copertina di La versione della cameriera di Daniel Woodrell

Il valzer misterioso
di Daniel Woodrell

Daniel Woodrell appartiene al folto gruppo degli scrittori del Midwest, una regione americana che, contigua all’urbanità dell’East Coast e ai territori sconfinati del Sud, partendo da una iniziale carenza di immaginario, ci ha regalato non pochi autori imprescindibili. Si avverte però una divisione – grossolana ma abbastanza netta – fra gli scrittori della Rust Belt: c’è chi racconta i grandi centri urbani come Wallace, Franzen, Bellow; altri invece si rifanno all’epica dei sobborghi e dei piccoli centri, come Cheever o Robinson. Questo secondo filone si avvicina progressivamente al Southern Gothic degli Stati del Sud, e sembra avere un immaginario decodificato. La fortuna di Woodrell si deve alla capacità di operare sull’immaginario delle piccole comunità – la regione montuosa di Ozark nel Missouri è la sua ambientazione preferita – e introdurvi degli elementi inediti di noir e crime fiction. Sono nate così le storie affascinanti di Un gelido inverno e Tomato red, tanto evocative da prestarsi facilmente al grande schermo. Ma Woodrell non è solo scrittore di genere, perché il suo lavoro sulla lingua e sull’immaginario intercetta alcuni nodi della tradizione letteraria americana e li trasporta nella contemporaneità. La versione della cameriera  (NNEditore, 2019), il primo capitolo della serie di West Table, ha elementi di mistery ma non è un country noir, perché, più che alla narrativa di genere, il romanzo si avvicina a una forma condensata di epica.

L’adolescente Alek trascorre l’estate in Missouri, ospite della nonna, l’eccentrica Alma, foriera di racconti e aneddoti sulla storia della città. Alma è ossessionata da un evento traumatico della sua gioventù: l’esplosione, nel 1929, della sala da ballo della città. Nella tragedia perde la vita Ruby, la sorella di Alma, assieme a tanti altri abitanti della zona. Alma evoca spesso l’avvenimento, e racconta ad Alek le mille storie di West Table, colorandole con la nostalgia del ricordo o con le proprie interpretazioni del passato. Attorno all’evento misterioso, per bocca di un narratore inaffidabile, Woodrell costruisce un romanzo polifonico che assomma una miriade di voci, dai braccianti del Missouri ai possidenti di buona famiglia, e che ripercorre un secolo di storia americana.

L’autore si dimostra particolarmente bravo nella costruzione di atmosfere diverse: i frequenti salti temporali nell’aneddotica di Alma si trasformano in una girandola di fascinazioni dal ritmo sincopato, quadretti precisi e veloci come la prosa di Woodrell che nel giro di qualche pagina riesce a fissare una voce, il fulcro di una vicenda, un avvenimento importante. E mentre i brevi capitoli si susseguono, sorretti da una prosa agile ma letteraria, il lettore viene catapultato nel pieno della storia di una comunità, con le sue ambivalenze, le particolarità, i lati in ombra. Un’epica sfuggente che apre spazi narrativi sconfinati, vettori e connessioni con i maestri della narrativa americana. Nella scrittura di Woodrell si avverte il mix di eleganza e disperazione dell’ultimo Fitzgerald, la minuzia nella costruzione dei personaggi che può essere di Marilynne Robinson, il senso del grottesco di James Purdy.

Proprio quest’ultimo mi sembra il più vicino a Woodrell: i due condividono la fascinazione per il mistero, per la parte in ombra del sogno americano. La versione della cameriera è una filiazione moderna del classico La versione di Geremia, in entrambi i casi il trauma e la tragedia sono trattati come elementi quotidiani, dolorosi ma in grado di essere esorcizzati con una buona dose di umorismo. Dal valzer sgangherato di autori come Woodrell e Purdy nasce la controstoria del popolo americano, una mitologia inversa che regala ancora storie affascinanti. Il Midwest – da regione anonima, sconfinata, uguale a se stessa – diviene un formicaio di vicende bizzarre, tanto singolari da avere un grande potenziale narrativo. Non rimane che seguire la lezione di questi scrittori e puntare l’occhio sulle regioni più misteriose: per oggi scegliamo di abbandonarci agli itinerari di Woodrell e perderci nelle valli delle Ozark Mountains.

(Daniel Woodrell, La versione della cameriera, trad. di Guido Calza, NNEditore, 2019, pp. 192, euro 18, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di 4321 di Paul Auster

Cosa sarebbe successo se

Sliding doors, impossibile non conoscerlo. Per un’intera generazione ha rappresentato un memo sulle scelte giuste e sbagliate, sulle conseguenze delle nostre azioni – e delle azioni altrui – sulla nostra esistenza. È andato pian piano insinuandosi quel meccanismo di pensiero per cui, ogni cosa fatta sarebbe tornata indietro, come un boomerang. Il famoso destino tanto decantato ci avrebbe lasciato un segno e sarebbe cambiato a seconda del nostro agire. Questa consapevolezza è poi maturata in comportamenti che definirei assennati, talvolta più per pigrizia morale che per scelta di valore. Abbiamo imparato (quasi sempre) a dosare le nostre azioni, a non mitragliare gli altri con comportamenti discutibili, a valutare le opzioni prima di agire. Se per noi questi comportamenti sono diventati naturali, quasi impliciti, nel passaggio dalla realtà vissuta a quella raccontata il gioco del destino è stato invece continuamente deturpato da sceneggiature pessime e pessime trame di romanzi che, pur nella pretesa di rendere universale il concetto, si sono dovute scontrare con una inevitabile mancanza di talento da parte degli autori. Finché, nel 2017, un libro rende tutto semplice e immediato, e lo fa attraverso una storia e un personaggio.

Sto parlando di 4321 di Paul Auster, edito in Italia da Einaudi. La pubblicazione di un volume dalle fattezze mastodontiche ha rivelato, a quelli della mia generazione, che esisteva la via per raccontare su carta il famoso cosa sarebbe successo se, e che andava solo letto.

Con 4321 facciamo la conoscenza di Archie Ferguson, l’eroe antieroe, al centro della sua vita e delle sue altre vite possibili, che Auster ha innalzato a protagonista di eventi personali – in cui chiunque si rivedrebbe – e di fatti storici di grande rilevanza. Ragazzo sveglio e dalle spiccate doti artistiche, Archie è l’essenza del verbo raccontare, declinato nelle tante letture che sin dagli inizi segneranno le sue giornate, nei film proiettati all’interno di cinema polverosi, nelle poesie che segneranno il suo cuore, negli articoli che scriverà per una giusta causa. Auster divide in quattro esistenze differenti la storia del suo uomo, e anche se apparentemente dispersivo si tratta in verità di un percorso di avvicinamento del lettore alla sua figura, percorso che non subisce arresti nel passaggio dalla prima alla seconda vita, o dalla seconda alla terza e così via, ma che si rinforza perché aggiunge un tassello al quadro complessivo. Archie reagisce agli input esterni in modi diversi, a seconda dello specifico momento in cui si trova, e si troverà a subire le conseguenze delle sue azioni in maniera differente, perché differente è il soggetto che le subisce e il contesto in cui si trova. Eppure, il tutto rientra in un quadro più grande, che può dirsi completo soltanto al termine dell’ultima pagina. Soltanto allora il bisogno di storie che ci contraddistingue da sempre verrà appagato.

Archie attraverserà proteste per i diritti civili, rivoluzioni violente contro la guerra, guarderà la sua famiglia distruggersi a causa del dio denaro e ricomporsi in virtù dell’amore dei suoi genitori; vedrà sogni infrangersi a causa di un incidente, sperimenterà le proprie pulsioni sessuali andando contro tutti; si dedicherà anima e corpo allo sport, alla poesia, alla letteratura, ad Amy. Auster lascia, come un Pollicino dei giorni nostri, piccole briciole lungo la sua narrazione, briciole che il lettore può decidere di ignorare, per godersi semplicemente il viaggio, o che può raccogliere per guardare alla destinazione.

Quattro vite non esauriscono ovviamente tutte le opzioni possibili per Archie. Moltissime altre vite sono state scartate perché queste venissero messe nero su carta. Ma ciò che andava comunicato, è arrivato chiaro e forte a chi ha letto questa storia. Auster ci ha fatto comprendere che mettere da parte i propri sentimenti come forma cautelare per se stessi, spesso è controproducente. Che amare incondizionatamente l’altro non significa essere corrisposti, o felici. Che seguire le proprie passioni può innalzarti a dio sceso in terra ma il momento può durare un attimo. Che tutte le scelte che decideremo di fare o di non fare sono un’arma a doppio taglio che con molta probabilità ci ferirà mortalmente, ma a cui non si può rinunciare. Se il gioco del destino sa giocare bene le proprie carte, Paul Auster non è da meno.

(Paul Auster, 4321, Einaudi, 2017, pp. 944, € 25.00 | Recensione di Giovanna Nappi)
Copertine dei libri di Pezzini e Catalano pubblicati da Odoya

Il perturbante come Weltanschauung

Letteratura nazionalpopolare come possibile controcanto critico della realtà, serbatoio plurimo di miti e topoi, cartina di tornasole di conflitti, ansie e desideri di un’epoca: questi e altri gli spunti di riflessione che ci offre la lettura dei due ottimi volumi Guida alla letteratura noir, a cura di Walter Catalano, e Il conte incubo di Franco Pezzini, editi da Odoya (2018 e 2019).

Pur trattando argomenti a prima vista piuttosto distanti tra loro – l’uno è una mappatura per orientarsi nello sfaccettato quanto indefinito mondo del noir, l’altro un approfondito studio sul Dracula di Bram Stoker – ciascuno prospetta un orizzonte vastissimo che chiama in causa istanze sociali, storiche ed estetiche così come psicologiche e morali, vero e proprio sguardo dal ponte che ci porge, a legare i lavori, più di un fil rouge di analisi e confronto.

Quale terreno comune scorgiamo anzitutto, tra le righe, gli spinosi labirinti della ben nota querelle letteratura alta versus letteratura di genere – quest’ultima comunemente intesa come camaleontico contenitore di giallo, horror, noir, thriller, fantascienza, fantastico, e chi più ne ha più ne metta – secondo la diffusa consuetudine tutta italica di relegare snobisticamente ai margini della cultura qualunque sua declinazione in odor di intrattenimento, mero prodotto commercial-popolare di serie B senza alcun peso intellettuale, tutt’al più fruibile dalle fasce adolescenziali o da sparuti consumatori di nicchia (curioso, in un Paese che può vantare le meraviglie raccapriccianti e ultrafantastiche dell’Inferno dantesco).

Questo radicato pregiudizio fa il paio con un’ottica imprenditoriale di facile e immediato vantaggio, al posto di una visione strategica di più ampio respiro, reticente a investire in generi quanto mai disturbanti e non conciliatori quale a esempio è, tra gli altri, quello horror; rispetto al quale è peraltro cosa nota come i guru dell’editoria lo considerino fuori moda e di scarso interesse di pubblico, tanto che timidi librai e pavidi responsabili di catalogo spesso preferiscono contrabbandarne l’etichetta sotto quella, ben più rassicurante, di noir o di thriller.

Eppure, per bizzarro paradosso e a testimonianza dell’imperante confusione sul tema, lo stesso noir, alla pari dell’horror anch’esso per sua natura provocatorio e alieno da ogni buonismo, viene frequentemente spacciato con omologante faciloneria per ciò che tale non è, finendo per fungere da comoda etichetta merceologica – soprattutto nelle fiction tv di produzione nostrana – per il poliziesco classico, il mistery, l’hard-boiled, il giallo, ecc., in edificanti storie per lo più a lieto fine dove il cattivo perde e il buono trionfa. Questa interessante contiguità di aspetti che lega i due generi ci introduce a un primo raffronto tra i libri presi in esame; iniziamo a parlarne con il curatore di Guida alla letteratura noir, Walter Catalano.

 

Noir e horror sono ambedue, per loro intrinseca essenza, destabilizzanti e angosciosi quanto ontologicamente distanti dalle logiche perbeniste del politically correct. Secondo te, Walter, le cause di questo interesse per il lato oscuro e misterioso che confonde, scompagina e sovverte, sono da rintracciarsi più nella comune discendenza dal gothic novel o romanzo gotico, nel quale questo elemento è preponderante, oppure credi vi abbia maggior peso l’incidenza delle rispettive attualità storico-politiche, come a esempio l’era vittoriana in un caso quanto nell’altro la seconda guerra mondiale?

Walter Catalano: Credo che tutta la narrativa moderna derivi dal gotico, non solo nell’ambito dei generi, ma anche in quello della letteratura mainstream. Ricordo a esempio il bellissimo saggio di Renato Giovannoli Il vampiro innominato, che tracciando un preciso percorso da The Castle of Otranto di Walpole, The Monk di Lewis, ecc. conduce all’“Anonimo” del Manzoni e alla Geltrude di I promessi sposi. La necessità di Manzoni di «depurare il romanzo dal romanzesco, liberarlo dal fantastico per ricondurlo alla realtà», trasforma un romanzo nero – Fermo e Lucia – in un romanzo mainstreamI promessi sposi – in cui la reticenza e l’ellisse:  «La sventurata rispose» e «se in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino» sostituiscono i dettagli truculenti e gli aspetti sensazionalistici.

Poi è cruciale il passaggio attraverso Poe, che crea i generi principali (mystery e science-fiction), rinnova e stravolge il gotico, definisce lo stream of consciousness (senza di lui niente Dostoevskij e forse nemmeno Joyce) e inaugura la poesia simbolista. Non tutti sanno che Poe lesse in traduzione inglese I promessi sposi e lo recensì entusiasticamente sul Southern Literary Messenger: il tema parallelo del dominio e del contagio che Manzoni aveva attinto dalla tradizione del romanzo nero passa così, attraverso di lui, a Le Fanu e a Stoker e si secolarizza infine nei pulp dei tardi anni Venti, trasformando il gotico in noir.

Il soprannaturale e il metafisico diventano derive psichiche, sociali ed esistenziali, il vampiro si reincarna nella vamp e la belle dame sans merci si trasforma nella dark lady dell’hard-boiled e del film noir. Il tema gotico del dominio e del contagio si adatta ai momenti storici e ai luoghi più diversi ma resta immutato nella sua essenza attraverso la molteplicità delle sue declinazioni: la peste e il despota Don Rodrigo, la morte rossa e il principe Prospero, Dracula e il morbo vampirico, i serial-killer borghesi di Derek Raymond, gli assassini mercenari di Manchette e così via. Il gotico si è sempre articolato attraverso una dialettica fra realismo e allucinazione: l’horror e il noir si pongono se non esattamente come polarità opposte all’uno e all’altro estremo, come segmenti contigui e simmetrici di una stessa traiettoria.

 

Dracula pubblicato nel 1897 dunque in pieno crepuscolo del XIX secolo è indicatore della profonda crisi epocale di una generazione che, affacciandosi al Novecento, scopre l’inefficacia dei valori tradizionali ed è in cerca di nuovi orientamenti; tanto che Franco Pezzini, in Il conte incubo, parla di questo caposaldo della letteratura fantastica come di una storia di iniziazione tipica di un mondo segnato dall’assenza dei “padri”. Anche il noir per quanto la sua natura proteiforme sia di difficile definizione   vive una propria assenza di punti di riferimento, ponendo la tematica dell’assurdo come cifra dell’esistenza. Non a caso nella Guida se ne discute a proposito di una prospettiva comune all’esistenzialismo di Sartre e Camus, in particolare per quanto riguarda gli autori francesi tra la fine degli anni Venti e gli anni Cinquanta. Vuoi parlarci di questo specifico orizzonte tematico-espressivo?

WC: Il tema dell’assurdo come elemento predominante del noir, sebbene prevalga nell’area francese del surrealismo prima e dell’esistenzialismo poi, in realtà precede quelle stagioni e rimonta già a Dashiell Hammett, caposcuola dell’hard-boiled. In The Maltese Falcon c’è l’apologo di Flitcraft, che Sam Spade racconta per spiegare la sua weltanschauung: Flitcraft è un uomo che Spade pedina perché ha abbandonato la famiglia e ha fatto perdere le sue tracce cambiando identità. La crisi è avvenuta dopo che una trave precipitando da un edificio in costruzione si è schiantata a un metro da lui: un evento traumatico che gli ha rivelato il meccanismo della vita, l’assoluto non senso. Per questo ha lasciato tutto, poi a poco a poco si è ricostruito una famiglia e una routine quasi identica a quella che si era lasciato alle spalle. Come spiega Spade, «si è adattato alla caduta delle travi e le travi non sono più cadute, allora si è riadattato al fatto che non cadessero più travi».

Questo interludio filosofico, apparentemente casuale ma che offre una chiave interpretativa di tutto il romanzo, è il primo fondato ricorso alla metafisica in un noir. Da quel punto in poi si muoverà entro questo orizzonte, in una dialettica polare oscillante fra casualità e determinismo: nelle storie criminali di Cain – in cui i personaggi procedono ineluttabilmente verso un destino già segnato – nei mystery atipici di Fredric Brown o di Cornell Woolrich, in quel capolavoro che è Black Wings has My Angel di Elliott Chase, per giungere alla più consapevole formulazione degli autori francesi, dall’ex surrealista Malet, a Héléna, al Simenon duro, fino a Manchette.

In molti casi alla poetica dell’assurdo si aggiunge la filosofia del sospetto, una visione marxista o marxiana dei rapporti sociali che accomuna autori anche molto lontani fra loro, da Hammett a Thompson, da Héléna a Izzo, da Manchette a Raymond: il noir diviene dispositivo poetico ed esistenziale di riscatto delle vittime (Raymond) e grande letteratura morale della nostra epoca (Manchette).

 

Nella Guida, riprendendo il titolo di un testo di Jack Shadoian dedicato al film gangsteristico americano, si dice come il contenuto del noir siano «sogni e vicoli ciechi», a evidenziarne sia le componenti sognanti e ambigue, incerte tra realtà e proiezione onirica, sia quelle dello scacco di fronte a un destino che i personaggi non si sono scelti, e rispetto al quale si infrange il proprio esercizio salvifico. Il Dracula di Stoker che tu, Franco, definisci come favola nera, racconto simbolico o sogno, apre alla prospettiva che il Conte addirittura non ci sia, se non quale insieme di deliri e illusioni raccontati dai suoi nemici, sempre in dubbio sulle proprie facoltà mentali e di frequente sul bilico dello spossessamento psichico. Nel romanzo di Stoker sembra protagonista anche la dimensione dei «vicoli ciechi» che però, a differenza che nel noir, qui pare sottintendere un elemento di salvezza trascendentale. In questo senso trovi che la definizione tematica ripresa da Shadoian possa adattarsi alla struttura del Dracula?

Franco Pezzini: Grazie, è una domanda molto bella. Partiamo dall’impressione che il romanzo di Stoker offre a una prima lettura: cioè che tutto sia certo, iperdettagliato, senza sbavature, dai dati degli orari ferroviari alle pratiche dei corrieri per la consegna dei pacchi (casse di terra transilvana…), a tutte le altre minuzie. Ma se poi andiamo a vedere, ci accorgiamo che la realtà descritta è ben diversa, piena di dubbi, contraddizioni, suggestioni sfuggenti. C’è l’aspetto che sottolinei, di una qualche inaffidabilità psicologica di gran parte dei personaggi; e questa verrà complicata nella seconda parte del romanzo dal tema del passaggio dal carattere “personale” di testimonianze autografe e fonografiche (dove la gente mette la faccia, per così dire), a quello spersonalizzato della dattiloscrittura che “omogeneizza” e solleva ulteriori sospetti. Poi c’è il problema della lunga genesi del romanzo, che tra modifiche di episodi e veri e propri copia/incolla dell’autore determina per esempio sviste di calendario o la mancata rimozione di dati delle primissime versioni: un aspetto che mi interessa molto, con la possibilità di cogliere vere e proprie stratificazioni “geologiche” di quest’opera-mondo. Si aggiunga che del panorama vittoriano in scena (uno straordinario affresco d’epoca, fitto di riferimenti simbolici, religiosi, sociali, geopolitici, economici…) oggi, a distanza di più di un secolo e di vari paradigmi culturali, cogliamo anche le ambiguità, gli aspetti equivoci: anche simpatizzando coi personaggi non riusciamo a non vederne zone d’ombra inquietanti, brutalità, limiti grevi.

Ora, Stoker sa di giocare con il tema del narrante poco credibile, ma è chiaro che alla nostra lettura certe ambiguità risultano ben più marcate, certe inaffidabilità assai più radicali. Fino, se vogliamo, alla prospettiva-limite che il Conte addirittura non ci sia: dove proprio l’impossibilità di raggiungere una certezza denuncia il Dracula come un romanzo pienamente fantastico anche nell’accezione classica di Todorov: l’imbarazzo, l’esitazione nell’interpretazione degli eventi… Tanto più per la presenza di una creatura-ossimoro come il vampiro, sul limite e a cavallo di ogni contrapposizione naturale (a partire da quella tra vivo e morto) o culturale (pensiamo per esempio a una certa dialettica tra attrazione e repulsione). Una figura simile — liminare, irrisolta, indecidibile — è una maschera eccellente proprio dell’imbarazzo/indecidibilità del fantastico.

Poi certo che noi, entrando in una bella storia, vogliamo stare al gioco: noi vogliamo che il vampiro ci sia, vogliamo che sia un vecchio conte transilvano, vogliamo credere che Lucy muoia perché uccisa da lui e non a causa (per dire) delle allegre trasfusioni praticate da Van Helsing senza conoscere i gruppi sanguigni. C’è un “gioco” dell’autore ed è bello starci dentro. Per lui la lotta contro il pestifero conte è davvero una crociata sul parapetto di un Tempo Nuovo (il XX secolo…), i personaggi sono i nuovi cavalieri che combattono contro il drago/vampiro e si respira una forte tensione ideale, con risvolti persino escatologici. Lì la dimensione salvifica c’è. Il lettore odierno può anche leggere la storia in chiave diversa.

Ora, il mio personale tentativo è di far emergere le ragioni parallele di una doppia focalizzazione. Da un lato quella di Stoker e del suo primo pubblico, irrinunciabile per capire ciò che oggi non notiamo più, ma giace sotto testo: si pensi solo alla quantità vertiginosa di richiami scritturistici e religiosi volti in nero, con effetto straniante per i lettori d’epoca ma che i lettori odierni di solito non riconoscono più. Dall’altro c’è la focalizzazione sospettosa permessa oggi in epoca postfreudiana, dopo il crollo o la relativizzazione di una serie di paradigmi. Di qui tutte le ipotesi alternative che il romanzo apre, tra i «sogni e vicoli ciechi» di cui parli: a svelare la categoria-vampiro come una straordinaria macchina per pensare. Con questa doppia marcia è possibile cogliere la genialità dell’operazione di Stoker e la ricchezza di provocazioni per una lettura del romanzo oggi.

 

La letteratura noir, così come il Dracula, si basano ambedue su una continua gemmazione di modelli umani, alcuni propri e altri condivisi, come a esempio il topos della damsel in distress e quello della dark lady. Secondo te, Franco, questa caratteristica del costruire la vicenda basandosi sul perno essenziale dei personaggi, dai quali soprattutto si ricava il suo significato e che ne fa un potente condensato di archetipi, paure e fantasie del proprio tempo, è da identificarsi più in quella componente irrazionale e onirica comune a tutti e due, oppure maggiormente nelle istanze sociali e culturali dell’epoca vittoriana per l’uno quanto in quelle del surrealismo e dell’esistenzialismo per l’altro?

FP: Diciamo che la narrativa “popolare” (con tutte le virgolette del caso) è fortemente giocata su archetipi, funzionali a un teatro mitico. Mito nell’accezione tecnica, cioè spiegazione esemplare della realtà – spiegazione buona o cattiva che sia – condotta con un linguaggio narrativo, drammatizzato: e i personaggi vi svolgono un ruolo fondamentale. Che però è una spiegazione nell’ambito di un certo mondo: l’immaginario non è una dimensione sovrastrutturale ma una sintesi del pensare e sognare di un’epoca, e che in misure variabili agiamo e subiamo. Se alcune istanze appartengono alla costellazione di bisogni, desideri e paure fondamentali dell’uomo, le forme concrete sono quelle offerte da un certo contesto di dinamiche, crisi, tensioni. Proprio i due esempi di damsel in distress e dark lady risultano emblematici: certo rivelano un orizzonte di pulsioni irrazionali anche molto equivoche, ma sono determinate come fattispecie immaginali nell’ambito di un certo rapporto tra i sessi, con uno sviluppo storico e sociale mappabile.

A seconda della fase storica il mito passa anche per diversi media. Per dire, l’editoria popolare soprattutto da metà Ottocento ha preceduto –anche attraverso rapporti col teatro – certa mitopoiesi su schermo del secolo successivo. Fenomeni comunque estremamente ibridi, dove l’“alto” e il “basso” hanno flirtato e flirtano continuamente.

 

Il Doppelgånger o rapporto spettrale del “doppio” che sostanzia l’identità/alterità degli opposti, soggetto caro alla letteratura gotica quanto figura emblematica della psicanalisi, è struttura portante del Dracula, dove il tema della crisi dell’Io e della conseguente follia si declina attraverso una nutrita serie di variabili. Motivo negli anni Cinquanta reinventato e rinnovato nell’inquietante segno del revenant, il non-morto e il rimosso che riaffiora, dalla coppia (non a caso) dei grandi autori noir Boileau-Narcejac, che però rispetto ai personaggi di Stoker caricano i propri di una potente anaffettività e un profondo senso di vuoto. Quali pensi siano, Walter, altre analogie o differenze rispetto al Dracula, per quanto riguarda le diverse matrici illusionistiche dell’ambiguità, della perdita del controllo di sé e della maschera?

WC: Boileau e Narcejac, che pure si definivano autori polizieschi più che noir, hanno riproposto in modo egregio le figure gotiche del doppelgänger ma non sono stati i soli. Anche Woolrich ne era ossessionato e, seppure in termini meno evidenti e ricorrenti, possiamo ritrovarli in molti altri. D’altra parte è il senso dell’unheimlichkeit – il perturbante, il non familiare, l’estraneo, o meglio ancora ciò che produce spaesamento dalla dissonanza cognitiva nata dalla compresenza di familiare ed estraneo –  la grande categoria estetica che il Novecento eredita dal gotico settecentesco, l’angoscia nata dalla rivoluzione industriale, il moderno e i suoi fantasmi: l’animazione dell’inanimato, il doppio, la ripetizione ossessiva, il ritorno dei morti, la sepoltura dei vivi, ecc.

Dracula è l’ultimo grande esempio della tradizione gotica, in cui al soprannaturale già si affianca la tecnologia (il treno ha una certa importanza negli spostamenti dei personaggi) e in cui il mondo arcaico e primitivo dei vampiri transilvanici minaccia da presso la società civile, ma è ancora possibile un happy ending, una sconfitta del Male.

Svoltato il secolo inizia un nuovo ciclo, arrivano il fantahorror cosmico di Lovecraft e la fantascienza da una parte, e l’angst secolarizzata del mystery hard-boiled prima e del noir dopo, dall’altra. Non esiste più un equilibrio da ripristinare, la maschera è definitivamente caduta e il volto mostruoso che vediamo – come il lovecraftiano outsider riflesso nello specchio – è il nostro stesso volto. Ora la città non è più assediata ma invasa e la gang criminale, l’alieno, il virus zombie, il serial-killer, ecc., altre formulazioni degli stessi archetipi perturbanti in nuovi itinerari apocalittici verso il post-umano  siamo noi, nient’altro che noi.

 

Nel noir non è raro trovare testi sperimentali come, per citarne un esempio emblematico, Here Comes a Candle di Fredric Brown, organizzato in venticinque capitoli divisi in sei sezioni a loro volta suddivise in altrettante intersezioni composte da formati spuri (sceneggiatura cinematografica, copione radiofonico, telecronaca, articolo di giornale, ecc.). Anche il Dracula per quanto nel mondo vittoriano la sua impostazione sotto forma di romanzo epistolare fosse già una formula consolidata presenta una struttura piuttosto innovativa per il 1897, con la sua alternanza di stralci di diario, (scritto o registrato fonograficamente) biglietti, telegrammi, lettere e trafiletti di quotidiani. Scelte stilistiche di questo tipo non sono espedienti meramente estetici, al contrario coinvolgono significati che vanno ben al di là. Di quali si tratta, Franco, nel caso del capolavoro di Stoker?

FP: Certamente questo tipo di narrazione permette al lettore di seguire quasi “in diretta” gli eventi, con un rapporto di empatia maggiore che attraverso un più freddo narratore terzo. Ma, appunto, non è tutto qui. Il fatto è che noi conosciamo questa storia e Dracula stesso solo attraverso le voci dei suoi nemici. Quel Dracula che non viene visto/riconosciuto da Harker nel riflesso dello specchio di fronte a lui. Voci e riflesso sono i nostri: vorrà pur dire qualcosa…

 

(Intervista di Claudia Cautillo)
Poster italiano del film Gloria Bell su Flanerí

Una solitudine tutta particolare

Per il suo secondo film in lingua inglese il regista cileno Sebastian Lelio ha deciso di partire da quello che è probabilmente il suo film più famoso. Gloria diventa Gloria Bell e si impreziosisce della presenza nel cast di una straordinaria Julianne Moore, supportata da John Turturro. La trama è la stessa del film originale, cambia l’ambientazione. Gloria è una donna di mezz’età, divorziata da dodici anni e con due figli ormai adulti. Lavora, va a ballare, beve, e trascorre le sue giornate in una consolidata routine di solitudine. Una sera incontra Arnold, divorziato da poco e con due figlie grandi ma ancora dipendenti da lui in tutto e per tutto. Gloria e Arnold si innamorano, iniziano una relazione, si perdono e non si capiscono.

Dopo il premio Oscar per il miglior film straniero con Una donna fantastica, Lelio ha attirato l’attenzione del cinema statunitense. In due anni sono arrivati DisobedienceGloria Bell. Al di là della natura di rifacimento integrale del film, il regista cileno non tradisce la sua visione dell’umanità. Le donne sono sempre al centro della sua narrazione, nella loro fragilità e forza, nelle loro insicurezze. Non cambia neanche l’ambiente di riferimento. Dopo il passaggio nella Londra ebrea ortodossa di Disobedience, con Gloria Bell continua a guardare all’alta borghesia, questa volta statunitense.

Lelio ha deciso di rifare se stesso come Haneke con Funny Games, come più di recente Hans Petter Moland con In ordine di sparizioneUn uomo tranquillo. La scelta gli ha permesso di mantenere il controllo sul materiale originale e di limitarsi ad adattarlo alla realtà nordamericana. Non ci sono più, come è ovvio, i riferimenti, seppur velati, alla società e alla storia cilena. Si parla appena di Stati Uniti, del problema delle armi, degli ex militari, del predominio degli uomini, fragili e irrisolti, molto meno capaci delle donne di prendere il controllo delle loro vite.

Il contesto, però, continua a interessare poco a Lelio. La sua attenzione è tutta sui personaggi e sulle vicende umane. Quello che era sorprendete di Gloria, il film originale del 2013, era lo sorprendente naturalezza delle vite che Lelio raccontava. Non solo quella della protagonista, ma di tutti i personaggi che si muovevano intorno a lei. La straordinaria Gloria di Paulina Garcia, premiata a Berlino per l’interpretazione, incarnava milioni di donne in situazioni simili.

Julianne Moore subentra nel ruolo con tutto il suo talento. La sua Gloria Bell è una versione statunitense di Gloria, con gli stessi problemi, gli stessi difetti e le stesse paure.

Come per il recente caso italiano Domani è un altro giorno, il rifacimento non intacca la qualità altissima del materiale di partenza. A voler cercare un difetto, la statura di divi di Moore e Turturro rende meno realistico il lato umano su cui si reggeva il film originale. Sono, anche nell’incarnare personaggi ordinari, troppo belli, troppo brillanti come sanno esserlo solo gli attori hollywoodiani. Nel passaggio da Santiago a Los Angeles, però, Gloria Bell si arricchisce anche di un messaggio più universale. Non rappresenta più solo un paese con tutte le sue complessità – la dittatura del passato e la proiezione verso il futuro – ma riesce a spogliarsi degli strati ulteriori per lasciare al centro solo Gloria.

Gloria Bell  si conclude con un ballo scatenato sulle note di “Gloria” di Umberto Tozzi. Succedeva già nel film originale. Non è un caso, però, che la versione scelta è quella di Laura Branigan, con una Gloria molto più centrale, non semplice oggetto di amore.

(Gloria Bell, di Sebastian Lelio, 2018, commedia, 102’)

Copertina di Ovunque sulla terra gli uomini di Marco Marrucci

Dell’imprevedibilità della natura umana

Il libro d’esordio di Marco Marrucci è un’ulteriore dimostrazione della missione culturale che Racconti Edizioni si è imposta: rendere protagonista la peculiarità della narrazione breve e investire nella ricerca di voci straniere e nuovi protagonisti italiani che sappiano valorizzarla. La strategia editoriale ha quindi puntato sul recupero di grandi autori, magari pubblicati dai grandi editori o dimenticati nei meandri dell’editoria indipendente: ne sono esempi Stamattina stasera troppo presto di James Baldwin, Bere caffè da un’altra parte di ZZ Parker e Una coltre di verde di Eudora Welty. A rafforzare quella che altrimenti sarebbe solo stata la riedizione di lavori già visti tra gli scaffali contribuisce il lavoro di ricerca degli autori esordienti: ad aprire le fila c’è stato il talentuoso Elvis Malaj , poi Michele Orti Manara. L’ultimo arrivato è proprio Marco Marrucci con Ovunque sulla terra gli uomini (Racconti Edizioni, 2018).

California, Tessaglia, Marrakech, San Salvador, Uppsala, sono solo alcuni dei luoghi che popoleranno la mappa immaginifica della raccolta. Una vera e propria caratterizzazione topografica, tuttavia, non arriva a costruirsi nella mente del lettore perché più che ai luoghi e alla descrizione di spazi fisici, la scrittura di Marrucci si muove nel ricamo metodico di una realtà a tratti metafisica. L’accento del titolo nominale si sposta progressivamente da “sulla terra” a “gli uomini” rendendo questi ultimi i veri protagonisti: leggiamo di fissazioni orrorifiche come quella dello chef in “Contaminazione”, storie d’amore misteriosamente tormentate in “Gombo e Tuya”, rivelazioni quasi fiabesche come in “Il diario di Manuelita”.

In una raccolta di racconti del genere il filo di congiunzione diventa non tanto la capacità di saper cambiare ambientazione, ma di sfociare nell’imprevedibilità della natura umana e di saperla contenere in confini molto precisi. Tali confini in Marrucci corrispondono a un controllo rigido della lingua.

Nei racconti si alternano diversi registri narrativi – a titolo di esempio si prenda una narrazione retta da soli dialoghi come in “Le notti sopra la Tessaglia”, o una riflessione claustrofobica come in “Contaminazione” – tutti sapientemente gestiti ai fini del tono da fiaba borgesiana e tutti misurati dalla ricerca del termine e dalla complessa costruzione del periodo.

Le storie non si lasciano andare al realismo magico ma stazionano nel tono di fiaba e folklore, come a voler recuperare le origini orali delle storie. A far scricchiolare parte di questo meccanismo tuttavia arriva una sovrabbondanza di costrutti che rischiano di oscurare il vero stile dell’autore. I sintagmi nominali sono farciti di aggettivi non sempre necessari alla riuscita del periodo («ombra frusciante della vegetazione», «villaggi ardimentosi», «ghigno luciferino», «autentica penetrazione», «audaci ripartenze», «bocca gioiosa e instancabile») e che creano una sovrabbondanza scenografica («intravide una macchia vermiglia rosseggiare»). Sono presenti accostamenti sinestetici dalla musicalità eloquente ma poco funzionali alla riuscita del periodo («tristezza pallida e antica», «tremule congetture», «cielo moribondo»).

Il lavoro sul testo avrebbe dovuto controllare anche ampi intermezzi descrittivi che non fanno che rallentare la narrazione e creare una patina di attesa che mal si addice al ritmo del racconto. L’avvilupparsi di metafore resta affascinante fino a quando non ripete o rallenta la lettura. A titolo di esempio basta prendere una parte di “Il diario di Manuelita”: la metafora del filo del ricordo prosegue e viene ripresa nella parte centrale del racconto in un punto che appare fine a se stesso: «Il filo rosso è il più lungo e ingarbugliato di tutti, perché è annodato con migliaia di circostanze, domande, recriminazioni e solitudini che coprono un arco di nove giorni. Mentre lo discendo con la fatalità di un ragno che padroneggia ogni biforcazione della propria ragnatela assaporo una tristezza pallida e antica che ingrassa lentamente, mi inchioda al passato e giudica le mie colpe. è un nettare amaro, un fiele che non posso rifiutarmi di bere perché è incorporato nelle traiettorie della discesa e del ricordo, è esso stesso la discesa e il ricordo.
Giunta a un punto sempre variabile della china (non percorro mai la miccia scarlatta per intero, non so cosa potrebbe aspettarmi alla fine) le mie peregrinazioni vengono dirottate con forza sul filo azzurro».

Se nell’ambito dell’intertestualità si riconoscono le atmosfere e le intenzioni borgesiane, l’alone di mistagogo di Marrucci lo abbandona in punti come quello citato in cui il racconto lascia il posto a un esercizio stilistico, sicuramente ricercato e affascinante, ma inadatto alla priorità del narratore di storie.

Ovunque sulla terra gli uomini ha dalla sua parte una spinta fantastica non indifferente, una varietà di storie e stili, ma costituisce una lettura con riserva: chi scrive ha iniziato un percorso che dovrebbe perfezionare con esercizi successivi.

 

(Marco Marrucci, Ovunque sulla terra gli uomini, Racconti Edizioni, 2018, pp. 117, euro 14, articolo di Fabrizia Gagliardi)
Copertina di Gli inconvenienti della vita di Peter Cameron

Eccovi i rischi del mestiere peggiore

Ecco qui. Ci risiamo. Imboscati nel ritaglio tra armadio e specchiera. Frughiamo tra i ripiani, svezziamo qualche tarlo, sonnecchiamo nelle intercapedini. Apprezziamo la fantasia del tendaggio, sbirciamo nella zuccheriera e ci accorgiamo che andrebbe riempita. La musica è diffusa, il bicchiere troneggia incoronato nel riflesso, il tappeto è ancora ammaccato dall’ultimo guizzo di suole. Che è successo? Abbiamo incassato un invito improvviso? Siamo inciampati nel salotto del nostro vicino? Oppure, semplicemente, abbiamo tra le mani il nuovo libro di Peter Cameron.

È questa l’impressione ormai rassodata di quando approdo nel suo orizzonte. Tepore domestico, sensazioni calzate a pennello, una scioltezza familiare abbordata in gioventù con Un giorno questo dolore ti sarà utile, rinforzata con Weekend e ora finalmente riabbracciata con Gli inconvenienti della vita (Adelphi, 2018).

Due racconti lunghi, pubblicati in America già da anni nelle riviste curate da David Leavitt e Jennifer Egan. Due spaccati quotidiani immortalati al loro interno, visti e indagati in laparoscopia. Nel profondo, ma senza segni apparenti.

“La fine della mia vita a New York” è la storia di una coppia sfilacciata. Due uomini benestanti condividono un sontuoso appartamento a Tribeca; Stefano è un avvocato di successo, Theo invece è uno scrittore ingolfato, incapace ormai da troppo di produrre idee riversabili in un libro. Direziona il tempo come può, ma niente sembra ristorarlo. Piange durante un massaggio, suda e barcolla di fronte a un eccesso di acciughe. Si confida con un’amica che lo strizza a dovere, non sa gestire un pranzo né un confronto serrato, entra in bagno e ne sbuca fradicio e tremante. Ha una ferita addosso, che non si scolla dal petto e gli zavorra il fiato, una ferita che il suo compagno non può comprendere per il solo fatto di non essersi trafitto con lui, per non aver deragliato sullo stesso asfalto sbriciolando altre esistenze. E questo divario non può che portarli alla rovina.

L’egoismo del dolore non si spiuma mai abbastanza. Spicca un salto inafferrabile solo per viversi lontano. «Perché ci sono cose che non si possono aggiustare, come il piatto che mi è caduto ieri sera. Ci sono troppi pezzi, oppure sono troppo piccoli. Forse anch’io non sono riparabile».

“Dopo l’inondazione” è la storia di una coppia sfilacciata. Anche questa, vedi sopra. E cosa cambia? Più o meno tutto. Perché ognuno, pur con la stessa partitura, rivendica il diritto di disgregarsi a modo proprio. Stavolta il dramma si spancia dentro la provincia, in un cordone di case sul groppo del fiume. I coniugi Bird ospitano nel loro appartamento diventato troppo grande una famiglia di sfollati, che ha perso ogni cosa tranne se stessa. E questo episodio scatena la nemesi. L’altro diventa specchio e negativo fotografico. Loro che hanno mura e corrente, coperte e fornelli, non sono comunque al sicuro. Sono stati sfrattati da un passato normale, un passato qualunque, con a bordo una figlia e poi una nipote.

Ma anche ricevere insieme quella stessa ingiustizia non li ha cementati l’uno nell’altra. Li ha portati a parlarsi pochissimo, a contenere i danni e dividere i letti. Minimizzare i contatti, cauterizzare i ricordi. Resta solo la parrocchia, non come una fede, ma come un rifugio, una vecchia abitudine aggrappata al cappotto. A cui è possibile sottrarsi, sostituendo la giacca.

Marito e moglie sono soli di fronte all’assenza, snudati, legnosi, con le proprie piccole soluzioni e i loro immensi disagi. Ed è qui che si sguazza con Cameron, nello stagno di nevrosi e insofferenze giornaliere. Personalissime e comuni. Così nostre sulle spalle altrui. Quel costante lambirsi, sfiorarsi da incauti superstiti e non dirsi mai il necessario e girare attorno al relitto. Quel guardaroba di incoerenze e scalfitture che alberga con esiti sempre diversi anche in romanzi come La vita coniugale di Sergio Pitol, Anime alla deriva di Richard Mason o Istruzioni per un’ondata di caldo di Maggie O’Farrell. Amarsi e poi? Non sapere più cos’altro.

Cameron aggiunge a tutto questo dialoghi di una freschezza sempre acuta, analisi folgoranti e sottocutanee, immediatezza e neutralità. Tutto è sul piatto e il suo occhio non pende verso nessun confine.

Bastiamo noi, a rovistare da intrusi perfetti e ad aspettare il prossimo indirizzo in cui infilarci senza ritegno.

(Peter Cameron, Gli inconvenienti della vita,  trad. di Giuseppina Oneto, Adelphi, 2018, pp. 122, euro 16, articolo di Cristiana Saporito)
Copertina di Il pantarei di Ezio Sinigaglia

Cosa scriviamo da giovani: l’autobiografia per feticci di Ezio Sinigaglia

Il buco nero è una figura evocata spesso in Il pantarèi – romanzo d’esordio di Ezio Sinigaglia, pubblicato nel 1985 e tornato a nuova vita per i tipi di TerraRossa –, quel buco nero che rischiava di inghiottire anche un autore dalla penna così riconoscibile. Sinigaglia scrive questo romanzo fra il ’76 e l’80, in una stagione in cui il dibattito letterario sullo sperimentalismo sparava le ultime cartucce. Si gridava alla morte del romanzo, fagocitato dall’idea di una ricerca più “alta”; arriveranno gli anni ottanta e i successi del postmodernismo echiano a rilanciare una forma al giorno d’oggi diventata egemone. Sinigaglia, preso dagli astratti furori della giovinezza (che inaspettatamente si rivelano i primi segni della maturità), si mette in testa di scrivere un romanzo sì sperimentale, ma in grado di dimostrare ai critici il contrario di ciò che andavano vaticinando: ovvero che il romanzo – inteso come storia, stile, emozioni – era vivo e vegeto.

Ne nasce un’opera ibrida, capace di stimolare la speculazione e al contempo di generare l’identificazione con un personaggio tridimensionale. Daniele Stern viene incaricato di redigere una breve storia della letteratura del Novecento da inserire in un’enciclopedia. Stern, sulla scorta delle letture di Sinigaglia, compone il suo canone personale e notte dopo notte dà forma alla propria interpretazione del Novecento letterario. L’autore convoca i massimi esponenti del romanzo modernista: Proust, Joyce, Musil, Kafka, Svevo, Cèline, Faulkner, Robbe-Grillet, e costruisce un ragionamento su ognuno di essi; la prima colonna dell’opera di Sinigaglia poggia saldamente nel campo della saggistica. Prendere di petto autori tanto importanti non è cosa da poco, e già questo testimonia le ambizioni dell’autore; ma un romanzo di pura elucubrazione sarebbe sterile senza una degna controparte narrativa. È qui che la storia di Stern acquista di qualità: ai capitoli saggistici se ne alternano altri narrativi, in cui sono descritte le vicende quotidiane del compilatore, l’amore e i litigi con la moglie Anna, le fughe e i ritorni, gli incontri e le discussioni con gli amici. Sinigaglia dona a Stern una personalità patchwork: una sintesi del Bloom joyciano, dell’inetto sveviano , dell’uomo senza qualità musiliano.

Ma non è questo a stupire del romanzo, è lo stile che ingolosisce il lettore: le avventure di Stern sono narrate prendendo in prestito la scrittura di ogni autore trattato; si va dal flusso di coscienza all’argot céliniano, passando per il periodo barocco di Proust e Faulkner, per la scrittura introspettiva e misteriosa di Kafka e Svevo, per l’enciclopedismo di Musil e lo sperimentalismo di Robbe-Grillet.

È come se, nell’agone della prosa, Sinigaglia volesse mettersi alla prova: da una parte ricostruendo le sue vicende di lettore e provando a tirare le fila dei propri giudizi, dall’altra saggiando la tenuta stilistica degli autori tanto amati, attraverso l’esercizio di una prosa infinitamente cangiante. Nel rapportarsi con i maestri l’autore non sembra un epigono, uno stanco parodiante, al contrario si staglia la figura di uno scrittore ambizioso, capace di confrontarsi con i grandi modelli e ridare nuova vita alle varie incarnazioni della prosa. Nell’opera di Sinigaglia c’è il piacere di una scrittura che si svela a sé stessa, un processo di torsione della forma, di adattamento dello stile alle mille vicende del reale.

Figlio dello sperimentalismo, questo romanzo non si chiude nel confortevole recinto del gioco ipercolto, allo stesso tempo non si incarta nel sentimentalismo che spesso permea l’enciclopedia delle cose amate – come può avvenire per esempio nei prodotti di feticismo letterario di Michele Mari. Quello che colpisce è l’assoluta equidistanza dai modelli, un tributo che non diviene mai prostrazione servile; a Sinigaglia interessa rinnovare la forma, far sì che la tradizione generi vettori nuovi in grado di raccontare vicende quotidiane. Così l’epica di Stern, come avveniva decenni prima nei laboratori linguistici di Musil e Joyce, diventa il pretesto per affermare – a sé stessi e al mondo – che la parola può espandersi e contrarsi, adattarsi all’espressione di un reale complesso.

C’è solo da togliersi il cappello verso l’atto di fede che il giovane Sinigaglia ha fatto alla letteratura: non una preghiera lanciata nel vuoto, ma un articolato sermone del quale, restituito alla stampa dall’oblio, possiamo godere anche noi. Il pantarèi ci testimonia che, se il romanzo non morirà mai, è soprattutto grazie a chi si mette in testa di raccogliere tutto ciò che di buono è stato fatto e poi, coraggiosamente, compie un passo avanti nella perpetua ricerca, in direzione del buco nero che domina l’orizzonte.

(Ezio Sinigaglia, Il pantarèi, TerraRossa, 2018, pp. 318, euro 14, articolo di Giovanni Bitetto)
Copertina di Raccontare il manicomio di Guglielmi

La rivoluzione di Basaglia

Capita di rado che un libro scritto da uno studioso o una studiosa di letteratura sia piacevole da leggere anche per chi nella vita studia altro. Raccontare il manicomio di Marina Guglielmi (Franco Cesati Editore, 2018), ha rappresentato per me una bellissima esperienza di lettura. L’autrice, sicuramente, è stata aiutata dalla scelta di un tema molto affascinante: com’è cambiata la narrazione della malattia con la rivoluzione basagliana?

Dopo Foucault, i concetti di malattia, follia, anormalità si trasformano in un problema di carattere politico-sociale. In Italia, il lavoro di Franco Basaglia rivoluzionò il rapporto tra la società civile e coloro che venivano emarginati dalla società a causa di un disturbo psichico. Quando nel 1961, a Gorizia, lo psichiatra incomincia a lavorare come direttore di manicomio, era ancora in vigore la Legge 36 del 1904, auspicata da Giolitti per uniformare i criteri di internamento che, nonostante il paese fosse unito già da decenni, erano rimasti diversi per ogni regione. Si trattava della prima legge nazionale sui manicomi e l’obiettivo era sostanzialmente quello di proteggere la società da elementi di disturbo per la sicurezza sociale e per la morale pubblica. Non era affatto quello di curare gli «alienati», come venivano chiamati nella legge i malati di mente.

Verso la fine del decennio (1965-69), lo psichiatra denuncia le responsabilità di medici e istituzioni nei confronti della segregazione dei malati, giudicati elementi perturbanti per l’ordine sociale e non ricoverati con l’obiettivo di assisterli e curarli. Sarà anche per questa forma di violenza che Basaglia concepì la creazione di un’alternativa che rinnovasse strutturalmente questi spazi di reclusione. Nel periodo in cui dirige l’ospedale psichiatrico di Trieste (1971-1978), la sua attività assume un ruolo decisivo e attraverso i mass media il suo pensiero diventa sempre più popolare presso l’opinione pubblica, incominciando a entrare nell’immaginario dei cittadini.

La Legge 180 formulata dallo psichiatra e senatore democristiano Bruno Orsini, approvata nel 1978, è comunemente nota come legge Basaglia perché derivava soprattutto dal suo lavoro ventennale all’interno dei manicomi, dai suoi scritti, dai volumi collettivi curati insieme alla moglie Franca Ongaro Basaglia e da un insieme di azioni concrete come manifestazioni, sensibilizzazione sul problema degli internati, interviste e colloqui con i lavoratori del settore psichiatrico.

Spiega Guglielmi come «a partire dall’attività dello psichiatra Franco Basaglia si sia innescato un meccanismo narrativo che ha mostrato e narrato i luoghi manicomiali sottraendoli – insieme ai loro folli inquilini – all’invisibilità. Tutte le attività di Basaglia, a partire dalla direzione del manicomio di Gorizia nei primi anni Sessanta, sono state mirate ad aprire gli spazi chiusi degli ospedali psichiatrici e a trasformare radicalmente i luoghi preposti al controllo della follia. Per raggiungere questo obiettivo, concretizzatosi nel 1978 con la Legge 180, nota come legge Basaglia, lo psichiatra ha fatto dei manicomi l’argomento cardine di una macroscopica narrazione e ha innescato intorno a sé un processo narrativo irreversibile che ha coinvolto scrittori, artisti e intellettuali, psichiatri e politici, filosofi e operatori medici, registi e giornalisti, insieme a tutte le persone che in qualche modo si sono sentite di avere qualcosa da dire sulla questione».

Oggi ci relazioniamo con chi è affetto da un disturbo psichico diversamente rispetto a quando ancora gli internati erano tali per sempre. Talvolta sono gli stessi prodotti culturali a insidiare l’immaginario, com’è accaduto con le espressioni artistiche, cinematografiche, teatrali e letterarie che hanno cambiato la nostra idea della malattia mentale, emancipando i malati dalla nicchia dimenticata in cui erano stati abbandonati. Con l’opera d’arte collettiva Marco Cavallo, divenuta iconica all’epoca dell’approvazione della legge Basaglia, per esempio, insieme ai matti, a uscire dal manicomio per entrare in città furono un’idea e un mondo.

Guglielmi ragiona profondamente su cosa siano e siano stati gli spazi, reali e mentali, interni ed esterni. Raccontare il manicomio è la storia di quello che potrebbe considerarsi come un battesimo all’umanità di chi per tanto tempo è stato invisibile, perché il malato è più della sua malattia: rappresenta un soggetto vero e proprio, con diritti e doveri, come tutti, e va trattato in quanto tale.

(Marina Guglielmi, Raccontare il manicomio. La macchina narrativa di Basaglia fra parole e immagini, Franco Cesati Editore, 2018, 182 pp, € 28,00 | Recensione di Federico Musardo)
Copertina di Vita di Dante di Giorgio Inglese

Dietro le quinte della biografia di Dante

«Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita». I celeberrimi versi danteschi citati, oltre a evocare nel cuore degli Italiani soavi ricordi o struggenti pomeriggi di studio, si stagliano come ostacoli apparentemente insormontabili anche di fronte allo studioso che intenda scrivere una biografia di Dante Alighieri. Pubblicare qualcosa di nuovo su tale materia, che contemporaneamente possa essere utile, non risulta difatti semplice per chi deve districarsi tra una selva selvaggia di studi già esistenti. Per tale ragione, la monografia di Giorgio Inglese Vita di Dante. Una biografia possibile (Carocci editore, 2018) è meritoria.

Come il Dante personaggio incontra all’origine del proprio tragitto una lonza, un leone e una lupa che ne arrestano il cammino, analogamente lo studioso si imbatte in monumenti che per diversi motivi sono letture imprescindibili sull’argomento: in particolar modo Vita di Dante di Giorgio Petrocchi, pubblicata nel 1983 da Laterza, e Dante. Il romanzo della sua vita (Mondadori, 2012), di Marco Santagata: il primo tratta impareggiabilmente la vita e le opere dantesche, pur con piglio accademico e con abbondanti citazioni dal latino e dal volgare, sì che l’intelligibilità piena dello scritto è riservata più agli studenti universitari e agli studiosi di letteratura italiana; il secondo ricostruisce invece in modo scientifico ma con intento divulgativo la vita e le opere del poeta fiorentino, indirizzandosi più al grande pubblico, che troverà i rari riferimenti latini ricodificati in italiano. Cosa potrebbe tentare a questo punto l’autore Giorgio Inglese? Di quali altre vie, altri porti conviene valersi, per superare tale stato dell’arte? Il critico lo chiarisce sin dalla premessa: tenterà una ricostruzione biografica che abbia origine da un vaglio critico, tendente a discernere il grano dalla crusca, basato sulle tre tipologie di fonti antiche riguardo il poeta, ossia le vite, i primi commenti alla Commedia, le fonti storiografiche scritte tra il 1310 e il 1450.

Al contrario di Petrocchi e di Santagata, che produssero la biografia fornendo frequentemente conferma dei propri ragionamenti grazie alla citazione delle opere dantesche o coeve, Inglese incomincia innanzitutto riferendo le parole attinte da una delle tre tipologie di fonti sopra menzionate, ragionandoci poi su e integrandole (o se necessario confutandole) o comunque dando il riscontro testuale di quanto sta affermando, ai fini di ricostruire la vita del poeta. L’autore, dunque, si pone da vero filologo e critico del testo, mostrando implicitamente come uno studioso si approccia dinnanzi a qualsiasi testo o studio antico.

Beninteso: tale procedimento non è rivoluzionario, poiché gli studiosi seri operano in siffatta maniera, conferendo poi al saggio scritto una forma diversa; innovativa, semmai – oltre che meritoria – è quindi la struttura che Inglese conferisce alla monografia, con lo scopo di evitare il “già letto”.

Identico risulta, innegabilmente, il fine perseguito dai critici della biografia dantesca; ma come le differenze strutturali e formali evidenziate si riverberano sulla sostanza di questo saggio? Cerchiamo di chiarire la questione principiando dal titolo: Vita di Dante. Una biografia possibile mostra che, essendoci nella vita del Sommo elementi certi accanto a vexatae quaestiones, quella prodotta dal critico è una delle possibili biografie, che collimerà in buona parte con quelle pre-esistenti ma che altrove se ne discosterà o chiuderà la questione senza fornire una risposta definita, a causa di una più stretta attinenza al dato testuale antico. Un esempio su tutti concerne un presunto viaggio di Dante a Parigi (collocato da Boccaccio in una data inesatta), che per Petrocchi risulta «difficilmente confutabile», per Santagata avvenne più probabilmente ad Avignone, mentre per Inglese è necessario «prendere atto della tradizione, senza poterla confermare, né confutare».

L’aspetto formale della monografia si ripercuote anche sotto il connubio vita-opere dantesche: laddove Inglese riporta brani di Dante o coevi come strumento preliminare, finalizzato al ragionamento e alla comprensione della biografia del Sommo poeta, all’opposto tanto Petrocchi quanto Santagata approfondiscono la vita del poeta e le vicende storiche del tempo, facendone conseguentemente dipendere la poetica espressa nelle varie opere.

Da tali considerazioni scaturisce pertanto che, mentre i lettori con ricordi consunti dall’inesorabile scorrere del tempo possono usufruire della prosa di Petrocchi e Santagata per “ripassare” gli scritti danteschi, al contrario i fruitori del libro di Inglese sono obbligati a una conoscenza preventiva dei capolavori del poeta e anche della storia fiorentina del tempo (a tal fine, al termine del libro è approntato da Giuliano Milani un breve saggio sulla storia di Firenze dal 1200 al 1321) per capire in quale misura gli ideali del Sommo incidano sui suoi scritti e sulle motivazioni per le quali essi furono composti in un determinato frangente storico.

Ciò potrebbe apparire un limite, specie se confrontato con la struttura romanzesca conferita da Santagata, che si dilunga anche sui vicoli di Firenze, sull’epilessia di Dante e su ogni possibile finezza atta a dilettare la lettura che ineluttabilmente potrebbe risultare arida in certi punti; tuttavia, la scelta di Inglese è ben precisa e non contestabile, tenendo presente che è costretto a ritagliarsi una fascia di pubblico necessariamente disomogenea rispetto a quella dei critici precedenti, più limitata rispetto al Petrocchi e decisamente più ristretta rispetto alla platea di Santagata: chi non fosse in possesso di una conoscenza del volgare e della storia italiana dell’epoca, e principalmente chi non fosse avvezzo agli incessanti riferimenti testuali in Latino medievale e al lessico della filologia, si ritroverebbe come Dante all’inizio della Commedia senza la guida del provvidenziale Virgilio: impossibilitato a percorrere anche pochi passi in una selva selvaggia di termini incogniti.

Chiariti tali aspetti necessari, resta da analizzare quali siano le novità apportate da Inglese o in cosa egli si discosti dalle altre biografie composte sul Sommo poeta. Non troppi mutamenti, almeno per il lettore profano, ma considerevoli per i dantisti. Di lieve rilevanza la diversa cronologia fornita ad alcune peregrinazioni del personaggio (attraverso le quali il lettore scaltrito coglie però meglio la genesi di alcune opere), la datazione di Monarchia differente rispetto a quella supposta da Santagata e da Petrocchi, e la proposta di lasciare con un punto interrogativo l’artefice dei poemetti Fiore e Detto d’Amore, dal momento che Dante sarebbe l’autore meno improbabile tra tutti quelli ipotizzati per i due scritti (caso nulla affatto strano che i filologi dubitino delle attribuzioni di alcune opere: si pensi che non tutti vedono in Beccaria lo scrittore del pamphlet Dei delitti e delle pene). Siamo ancora nell’assai circoscritta nicchia delle diatribe da filologi, si intende.

Più interessante sapere che il poeta fiorentino, a differenza di quanto asserisce Petrocchi, non faceva parte della piccola nobiltà, bensì della ricca borghesia, e che i frequenti encomi che costellano la Commedia fanno parte di un codice clientelare cui l’autore doveva inevitabilmente sottostare a favore dei propri protettori.

Utile poi, oltre che spiegato con convincente erudizione, è apprendere la portata degli avvenimenti del 1309; essi influirono tanto sul pensiero e sulla vita di Dante da portarlo all’interruzione del Convivio e alla concomitante genesi della Commedia, concepita come enciclopedia etico-politica (finalità del Convivio) latrice simultaneamente della finalità di annunciare l’uscita dalle tenebre del suo autore-protagonista ma anche dell’umanità tutta, grazie alla recente elezione sul trono imperiale di Enrico di Lussemburgo, che finalmente reggerà il timone di un’Italia dilaniata, in quanto a lungo «nave sanza nocchiero in gran tempesta». Anche a questa conclusione Inglese è approdato grazie alla lettura accorta dei capolavori danteschi.

Ed è proprio nell’esegesi testuale che lo studioso dà il meglio di sé, altra peculiarità per la quale la ricostruzione biografica è rivolta a una percentuale infima di pubblico: grazia a tale singolare sagacia, può dimostrare testi alla mano che il Sommo dimorò a Ravenna solamente nel 1320-1321 (mentre molti critici anticipano di uno o due anni il soggiorno esiziale), o può dimostrare tanto l’origine della leggenda secondo cui i primi canti dell’Inferno erano stati composti a Firenze nel 1300, quanto la spiegazione razionale del mito secondo cui gli ultimi canti del Paradiso vennero salvati giusto in tempo dalla consunzione grazie a un sogno profetico.

Dunque incipit vita nova, o, per parafrase le parole iniziali della Vita nuova, qui termina la presentazione della monografia di Inglese, che dovrà essere presa come nuovo punto di partenza degli studi dai dantisti, e che sarà meglio evitare per quasi tutto il resto dei lettori, che altrimenti rischiano di non riuscire a uscire dall’oscurità del libro a riveder le stelle.

 

Giorgio Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile, Carocci editore, 2018 (2015), pp. 194, € 15.00 – Recensione di Luigi Buttiglieri
Copertina di "Fedeltà" di Marco Missiroli

Una nebbia di rimandi

A quattro anni di distanza da Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli, 2015), Marco Missiroli torna in libreria con Fedeltà (Einaudi, 2019), uno dei libri più attesi e chiacchierati dell’ultimo periodo, e si inserisce adesso tra i favoritissimi alla vittoria del prossimo Premio Strega, con Antonio Scurati e Nadia Terranova.

Cerca spesso il dialogo con la letteratura, Missiroli, e l’impressione è che lo faccia furbescamente, per prevenire le accuse. «Sembra quel romanzo. Il sudafricano, il Nobel» dice – o meglio fa dire a Margherita, che poi aggiunge: «O l’altro romanzo. Com’era l’incipit? Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi». Il romanzo a cui Margherita allude è Vergogna di Coetzee, premio Nobel nel 2003. L’altro, naturalmente, è Lolita, con cui in verità questo libro ha poco a che fare. Chi ha già letto Vergogna, in effetti, sarà inevitabilmente portato a ripensarci, nonostante le due opere prendano poi due pieghe differenti, interrogandosi su questioni diverse – ed è anche questo, insieme a molto altro, a determinare la distanza dell’una dall’altra.

Carlo Pentecoste e Sofia Casadei, l’uno il professore dell’altra, hanno avuto «un incontro ravvicinato di natura ambigua» nel bagno dell’università. “Il malinteso”, come sarà poi ricordato per tutto il corso della storia. Malinteso perché di fatto nulla si è consumato, i corpi si sono avvicinati e poco altro: solo suggestioni, fantasie inespresse e un’occasione sprecata. Da qui, il tormento. Per lui, per lei, per l’altra (Margherita, appunto, moglie di Carlo).

Missiroli sceglie una ricostruzione degli eventi e delle storie dei personaggi che è insieme pedante e schematica: è minuziosa nella successione cronistica ma si limita agli accenni, come se fossero appunti scritti su tanti post-it. È un procedimento narrativo pigro, perché fornisce al lettore tutte le informazioni necessarie alla comprensione della storia, ma non si spinge oltre, risulta poco incisivo come la presentazione dei personaggi. Di Sofia, per esempio, viene detto: «Da quando aveva lasciato Rimini aveva voglia di spazi aperti. Sei mesi prima era arrivata in stazione Centrale scorticata di desideri e con il presagio che la sua vita sarebbe cambiata, invece era al punto di partenza: una ventiduenne legata alla provincia che faceva cose di cui si pentiva». In sostanza: una classica universitaria fuorisede. Un discorso che vale per tutti gli altri personaggi, che non brillano e non si sforzano di uscire da un certo immaginario ormai logoro e abusato.

Fa forse eccezione Anna, madre di Margherita, figura riuscita nonostante qualche scivolone che siamo portati (o costretti?) a perdonare. Avremmo potuto perdonare anche Carlo, la cui caratterizzazione, seppur non particolarmente originale, riesce comunque a restituirci un animo verosimile. Avremmo potuto farlo, se Missiroli ci avesse risparmiato il processo di vittimizzazione che si consuma sul personaggio soprattutto nella parte conclusiva.

Gli altri, invece, svaporano nella loro inconsistenza: Andrea, fisioterapista frustrato – come tutti – che oscilla tra amante e amico; Sofia, che c’è o non c’è fa lo stesso, e il lettore non solo non se ne affeziona ma nemmeno la sogna come potrebbe sognarla Carlo, tanto è solo accennata, identificabile con tutte le altre – e l’intenzione di ricoprirla di ordinarietà, per quanto chiara, non può salvare Missiroli, perché lasciata lì, quando anche la banalità può essere esaltata da una buona penna –; il papà di Margherita, che di buono ha lasciato solo il mistero della sua Clara, lui che è appiattito a italiano medio che votava Berlusconi per «le tette e i culi al Drive In, la superficialità»; la veggente, un personaggio pressoché inutile; perfino la stessa Margherita, traditrice ma paranoica, insomma una marionetta al servizio degli interrogativi dell’autore.

A volte, questi interrogativi passano da buone intuizioni, e il romanzo si regge sul tormento che produce un’azione incompiuta, la stessa che, se avessimo consumato, sarebbe stata presto dimenticata e non avrebbe ferito nessuno. Sarebbe stato molto più efficace, però, se Missiroli avesse scelto di tacere la lotta interiore di Margherita riportandola in alcune allusioni sparse. E invece l’autore accompagna il lettore, lo guida e gli toglie spazio. «Quanto detestava la psicologia da due soldi: riportare il tradimento all’infelicità. Lei avrebbe tradito per le spalle larghe di Andrea. Per il suo sedere. Perché era giovane. Perché era timido e lei poteva fargli scoprire qualcosa di sé. E soprattutto: per il desiderio che aveva di lei.» Non si risparmia, è già tutto pronto e detto, e al lettore non è lasciato nemmeno il compito di riordinare i pezzi: c’è il soprattutto a non lasciare dubbi.

La scelta di una narrazione “dall’alto”, con questi cambi di prospettiva elastici e non annunciati, da una parte premia la composizione dell’opera, che tuttavia, colpevole la debolezza dei personaggi, non riesce a farsi davvero corale. D’altra parte, rischia di mettere in crisi l’autore, che vuole piegarsi alle voci di ognuno senza riuscire a illuminare – e giustificare – quel processo di trasmigrazione da lui a loro, finendone imbottigliato. Si perde allora in molti passaggi che sfiorano il ridicolo nel loro tentativo di farsi aforismi o portatori di un sentimento più universale: «Si sentiva il cuore scalpitante e sapeva che questo scalpitare avrebbe potuto chiamarlo giovinezza». Questo modo di definire le cose di controversa definizione viene ripreso più di una volta: «Si mosse lungo i gradini con un formicolio che le partiva dal cuore e le finiva in testa; in un altro momento l’avrebbe chiamato incoscienza». È molto più efficace quando invece riporta: «Si alzò in piedi e si avvicinò, gli accarezzò il polso segnato dalla catena, e la bocca, lui sollevò il braccio e la portò a sé e per un attimo sentì che Margherita era la sua ragazza». È questo un modo più poetico di dare immagine alla giovinezza, raccontandone le ingenue e passeggeri illusioni. Sono queste poche cose a salvare Missiroli dal disastro, gli elementi che emergono e acquistano valore (come le mani o la nebbia e la foschia nella prima parte), un finale che rievoca smaccatamente Joyce (la neve, i morti) e che comunque strappa una nota di merito, in una costruzione fragilissima che invece è sempre sul punto di crollare.

Tra le altre, la colpa di Missiroli è quella di aver lasciato sospesi i propri personaggi e la propria storia. Tutti partono e finiscono da perdenti. Perfino Lorenzo, figlio di Margherita e Carlo, sembra avere questo destino quando racconta di essere arrivato settimo su otto alla gara di nuoto. Nel mentre, il fastidio per una narrazione che procede a domande, la tendenza agli elenchi per tutto, l’abuso quasi fanciullesco dei corsivi, la scelta particolare di alcuni sintagmi che molti hanno confuso con la ricercatezza ma che suscita la facile irritazione in tanti altri («i fianchi incoerenti al tratto longilineo», «le particelle di un’impazienza che avrebbe voluto accorpare», «lei aveva imparato a stanargli la contentezza nelle mani, le rattrappiva l’una nell’altra»).

I dialoghi mirano alla verosimiglianza quando sono sordi – e cioè botta e risposta non coincidono, ognuno parla per sé – o si accavallano, ma spesso, proprio per queste ragioni, costituiscono un problema. C’è inoltre poca tensione emotiva nelle scene clou di riconciliazione o di allontanamento, mal girate o perfino mal “recitate”. L’uso ripetuto di espressioni come «la scopava forte»: ma davvero un autore non può andare oltre?

C’è, poi, quella scelta di dividere il romanzo in due parti (2009 e 2018) e di riaprire la seconda con una ricapitolazione frettolosa che indebolisce di molto l’opera. «Prima di diventare padre avrebbe avuto altre donne. Una consulente di marketing, una sua vecchia collega, una ragazza che lavorava nel bar vicino alla redazione, ancora Manuela». E ancora, purtroppo, molte uscite quasi mirate a strappare il sensazionalismo di un certo pubblico, le frasi sciatte come «Suite Francese era un romanzo che traboccava di vita», oppure «si era sempre fidata delle contraddizioni», o peggio «Quando la madre aveva detto che suo figlio era come Milano – difficile solo alle prime occhiate – lui aveva saputo cosa significasse essere compreso».

La sensazione è che Missiroli sia quantomeno un lettore e un osservatore consapevole. Le molte citazioni – alcune delle quali, va detto, si sprecano, come quel «ogni tanto rileggilo, Fenoglio» – sono una strizzata d’occhio al pubblico di lettori, come lo sono gli accenni politici che vanno incontro al sentire popolare (le accuse a Berlusconi, l’alleanza Bonino/Pd che fa storcere il naso). La riproduzione di un mondo che è il pallido riflesso di come ci appare già in superficie: i social network, la crisi economica, perfino Fedez e la Ferragni. A cosa serve, ci chiediamo, caricare la storia di informazioni come «lavorò sulle ombre di modo che il volto del padre fosse un poco nascosto, inserì sette hashtag e il luogo, condivise su Instagram», se non a restituire un’immagine sicura e precotta?

Fedeltà è un romanzo che non brilla, non decolla, si attorciglia, e che conquista quel posto disgraziato che appartiene alle opere che non sono nemmeno così brutte per meritare di conservarsi nella memoria.

 

(Marco Missiroli, Fedeltà, Einaudi, 2019, pp. 232, euro 19, articolo di Giuseppe Del Core)
copertina di smog su flanerí

Giorgio Poi, dai Phoenix a Smog

Dopo l’album di esordio, Fa niente, I Phoenix si innamorano di Giorgio Poi e se lo portano in tour per dieci date tra New York e Los Angeles. Una piccola-grande consacrazione per un artista che sembra tanto distante dal mondo musicale italiano quanto vicino. In questo 2019 torna con un nuovo lavoro, Smog, che conferma le buonissime impressioni del suo predecessore.

Considerare l’artista di Novara alla stregua dell’itpop non può che essere sbagliato ma, paradossalmente, non così distante dalla realtà.  O meglio. Quella di Giorgio Poi sembra un’evoluzione della musica di Calcutta ed epigoni vari.  Musicalmente il respiro tocca i Tame Impala e Mac Demarco, andando a costruire una sorta di riconoscibilissima psichedelia pop, agli antipodi rispetto alla stagnante ripetitività dell’artista di Latina e dei suoi colleghi. I testi sono più completi, più stratificati, se confrontati con quello che viene scritto  dall’itpop, tra i suoi cliché e le proprie paranoie adulte scritte da un adolescente.

Ma questi mondi, che sembrano così distanti, viaggiano come due parallele che ogni tanto si sfiorano e ogni tanto si toccano. Un primo momento d’urto è strutturale: l’etichetta discografica, Bomba Dischi, è la stessa di Calcutta e artefice in parte della deriva qualitativa di gran parte della nuova produzione musicale italiana; un secondo momento, invece, deriva direttamente dal primo. In Smog, infatti, è presente  Edoardo D’Erme con “La musica italiana”, pezzo meno interessante perché forzatamente  imbevuto di quell’estetica che oramai ha contaminato anche altri universi, per esempio Franco 126, rendendo il tutto grossomodo la stessa cosa.

Smog, ma un discorso analogo si può fare per Fa niente, ha una sua cifra ben chiara e definita, andando a pescare tanto dai già citati Tame Impala e Mac Demarco, quanto al vecchio cantautorato italiano, da Battisti a Dalla, fino ad arrivare al più recente Iosonouncane. Musicalmente  non siamo molto distanti dal suo predecessore, con questi ambienti ampi ricreati dalle chitarre, ma c’è più concretezza, più materia,  più forma canzone e meno psichedelia – non c’è un pezzo, per esempio, come “Tubature”. L’impressione è che i vari brani siano più coesi tra di loro, aspetto che nell’altro emergeva di meno per il semplice motivo che alcuni brani  risaltavano prepotentemente rispetto agli altri (“Tubature”, appunto, e poi “Paracadute” e “Acqua minerale”) – un problema che è un bel problema.

Smog di Giorgio Poi, ma in generale Giorgio Poi, è tra i fenomeni italiani più interessanti usciti dall’ultima ondata di musica italiana. Con quest’album riesce a mantenere le promesse di Fa niente, confermandosi in una posizione che contemporaneamente è lontanissima e vicinissima a un genere che oggi sta dettando legge sul mercato:  Giorgio Poi è il pioniere di un itpop che non è mai accaduto.

 

 

 

Copertina di Verso il bianco di Paolo Miorandi

Un omaggio alla figura e alla narrativa
di Robert Walser

È un piccolo libro, questo Verso il bianco di Paolo Miorandi (Exòrma, 2019), simile ai miogrammi che ha scritto Walser, cioè i suoi 526 minuscoli fogli di annotazioni e pensieri, e potrebbe essere definito con le stesse parole di Miorandi: «Sottolineature eseguite con un tratto di matita leggero e sottile, tanto da essere a prima vista quasi invisibile».

Si legge in un mezzo pomeriggio di calma e sembra scomparire subito dalla memoria ma vi rimane indelebile e torna come un retrogusto inaspettato.

È la storia di un pellegrinaggio che si snoda tra le due necessità di fare penitenza e di ringraziare, a metà tra memoria, «perché il dolore chiede di ricordare» e oblio, «perché la guarigione richiede di dimenticare». È la storia di un lutto che vuole, per sua natura, preservare la memoria e, contemporaneamente, dimenticare perché solo così lo si elabora e, se comunque non c’è salvezza, almeno la vita è resa sopportabile.

Paolo Miorandi ci parla di Walser (già nel sottotitolo troviamo “Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser”) e affida all’io narrante il compito di descrivere il viaggio mentale, interno all’opera e alla vita dello scrittore svizzero, e il viaggio fisico\spaziale a Herisau, il paese della Svizzera dove Walser fu internato in manicomio per ventitré anni e dove si trova la sua tomba.

“Orme”, è una parola importante che segue la narrazione in modo quasi ossessivo. Orme e neve. Orme sulla neve. La famosa foto che mostra il corpo riverso, morto, di Walser, e sette orme impresse sulla neve che lo precedono.

“Sette”, è un’altra parola importante. Il libro si compone di sette capitoli e partendo dal capitolo sette arriva al numero uno, orme e passi di avvicinamento, e il sette come cifra di comprensione, insieme alla neve e al suo temporaneo conservare prima di sciogliersi e far scomparire.

La realtà, compresi i libri che ne sono parte, è un insieme di segnali di cui non si comprende il significato. I fatti si spiegano non in se stessi. Rimandano sempre a ciò che li sottende. Sono sintomi.

Cosa sappiamo dell’io narrante, soggetto del libro\pellegrinaggio\viaggio?
È un uomo.
Compie il suo viaggio tra il 2016 e il 2017.
Ha incontrato il male di vivere.
Chi è l’io narrante?
A volte esso si mescola e sovrappone a un altro io che è presente nel testo ed è quello di Walser che sembra raccontare direttamente la sua storia

L’esterno e l’interno vanno a identificarsi e il viaggio\pellegrinaggio è un itinerarium mentis in Walser, dove il fine e la conclusione sono un mistico diventare Walser e un diventare Walser come era nel manicomio di Herisau.

A chi gli chiedeva se scriveva mentre era in manicomio Walser rispondeva che non si trovava in manicomio per scrivere ma per «fare il matto». In clinica aveva ciò che gli occorreva: la pace.

Si delinea l’ipotesi che Walser facesse del teatro fingendosi matto e volendo esserlo per sfuggire a una radicale incapacità di vivere. Anche la sua famiglia voleva che lo fosse matto e il manicomio poteva essere una soluzione. Walser non ebbe alcuna relazione sessuale\sentimentale. Con tutta probabilità era vergine. Le sue opere ebbero successo solo postume.

Il libro di Miorandi cita nomi importanti, di scrittori, filosofi, registi, che hanno trovato nella produzione di Walser una profondità sconcertante e che si affiancano all’io narrante nel tentativo, io credo, di spingere a leggere Walser, per chi ancora non l’avesse fatto, e a riscoprirlo per chi già lo conoscesse.

Miorandi è bravo nell’evocare un senso generale e indifferenziato di dolore, che fu di Walser, che è dell’io narrante e che è dell’uomo nella sua condizione di provvisorietà e di pericolo, come dicono le righe dell’esergo (di Walser) che recitano: «Un famoso funambolo, con i fuochi artificiali sul dorso le stelle sopra di me, un abisso accanto, e davanti una via così piccola, così sottile, su cui avanzare’, e come dicono le frasi conclusive del libro: ‘Sono aggrappato al filo con le mani e mi lascio oscillare… Da lontano il filo sembra un taglio nel cielo. Da lontano sembra una fenditura».

Il libro era iniziato col “male di vivere” e termina con un “taglio” e una “fenditura”. Non sembrano casuali i rimandi a Montale. La sofferenza universale di Spesso il male di vivere ho incontrato e il miracolo improvviso benché non risolutivo di In limine: «Cerca una maglia rotta che nella rete che ci stringe».

 

(Paolo Miorandi, Verso il bianco, Exòrma, 2019, pp. 120, euro 13,50, articolo di Riccardo Romagnoli)