, vede nelle parate del 4 luglio, nella sua reclusione alla Residenza – una clinica situata in Florida – e nei cavi della linea elettrica di Los Angeles i suoi trascorsi nella guerra in Vietnam. La donna del terzo libro, infine, si perde nei ricordi: la forma a pistola del Museo Guggenheim;  le pietre generatesi dall’esplosione della bomba nucleare a Hiroshima osservate al museo Einstein di Berna; la porcellana cinese, il cui termine inglese “bone china” rimanda non solo alla polverizzazione delle ossa di animali con cui si realizzava, ma anche alle vittime del colonialismo inglese.

Le tracce del passato della guerra perseguitano, dunque, i tre protagonisti, costringendoli a riconoscere l’esistenza di un «lato B del tessuto della nostra realtà, a tal punto sconosciuta che ci dedichiamo a soppiantarla». Quella rimossa della guerra è realtà che va accettata, poiché necessaria per il cambiamento e il progresso. Anche se, come afferma la donna del terzo libro, noi siamo «il risultato di un’incessante falsificazione», frutto di un continuo lavoro di cancellazione del passato, i morti del passato rivendicano il proprio posto nel presente. Ed è così, allora, che posti come la bakery Antonio’s, l’isola di San Simón o la costa della Normandia gremita di gente in campeggio sono il frutto della negazione e della falsificazione della Storia, sia per proteggersi da un trauma che per nascondere il proprio coinvolgimento nel crimine del secolo, o meglio, dei secoli: la guerra, nuova e antica allo stesso tempo, che distrugge la nostra civiltà ma che è necessaria per far andare avanti il progresso, sebbene questo sia fatto con le ossa di tanti innocenti.

«Siamo il nostro passato morto, siamo tutte le bare che ci hanno preceduti». Così afferma la madre di Kurt, e così si potrebbe riassumere la Storia secondo Trilogia della guerra. Agustín Fernández Mallo riesce a confermare e a portare su un altro livello quello che W.G. Sebald ha raccontato prima della sua morte nel 2001: la nostra è una “storia naturale della distruzione” fatta di silenzi e rimossi, di morti che cerchiamo di nascondere per non ammettere a noi stessi la colpa di aver perpetrato il Male e la distruzione ai fini del progresso; siamo la somma dei residui della spazzatura della guerra, un “crimine del secolo” perpetuo che ci rende quello che siamo attraverso le macerie che restano.

 

(Agustín Fernández Mallo, Trilogia della guerra, traduzione di Silvia Lavina, Utopia Editore, 2022, 456 pp., euro 20, articolo di Alberto Paolo Palumbo)

 

Copertina di Le portatrici di Schiefauer

Una nuova frontiera tra distopia e femminismo

«La verità è una questione dell’immaginazione», scriveva Ursula K. Le Guin nell’introduzione al suo capolavoro, La mano sinistra del buio, romanzo capostipite della narrativa distopica femminista che, soprattutto grazie a Margaret Atwood, ha raggiunto ormai il grande pubblico. Il corpo femminile, e in particolare il suo potenziale biologico riproduttivo, è uno dei temi attorno a cui ruotano buona parte dei romanzi ascrivibili al genere.

Negli ultimi anni, autrici come Christina Dalcher, Leni Zumas e Sophie Mackintosh hanno raccolto il testimone di Atwood esplorando le possibili deviazioni dalla maternità comunemente intesa attraverso storie ambientate in un futuro non troppo distante dal nostro presente. Romanzi come Orologi rossi o Biglietto blu raccontano, infatti, di società simili a Gilead, in cui i corpi delle donne sono stati definitivamente ridotti alla loro mera funzione biologica e le cui protagoniste, in modo più o meno consapevole, si ribellano al sistema.

Pur incentrandosi sullo stesso argomento, Le portatrici di Jessica Schiefauer (Fandango Libri, 2022) rovescia completamente la prospettiva, descrivendo un mondo in cui sono le donne a controllare e pianificare non solo la loro capacità riproduttiva ma qualsiasi altra forma di potere. Con questo romanzo, l’autrice svedese riesce nell’ardua impresa dell’intersezionalità traslando in forma narrativa i grandi problemi del nostro tempo: dal cambiamento climatico alle questioni inerenti al lavoro e alla giustizia sociale, dall’invecchiamento demografico all’antispecismo.

L’incipit è talmente attuale che risulterebbe persino ridondante se non sapessimo che il romanzo è stato scritto nel decennio precedente allo scoppio della pandemia da Coronavirus: il testo che avvia l’opera, infatti, è un immaginario Trattato dei Continenti Uniti da cui si evince che, a seguito della diffusione di un morbo letale, l’umanità è stata separata. Maschi da una parte e femmine dall’altra. Gli uomini, chiamati diffusori, vivono in una sorta di quarantena perenne, nell’attesa che venga scoperta una cura: sono loro a trasmettere la malattia. Le donne, indicate come portatrici, hanno nel frattempo ridisegnato confini e giurisdizioni, plasmando una società apparentemente più equa, tollerante e sostenibile.

Nikki, la protagonista del romanzo, vive a Irisburg, nel continente scandinavo, serena e pienamente soddisfatta della sua vita così com’è; la sua compagna Simone, al contrario, è sempre più inquieta: vorrebbe avere una bambina ma i tentativi di fecondazione non vanno a buon fine. Il suo desiderio diventa sempre più ossessivo al punto che Nikki, per amore, certo, ma forse anche per esasperazione o per timore che l’idillio sentimentale svanisca per sempre, si offre come portatrice al suo posto, senza immaginare quanto e come questa esperienza si rivelerà sovversiva e rivoluzionaria.

La gravidanza consentirà a Nikki di riscoprire il suo corpo e di rimetterlo letteralmente al mondo; l’incontro con un personaggio misterioso e indefinibile le permetterà, infine, di comprendere un po’ alla volta e a caro prezzo quanto ogni esistenza umana sia inevitabilmente correlata a tutte le altre.

Schiefauer costruisce un crescendo di peripezie che consentono alla sua protagonista di interrogarsi sulle dinamiche relazionali tipiche della nostra specie, in un caleidoscopio di emozioni, istinti e ragionamenti in cui natura e cultura si intrecciano di continuo. L’idea stessa di famiglia, di genitorialità, di legame di sangue viene rovesciata e ridefinita grazie alle molteplici sottotrame che convergono, l’una dopo l’altra, nel medesimo filone narrativo.

La lettura scorre senza intoppi nonostante il mondo immaginato dall’autrice sia molto diverso da quello reale. Non si fa alcuna fatica a visualizzare i kondo in cui i personaggi vivono né a raffigurarsi lo schermolibro che usano per annotare i loro pensieri, per votare, per connettersi. Merito della lucidità che caratterizza la scrittura di Schiefauer ma anche del lavoro di traduzione di Samanta K. Milton Knowles, che restituisce tutta la chiarezza espositiva e mai didascalica del testo originale, attraverso un lavoro premuroso con le parole inventate dalla scrittrice per indicare ciò che non trova alcun corrispettivo nella realtà attuale.

Il gioco immaginifico della fantascienza letteraria è l’espediente che consente all’autrice di mettere in luce la verità riguardo al potere che è sempre, ontologicamente, asimmetrico. Le portatrici è un romanzo che indaga le paure ancestrali per eccellenza degli esseri umani, quella della malattia e quella della morte: il controllo della fecondità diventa, perciò, l’equivalente contraltare posto in essere nel tentativo – vano, talvolta folle – di sottrarci alla nostra ineluttabile finitezza. Affrancarsi del tutto da un’angoscia così istintiva e radicata è probabilmente impossibile, ma a questo servono le ninne nanne, che nel romanzo hanno una certa importanza: a lenire l’inquietudine per scivolare dolcemente in quella dimensione misteriosa e indispensabile chiamata sonno.

 

(Jessica Schiefauer, Le portatrici, trad. di Samanta K. Milton Knowles, Fandango Libri, 2022, 352 pp., euro 22, articolo di Cristina Cassese)
Poster del film Handia

Prima della politica

Handia (che vuol dire ‘grande’ e si legge andìa) è un film integralmente girato in euskera, la lingua basca, e racconta la storia reale di Mikel Joakin Eleizegi Arteaga, un uomo nato nel XIX secolo ad Altzo, un piccolo villaggio dell’entroterra basco-spagnolo, e affetto da una rara forma di gigantismo. La brochure della pro loco di Altzo presenta con queste parole questo personaggio così importante per la comunità: «In tutto il mondo è conosciuto come il Gigante Eleizegi, nei Paesi baschi come il Gigante di Altzo e ad Altzo come il Nostro Gigante».

Nel 2017 la pellicola, diretta da Aitor Arregi e Jon Garaño, co-autori anche della sceneggiatura, viene presentata al 65° Festival internazionale del cinema di San Sebastián (Zinemaldia, per chi se ne intende). Se nell’occasione il film vince il Premio Speciale della Giuria, l’anno successivo si porta a casa ben 10 premi Goya, il massimo riconoscimento cinematografico spagnolo, tra cui miglior attore esordiente (Eneko Sagardoy) e miglior sceneggiatura originale. Vale solo come aneddoto, ma nella storia di questi premi hanno fatto meglio solo ¡Ay Carmela! di Carlos Saura (1990, 13 premi) e Mare dentro di Alejandro Amenábar (2005, 14 premi).

Per essere un film parlato per il 95% in basco, e provenire quindi da una nicchia all’interno del panorama cinematografico spagnolo, Handia ha potuto contare su un budget di 3,5 milioni di euro, una cifra non indifferente in termini assoluti, anche se forse ridotta se si considera la storia raccontata e gli effetti necessari. Arregi e Garaño hanno perciò portato in scena una pellicola sobria ma mai sciatta che sviluppa i suoi temi coinvolgendo emotivamente il pubblico. Sebbene sia uscita cinque anni fa, la platea cinefila italiana lo può recuperare oggi sul catalogo di Netflix e vivere la rara esperienza di guardare un film in euskera (non c’è il doppiaggio in italiano).

Oltre a valere la visione, Handia offre anche uno sguardo inedito su alcuni aspetti caratteristici della società basca prima del dirompente avvento di Sabino Arana. Arana tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo fonderà il Partido Nacionalista Vasco e soprattutto teorizzerà il nazionalismo basco, ossia l’unica chiave di lettura che da quel momento in avanti, e ancora oggi, dominerà il racconto dei Paesi baschi fuori dai confini. In questo breve percorso nella Storia e nelle storie di Handia saremo accompagnati dalle riflessioni di Joseba Usabiaga (che nel film interpreta Martín, il fratello del gigante), con cui abbiamo recentemente parlato.

Scena del film Handia

Eneko Sagardoy e Joseba Usabiaga durante le riprese di Handia.

Già i primi minuti ci catapultano all’interno della Storia. Prima di avvisarci che quelli che seguono sono eventi reali, i titoli di testa riferiscono che la fine del XVIII e tutto il XIX secolo in Europa sono segnati da conflitti che hanno come oggetto le tensioni tra il vecchio e il nuovo regime. È il 1836 e in piena notte l’esercito carlista si presenta alla fattoria in mezzo ai monti dove vivono e lavorano, insieme al resto della famiglia, i fratelli Martín (Joseba Usabiaga) e Joaquín (Eneko Sagardoy). I carlisti hanno bisogno di uomini e Martín è il figlio che il padre decide di spedire in guerra, tenendo Joaquín a lavorare alla fattoria.

Lasciamo per un momento Martín che non si capacita dell’ingiustizia che sta subendo e approfondiamo una questione fondamentale per capire questa porzione di terra tra il golfo di Biscaglia e il fiume Ebro. In Italia già facciamo fatica a raccapezzarci con gli eventi del Risorgimento per avventurarci oltre, ma il movimento carlista, oltre ad aver dato origine a due guerre civili (1833-39 e 1872-76), contiene alcune delle radici ideologiche e delle istanze del nazionalismo basco che verrà. Il carlismo, all’epoca molto presente nei territori che oggi compongono la parte spagnola dei Paesi baschi (Navarra e País Vasco), rappresenta la società tradizionale dell’Antico Regime, profondamente cattolica, contraria alla modernizzazione e al liberalismo, ma soprattutto sostenitrice dell’autonomia amministrativa incarnata da un sistema codificato di norme giuridiche: i fueros.

Di origine medievale, i fueros con il tempo vengono formalizzati fino a diventare il telaio giuridico-amministrativo su cui si reggeranno i territori della monarchia spagnola durante l’Antico Regime. I fueros conferivano alla popolazione basca autonomia in ambito militare, fiscale e doganale, diritti di disobbedienza ai decreti reali e privilegi solitamente riservati ai nobili. Verso la fine del XIX secolo la difesa dei fueros si estende anche a settori liberali e democratici, configurandosi poi come uno dei principi di un crescente movimento autonomista e regionalista. È importante sapere che l’eredità delle norme forali garantisce ancora oggi alle regioni della Navarra e del País Vasco un’ampia autonomia amministrativa ed economica, seppur con alcune differenze tra i due territori.

Dicevamo di un Martín disorientato, che si trova da un giorno all’altro a combattere sui monti e nelle valli al fianco di altri baschi e navarresi di estrazione rurale, con il basco rosso in testa (il segno distintivo dei carlisti) e il fucile con la baionetta (altra invenzione basca) nelle mani. Gli occhi malinconici di Usabiaga descrivono un ragazzo che si sente tradito, esiliato dagli affetti e dal mondo in cui aveva sempre vissuto; un ragazzo che in fondo è anche un inetto e che in uno scontro a fuoco viene ferito e perde l’uso del braccio destro. La guerra finisce e Martín torna a casa, consapevole che non potendo contribuire alle attività della fattoria finirà per essere un peso in una famiglia che già sfama con difficoltà le tante bocche presenti. Quando però entra in chiesa per riabbracciare dopo tanto tempo gli abitanti del suo mondo che erano lì riuniti, si accorge che suo fratello Joaquín è diventato un gigante.

«Io sono di Tolosa, un paese a tre chilometri da Altzo, il villaggio in cui è ambientata la vicenda», ci spiega Joseba Usabiaga. «Qui nella zona la storia del gigante è molto conosciuta, perché sin da piccoli ce la raccontano a scuola o in famiglia, mentre per esempio Eneko Sagardoy [che interpreta Joaquín], che è di Durango, un paese della provincia di Bizkaia, non la conosceva».

Usabiaga ci parla poi della pressione speciale che ha sentito durante questo progetto: «Per me è stato un onore far parte di questa produzione e avere avuto modo di far conoscere questa storia sia a quelle parti dei Paesi baschi che non ne avevano mai sentito parlare sia al resto del mondo. È però vero che, a differenza magari di altri lavori, questa volta avevo veramente a cuore il risultato finale, sia della mia interpretazione personale sia del film in generale. Per fortuna le persone l’hanno visto ed è andato tutto bene».

Nonostante la bizzarra presenza di un ragazzo alto quasi due metri e mezzo, il film ci mostra alcune immagini di vita familiare. Prendiamo spunto per segnalare altri due elementi tipici della società basca moderna, e in parte anche contemporanea. Il primo è la fede cattolica, un elemento che accomuna peraltro le province basche al resto dei territori spagnoli. Nel saggio Miseria e splendore della traduzione, Ortega y Gasset sosteneva che l’euskera, in assenza di un segno per indicare Dio, dovette ricorrere a quello che significava ‘Signore di ciò che sta in alto’, Jaungoikua, e che a causa di questa mancanza pensare Dio per i baschi costasse un grande sforzo e che quindi ci misero tanto a convertirsi al cristianesimo. Valida o meno questa suggestione, la religione cattolica è radicata nella società basca da tanti secoli, al punto che i rapporti tra il clero regionale e il nazionalismo radicale nella seconda metà del Novecento sono stati a volte ambigui.

Il secondo elemento è quello che nei sottotitoli italiani appare come ‘fattoria’ ma che in basco è il baserri, la dimora rurale tipica della zona. Il baserri era il nucleo attorno al quale nel passato si sviluppava la società basca, che curava le proprie terre e il proprio stile di vita al ritmo delle stagioni. Un contesto in cui il cristianesimo si era infatti innestato nella forma più naturale possibile. Come per tanti nuclei dell’epoca, la sorte e l’andamento del baserri degli Eleizegi avrà anche una parte nella vicenda raccontata in Handia, perché è determinante per la sussistenza della famiglia.

«L’attaccamento speciale alla famiglia e alla casa familiare, al baserri, è senza dubbio una peculiarità basca. È il luogo in cui ci si aiuta per mandare avanti il lavoro e assicurare una stabilità emozionale ed economica», commenta Usabiaga.

Scena del film Handia in chiesa

L’altezza di Joaquín viene misurata sul muro della chiesa.

Invalido e senza arte né parte, per sfuggire alla povertà Martín pensa all’idea di esporre il fratello gigante in giro per i paesi. Nel farlo coinvolge l’imprenditore Arzadun (Iñigo Aranburu), che aveva conosciuto qualche tempo prima a Tolosa: una sorta di versione basca del circense Barnum.

In quell’occasione abbiamo anche un breve assaggio di un’ultima diapositiva sulle tradizioni popolari basche. A Tolosa infatti Arzadun era impegnato a gestire le scommesse intorno a quelli che vengono definiti herri kirolak, sport rurali che nascono dalle attività fisiche fondamentali nel baserri (per esempio trascinamento pietre, sollevamento carri o taglio dei tronchi). Basati sulle sfide tra i partecipanti e sulle scommesse del pubblico, questi sport esistono ancora oggi. Sembra assurdo ma, per citare un esempio molto calzante, solo pochi mesi fa una piazza di Tolosa si è riempita di svariate centinaia di persone giunte per assistere alla competizione tra due accettatori di tronchi “professionisti” (e sui cui probabilmente avevano anche scommesso).

È a questo punto che si manifesta la dicotomia che il film suggerisce sin dalle prime scene, quella tra una società immutabile scandita dalle abitudini e un cosmo in trasformazione. I fratelli lasciano il piccolo mondo contadino per calcare il palcoscenico del grande mondo fuori dalle valli e dalle montagne che avevano sempre costituito i loro confini esistenziali. La campagna carlista che si contrappone alla città liberista, potremmo dire.

Escono per andare incontro a soldi ed emancipazione, assaporando il brivido dell’ignoto e della scoperta ma anche il senso di inadeguatezza e umiliazione (a un certo punto Joaquín sarà costretto a spogliarsi di fronte alla regina Isabella II curiosa di saper se è vero quel che si dice intorno ai giganti). Il primo grande scoglio che si trovano davanti è però quello della lingua: se da una parte Joaquín non capisce altro che il basco, Martín si accorge presto che deve almeno migliorare il suo spagnolo molto rudimentale se vuole sperare di guadagnare un suo posto fuori da casa.

La questione della lingua non è stata secondaria neanche dal punto di vista artistico nel progetto Handia. «Ho la fortuna di parlare bene sia l’euskera sia lo spagnolo, e in effetti non ci sono tanti attori baschi che conoscono molto bene l’euskera, quindi ho la possibilità di avere accesso ad alcuni ruoli con un po’ più di facilità», spiega Usabiaga. «Non trovo molte differenze tra studiare un copione in basco o in spagnolo, ma se posso scegliere preferisco recitare in euskera per contribuire nel mio piccolo alla cultura basca ed essere riconosciuto nella mia terra».

Le stupende prove attoriali di Sagardoy e Usabiaga danno vita sullo schermo a un intimo rapporto tra fratelli, uniti nell’amore che provano l’uno per l’altro ma divisi nella visione della vita, nell’equilibrio in continua negoziazione tra l’attaccamento alle proprie radici e la voglia di abbracciare il mondo esterno.

Si sofferma sull’incastro tra i due fratelli anche Usabiaga: «Credo che Martín e Joaquín esprimano chiaramente la lotta interna, che ci accomuna tutti, tra la voglia di aprirsi al mondo e il legame con le proprie origini. Più volte nel film sono mostrati come complementari: a un certo punto il gigante dice che sente le proprie ossa muoversi e crescere dentro di sé, sebbene sia quello dei due che più vorrebbe rimanere a casa. D’altra parte Martín, che vuole uscire, andare in America e scoprire nuove cose, ha un braccio immobile che gli impedisce di fare quello che vorrebbe. Sono però anche espressione di contraddizioni: se avesse avuto la possibilità forse Martín non sarebbe comunque partito per l’America, mentre Joaquín è subito disposto a mettere in vendita il suo corpo in giro pur di aiutare economicamente la famiglia».

Seduti a un tavolo nel baserri, in un momento di magra degli affari, l’impresario Arzadun dice a Martín di concentrarsi sulla fattoria, perché la capacità di adattarsi è la qualità migliore che possieda l’essere umano. «Io credo il contrario: che sia la nostra più grande miseria», risponde Martín con lo sguardo perso a mezz’aria.

La storia che Handia ci racconta ha spesso l’atmosfera eterea di una favola. Contribuisce una musica sospesa, a cui partecipa anche la txalaparta, lo strumento a percussione tipico dei Paesi baschi che si suona in coppia, le cui origini si perdono nei pascoli verdeggianti. Come una favola il film è diviso in capitoli, e come in una favola compare anche un animale dai comportamenti “umani”.

Per concludere, chiediamo a Joseba Usabiaga di aiutarci a capire i Paesi baschi in poche parole.

«Sicuramente di partenza non siamo così aperti come potrebbero esserlo gli italiani, per esempio. Dobbiamo superare una diffidenza iniziale, ma poi trattiamo il prossimo come se fosse uno di casa. Siamo anche un popolo lavoratore, con un’etica del lavoro molto sviluppata. E poi basta, direi. Alla fine neanche siamo così diversi dal resto del mondo».

(Handia di Aitor Arregi e Jon Garaño, drammatico/storico, 2017, 114’)

Le tentazioni di sant’Antonio

Tarchetti, un’eziologia del malessere

Più che un romanzo di memorie Fosca, capolavoro letterario di Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869) e uno dei romanzi simbolo della Scapigliatura, è un esercizio di anamnesi medica: confidando nelle facoltà terapeutiche della scrittura, il protagonista Giorgio – ormai malato di un male inesorabile che ne rode i nervi e la psiche – decide di ripercorrere per un’ultima volta la farragine confusa di ricordi in cui si annidano le cause della sua infermità. Il “quadro clinico” che ne affiora è quello di un animo dilaniato e insoddisfatto, oppresso dalla convenzione e dalla morale ma incapace di vivere al di fuori di esse; dilaniato, insomma, da due forze opposte, che nel romanzo si incarnano nelle due donne con cui Giorgio intrattiene rapporti più o meno apertamente amorosi, sempre al limite della morbosità: Clara e Fosca.

La rincorsa dirotta di una “eziologia del malessere” trascende il racconto della storia d’amore fatale alla base del romanzo (tratta dall’esperienza autobiografica dell’autore), trasfigurandola in un’allegoria da potersi leggere sul piano esistenziale; d’altra parte, il sapiente sfruttamento degli strumenti ermeneutici del naturalismo e del simbolismo d’oltralpe – branditi con vis reazionaria contro le derive più sentimentalistiche del romanticismo nostrano – permette all’autore di approdare ai lidi frastagliati di un anacronistico percorso psicanalitico ante litteram.

Lo psicologismo di Tarchetti precorre i tempi, o piuttosto incamera quelle suggestioni tardo/postromantiche e naturaliste che crearono un terreno fertile per la psicanalisi freudiana; il romanzo somiglia a un dramma psicologico, i cui quattro personaggi coprotagonisti riecheggiano altrettante ipostasi dell’animo di Giorgio. Persino i loro nomi richiamano dei ruoli per così dire archetipali, o quantomeno stereotipici, riflettendo la funzione narrativo-epistemica loro affidata: due di loro (“il medico” e “il colonnello”) addirittura non hanno nome, mentre quello del protagonista appare solo a narrazione più che avviata, e quasi passa inosservato; di converso, è facile intravedere dietro i nomi di Clara e Fosca degli eloquenti senhal. Le due costituiscono i poli di una coppia oppositiva non priva di sbilanciamenti (il romanzo è intitolato alla seconda, mentre la prima abita a malapena lo spazio di una trentina di pagine), la cui specularità è spasmodicamente ribadita: da un lato Clara, una Gradiva leggiadra che ritiene tutta la portata salvifica della donna-angelo stilnovista (o «donna-anima», nella definizione di Giorgio/Tarchetti) – in grado, attraverso la pietà e l’amore, di guarire il protagonista dallo stato di patologica melanconia in cui versa nelle prime battute del libro. «Alta, pura, robusta, serena», Clara incarna la summa delle tradizionali virtù muliebri: non solo è bella, ma anche «forte, giusta, severa».

 

 

La sua femminilità rassicurante appare per così dire archetipica, tanto che il protagonista riconoscerà il segreto del suo fascino nella strabiliante somiglianza alla propria madre. Fosca, di converso, è un vero e proprio mostro, una moderna banshee in grado di drenare con il proprio amore oppressivo e bulimico le forze vitali dell’amato. Chiusa nelle sue stanze impenetrabili, la sua presenza fantasmatica aleggia nei discorsi degli astanti, che ne ripetono la leggenda; ne emerge solo per incontrare Giorgio, che a sua volta è l’unico – in due sole occasioni, non a caso le spannung del romanzo, e solo una volta trascorsa la mezzanotte – a poter varcare la soglia dell’antro in cui è rinchiusa. La sua stessa esistenza è un portento, «una specie di fenomeno, una collezione ambulante di tutti i mali possibili» che ne modellano le fattezze: orribilmente magra, la testa troppo grande, i capelli folti, lunghissimi, neri. È, anche lei, archetipo femminile: se Clara è la madre, Fosca è la strega. Dal punto di vista morale, mentre Clara rappresenta un’etica borghese non priva di ipocrisie (si tratta pur sempre di una donna sposata) ma generalmente stabilizzante e rassicurante, le idee poetico-programmatiche di Fosca ne riflettono il vitalismo, l’anti-intellettualismo – e non possono rispecchiare in toto quelle di Tarchetti, che invece pare voler proporre, nel suo libro, riflessioni a tratti persino moraleggianti.

Le idee di Fosca sono dirompenti, e denunciano i limiti palesi di una società cattolica e perbenista: il piacere, l’amore, è pieno solo se lo si esperisce egoisticamente, a costo di trascendere la morale. D’altronde il protagonista stesso, ferito nella coscienza dall’amore per una donna sposata, si rende conto di quanto siano stringenti le leggi dell’uomo, e spera in un avallo ultraterreno di ciò che le convenzioni sociali non possono accettare; il vitalismo di Fosca invece ha un carattere fortemente immanente, riconduce il piacere alla dimensione terrena del qui e ora. È la sua schiettezza a renderla ripugnante, più ancora che la sua apparenza. Il rapporto Giorgio-Fosca è tarpato da uno stallo che paralizza il protagonista: pur rendendosi conto della propria ipocrisia, non può in alcun modo avallare il suo pensiero, eppure è evidente che Giorgio – come Tarchetti – fatichi a confutarla.

Per dirimere la foreclosure di Giorgio è dunque necessario l’intervento di un mediatore, che possa approntare uno spazio in cui l’impatto tra i due caratteri si riveli in qualche modo fruttuoso – ruolo che Tarchetti affida, significativamente, al medico che ha in cura la donna: egli incarna la voce della ragione materialista, scevra (o suppostamente scevra) di sovrastrutture morali. Il medico non dà giudizi e non si occupa di questioni di principio, si limita ad analizzare i fatti con razionalità e a proporre soluzioni empiriche a problematiche immediate, senza per questo rinunciare a una propria etica professionale; l’assenza di una dimensione erotica nel rapporto tra lui e il protagonista permette l’instaurarsi di un dialogo cristallino e sereno, non ottenebrato da passioni perturbanti e antitetiche.

Così Clara e Fosca incarnano il duplice volto della donna-madre e della donna-strega, il colonnello (ospite di Giorgio e tutore della cugina Fosca) quello rassicurante e al tempo stesso coercitivo della convenzione e il medico la saggezza materialistica e antispirituale del naturalismo. Il dilaniante dualismo Clara/Fosca, che costituisce il centro tematico del romanzo, si riflette sullo stile – conservandone anche le sproporzioni: la prosa è spesso convulsa, nervosa, aritmica, risonante degli isterismi dionisiaci di Fosca, concedendosi dei saltuari slanci di lirismo che però paiono quasi sempre artificiosi, fuori posto, a tratti persino ridicoli, sempre poco convinti.

Il conflitto che strazia il cuore e la psiche di Giorgio si ritorce su se stesso fino a collassare nel paradossale ribaltamento finale: le contraddizioni intrinseche al personaggio di Clara, cui finora Tarchetti si limita ad alludere, implodono nel fatale allontanamento della donna che, stritolata anch’essa dai vincoli della convenzione, è costretta a rinunciare al proprio amore. «Voleva dirti che io morirei perdendoti […] e ciò forma la mia gioia: io sono dunque ben certo di non perderti che morendo»: è Clara il vero mostro – con la sua spietata abiura ha ucciso un uomo. Alla violenza si ripara con la violenza, e solo l’omicidio può saziare la sofferenza di Giorgio, che accetta di sfidare in duello il colonnello offeso dalla relazione sotterranea che il protagonista ha intessuto con la cugina. E se amore e morte sono complementari, allora Fosca è davvero degna d’amore: lei che ha amato e inflitto sofferenza, che drena la vita e accetta la morte – di sé e del suo amante a un tempo; la notte prima del duello, i due giacciono in un abbraccio che per Fosca, viste le sue condizioni, non può che risultare letale. Il romanzo tuttavia non si chiude su una riflessione manieristica sull’intreccio fatale di eros e thanatos: i rovelli cervellotici del Tarchetti-eziologo finiscono piuttosto per schiantarsi contro il muro imperscrutabile di un’indomabile determinismo, che cancella con un colpo di spugna finale la validità di ogni dietrologia. «La coscienza è codarda», afferma il medico nell’explicit del libro, «essa si atterrisce spesso di mali che non commise, o che non potea non commettere. Una cieca fatalità muove e dirige le azioni di tutti gli uomini; non date loro maggiore responsabilità di quella che vi assegnano i limiti ristrettissimi del vostro arbitrio. Addio, mio buon amico, possiate essere felice, e non farvi rimprovero d’una sciagura di cui non siete stato che uno strumento».

 

 

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Nel testo, bassorilievo romano della Gradiva, IV secolo a.C., Roma, Museo Chiaramonti; un fotogramma da Passione d’amore (Ettore Scola, 1981), adattamento cinematografico di Fosca – per altri adattamenti cinematografici di opere di Scapigliati si rimanda all’articolo di Claudia Cautillo.

In copertina, Félicien Rops, Le tentazioni di sant’Antonio, 1878, Bruxelle, Bibliothèque Royale de Belgique, Cabinet des Estampes.

Copertina di Le perfezioni di Latronico

L’eleganza apparita

«La vita, qui, sarebbe facile, sarebbe semplice. Tutti gli obblighi, tutti i problemi che comporta la vita materiale, troverebbero un’ovvia soluzione», scriveva Georges Perec in Le cose, nel 1965. «La vita promessa da queste immagini è tersa, concentrata, facile», risponde Vincenzo Latronico nel suo nuovo romanzo Le perfezioni, edito da Bompiani. Il paragone fra i due romanzi non è casuale, né arbitrario, perché è lo stesso Latronico a esplicitarlo. Potremmo quasi definire l’opera una sorta di cover, se fossimo nell’ambito musicale, o un reloaded per restare invece nell’attualità web, di cui è impregnato il romanzo.

I protagonisti, Anna e Tom, sono due trentenni milanesi che hanno un appartamento a Berlino, dove si sono trasferiti a lavorare per scelta meditata. Il loro è un appartamento luminoso, arredato con gusto, il gusto imperante ai tempi di Instagram, perfetto per essere fotografato, mostrato e, quando necessario, affittato su Airbnb. Lo stesso vale per le loro vite, che filtrano, che rendono patinate e perfette agli occhi degli altri, e alla fin fine anche ai loro. D’altro canto sono designer, è il loro campo naturale, e Berlino appare loro una città vitale e dinamica, che sa offrire ciò che è à la page, come la Parigi di Jérôme e Sylvie nel romanzo di Perec.

Si circondano di persone che definire con fermezza amicizie è avventato, ma che di certo come loro evidenziano la «spia di una solitudine che tutti si sforzavano di esorcizzare». Così, quel che traspare è che la loro unione sia un’àncora: «Il loro amore si approfondiva ogni giorno. Erano amanti, compagni, migliori amici», che finisce con l’acuire il senso di solitudine, di un’esistenza leziosa e artificiosa che con maestria Latronico restituisce al lettore anche stilisticamente.

Durante il progredire della narrazione si percepisce forte un senso di sospensione, di vita sotto vuoto, o se si preferisce di vita sotto vetro di un touchscreen. Eppure Anna e Tom non danno l’idea di essere del tutto inconsapevoli della loro condizione, se è vero che «temevano di essere contenti perché si erano accontentati». Su questa incrinatura, su questo sbaffo, l’intero impianto narrativo prende una luce, anzi un’ombra esistenziale sartriana.

La perfezione delle immagini diventa al contempo l’obiettivo e la determinazione del sé, come se fuori dalle immagini, dalla rete sociale (nel romanzo ci si concentra soprattutto su Instagram), ci sia il rischio di non trovare la realtà, così che Anna e Tom «vivevano due vite. C’era la realtà tangibile, che li circondava; c’erano le immagini. Li circondavano anche quelle». Questa sovrapposizione tra realtà e immagini che diventano un unicum è ciò che di estremamente interessante racconta Le perfezioni. D’altronde Anna e Tom sono dei creativi, costruiscono il loro status sociale sulle immagini, e da esse trovano il sostentamento economico. Finché ne restano imprigionati, irretiti in ogni aspetto della loro quotidianità, perfino nel sesso.

E su questo Latronico scrive le pagine più belle e al contempo drammatiche e soffocanti. Il capitolo in cui affronta la loro vita sessuale in una routine che, ovviamente, si «era perfezionata abbastanza presto nella loro relazione, e li aveva sempre soddisfatti». Ma sarà vero? Chiaramente no. O meglio, è l’autore dall’esterno a dirci che «la scopata era stata uguale a quella della settimana scorsa, di due mesi fa, di tre anni fa», ma se ne rendono conto anche loro, così non respingono l’idea di provare altro, di sperimentare. Tuttavia anche in questo caso resterà, al solito, una ricerca di immagini dettate dal «mondo tutt’intorno [che] offriva un’immagine così entusiasmante di ciò che avrebbe potuto essere la loro vita sessuale»; e su quel condizionale, su quell’«avrebbe potuto» fa perno l’intera narrazione, l’intera relazione, fino alla scelta finale. Del resto il concetto stesso di perfezione cela in sé il condizionale – nessuno è perfetto ma tutti vorrebbero tendere alla perfezione.

Il romanzo, come detto, ricalca quello di Perec anche nel movimento narrativo, e al pari di Le cose deve magari fare i conti con le analisi e le critiche che ai tempi furono mosse a Perec. Così, lo si potrebbe sbrigativamente definire un romanzo generazionale, ma a mio avviso si commetterebbe un errore, perché c’è molto di più. Quello che risalta è un’analisi sociologica di un segmento, non indifferente e trasversale (per questo non generazionale), della società sempre più impaludato nelle immagini, tanto da non riuscire neanche più a sviluppare contenuti privi di esse. E ancora peggio sempre più incapaci di interpretare contenuti non corredati da immagini.

Ai tempi, Perec ci rimase male quando qualcuno definì Le cose più un’analisi sociologica che un’opera letteraria. Eppure, a distanza di quasi sessant’anni quel romanzo ha ancora una sua attualità che solo le opere letterarie hanno. Senza alcun indugio si può dire che Le perfezioni è un romanzo letterario, che sa attraversare un’epoca, che sa leggere sociologicamente un periodo senza rimanerne imbrigliato, perché di Anna e Tom ce ne saranno a bizzeffe anche nel futuro, così come ce n’erano in passato.

Vincenzo Latronico è scrittore raffinato, sa museificare il tutto con una scrittura che di certo appare spesso algida e patinata, ma per questo capace di riprodurre quell’eleganza apparita, nel senso che appare, che assume i crismi della realtà senza esserla. Con uno stile che sa fluttuare tra dolcezza e spaesamento, tra lucidità e desolazione. Lo fa senza mai giudicare Anna e Tom, senza mai lasciarsi andare a moralismi o, peggio, a paternalismi sociologici, sebbene un velato umorismo talvolta si incunei nelle pagine e finisca con l’inclinare, come detto, la narrazione verso una forma di esistenzialismo che lega a sé il lettore, il quale, comprensibilmente, di primo acchito avrà voglia di allontanare da sé storia e personaggi.

 

(Vincenzo Latronico, Le perfezioni, Bompiani, 2022, 144 pp., euro 16, articolo di Fernando Coratelli)

 

Copertina di L'arte queer del fallimento

Fallire coi fiocchi

[…] non avrei saputo trovare per lei una definizione più pertinente di quella che Lambert Strether, il protagonista degli Ambasciatori di James, usa per descrivere se stesso alla sua «amica del cuore», Maria Gostrey: «Io sono un fallito coi fiocchi». […] «e vuoi sapere lei come risponde? “Grazie al cielo. Per questo la stimo tanto! Qualunque altra cosa al giorno d’oggi sarebbe orribile. Si guardi attorno, guardi la gente di successo. Vorrebbe essere uno di loro, onestamente? Del resto,” continuò “guardi me”. Per un attimo i loro occhi si incontrarono. “Capisco” rispose Strether. “Anche lei si tiene fuori”. «“La superiorità che lei scorge in me” convenne Miss Gostrey “annuncia la mia futilità. Se sapesse,” sospirò “i sogni di gioventù! Ma sono le nostre realtà ad averci avvicinato. Siamo compagni d’arme sconfitti”. Un giorno» continuai «scriverò un saggio intitolato Falliti coi fiocchi. Parlerò dell’importanza di figure simili nella letteratura, soprattutto moderna. Penso a questo tipo di personaggio come a qualcosa di vicino alla tragedia – che a volte tende al comico, a volte al patetico, oppure a entrambi […]».
Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran

 

 

Mai come in questo momento storico – che ha eletto “resilienza” a parola-feticcio, e che dopo aver posto grottescamente l’accento su metafore dal sapore bellico legate alla ripartenza si trova di fronte alla realtà di una guerra vera alle porte d’Europa – “l’arte di perdere” è emersa come una prospettiva rivoluzionaria.

Come scriveva già Azar Nafisi chiosando Gli Ambasciatori di Henry James, qualcuno ci era già arrivato, ma piegando il concetto a una forma di elitarismo che accetta il margine per evitare una compromissione: «Parecchi tra i personaggi preferiti di James e Bellow rientrano in questa categoria [i falliti coi fiocchi]. Sono persone che scelgono consapevolmente la sconfitta, pur di conservare la propria integrità. Sono elitari, non semplici snob; hanno punti di riferimento molto alti. James, credo, si sentiva uno di loro, per via dei suoi romanzi che la gente non capiva, e per la tenacia con cui insisteva a scrivere nel modo che secondo lui era quello giusto».

Un altro interessante modo di guardare all’arte di perdere ci viene fornito invece dallo studioso di letterature comparate americano Jack Halberstam nel suo L’arte queer del fallimento, da poco edito da minimum fax nella traduzione di Goffredo Polizzi. Qui la prospettiva del fallimento accoglie la possibilità di imparare da quelle categorie umane che di situazioni di minorità e marginalità hanno fatto virtù, e hanno saputo ripensare, talvolta – non suoni come un paradosso – con buoni esiti, logiche di vita e sviluppo alternative a quelle da cui, storicamente, erano state estromesse. Le persone queer, certo. Ma anche, per esempio, le minoranze etniche.

Questo modo diverso di guardare a una società dominata dallo sforzo capitalistico alla produttività, col suo corollario di esortazioni al successo e alla realizzazione, prende spiritosamente le mosse dal personaggio di Spongebob, ritratto anche in copertina.

Cosa può esserci di peggio – chiede al suo padrone, Mr Krab, la spugna gialla animata che vive nelle profondità del mare – che finire presi all’amo e cucinati dai pescatori? Finire in un negozio di souvenir.

Eppure, suggerisce Halberstam, c’è una terza via che nessuno prova mai a mettere in pratica, perché ci hanno insegnato che non è un’opzione possibile («There is no alternative»). Una terza via bartelbiana, verrebbe da dire. E cioè rifiutare le logiche all’interno delle quali non ci sono alternative se non conformarsi a ciò che ci viene imposto da chiunque individuiamo come nostro padrone, e vivere invece nel «regno controintuitivo della critica e del rifiuto».
In parole povere: fallire.

La lettura di L’arte queer del fallimento, che pure si presenta come un saggio che usa la “teoria bassa” (concetto mutuato da Stuart Hall che per semplificare all’estremo potremmo connettere alla “cultura pop”), non è poi così agevole per chi non abbia un minimo di familiarità con una serie di teorie che vanno dall’egemonia gramsciana ai gender studies. L’idea iniziale era quella, dichiarata, di un «Manuale di SpongeBob Square Pants sulla vita», eppure c’è davvero poco in comune con un agile e consolatorio libretto ascrivibile alla categoria del self-help.

I saggi distinti che compongono il libro, ciascuno con diversi gradi di difficoltà di lettura, costituiscono comunque un ottimo repertorio di ciò che l’autore riassume sotto il concetto di fallimento: l’accettare la finitezza, l’assurdità, la sciocchezza, la scemenza senza rimedio anziché continuare a opporvi resistenza, per provare di nascosto a vedere l’effetto che fa.

L’esempio sicuramente più divertente, oltre che più comprensibile, è quello che riguarda il genere di animazione. Contrariamente all’idea di chi lo ritiene una sottile modalità di indottrinamento dell’infanzia o a posizioni come quella di Slavoj Žižek, che in un suo articolo su capitalismo e nuove forme di autoritarismo guardava a Kung Fu Panda come a un trucchetto ideologico per mascherare l’ascesa di un soggetto che ci tiene a presentarsi quale uomo comune (il parallelismo era con George W. Bush), Halberstam scova tutta una serie di lungometraggi dal portato eversivo, che chiama «Pixarvolt». Film come Galline in fuga, Alla ricerca di Nemo, Monsters & co., in cui i rapporti collaborativi non sono riconducibili a legami tradizionali ma a forme alternative dello stare insieme, o in cui le strategie elaborate per la vittoria non sono convenzionalmente quelle del più forte. Le galline sono una collettività che si ribella allo sfruttamento del padrone; Dory – la pesciolina smemorata, dunque, portatrice di un handicap – è depositaria di un sapere non tradizionale che alla fine è proprio quello che serve a salvare il piccolo Nemo; i mostri si alleano coi bambini per interrompere la spirale di sfruttamento del terrore che produce elettricità per la città.

Dunque il “fallimento” (che si sostanzia nello sguardo degli altri, di quelli che lottano ancora per farcela a tutti i costi e appongono etichette negative sui soggetti che si pongono al fuori di questa logica) non ripiega per forza nel nichilismo e nell’immobilità: quello di cui parla Halberstam è una sorta di fallimento attivo e decostruzionista, un darsi la possibilità di guardare al di là degli schemi preimpostati e di trovare, negli interstizi, materiale di costruzione valido.

Gli esempi sono svariati, e passano dalla critica di Foucault alle «teorie avvolgenti e globali» ai lavori di gruppi queer di artisti e performers come LTTR, i cui eventi a Los Angeles e New York nel 2004, denominati «Pratica di più il fallimento!», costituiscono il vero e proprio punto di partenza della riflessione dell’autore.

In un continuo saliscendi fra accademismo, anti-accademismo e pop, Halberstam ci conduce in un tuffo nella contraddizione. Talvolta – come notano anche i rappresentanti del gruppo CRAAZI nella postfazione – suona poco convincente. «Ma va bene così, è la sua stessa teoria ad ammettere i passi falsi, a preferire l’intuizione alla dimostrazione analitica di ipotesi predeterminate».  Vale a dire: aspettarsi una sistematizzazione con premesse ed esiti ben definiti da un libro che celebra il fallimento è inutile (e puzzerebbe anche di malafede).

Nello smarrimento, anche e soprattutto quello di prospettiva, è possibile trovare una propria via; ma – ci esorta Halberstam – non dobbiamo mai credere che non sia possibile.

Questo infatti, ci avverte, è «un libro sul fallire bene, fallire spesso e sull’imparare, per usare le parole di Samuel Beckett, a fallire meglio». Con i fiocchi, possibilmente.

 

 

(Jack Halberstam, L’arte queer del fallimento, traduzione di Goffredo Polizzi, minimun fax, 2021, pp. 336, 19 euro; articolo di Giulia Marziali)
Copertina di Fifty-fifty. Sant'Aram nel Regno di Marte

Ezio Sinigaglia: lo stile (de)forma il mondo

«Sciofí è il più bel ragazzo che ho toccato, Fifí il più bello che non ho toccato», afferma – al culmine delle sue meditazioni – Aram, detto Warum, il protagonista di Fifty-fifty, il dittico di romanzi di Ezio Sinigaglia (composto da Warum e le avventure Conerotiche e Sant’Aram nel Regno di Marte) edito da TerraRossa Edizioni tra il 2021 e il 2022. È una frase – o meglio una sentenza, ma anche un’epifania e un lamento – che racchiude i tanti cuori concettuali dell’opera: la bellezza fisica, qui raccontata nella sua essenza di polo attrattivo e destabilizzante; il conflitto tra fatto e non fatto, compiuto e incompiuto, pieno e vuoto, l’opposizione pura insita cioè nel numero due, tanto rilevante nei romanzi; la lingua arguta e giocosa, col suo costante botta e risposta e i suoi contrappunti. Quello di Fifty-fifty è un mondo dai tratti farseschi, realistico nel suo essere grottesco e viceversa. Non a caso nella narrazione sono due le forze – sarebbe meglio dire i sentimenti, ma qui siamo più che altro nel campo delle energie – che fungono da filtro e da chiave interpretativa: da un lato il desiderio, dall’altro la nostalgia (da non confondere con la meno partecipativa memoria) plasmano, distorcendolo, il mondo ideato da Sinigaglia, ogni parola che questi sceglie. Desiderio e nostalgia si percepiscono ma sono inconoscibili, assomigliano soprattutto a delle divinità: lo scrittore, al loro servizio, non può far altro che dar vita a un suo peculiare universo letterario – nel tentativo, ardito, di assecondarle.

Entrambi i romanzi si chiudono con un gioco linguistico al centro della scena: nel primo caso si tratta di un componimento apocrifo, una parodia dell’ottava rima cavalleresca, composto da Aram per ingannare un rivale in amore, un presuntuoso barone universitario (in una caustica presa in giro della gravità del mondo accademico, del tutto fuori luogo nell’universo di Fifty-fifty); nel secondo caso di un indovinello ideato da Fifí, che viene sviscerato dal protagonista come fosse un enigma esistenziale, da Sfinge, e sembra in fondo riassumere molto del senso (o dei sensi, qui il singolare non esiste) della storia. Questi due espedienti, adottati non a caso sul finale, testimoniano la materia prima con cui Sinigaglia ha modellato il suo universo: un linguaggio a più strati, doppio o triplo o quadruplo, che ricorda e brama, che domina e che a tratti è traboccante. Il linguaggio – ma potremmo anche dire lo stile – è il cuore pulsante dell’opera proprio in virtù della sua unicità: Raymond Carver in Il mestiere di scrivere spiegava che un grande scrittore lascia «una firma inconfondibile e unica» su «qualsiasi cosa scriva»; è precisamente quello che accade con Sinigaglia. Lo stile pirotecnico, festoso quanto malinconico di Fifty-fifty conferisce prima di tutto coerenza, unità, è il collante di tutte le storie. Verrebbe da paragonarlo all’anima (che probabilmente è qualcosa che riguarda soprattutto la forma, piuttosto che il contenuto), ma in fondo non stiamo parlando d’altro che di testo, in latino textus e cioè tessuto, qualcosa che è legato insieme indissolubilmente. Quello di Sinigaglia è infatti un oggetto puramente testuale, letterario, con alla base un’immagine letteraria anch’essa, tanto cara al modernismo: il linguaggio al centro del mondo.

Il protagonista Aram/Warum (primo di mille nomi parlanti: Warum in tedesco significa “perché”) appare come un narratore cerebrale e ingombrante, un universo intero lui stesso: è innamorato follemente di un ragazzo che ricambia questo amore, sì, ma solo da un punto di vista affettivo, mai corporale. Il suo nome, Fifí, da Fifty-fifty, significa proprio questo: cinquanta e cinquanta, un po’ sì e un po’ no. Un’esitante dicotomia. Per tutto il primo romanzo infatti Aram e Fifí si amano ma quest’ultimo non gli si concede se non in modi laterali, a metà: al massimo i due si scambiano un bacetto sulla guancia o dormono insieme. Niente di più. Questa dinamica trova il suo massimo compimento (o meglio, non-compimento) nei giorni che i due passano insieme al Conero, che sono praticamente una luna di miele non consumata. E così sono più di tre anni che Aram non fa l’amore, e a ogni ora crescono la sua bramosia e il suo struggimento – in parallelo, ovviamente, all’amore. A dominare questo primo romanzo è appunto il desiderio, raccontato nella forma che più lo esalta: l’infinita assenza di attuazione, in altre parole la frustrazione. Nel secondo romanzo, però, ecco il rovesciamento, con l’intervento decisivo ma illusorio della nostalgia: nella casa in Versilia in cui Aram e Fifí sono ospiti (di preciso in una casta mansarda dove non celebrano il loro amore), compare un misterioso e bellissimo idraulico: si scoprirà essere l’amante di Aram durante i giorni esaltanti e carnevaleschi del servizio militare. Da qui i nuovi tentennamenti di Aram e la gelosia di Fifí, che soprannominerà il rivale, con parecchia malizia, Sciaquí.

Copertina di Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche

Warum, Fifí, Sciofí, e poi Stocky, gli Smokecocks, Zigghe-Zagghe… tutti nomi parlanti, appunto, nomi che sono emblemi o insulti, che rivelano o nascondono, e non possono che brillare in un mondo governato dal linguaggio. Accanto al triangolo dei protagonisti si alternano così una miriade di personaggi tra i più bizzarri: Fifty-fitfy – l’ennesimo dualismo paradossale – è una storia corale, sebbene sia in realtà incentrata sull’interiorità ossessiva di un unico personaggio. Uno dei tanti giochi di prestigio dell’autore, che ha in effetti qualcosa del cartomante, del mago, perfino dell’acrobata.

L’effetto è quello di un caos a tratti frizzante, esplosivo, a tratti più stravagante e morboso: si assiste a una deformazione arzigogolata del reale (ricordate il desiderio e la nostalgia, il loro continuo filtro?), come in qualcosa a metà tra un quadro di Dalí e uno di Dürer. I personaggi sono buffi, sfaccettati, pieni di orpelli: ci sono amori duplici e senza spiegazione, corrispondenze astrali, un erotismo che è spesso bisessuale, una verità che nasconde sempre una bugia. Tutto, insomma, è in divenire (Il pantarei, non a caso, è il titolo di un altro libro dell’autore), e tutto è collegato, per comunanza ma soprattutto per opposizione.

In un contesto simile – fertile di storie dentro storie dentro storie –, il numero più importante è allora il due, la figura retorica principale è l’antitesi: alla lotta princeps tra Fifí e Sciofí (tra l’assenza e il contatto) se ne affiancano tante altre. La più lampante è quella tra le ambientazioni dei due romanzi. Nel primo Sinigaglia descrive l’universo intellettuale di cui il protagonista fa parte: è un habitat burlesco di artisti, professori, musicisti. Quello di Sinigaglia, chiaro alter ego di Aram, è un grande esercizio di amore e autoironia: questi uomini di cultura sono spesso immalinconiti, teneri, pieni di rimpianti, ma anche frivoli ed egocentrici. A imporsi per esemplarità la figura imponente e fragile di Stocky – musicista tanto geniale nella sua arte quanto ingenuo nella vita reale –, e un pezzo di Debussy che per Aram è il simbolo stesso della meraviglia e insieme della mortalità.

L’ambiente militare raccontato nel secondo romanzo, invece, è molto più allegro e vitalistico (sebbene covi sempre il dubbio che la nostalgia addolcisca i ricordi, così come il desiderio illividisce il presente). Il sottotenente Aram organizza il manipolo di soldati di cui è a capo come una società fondata sul gioco, sul rispetto, sulla dolcezza. Così, per esempio, è lui stesso a portare il caffè ai suoi uomini, al momento del risveglio; ed è ovvio che in un contesto simile si finisca per innamorarsi, nonostante i normali scontri e gli attimi di tristezza. Non manca comunque la descrizione della follia della vita militare, sottoposta a obblighi burocratici e dominata da capi ottusi: Aram – soprannominato in caserma Sant’Aram – sa però come confrontarsi col potere, riuscendo in continuazione a prendersi gioco di questo e ridicolizzandolo senza che neanche se ne renda conto.

Le questioni affrontate in Fifty-fifty, insomma, sono molteplici. Per aiutare il lettore a districarsi in questa matassa di vicende, personaggi, nomi, ambienti, e poi amori, odi, gelosie e via dicendo, Sinigaglia ricorre a quelli che all’apparenza sembrerebbero dei trucchi (non a caso prima lo si paragonava a un cartomante): un elenco dei personaggi, con relativo nomignolo e breve descrizione del carattere all’inizio dei romanzi; un riassunto con i principali avvenimenti di ogni capitolo alla fine. Eppure questi due luoghi squisitamente paratestuali diventano anch’essi degli esercizi di stile in piena regola, oltretutto svolti nella materia più bistrattata ma forse più ostica per uno scrittore: il riassunto. L’arte del riassunto.

Di nuovo il linguaggio, allora: nei riassunti iniziali e finali si rivela ancora più manifestamente il carattere giocoso dell’impasto linguistico di Sinigaglia. Fifty-fifty è dominato dall’ironia dell’autore, ma sembra più corretto parlare proprio di gioco. Il gioco linguistico, come lo chiamerebbe Wittgenstein, regna capriccioso sulle vite di tutti noi; nell’universo di Sinigaglia questo naturale processo di incomunicabilità è esacerbato fino al limite: non è la vita che diviene un gioco, è tutto un gioco che gioca con sé stesso. E dunque non si può non segnalare, per questo dittico, l’influenza di Joyce, Proust e compagnia bella. D’altronde, basti pensare al già citato Il pantarei (opera degli anni Ottanta ripubblicata sempre da TerraRossa nel 2019), in cui l’autore faceva il verso ai grandi autori modernisti novecenteschi. Ecco perché Ezio Sinigaglia si potrebbe definire un modernista contemporaneo – o, con un’espressione più in linea col suo stile, più farsesca, un modernista ritardatario.

 

(Ezio Sinigaglia, Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche, TerraRossa Edizioni, 2021, 268 pp., euro 15,90; Fifty-fifty. Sant’Aram nel Regno di Marte, TerraRossa Edizioni, 256 pp., euro 15,50. Articolo di Claudio Bello)
Poster del film Nostalgia

L’impossibilità di ritrovarsi

A pochi mesi di distanza da Qui rido io, Mario Martone torna in sala con Nostalgia presentato in concorso al Festival di Cannes a cui non partecipava dal 1998. Quell’anno era stata Elena Ferrante l’ispiratrice letteraria del suo film L’amore molestoNostalgia parte invece dal romanzo omonimo di Ermanno Rea per costruire una storia sul passato e sul ritorno. Al centro di tutto, ancora una volta per Martone, c’è Napoli.

Felice Lasco torna nel capoluogo campano dopo quarant’anni di assenza. Aveva lasciato la città ancora ragazzino per lavorare all’estero, fino a diventare un imprenditore di successo in Egitto. Sposato senza figli, nel corso degli anni ha dimenticato l’italiano e il napoletano, ha abbracciato la fede islamica e la cultura egiziana rimuovendo le sue radici partenopee. Il ritorno improvviso a casa dopo la lunga assenza è dettato da un bisogno irrazionale che non viene spiegato al pubblico. In Italia lo aspetta la madre anziana, che trova sfrattata dall’appartamento di famiglia e relegata in un basso. Dietro il destino della donna sembra esserci Oreste Spasiano, il suo amico d’infanzia diventato boss del Rione Sanità. Felice e Oreste sono uniti da un legame segreto che a partire dai quindici anni ha condizionato per sempre le loro vite. E forse è arrivato il momento di fare i conti con il passato.

Al decimo lungometraggio, Martone conferma di trovare la forza per il suo cinema migliore nei suoi interpreti e nella sua città. In Nostalgia i personaggi e Napoli sono al centro di un dialogo continuo, di uno scambio che svela un percorso e mostra il segno del tempo.

È soprattutto Pierfrancesco Favino a fare da guida al pubblico. Il suo Felice Lasco è un uomo che si riavvicina alla propria vita un passo dopo l’altro. Il suo ritorno spinto da una nostalgia invincibile diventa un viaggio di riappropriazione di sé. Il talento di Favino mostra un’altra delle sue tante sfaccettature in questa riconquista lenta dei ricordi e della vita. Lasco arriva a Napoli con un forte accento e tante difficoltà nel ricordare i termini dialettali e finisce per parlare in napoletano, per cercare la moto della sua adolescenza, per comprare casa.

Al suo opposto c’è Tommaso Ragno che anima Oreste Spasiano detto ’O Malommo. Abitante di una Napoli oscura e invisibile, Spasiano è un pozzo di rancore e rabbia che vede il ritorno di Felice come una minaccia. Se Favino riempie lo schermo con una presenza praticamente assoluta, a Ragno bastano pochi minuti per confezionare un malvagio titanico, tormentato e violento. Punto mediano tra i due antagonisti è Don Luigi (Francesco Di Leva), prete agguerrito con la sua corte di giovani da salvare.

La nostalgia di Martone si costruisce attraverso questi tre personaggi. La nostalgia della vita che sarebbe potuta essere e di quella che non sarà mai più.

L‘ultima edizione del Festival di Cannes ha confermato che il cinema italiano sa ancora essere vitale e profondo. Anche se sono mancati i premi, Marco Bellocchio con Esterno notte di Bellocchio ha mostrato un nuovo volto alla serialità, mentre Nostalgia ci ricorda la grandezza della scrittura e dell’interpretazione.

Lasco e Spasiano si sfiorano per tutto il film con una tensione che sembra contenere molto più della pura amicizia. Quando il loro incontro esplode sullo schermo lo riempie con una luce irresistibile, che meriterà di venire ricordata.

(Nostalgia, di Mario Martone, 2022, drammatico, 119’)

Copertina di Cittadino cane di Meacci

Matematica delle parole morte

Lo scorso aprile ha fatto il suo esordio per la piccola casa editrice Industria & Letteratura una nuova collana di narrativa curata da Martino Baldi, L’invisibile, che si propone come obiettivo di «mostrare le infinite possibilità del racconto lungo, una misura poco frequentata dall’editoria attuale, e invece tanto gravida di possibilità come strumento di rappresentazione, approfondita e sensibile, anzi ultrasensibile, della realtà».

Il primo testo scelto come magnetografo per dare voce a questa «indagine sui sensi della realtà e della scrittura» è Cittadino Cane di Giordano Meacci, noto ai più per il romanzo Il cinghiale che uccise Liberty Valance, con cui è arrivato finalista al Premio Strega nel 2016.

Il libro si presenta in parte come omaggio al cineasta americano Orson Wells, riprendendo fin dal titolo quel Citizen Kane che in Italia sarà poi tradotto nel 1948 come Quarto potere, espressione che designa tutto l’apparato dei mass media e il loro ruolo fondamentale nella diffusione delle notizie, una presenza cruciale nella vita di Carlo Cane.

Nomen omen verrebbe da dire, anche se prima che il personaggio si trasformi definitivamente nella sua controparte ferina dovremo attendere la fine di queste pagine, specchio imperfetto del racconto di una vita ricostruita attraverso frammenti, schegge di ricordi, aberrazioni letterarie. La narrazione non segue uno sviluppo cronologico, ma si dipana alternando rapsodicamente episodi raccontati con registri e stili differenti, nel quale trovano spazio stralci di interviste, pagine Treccani, articoli di giornale e verbali giudiziari. Un concept book sfaccettato in cui la sperimentazione linguistica è al servizio della vita del protagonista, in un tentativo di ricostruzione che si propone di trapuntare fra loro alcuni dei momenti topici che l’hanno caratterizzata, illuminandone i coni d’ombra.

E così, cuci e ricuci, veniamo a scoprire che Carlo Cane (1969-2059) è nato a Firenze, ma che ha praticamente sempre vissuto a Rignano Barabba, paesino natale dell’omonimo personaggio biblico, che secondo una leggenda sarebbe sbarcato sulle coste esperie fino a giungere fra le colline del Chianti, e del padre, al quale assomiglia, ma non della madre, Laura, che ha lo stesso nome della sua ex moglie.

Informato della prossimità della sua morte («sei mesi un anno, ha detto il dottore») Carlo comincia un percorso a ritroso nella memoria, un percorso, è bene ribadirlo, che potrebbe non essere sempre puntuale, perché «c’è sempre un eccesso di pudore, nel mentire sulla propria vita; anche se lo facciamo tutti quando ci raccontiamo», e a volte ancora di più quando a raccontarci sono gli altri.

Non deve sorprendere quindi se Carlo è nato con gli attributi della regalità: portava in una mano uno scettro, un globo nell’altra, l’iconografia degli imperatori bizantini; solo che lo scettro era un bastoncino di legno scheggiato con in cima un gioiellino di plastica, mentre il globo una palla di vetro che racchiude un castello, il quale fa cadere la neve se capovolto. È il correlativo oggettivo di un’intera esistenza, anche perché poi la palla si rompe lasciando sul pavimento quello che resta, nient’altro che una manciata di neve finta e vetro, la desolazione di un paesaggio abbandonato.

Ma Carlo non è solo questo, e ce lo ricordano i tanti servizi del quarto potere: c’è una militanza politica in senso ultraconservatore, intrapresa con Forza Nuova prima, con Forza Italia poi, e infine con la Lega; un circolo di amicizie ambiguo che non disdegna figure del calibro di Putin, Berlusconi o l’emiro Omar Bin Dayez, colpevole di violazione dei diritti umani nel proprio Paese; ci sono colloqui, insegnamenti, brevi consigli pronunciati a mezza bocca («I giornali non esistono. I giornalisti non esistono. Esistono le notizie… Se il titolo è grande, le notizie diventano subito importanti»). Tutto accuratamente annotato, registrato, riportato alla fonte. Ma questa passione bibliografica e archivistica non ha lo stesso afflato di un racconto di Borges, non ha lo scopo di rendere più verosimile una ricerca erudita dalle tinte esoteriche, ma è al contrario il riflesso di un approccio moderno, lo stesso che mettiamo in pratica anche noi tutti i giorni, quando vogliamo informarci su qualcosa, che sia un fatto di cronaca o i dettagli salienti di un personaggio contemporaneo. E così ricostruiamo una notizia, raccogliendo pezzi di informazione disparati, frasi slegate che poi mettiamo insieme cercando di dare un senso a quanto letto, un accordo all’eventuale contraddittorio.

Eppure a volte può succedere che col tempo queste frasi si deteriorino, che non corrispondano più alla forma che si era data loro, o che un ricordo all’apparenza nitido muti improvvisamente lasciando spazio all’incertezza. Sono le parole morte, quelle fisse, decise per sempre: «[…] ho paura che rileggendole, risentendole… Cambino», dice Carlo. E curiosamente i lacerti di questo discorso dal retrogusto epifanico sono pronunciati da Carlo di fronte a un Berlusconi presidente della Repubblica (siamo nel 2026), in un incontro che avviene nella sala delle statue di Arcore: «E se non fosse vero che le ricordiamo male noi? […] Se fossero le parole a cambiare quando non le guardiamo?».

Ecco il dilemma di una vita, il cruccio spettrale che aleggia su un’esistenza fatta non solo di inchiostro e parole ma anche di righe fra le stesse: che i nostri pensieri, e le emozioni provate durante il cammino, non siano niente; che di noi non rimanga altro che un pc acceso, lo schermo aperto su una pagina di Wikipedia dove, al centro, in grassetto, campeggia solo il nostro nome: Carlo Cane (politico), mentre fuori la città «è una somma diffusa di blocchi e cubi, obliqui e verticali».

 

(Giordano Meacci, Cittadino Cane, Industria & Letteratura, 2022, 84 pp., euro 12, articolo di Davide Tamburrini)

 

Gli Everything Everything sono un grande gruppo

Credo che gli Everything Everything siano, se non il più grande in assoluto, sicuramente uno dei più grandi gruppi alternativi sottovalutati degli anni ’10.  In pochissimi sono riusciti ad arrivare a certi picchi di creatività negli ultimi tempi e ad avere, in proporzione, così poco seguito.

Sottovalutati, sì, perché se si riflette sull’eco generata all’epoca dai Foals, o in un altro campo gli Alt-J, è incomprensibile come sia stato possibile che i quattro di Manchester siano passati così sotto traccia (se non in alcune micro bolle). Siamo sicuri, quindi, di aver capito la portata di un pezzo come “MY KZ, UR BF“?

Chissà, magari avrà influito all’epoca il 3.8 dato da Pitchfork a Man Alive (ancora oggi rimane uno dei grandi misteri partoriti dalla testata americana, ma poi c’è il 4.8 dato a An Awsome Wave e quindi le cose sono ovviamente più complesse di così) a dispetto ad esempio del 7.6 dato a Total Life Forever dei Foals: sappiamo quanto quella rivista (La rivista) possa manipolare e indirizzare il discorso.

Ma gli Everything Everything, dagli esordi, partendo dallo splendido Man Alive, hanno sempre dimostrato di essere un gruppo iper versatile, fantasioso, in grado di costruire melodie e architetture peculiari, nuove. Hanno sempre dato l’impressione di avere la necessità di dover raccontare qualcosa, che fosse da un punto musicale o testuale. Cosa che nei Foals invece non usciva: quantomeno non in maniera così palese.

A parte questo: dentro gli Everything Everything  ci sono i Battles, i Don Caballero, sfumature  dei Fuck Bottons, ma anche le sensibilità Radiohead o ColdplayMuse (quelli dei bei tempi, sì); l’art rock che si mischia con il math rock e il pop alternativo e all’hip hop; il rapporto tra umanità e robotica e la voce che va su e giù, questo falsetto che precipita verso il basso da un momento all’altro e non ti dà mai appigli: lo segui, ti fidi. Sorretto dalla sezione ritmica ossessiva che martella sempre con grande equilibrio.

Raw Data Feel è esteticamente diverso dal passato. “Teletype“, la traccia d’apertura, ti prepara a quello che succederà. Si coglie immediatamente l’elettronica e, allo stesso tempo, una vocazione mainstream. Paradossalmente, per questo motivo, sarebbe stato facile bollare quest’album come lavoro facile. Poco interessante, con poche sfumature. In fondo sono passati solo due anni da Re Animator. Avrebbero potuto aspettare, no?

I primi ascolti ti depistano, un’eccessiva ballabilità iniziale e in più  complice forse una quarta traccia come “Pizza Boy” – che non rispecchia fedelmente i crismi dei quattro (ma di scivoloni del genere ce ne sono anche in passato, tipo “Spring/Summer/Winter/Dread“) – descrivono qualcosa che in realtà non è.

Perché l’album prende una direzione diversa e una forma. L’incipit stesso assume un altro significato. A un certo punto vieni spiazzato da un pezzo con questi synth anni ’80 frullati da Moroder come “Shark Week” e ti chiedi cosa stia succedendo, per poi passare a una roba cyborg come “Cut UP” e subito dopo trasportato in un simil Monkeytown dei Modeselektor in “HEX”  che sfuma nelle coccole di una ballata quasi country dal nome “Kevin’s car“. A questi episodi si fondono canzoni come “Leviathan” e “Jennifer“, che rappresentano in maniera netta l’autoconservazione e sarebbero potuti stare in Arc senza problemi.

I nuovi album degli Everything Everything sono la conferma che gli Everything Everything sono un grande gruppo: Raw Data Feel non raggiunge certi apici del passato, ma ci racconta un gruppo sempre capace di ripensarsi e reinventarsi.

 

Nel furor delle tempeste di La Rosa

“Nel furor delle tempeste”: i tormenti di un genio nell’età dell’oro

Dopo l’affascinante viaggio nella Francia della Belle Époque, attraverso la vita romanzata del genio dell’Impressionismo Gustave Caillebotte (L’uomo senza inverno, Piemme, 2020), con il suo nuovo libro, Nel furor delle tempeste (Piemme, 2022), Luigi La Rosa ci porta ancora a spasso nell’Ottocento, tra il Regno borbonico, Milano e la Londra di Guglielmo IV per seguire le orme di Vincenzo Bellini. Quello dell’enfant prodige non è solo il racconto di un talento straordinario, ma, come già visto in Caillebotte, è un percorso di sofferenza costellato da sacrifici, insuccessi e cocenti delusioni. Contraddizioni e analogie caratterizzano i due grandi artisti, disillusi e soccombenti di fronte alla spietatezza del mondo esterno. Ne abbiamo parlato con l’autore.

 

Qualche tempo fa c’eravamo sentiti in occasione dell’uscita di L’uomo senza inverno, dedicato alla figura del pittore Gustave Caillebotte e, se non ricordo male, mi dicesti di aver impiegato circa sette anni per arrivare a una stesura definitiva del romanzo. Seguendoti sui social, ho visto foto di appunti manoscritti sui tavoli dei caffè parigini, che immagino, anche alla luce di quanto letto finora, siano i tuoi principali luoghi di ispirazione. Come nasce l’idea di raccontare Caillebotte e successivamente Bellini, ma soprattutto come si è sviluppato e si è strutturato il tuo lavoro di ricerca e di stesura? Qual è il rapporto tra la storia reale e la finzione narrativa?

Le mie storie nascono sempre da un elemento di verità, di esattezza storica. Mi piace partire da un evento concreto e poi fondere realismo e immaginazione, nitore e finzione. Ebbene, nel caso di Gustave Caillebotte, mi sono innamorato di un suo dipinto – quello che ritrae dei piallatori di parquet in un interno domestico parigino. Per Bellini è stato invece una sorta di incontro medianico: ne ho parlato spesso, più volte sono tornato al pomeriggio in cui, durante una tempesta di vento, una striscia di carta contenente un suo ritratto mi veniva addosso. Vi ho colto un segno. Da allora sono cominciate le ricerche, tramite tutte le fonti che riuscivo a reperire. È sempre così che succede: prima la dura ricerca, poi la creazione, l’immaginazione. Infine la scrittura, che fonde insieme le due anime del mio lavoro.

 

L’Ottocento è il secolo che accoglie e anima la tua narrazione. Le descrizioni degli incontri di Caillebotte al Café Guerbois, le sue gite nella tenuta di famiglia a Yerres, come pure le cene del Bellini negli ambienti milanesi e la sua partecipazione alle prestigiose riunioni nella Londra di Lady Hamilton, sembrano raccontarci la realtà ideale di un’età aurea, popolata da élite di intellettuali e artisti, che vivono in armonia, apparentemente disinteressati alla politica e al mondo esterno. E ho avuto l’impressione che tu desiderassi vivere in quell’epoca. In una sua opera, Paul Signac rappresenta quello che lui intende per paradiso in terra, ma la intitola Al tempo dell’armonia (L’età dell’oro non è nel passato, ma è nel futuro). Più recentemente, Woody Allen in Midnight in Paris ci comunica che l’aspirazione a un glorioso passato ormai perduto è un concetto ricorrente nell’animo umano, ma (ahimè!) è del tutto illusorio. Qual è la tua posizione, al riguardo?

Il passato è di sicuro per me un momento di profonda fascinazione. Le atmosfere della Belle Époque sono quelle in cui tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo desiderato vivere. Tuttavia, dell’epoca contemporanea amo le battaglie, i progressi, le emancipazioni. Chi di noi potrebbe mai rinunciare all’antibiotico o all’anestesia? Immaginarlo sarebbe mostruoso. Tuttavia, in un certo modo di sentire l’arte, la bellezza, lo confesso: mi riconosco profondamente ottocentesco. E anche la mia maniera di produrre – sedendo per giornate intere in caffè affollati, a riempire pagine e pagine di taccuino – ha poco a che vedere con il nostro rapido tempo informatico e tecnologizzato.

 

Bellini proviene da una famiglia di umili origini, mentre Caillebotte da una famiglia agiata. Il compositore cresce sotto il regime borbonico, mentre il pittore in un paese dove fervono gli ideali che porteranno alla Troisième République. Il primo costretto a emigrare, l’altro no. Eppure, nonostante la sua fortuna, Caillebotte sembra molto “meno libero” rispetto al Bellini. Appare come una persona tormentata, obbligata a tenere nascoste, per gran parte del tempo, le sue passioni e i sogni più autentici di fronte all’ottusità della società e della famiglia. Contrariamente, Bellini è un predestinato: sin dall’infanzia ha un futuro ben definito e, a differenza del pittore, è sostenuto dai suoi e in particolare dal nonno. Potremmo identificare il primo Caillebotte con l’uomo comune, che non riesce a esprimersi fino in fondo perché prigioniero del pregiudizio sociale, mentre Bellini con l’uomo indipendente, fallace sì, ma autodeterminato, quello a cui tutti aspirano?

Hai colto un nodo cruciale: pur nascendo tredici anni dopo rispetto al siciliano, Gustave Caillebotte deve combattere maggiormente contro i pregiudizi della sua epoca. E non mi riferisco solo all’affermazione della sua omosessualità, ma anche della sua arte, della sua pittura innovativa, della sua anima solitaria. Bellini porta con sé la stima della sua città, della sua isola, poi dell’Italia intera – è un uomo celebre, affermato e riverito. Tuttavia, i suoi tormenti sono più interiori, più psicologici e derivano tutti dai limiti e dalle fatiche imposti dal genio: le naturali difficoltà di una natura estremamente ipersensibile e tormentata.

 

La Norma di Bellini e I piallatori di parquet di Caillebotte sono i capolavori più celebri di questi due geni. Eppure, la prima al Teatro della Scala del 1831 per il catanese e la presentazione al Salon del 1875 per il francese si tramutarono in due incredibili insuccessi. Come è stato possibile?

Succede sempre, tutte le volte in cui il verbo di un artista contraddice gli schemi comuni e le tradizioni già riconosciute. Ogni volta che un artista trova una strada nuova, è come se il vecchio gli si rivoltasse contro. È successo a Dante, a Caravaggio. A Caillebotte come a Bellini. Succede ancora oggi, anche in scrittura. Il mondo si adagia su schemi familiari, rassicuranti e accetta con diffidenza tutto ciò che lo costringe a ribaltarli, a mettersi in discussione partendo da una differente angolazione.

 

Attraverso i suoi drammi amorosi, a cominciare da Lena Fumaroli, proseguendo con Giuditta Turina e poi con Maria Malibran, viene messa in risalto l’incapacità di Vincenzo Bellini di riuscire a costruire una relazione autentica e duratura. Sembra che non ci sia spazio per niente nella sua vita, riempita dalla musica e dal suo egocentrismo. Nell’ambito professionale, la rivalità e lo spirito di competizione sono particolarmente accentuati (basti pensare al timore di essere superato da Donizetti durante l’esibizione al Théâtre-Italien). Al contrario, Caillebotte si impegna nel diffondere le tendenze del movimento impressionista, promuovendo riunioni, finanziando mostre, e aiutando economicamente gli amici pittori in difficoltà come Monet. Appare più radicato nella realtà e nello spirito del suo tempo. Entrambi vivono, però, periodi di autoisolamento e di solitudine profonda. Quando, secondo te, il processo di distaccamento dal mondo operato dall’artista si tramuta in sofferenza personale, malattia, morte?    

Il distaccamento dal mondo è necessario per un artista, ma poi consente anche un ritorno, una nuova partecipazione con questo mondo. Così è stato anche per Bellini: la solitudine creativa diventava poi, nel corso delle varie repliche delle sue opere, un momento di intimità totale, radicale con il pubblico che si recava ad ascoltarle. Naturalmente, questo non mutava il suo temperamento solitario, tendente alla riflessione, alla dolcezza, alla malinconia. Bellini è un animo sensibile, troppo per confondersi alla complessità della folla. Lo stesso vale per Caillebotte, pur promuovendo gruppi e operazioni artistiche collettive. Rimangono due cani sciolti, due esseri indipendenti fino alla morte. Tutto questo, in qualche misura, ricade poi sul piano della depressione e della tristezza personale.

 

Perché Caillebotte è un genio dimenticato?

Lo è per vari motivi: troppa originalità, troppa rottura, troppo scandalo per certi benpensanti. Lo è perché troppo diverso anche dai suoi compagni di percorso. Troppo diverso dagli Impressionisti come dai Classicisti. Troppo avanti, forse anche per noi. È sicuramente un artista di domani.

 

In alcune scene del tuo nuovo romanzo, traspare un uso dicotomico e strumentale dell’arte: collettivo/politico/ideale come possibile forma di ribellione ai regimi dispotici, individuale/epicureo per il proprio accreditamento presso i salotti frequentati dalle élite o come mezzo di seduzione per ottenere la devozione delle donne. Bellini non dà seguito al sibillino invito a unirsi alla cerchia dei carbonari intellettuali che vogliono ribaltare il governo. Spesso, invece, il desiderio di accaparrarsi l’adulazione femminile, penso a Maria Malibran, finalizza le sue esibizioni. La vanità del personaggio è aderente alla realtà?

Quando parliamo della vanità del personaggio non dobbiamo dimenticare che si trattava di un ragazzetto poco più che ventenne. La sua precocità lo porta spesso ad affrontare fughe e colpi di testa, ma dobbiamo sempre localizzare e razionalizzare: quando abbandona la Sicilia è poco più che un diciottenne solo e senza famiglia. Gli mancano riferimenti e certezze. Poi si lega agli amici, ma entro qualche anno è costretto a lasciare anche Napoli, e il suo primo amore: Maddalena Fumaroli. Molte delle sue reazioni trovano, a mio parere, giustificazione nella profonda solitudine e paura che dovette sperimentare un essere tanto giovane e inesperto della vita.

  

Quella di Bellini è anche una storia di emigrazione da Catania a Milano, passando per Napoli. In un capitolo, descrivi un breve ritorno in Sicilia del compositore, ormai all’apice del successo, e il malinconico incontro con la madre. Vi è la reciproca consapevolezza di una confidenza perduta e il forte rimpianto di un rapporto logorato dal tempo. Già durante l’infanzia avevamo assistito al primo potente distacco: per esigenze economiche, Bellini sarà costretto a lasciare la casa familiare per andare a vivere con il nonno, suo mentore. Credi che questa separazione abbia influenzato le principali decisioni della sua vita, compresa quella di partire?

Sì, assolutamente. Bellini cresce alla dura legge del distacco. Distacco dalla famiglia, dagli affetti, dagli amori, dalla sua terra. Tutte le forme di separazione e lutto esistenziale, Vincenzo le ha vissute sulla sua pelle e questo deve averlo enormemente condizionato. Ecco perché lo scopriamo sempre sul punto di fuggire: da tutto, da responsabilità, da impegni fissi, da relazioni stabili, da donne che non riesce ad amare fino in fondo. È una sorta di marchio doloroso che si porta dentro. E che ha sublimato nella meraviglia della sua musica.

 

Concludiamo. Vi è un episodio in cui il Bellini teme che il suo spettacolo venga rinviato a causa di un’epidemia di colera che imperversa su Milano. Ti sei chiesto come avrebbe vissuto il recente periodo delle restrizioni?

Malissimo, come visse le restrizioni legate al colera – morbo che poi lo avrebbe ucciso. Vi sono lettere dalle quali traspare tutta la sua insoddisfazione, la sua rabbia. Rimproveri che riceve per la sua condotta di vita pericolosa, soprattutto in una Milano ipercontaminata. E poi, troppo preso dalla sua musica, Vincenzo visse davvero male il pericolo che tutto questo finisse per bloccare il suo lavoro, le prime degli spettacoli, le esecuzioni in pubblico. In un certo senso ci somiglia. Anche in questo è un uomo che sentiamo a noi vicino.

 

 

(Luigi La Rosa, Nel furor delle tempeste. Breve vita di Vincenzo Bellini, Piemme, 2022, 360 pp., euro 18,90, articolo di Carmine Madeo)