copertina di Una bambina da non frequentare di Keun

Che fatica, crescere!

Quando viene dato alle stampe il suo terzo romanzo, Irmgard Keun ha trentun anni e ha già conosciuto il successo e il declino sotto il regime nazista. È il 1936 e l’autrice è esiliata in Olanda, ma con questa storia torna indietro al 1918, nella sua Colonia devastata dalla guerra.

Con Una bambina da non frequentare (2018) – tradotto per la prima volta in italiano da Eleonora Tomassini ed Eusebio Trabucchi – L’orma editore prosegue il suo eccellente percorso di riscoperta di una delle autrici più originali del Novecento tedesco. E la piccola peste protagonista di questa storia ha molto in comune con le sorelle maggiori Gilgi, una di noi e Doris, la ragazza misto seta. Come loro, ha uno spirito indipendente e fiero che si nutre di sogni e di speranze di felicità: «Di libri ne ho letti abbastanza e sono andata anche a teatro e lo so: l’amore vuol dire tenere qualcuno stretto tra le proprie braccia».

«Devo imparare a prendere la vita sul serio. Ma com’è che si fa?». Diventare grandi è una faccenda complicata, lo sai bene se hai dieci anni e ti sembra di non capirci niente a sentire gli adulti che ti stanno col fiato sul collo. Sempre a dirti che cosa non puoi fare, ma è difficile imparare a cavarsela in mezzo al groviglio delle loro regole insensate.

E poi sembrano tutti così inquieti che non si sa mai come prenderli: che siano tanto infelici perché hanno smesso di giocare? «Mi pare che gli adulti non abbiano mai una gioia che sia una a questo mondo. Quando sarò grande, i giocattoli non daranno più gioia neppure a me e non vorrò né pattini, né trottole, né ruote, né bambole, né niente. E come farò a vivere se nulla mi darà più gioia?». Una consapevolezza di futura infelicità, sorprendente per una bambina di soli dieci anni.

«Dicono che sia stato mio padre a mettermi al mondo. Non so come abbia fatto, ma credo che dietro a una roba del genere ci sia qualcosa di tremendamente difficile, e mio padre è proprio da ammirare. Mi chiedo solo dov’è che stavo prima». È complicato trovare il tuo posto nel mondo se vivi, nel 1918, in una Germania in ginocchio per un conflitto mondiale che ha l’aria di non voler finire mai. Eppure ai tuoi occhi è tutto così chiaro: che la guerra è un affare inutile – basta scrivere una lettera all’imperatore per farglielo sapere; che andare a combattere è un po’ come andare a scuola – vale la pena di prendersi la scarlattina per risparmiarsi gli ultimi fuochi e restare a casa; che non c’è bisogno di essere ubriachi per dirsi la verità.

«È così stupido da parte degli adulti credere che i bambini non abbiano preoccupazioni. Dicono sempre: Ah, l’infanzia spensierata, non tornerà più. Ma un bambino ha di certo molte più preoccupazioni di un adulto». Piuttosto che cercare di farsi prendere sul serio, si fa prima a dire le bugie che i grandi vogliono sentirsi raccontare: «Non mi credono mai, soprattutto quando dico la verità. È una cosa talmente strana e folle che mi metto a balbettare e mi si attorcigliano i pensieri e alla fine non so più com’è andata per davvero e intanto loro mi guardano con occhi cattivi e indagatori. A volte dico semplicemente: “Sì, sono stata io” solo perché la smettano con quegli sguardi appuntiti e con l’interrogatorio e poi in quei momenti proprio non lo so più se sono stata io oppure no».

«Quando sarò grande cambierò tutto, ma proprio tutto». Cambiare ogni cosa, domani. Ma oggi, intanto, aggrapparsi forte a quei piccoli rituali che funzionano bene quando c’è bisogno di tenere a bada la paura: «Se il marciapiede è di lastricato non devo toccare le righe ma mettere il piede solo al centro della pietra». E basta chiudere gli occhi per vedere cose che i grandi non sono più capaci di immaginare: «Se mi metto le mani o un cuscino sul viso e premo forte sugli occhi, vedo tutte stelle in fiamme, grandi e piccole, e soli variopinti che si trasformano in linee velocissime. Mi appaiono i colori più incredibili, come ce ne sono solo in cielo».

A quasi un secolo di distanza, è un bene che la lingua graziosamente affilata di Irmgard Keun sia tornata a parlarci. Oggi, più che mai, vale la pena di dare ascolto a una voce che è stata capace – con la stessa irriverenza della bambina uscita dalla sua penna – di scrivere a Goebbels, ministro della cultura e della propaganda del Reich, e di reclamare un indennizzo dallo Stato per aver messo al rogo le sue opere. Perché abbiamo ancora bisogno di ricordarci una cosa molto semplice: che la guerra è una grandissima stronzata.

 

 

(Irmgard Keun, Una bambina da non frequentare, trad. di Eleonora Tomassini, Eusebio Trabucchi, L’orma editore, 2018, pp. 184, euro 16)
Copertina di Vivi tra i cattivi di Giardina

Come pensano i tedeschi (e cosa ne pensano gli italiani)

«Perché vivi tra i cattivi?», è questa la domanda che Francesca rivolge a suo nonno, il giornalista e corrispondente nato a Palermo, Roberto Giardina, che ha trascorso la maggior parte della sua vita in Germania. Giardina risponde non solo alla nipote, ma anche ai lettori, attraverso le 253 pagine del suo libro Lebst du bei den Bösen? Deutschland – meiner Enkelin erklärt (trad. Vivi tra i cattivi? La Germania spiegata a mia nipote) uscito nel 2017 in Germania per gli editori Launenweber di Colonia.

Ma da dove nasce questa domanda, la cui risposta necessita un intero libro? È il 24 Aprile 2008, la vigilia dell’anniversario della Liberazione. Un gruppo di alunni delle elementari ha appena appreso di non dover andare a scuola il giorno seguente. «Liberazione da cosa?», chiede Francesca. La liberazione italiana dai nazisti, dai cattivi tedeschi, è la risposta della sua insegnante. È allora grande lo shock della bambina quando realizza che suo nonno vive a Berlino, con i cattivi tedeschi come vicini di casa, come colleghi e persino forse come amici.

La risposta del nonno, contenuta invece nel libro, nasce dalla volontà di instaurare una conversazione tra due generazioni, conversazione che si estenderà su un arco temporale di quasi nove anni. Eppure, come può riuscire Giardina a spiegare alla nipote – che all’inizio della cornice narrativa ha solo otto anni – il rapporto particolare che intercorre tra Germania e Italia?

«I tedeschi amano gli italiani, ma non li stimano; gli italiani stimano i tedeschi, ma non li amano». È un modo di dire noto, le cui radici affondano nelle esperienze della Seconda guerra mondiale, e in particolare in quella dell’occupazione nazista in Italia settentrionale. Per questo sembra quasi normale e plausibile che gli italiani vedano il tedesco medio per principio cattivo. Strano però, annota il nonno, che ciononostante per tanti giovani italiani la Germania è la prima scelta quando si tratta di trasferirsi per e sfuggire dalla disoccupazione. Tuttavia, anche se Giardina giudica positivamente che si diano informazioni storiche già durante l’infanzia, per lui la maestra avrebbe dovuto aggiungere alla propria spiegazione un dettaglio importante: che sia durante la guerra che durante l’occupazione una parte degli italiani era alleata a quei cattivi tedeschi.

Giardina gioca con i suoi lettori, variando l’angolazione della sua narrazione: da un lato la riflessione sul rapporto fra italiani e tedeschi viene descritto attraverso i propri occhi di palermitano classe 1940; dall’altro attraverso quelli della giovanissima nipote, per la quale, per esempio, non è più concepibile la possibilità di perdersi in una città straniera (colpa degli smartphone). In breve, due generazioni e due prospettive completamente diverse. Ma non è solo una questione modi di vedere personali, Giardina prende anche in considerazione sia il punto di vista dei tedeschi, sia quello del popolo italiano.

Così il libro alla riesce a offrire una sintesi della storia italo-tedesca dal dopoguerra a oggi, con parentesi sull’Impero Romano. Questo gioco tra buono e cattivo, sì e no, oggi e ieri, più che tra Italia e Germania, è nutrito sì da diversi cliché, ma anche e soprattutto dalle esperienze professionali e quotidiane del giornalista che si è trasferito negli anni Ottanta e così ha conosciuto la Germania divisa, la Germania di Willy Brandt, lo sviluppo di una nazione dalla caduta del muro di Berlino all’elezione del primo cancelliere donna giungendo sino all’attuale politica dell’integrazione (durante la cosiddetta crisi dei profughi). Il panorama delineato dall’autore si arricchisce inoltre del racconto di incontri personali, per esempio con Albert Speer, architetto personale di Hitler, nella sua villa a Heidelberg o con il premio Nobel Günter Grass. Ancora di più: Giardina spiega e distingue i due paesi, le loro abitudini e difetti, in modo sempre accessibile e con una certa attenzione per il dettaglio; con acume, spirito e leggerezza, mostrandosi un vero esperto dell’argomento.

All’interno di questo confronto vengono discusse, tra l’altro, le due lingue e le loro particolarità, come per esempio il fatto che nella lingua tedesca esistano parole che non si trovano in italiano: Heimat, per citarne una, che indica una particolare accezione della parola patria. Oppure Schadenfreude, parola che esiste solo nella lingua di Goethe, Lessing e Rilke e indica una certa gioia maligna nel rallegrarsi dell’altrui sfortuna, fatto che per molti dimostrerebbe la natura cattiva dell’anima tedesca. Interessante è per Giardina anche la particolarità di come nel vocabolario tedesco si siano affermate parole italiane (anche se per lui, come per molti italiani in Germania, sia una tortura il dover accettare che i broccoli diventino brokkoli e il latte macchiato perda l’h e venga trasformato nel latte macciato). Sul lato dei meriti, Giardina racconta alla nipote di come i tedeschi, anche a causa del loro perfezionismo, provino con ogni forza a impedire un errore sul lavoro e, se non ci riescono, se ne vergognano profondamente. L’autore dimostra così anche comprensione emotiva rispetto alla débâcle del nuovo aeroporto di Berlino: la disdetta dell’apertura all’ultimo momento ha suscitato nei tedeschi una mortificazione quasi mondiale.

Giardina parla inoltre del cibo italiano in Germania e della sua importanza nella cucina tedesca moderna. La gastronomia italiana è stata portata in Germania a partire dagli anni Sessanta dagli emigranti italiani, i quali hanno cercato un antidoto alla nostalgia per la propria terra cucinando i cibi della tradizione. Di conseguenza anche i tedeschi hanno imparato a distinguere una bottiglia di Montalcino da una di Montepulciano, racconta Giardina. Preferiscono oggi usare l’olio d’oliva invece che lo strutto. E però è vero che in Germania non è inusuale ordinare un cappuccino anche dopo cena.

Nella loro conversazione, Francesca e il nonno, camminando per le strade di Berlino, parlando al telefono, visitando monumenti e luoghi storici, si dedicano a discutere, riflettere e paragonare il sistema dei mezzi pubblici delle due capitali, il supposto maggiore ordine tedesco, virtù reciproche e naturalmente anche la passione per il calcio. Con tutti questi paragoni, differenziazioni e paralleli si capisce nel corso della lettura come l’autore non voglia imporre alla nipote un’immagine positiva dei tedeschi, ma piuttosto voglia indurla a sviluppare una propria immagine, indipendente dagli stereotipi diffusi in Italia. Per ogni comportamento esiste un motivo, un’origine o un principio, che siano storici, culturali, politici o personali. Giardina non vive né a Berlino né a Roma, ma nell’Unione Europea, e racconta alla nipote come essa nei decenni si sia sviluppata diversamente da quanto immaginato negli anni Cinquanta. L’intero dialogo tra nonno e nipote si cristallizza in una riflessione finale di Francesca la quale – nel corso del libro – è diventata a una giovane di 17 anni, che conclude la conversazione, e così anche il libro, dicendo: «Questo è l’unico posto in cui mi posso sentire straniera e contemporaneamente a casa».

 

 

 

L'uomo con la pipa racconto inedito di Arianna Giancani

L’uomo con la pipa

La svegliò l’eco di una canzone. Un istante dopo, un intreccio di suoni nasali attraversò la finestra a cavallo di una striscia di sole.
Futura si girò nel letto verso la finestra: centinaia di granelli di polvere turbinavano dentro quel laccio di luce; ballavano sulle note anestetiche della canzone che non riusciva a riconoscere.
Doveva alzarsi, farsi una doccia e correre al Palazzo dell’Arte per sbrigare le ultime cose prima dell’inizio della mostra e assicurarsi che ogni cosa fosse al suo posto. «Controllo sempre ogni dettaglio prima di un’esposizione. Dopotutto un’opera trascurata tace»: aveva risposto così alla giornalista che, qualche giorno prima, le aveva domandato come mai le sue installazioni parlassero. Respirò a fondo, pronta a sollevarsi dal letto, ma – mentre levava la testa dal cuscino – fu ipnotizzata dalla polvere che ancora ballava nell’aria gialla: con la sua danza, il pulviscolo sembrava suggerirle di arrendersi di nuovo al sonno. Fu solo il pensiero improvviso della mostra a svegliarla del tutto.
In quel momento suo maritò entrò in camera da letto: «Buongiorno» le disse mentre apriva la porta, poi, accorgendosi della musica che aleggiava fra la carta da parati, continuò: «Non pensavo che qualcuno ascoltasse ancora Eros Ramazzotti…»
«Ramazzotti! Ecco chi è!»
«Canta col naso, non puoi confonderti».
«Stavo ancora dormendo… non avevo capito fosse lui. Caffè?»
«È pronto ma sbrigati: sei l’ospite d’onore, il che significa che puoi tardare soltanto un po’», rispose Fabio strizzando l’occhio mentre tornava in salotto.
Dopo aver sentito il nome di Ramazzotti, le parole di quella canzone, ospiti indesiderati, le tornarono in mente. Non le era mai piaciuto, eppure conosceva buona parte dei testi che aveva scritto; sembrava che in passato le sue canzoni fossero state disperse nell’aria come pesticidi esposti alle orecchie innocenti della gente.
Futura sbadigliò fino alla cucina, dove l’accolse l’odore nervoso del caffè.
«Ha chiamato tuo padre, arriverà un po’ in ritardo ma ci sarà», annunciò Fabio con curata noncuranza.
Non appena ebbe ascoltato quelle parole, Futura si bloccò. La tazza del caffè che teneva fra le mani restò ferma in aria, sospesa fra il tavolo e il soffitto in un limbo di dubbi.
«Mio padre verrà alla mostra?»
Non aggiunse altro. Ogni parola, anche solo un apostrofo in più avrebbe potuto spezzare l’equilibrio di quella domanda.
«Sì», disse Fabio sorridendole e sospingendole la tazza del caffè verso le labbra.
«Ma mamma l’altro giorno mi ha detto che non si è ancora ripreso completamente. Deve riposare. “In via precauzionale”, così ha detto il medico».
«Sta’ tranquilla: se viene vuol dire che se la sente. Tua madre non gli avrebbe mai permesso di uscire di casa altrimenti. Vorrà dire che gli riserveremo l’unica poltrona che ci sarà. Perché non mettete più posti a sedere? La gente andrebbe via più tardi».
Futura non l’ascoltò. Suo padre non era mai stato a nessuna delle sue mostre, nemmeno alla prima; aveva sempre osservato il suo improvviso successo da lontano, con tranquillo distacco: sapere che oggi, invece, sarebbe venuto, la rese improvvisamente distratta, sospesa.
Dall’attimo esatto in cui suo marito le aveva dato quella notizia i suoi schemi certi si erano crepati, non era più sicura delle risposte e nemmeno delle domande. Nell’aria, adesso, c’era come un’interferenza alla realtà. Annusandola avvertì l’odore forte delle candele appena spente che si sente in chiesa. Come un avvertimento di cera.
«Vado a fare una doccia» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
L’acqua pioveva dal soffione da quasi un quarto d’ora quando il tempo si riavvolse, riportando la mente di Futura a quando aveva venticinque anni.
Si trovava sul terrazzo della casa al mare, suo nonno sbucciava una montagnetta di fagiolini, sua nonna gli sedeva accanto canticchiando.
L’estate del 2006 correva lungo l’asfalto cotto dal caldo, scoppiava nelle vie ricurve di villini e buganvillee. Futura aveva un lavoro da psicologa davanti a sé. Alla fine dell’estate si sarebbe laureata e avrebbe iniziato la scuola per diventare psicoterapeuta; entro quattro anni avrebbe avuto l’autorizzazione a entrare nella testa delle persone, il permesso di provare a sbrogliare i loro nodi più stretti per poi stare a guardare.
Ma in quell’estate del 2006 non voleva pensare ad altro che alla sabbia e al mare.
Si sedette accanto a suo nonno e, lentamente, prese anche lei a decapitare uno a uno i fagiolini ascoltando il rumore muto delle teste mozzate che cadevano sul tavolo ritmicamente. Per un po’ si assopì nell’immagine delle mani consumate del nonno che liberavano i legumi dalla buccia: fu il suono distante di un’automobile a risvegliarla.
«Dov’è la mamma?», chiese accorgendosi in quel momento che non era in casa.
«È andata con tuo padre a prendere il pesce per domani sera, voleva essere sicura che non comprasse tutta la pescheria», rispose nonna Emma smettendo di canticchiare.
«Tanto non ci riuscirà: domani è Ferragosto, papà cucinerà così tanto che mangeremo avanzi fino a Natale», rispose Futura sorridendo. Suo nonno rise sotto i baffi, pregustando in silenzio la cena del giorno dopo.
«A proposito», continuò nonna Emma, «tuo padre mi ha raccomandato di dirti di non andare alla festa in spiaggia stasera: teme che farai tardi e che berrai troppo. Non vuole che tu domani sera sia uno zombie. Parole sue».
«Ho quasi ventisei anni, non può proibirmi di andare a una festa come se fossi una ragazzina!» Disse Futura scaraventando un fagiolino sul tavolo in legno.
«Non arrabbiarti, vuole solo essere certo di passare del tempo con te domani», rispose suo nonno sbucando all’improvviso da una bolla di silenzio.
«Ma noi passeremo del tempo insieme: ho già detto che ci sarò domani sera a cena. Solo che non ha niente a che fare con la festa. Stasera berrò e farò tardi, poi dormirò e domani ci sarò al cento per cento. Non ho più quindici anni», precisò infastidita Futura.
«Per tuo padre avrai quindici anni ancora per un po’, amore mio», sentenziò nonna Emma con scherzosa serietà.
Futura rispose con un breve silenzio, poi continuò: «Dico davvero nonna, non sono più una bambina: non posso rinunciare a una serata di festa solo perché mio padre non si fida di me».
«È proprio questo il punto Nica: dimostragli che si può fidare di te. Non andare stasera alla spiaggia», concluse suo nonno. E tutti e tre seppero che non c’era altro da dire.
Nonno Menico la chiamava Nica quando voleva prendersi tutta la sua attenzione, e anche quella volta ci era riuscito.
«È proprio questo il punto: dimostragli che si può fidare di te»: le ore passarono ma quella frase restò con Futura per tutto il pomeriggio. Perché glielo aveva detto? Cosa aveva a che fare una cosa preziosa come la fiducia con quello stupido divieto?
A volte aveva la sensazione che i genitori dicessero di no solo perché potevano farlo, che vietare, permettere, dare forma alla vita dei propri figli, fosse un gioco fatto con la rabbia di chi ormai è autorizzato a decidere. Ma non voleva che a decidere per lei fosse qualcuno che non era al corrente dei suoi desideri, dei suoi timori, delle sue tremende perplessità. Lei voleva scolpire la sua esistenza: in quell’estate dolce come una mora ancora non lo sapeva con chiarezza, ma già riusciva a sentirlo come si sente l’eco di una canzone, come aveva sentito quella mattina le parole dolciastre di Ramazzotti arrivare da lontano nella sua camera da letto.
Si fece tardi, sua madre e suo padre tornarono dalla pescheria curvati dal peso delle borse della spesa, guidarono fino in paese per ascoltare musica dal vivo seduti fra i lampioni gialli della sera, i suoi nonni si diedero la mano e andarono a dormire.
Futura doveva decidere se andare o meno alla festa in spiaggia.
In preda al desiderio crudo di disobbedire si era truccata e vestita come una diva, ma adesso se ne stava seduta sul letto a dondolarsi nell’incertezza. Era al centro esatto di un ingorgo di pensieri e ognuno di essi procedeva in direzione ostinata e contraria all’altro.

Ho venticinque anni, non può trattarmi come una quindicenne: se glielo lascerò fare si sentirà legittimato a farlo di nuovo, a scegliere per me. Se però qualcosa dovesse andare storto stasera, se dovessi tardare o addirittura fermarmi fuori a dormire, se domani fossi così stanca da non riuscire a bere e mangiare, a godermi la cena, gli dimostrerei di aver ragione: a quel punto mio padre farebbe bene a trattarmi come una ragazzina. Ma cosa può succedere? Una cosa non esclude l’altra – sei un’adulta ormai – stasera andrai alla festa, domani starai in famiglia. Per papà avrò quindici anni ancora per un po’. Perché nonno ha detto così? Cosa c’entra mai la fiducia con una festa? E poi papà non dovrebbe già fidarsi di me? Come faccio a fare la psicologa se non riesco a prendere una decisone così piccola, come posso pretendere di leggere gli altri se non so decifrare me stessa? Quando ho deciso di fare la psicologa? L’ho deciso io? Ho sonno. Non so se ho voglia di andare alla festa. Ma ho venticinque anni, non posso passare la serata in casa mentre fuori agosto esplode. E poi mi sono già vestita e truccata, il sonno si squaglierà dentro al primo mojito. Ma non dovrei andare solo per reazione, per disobbedire a papà. Non voglio dimostrargli qualcosa scegliendo di andarci, voglio solo essere libera di decidere cosa fare. Cosa voglio fare?

Futura trascorse quasi un’ora in mezzo a quella impasse e ne uscì soltanto per disperazione, spinta dall’impulso di non rimanere ferma, consapevole che il cambiamento è movimento.
Ma c’era qualcos’altro a muoverla: un istinto antico eppure nuovo, un filo leggero che la tirava verso la sabbia umida della spiaggia. Per la seconda volta in quella giornata era distratta, agiva come se avesse inserito il pilota automatico: la ragione dormiva, i sensi facevano di lei una floscia marionetta.
Guardò il vecchio orologio appeso alla parete: erano passate le undici da cinque minuti. La possibilità di perdere la festa – e dunque di affidare quella scelta ormai così importante al tempo – la fece sollevare dal letto come una molla: uscì di casa, si infilò in auto e meno di mezz’ora dopo aveva i piedi sprofondati nella sabbia e il primo mojito fra le mani. La festa fu la fotocopia di tutte le feste in spiaggia. L’estate colava da ogni bicchiere, decine di gambe abbronzate ballavano a un passo dall’acqua buia del mare; la musica trasformava ogni momento in un’istantanea poetica e un po’ patetica.
Col passare delle ore un desiderio mai sperimentato prima di solitudine crebbe in Futura: alle due e mezza il bisogno di stare da sola scintillava nella notte.
«Sei sicura di non volere un passaggio?», le chiese la sua amica Rachele preoccupata.
Futura si limitò a scuotere la testa, inducendo Rachele ad insistere: «Lascia qua la tua macchina, domani pomeriggio passerai a prenderla: almeno non devi tornare sola a quest’ora e dopo aver bevuto così tanto!»
«Non preoccuparti, sto bene. Prometto di scriverti appena arrivo a casa» rispose Futura, mettendo a tacere l’amica definitivamente.
Non appena Rachele si allontanò abbastanza, Futura espirò come se non l’avesse mai fatto prima: la solitudine, per la prima volta, era un sollievo. Se ne accorse e quella sensazione le piacque. Immediatamente dopo, il filo invisibile che la muoveva da qualche ora la fece cadere sulla sabbia bagnata, accasciata quasi fosse una bambola di pezza.
Lentamente si inginocchiò e cominciò a toccare la spiaggia fredda: sembrava argilla e, senza pensarci un secondo, prese a stringerla, impastarla e odorarla. La portò alla bocca quasi volesse mangiarla; non aveva idea di cosa farne, ma sapeva che aveva a che fare con la sua parte più autentica, che il suo spirito, la sua voce, erano fatti di quella sabbia odorosa di mare.
Un’ora e mezza dopo Futura aveva scolpito suo padre che fumava la pipa e la guardava con fare benevolo. Fissò quella scultura e prese a piangere e a ridere, le mani e le gambe completamente sporche di sabbia.
«Futura, esci dalla doccia, farai tardi davvero! Ha già chiamato il direttore della mostra!» Urlò Fabio dalla camera da letto.
Quando arrivarono al Palazzo dell’Arte le grandi stanze erano già piene di gente e bisbigli; Futura tagliò la folla col viso in ombra per l’imbarazzo. Poi però, più o meno a metà della seconda sala – mentre già vedeva il direttore agitare le mani in aria per intercettare la sua attenzione – incontrò il volto di suo padre e sollevò il viso.
«Come stai? Dovevi riposare, il dottore ha detto che è una precauzione».
«Sto bene, tranquilla».
Dopo quelle poche parole i loro dialoghi furono sorrisi, le loro frasi abbracci e docili pacche sulla schiena.

In fondo alla sala la statua d’argilla di suo padre che fuma la pipa, sul volto un sorriso benevolo.

 

Arianna Giancani è nata a Palermo nel 1983 ma si è trasferita giovanissima in provincia di Milano. Laureata in Giurisprudenza, si è occupata di Diritto penale. Ha pubblicato due romanzi: Il male minore (2015) e I morti di Amelia (2017), entrambi usciti per Edizioni Ensemble.

Editing del racconto a cura di Gabriele Sabatini.

copertina di afrodide su flanerí

Il miracolo dei Dimartino

L’uscita di Afrodite, il nuovo album dei Dimartino, arriva in questo 2019 come una benedizione. Da sempre lontano da certe logiche compiacenti, il cantautore siciliano costruisce un album di cui oggi l’universo pop e la produzione musicale italiana aveva fortemente bisogno. Dalle fondamenta dei Famelika, dove una decina di anni fa era la voce, all’esordio con il nome Dimartino con Cara maestra abbiamo perso, passando per Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile, fino al 2015 con Un paese ci vuole, Antonio Di Martino si è sempre distinto come un artista con una propria voce e un proprio carisma.

Poeta e abilissimo paroliere, è sempre riuscito a bilanciare nelle sue canzoni l’aspetto privato e l’aspetto sociale. In questa distanza, quella zona grigia e confondibile, Di Martino costruisce la sua torre da cui osservare le cose che accadono, traendone ispirazione per scrivere le sue canzoni. Ed è una piccola anomalia, oggi, questo tipo di attitudine nello sviscerare il dramma dell’esistenza da un punto di vista così scomodo.

Afrodite è un gran passo in avanti per la sua carriera. Un salto di qualità necessario, che permette ai Dimartino di fare un salto oltre un primo periodo giovanile ed entrare in quell’universo adulto dove hanno tutte le possibilità per trovarsi a proprio agio. Era dai tempi di Die di Iosonouncane che un under 40 (tralasciando i giovani-vecchi Verdena) non scrivesse qualcosa di così autentico e italiano  nonostante un palese riferimento a certe produzioni estere – a proposito dell’artista sardo, “Giorni buoni” è un ponte ideale tra i due musicisti.
Afrodite ruota attorno a suggestioni che alternano Lucio Battisti (quello di Don Giovanni, quello di Hegel) e i Tame Impala (la già citata “Giorni buoni”, il riff di “Cuoreintero”). Impatto decisamente meno low-fi rispetto a tutto quello tirato fuori in passato, Afrodite è un album massiccio, serio, spensierato e doloroso, dove è netta la capacità di esplicitare la tragedia attraverso l’umorismo.

Di Martino è un cantautore che sembra uscito da un mondo che, per caso, non ha continuato a essere Storia e Presente, con soluzioni liriche e musicali che non si arenano su un certo modo di trattare l’idea stessa di arte declinata in musica che invece oggi sembra l’unico canone possibile. L’artista siciliano percorre una strada non avvelenata, ispirata da Battisti, dagli insegnamenti di Cesare Basile, dal sarcasmo di Brunori (“Ci diamo un bacio”, “La luna e il bingo”).

«Lascia al mondo i piatti da lavare / La violenza dei conti correnti / Una parola rimasta tra i denti / Le cose buone che ci siamo detti / Prima di parlare dei fallimenti / Dei nostri sogni da adolescenti».

Solo questo passaggio da “Liberaci dal male” mostra il solco profondissimo che c’è tra lui e tutta l’accozzaglia itpop che non fa altro che ridurre la realtà a un gioco stupido su cui far finta di riflettere. Dimartino ha le caratteristiche, la serietà e il talento per poterla affrontare e cantare.

Siamo, in definitiva, di fronte alla svolta  dei  Dimartino, al passpartout per entrare nel mondo dei grandi. Senza scomodare la Teogonia e la genesi della dea della bellezza, Afrodite è un piccolo miracolo della musica pop italiana.

copertina di Lontano da Crum di Lee Maynard

Raccontare l’epica di una comunità

«Il cartello ai margini del paese diceva “Crum – comunità non incorporata”. Avrebbe dovuto dire “non necessaria”. Il paese si trova in fondo alle viscere degli Appalachi, sulla riva del fiume Tug, che in pratica è il tratto urinario di quelle montagne. Al di là del piscio, c’è il Kentucky».
(pag. 15)

Benvenuti a Crum, West Virginia, cittadina che dette i natali a Lee Maynard e a cui lo scrittore statunitense dedicò, nel 1988, questo album corale appena riproposto in traduzione italiana con il titolo Lontano da Crum (Mattioli 1885, 2018).

È necessario compiere uno sforzo di immaginazione piuttosto ardito per rintracciare in Lontano da Crum i crismi del romanzo “esiliato”, come racconta Gian Paolo Serino nella prefazione: «Lee Maynard è riuscito nel suo intento di diventare uno scrittore affermato, ma i suoi concittadini a tutt’oggi non l’hanno ancora perdonato. Lui li ha mandati a quel paese, il loro, e gli abitanti hanno fatto in modo che Maynard non potesse mai più metterci piede, promulgando addirittura una legge comunale che ne vietava l’ingresso e il soggiorno».

Dopotutto ci troviamo negli Stati Uniti degli anni Ottanta, un paese apparentemente civile e civilizzato. Ma se soltanto una minima parte dei fatti riportati nel libro rispondesse a verità, allora non sembrerebbe affatto esagerato catalogare la vicenda-Maynard come l’ennesimo caso di «nemo propheta in patria».

Eppure Crum, così il titolo originale, riesce a essere – al netto delle scurrilità e delle sistematiche prese per i fondelli della fauna locale – un romanzo luminoso, che celebra la vita di una comunità, elevandola a epica. Cosa sarebbe rimasto, altrimenti, delle mitologiche sbronze settimanali di Mean Rafe Hensley al Mountaintop Beer Garden? E chi potrebbe ancora ricordare quel gran figlio di puttana di Ralph Parsons?

Maynard benedice i bifolchi e i matti di paese, santifica la noia e la cruda socialità di un luogo che non ha niente da offrire, se non «un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che traboccano di emozioni, sesso che trabocca di amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto». (pag. 15)

Dopo un prologo che introduce i personaggi principali e anticipa sommariamente le vicende raccontate nelle pagine successive, la narrazione si frantuma in tanti piccoli episodi che assecondano il corso delle stagioni di Crum: estate («In estate, a Crum, il mondo moriva», pag. 27), autunno («la stagione dell’anno che Dio sembrava avere messo lì soltanto per la sua bellezza», pag. 78), inverno («una rottura di coglioni», pag. 127) e primavera (che «non giungeva mai in modo delicato», pag. 159).

A raccontare le vicissitudini del paese è l’adolescente Jesse Stone, ribelle di natura, vagabondo per vocazione, alter ego tutt’altro che celato dell’autore (anche se la biografia dei due non coincide quasi per nulla).

Jesse è sveglio, pianta grane insieme a Mule, Nip e Wade ma, al contrario degli amici, brucia di un fuoco vivo che lo spinge lontano da una “casa” mai percepita come tale. Fuga. Fuga e soldi, queste le parole che rimbombano nella testa di Jesse in continuazione.

«Per me il denaro era una e una sola cosa, ma una cosa che non pensavo avrei mai avuto: un biglietto per andarmene da Crum. Leggevo i libri in biblioteca, e facevo liste di tutti i luoghi in cui sarei voluto andare quando avessi guadagnato abbastanza soldi». (pag. 50)

«Mettersi in viaggio per una partita era la migliore avventura che posso ricordare. Erano quei viaggi che mi dicevano che ciò che cercavo – qualunque cosa fosse – era fuori da Crum». (pag. 80)

Nonostante le dimensioni, esistono due mondi completamente separati a Crum: quello dei ragazzini e quello degli adulti. I più giovani stanno sempre per conto loro: nuotano al fiume, costruiscono rifugi, sparano nel bosco. Quando combinano qualche guaio, si danno alla macchia per giorni, senza che nessuno li vada a cercare. Come spiega Jesse, sono tre le cose che accomunano gran parte dei ragazzi: «la povertà, l’ignoranza e il saper scopare». (pag. 32)

Dimenticate quindi i tormenti adolescenziali da romanzo di formazione, gli amori platonici, i baci rubati. A Crum ci si dà da fare, quando capita e con chi capita, e a tenere le fila di queste relazioni sorprendentemente mature sono sempre le ragazze, tutte figure forti, in pieno controllo del proprio corpo e del gioco seduttivo, come nel caso di Ruby e di Yvonne, personaggio, quest’ultima, tra i più complessi e interessanti costruiti da Maynard

Gli adulti, invece, sembrano accorgersi dei figli soltanto nel momento in cui una latrina viene fatta saltare in aria con la dinamite, o la casa di un predicatore bigotto viene presa di mira durante la notte di Halloween. In questi casi, il riconoscimento dei ragazzi come «esseri nel mondo» avviene tramite la somministrazione di violente lezioni, di solito impartite dalla mano di un rappresentante del “potere” locale (l’agente Clyde Prince, il predicatore Herman Piney).

«La maggior parte dei bambini di Crum non badava molto agli adulti, a meno che non ci fosse costretta per via di qualche guaio. Per lo più, ce ne stavamo per i fatti nostri, facendo le nostre cose e lasciando che gli adulti facessero le loro. Era una soluzione che pareva accontentare tutti». (pag. 23)

In questo universo senza adulti, l’anno scolastico passa in fretta, tra assalti a furgoni della carne e faide eterne con gli «stronzi maiali del Kentucky».

E proprio quando si avvicinerà il momento dell’addio, Jesse, osservando Crum dalla cima di una collina, troverà qualcosa di inedito nella tanto odiata città natale, quasi che per riconoscere la propria casa sia necessario tracciare una distanza:

«Era troppo bello lassù. Crum sembrava bella e questo rendeva la mia decisione ancora più difficile; guardavo Crum e la trovavo bellissima». (pag. 172)

«Molte volte la cosa peggiore della tua vita può essere il centro della tua vita, l’unica ragione per andare avanti di giorno in giorno, e quando non c’è più, anche se non ti piace, ti manca. […]

Avevo perso la metà del mio obiettivo, del mio scopo, di quell’odio intenso che era il motivo per cui mi svegliavo ogni giorno. Crum». (pag. 166)

Chissà che lo stesso processo non possa valere per gli abitanti di Crum; chissà se un giorno, sfogliando le pagine beffarde e incredibilmente profonde del libro di un concittadino detestato, potranno rendersi conto che Lontano da Crum, in fondo, è il più grande atto d’amore che Maynard potesse dedicare alla sua città. O quantomeno, l’unico possibile.

(Lee Maynard, Lontano da Crum, trad. Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 2018, pp. 198, euro 15 – articolo di Martin Hofer)
copertina di Viaggi nel Molise di Jovine

Jovine, la terra, la provincia universale

Potrebbe sembrare non di comune interesse parlare di un libro dal forte tratto localistico com’è questo Viaggi nel Molise (Cosmo Iannone, 2018), che, stando al titolo, racconta di un territorio ben circoscritto. L’autore, d’altronde, è uno dei maggiori esponenti del realismo secondo novecentesco, che si misura in queste pagine con temi fondamentali come: la questione meridionale, la memoria personale, la lotta di classe (in chiave gramsciana), la geografia storica, la provincia. Viaggi nel Molise è una raccolta di articoli dello scrittore Francesco Jovine pubblicati a partire dal 1941 a seguito dei viaggi di ritorno che l’autore compì nella sua terra. Il volume fu edito postumo per la prima volta nel 1967 con il titolo di Viaggio in Molise. Nel luglio del 2018 è stato riproposto in questa nuova edizione dalla Cosmo Iannone Editore con l’aggiunta di alcuni articoli inediti, della prefazione di Goffredo Fofi e con allegato il DVD del docufilm C’era una volta la terra di Ilaria Jovine (nipote dello scrittore) e Roberto Mariotti.

Nel 1941, dopo anni di lontananza, Jovine ritorna nella sua regione come inviato del Giornale d’Italia e stende, per una rubrica creata ad hoc, undici articoli.

«Sento che dolcemente mi ritorna nel sangue il senso profondo del luogo, che la memoria si riapparenta egualmente ad odori suoni, rumori». Così scrive, indugiando sull’aspetto sentimentale del ritorno, tipico dell’emigrato che si riappropria non solo del suo paesaggio, ma di una parte intima della propria memoria. Jovine costruisce, con quelli che oggi definiremmo brevi reportage, la storia della sua terra, e realizza l’affresco di un remoto angolo d’Italia, simile ad altri, dove le realtà peculiari si mescolano alla storia contemporanea.

Negli articoli pubblicati nel ’41, corpo primigenio della raccolta, viene descritto un Molise totalmente rurale e incantato, che lascia il posto, nei successivi viaggi intercorsi tra il ’42 e il ’50, a una terra che deve fare i conti con il presente complesso del dopoguerra. Ne viene fuori un ritratto vivido e in movimento della provincia e di come il tempo si comporta con i luoghi isolati, con le campagne dimenticate, con i piccoli centri feriti dai bombardamenti o dalle ataviche e rinate povertà. La forte componente realista della scrittura di Jovine risulta ancor più incisiva nella formula dell’articolo e ben si mescola alle riflessioni sull’umanità dolente su cui indugia. La vocazione pedagogica e la visione storica gramsciana sembrano trovare completezza e chiarezza col passare degli anni nella sua scrittura. Negli articoli più recenti, infatti, come d’altronde avviene nella sua produzione letteraria, la consapevolezza artistica e ideologica raggiungono il massimo della maturità. Troveranno poi piena realizzazione nel suo capolavoro, pubblicato postumo: Le terre del Sacramento.

A completare questo viaggio nei luoghi della memoria dello scrittore viene in aiuto il docufilm di Ilaria Jovine e Roberto Mariotti, allegato al volume, dove alle immagini evocative realizzate in un Molise contemporaneo ancora regolato dai ritmi della terra e delle stagioni, fanno da contraltare le parole di Jovine lette da Neri Marcorè. Questa visione originale attualizza il messaggio dell’autore e induce a riflessioni più profonde sulla territorialità della nostra letteratura.

Il realismo e la questione meridionale

Jovine nasce a Guardalfiera nel 1902, dove trascorre l’infanzia e vi resta come insegnante, per qualche anno, dopo il conseguimento del diploma di maestro elementare. Si trasferisce a Roma nel 1925 e qui vive fino alla morte, avvenuta nel 1950. In opposizione al regime fascista lascia l’Italia dal ’37 al ’43, quando aderisce alla Resistenza militando tra le fila del Partito d’Azione e del Partito comunista. Le sue opere principali sono Signora Ava e Le terre del Sacramento. Il primo è uno dei romanzi più importanti ambientati durante il Risorgimento italiano, definito da Goffredo Fofi una sorta di Gattopardo dei poveri. Le terre del Sacramento, vincitore del premio Viareggio è stato pubblicato postumo e rappresenta forse il capolavoro di Jovine, oltre che il punto di arrivo della sua analisi politica e sociale. Quasi tutte le opere di Jovine sono ambientate in Molise, luogo archetipico dove egli sviluppa una personale declinazione del pensiero gramsciano, sia riguardo la questione meridionale, sia sulle condizioni e le possibilità delle classi proletarie, dei cosiddetti cafoni.

È andata scemando, nel tempo, la considerazione di cui godeva Jovine nelle antologie sulla letteratura del dopoguerra e nei testi scolastici, di pari passo con quella, tra gli altri, di Ignazio Silone, Carlo Levi e Corrado Alvaro, suoi contemporanei e narratori-simbolo della questione meridionale. In anni recenti l’editore Donzelli ha avviato un’opera di ripubblicazione dei romanzi principali dello scrittore molisano, come già aveva fatto con le opere minori di Carlo Levi.

A oggi, i temi trattati dagli scrittori realisti del secondo Novecento sembrano aver perso attrattiva, nonostante non di rado ci si chieda ancora se esiste o meno una questione meridionale e se le realtà locali del meridione abbiano ragioni di arretratezza nei confronti del nord del paese.

Anche la tematica unitaria, oggetto del romanzo Signora Ava, ha perso appeal nel processo pedagogico, sebbene sia argomento di discussione nei tempi che viviamo. Quando fu pubblicato, e per molti anni poi, il romanzo ebbe una notevole diffusione nelle scuole, anche grazie al contributo della pedagogista Dina Bertoni, moglie di Jovine, che ne favorì il l’adozione come testo antologico. Il fatto che questi libri vadano a scomparire può considerarsi una perdita nella dialettica Nord-Sud, e soprattutto in quella dell’importanza della territorialità nella formazione culturale, letteraria e artistica.

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La geografia letteraria

«La provincia per me è una specie di sogno. Questa terra è come un mito antico conosciuto attraverso i racconti di mio padre e un po’ per istinto. Qui tutto è vivido, sonoro, ardente. Alberi e cose non parlano un linguaggio intellegibile, ma hanno voce. La terra narra la difficile gestazione delle sue vite e gli uomini la sentono vibrare sotto i piedi come una creatura viva».

Il tema della provincia italiana e quindi delle relazioni tra il luogo in cui si è vissuto o si è nati e la letteratura non è nuovo. Una delle prime riflessioni in merito si trova nel noto saggio di Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana (Einaudi, 1967) dove si cercano le origini regionalistiche della nostra letteratura partendo dal De vulgari eloquentia di Dante. Nel saggio si arriva alla conclusione che la storia quanto la geografia hanno un ruolo essenziale nella vita e quindi nella letteratura, e che l’unità linguistica e culturale debba passare per il riconoscimento delle realtà locali.

Scriveva Corrado Alvaro nel 1937: «Il lavoro di incubazione si compie nell’ambito della provincia. La provincia che fugge nella capitale la terra, il lavoro manuale, in cerca di impieghi dalle mani bianche, quando nella sua ricerca non porta vere e profonde qualità di vocazione e disinteresse, crea delle crisi morali molto complesse». La provincia è così luogo del ricordo e costrutto solido dove non solo ambientare, ma far nascere un ragionamento, dove la realtà locale mette a nudo le complessità dei ruoli, delle vicende personali e globali, umane e sociali.

Il dibattito sul ruolo della provincia in letteratura si è momentaneamente vivacizzato in anni recenti a seguito delle minacce di abolizione di molte province italiane. Alessandro Banda su Doppiozero s’interroga sul valore reale che ha avuto la provincia in alcuni dei maggiori scrittori italiani del novecento e pone il problema, senza riuscire a trovare una vera risposta: «ma quant’era ligure il ligure Montale? Che abbandonò Genova nel 1928 e cercò di tenersene alla larga e fu senz’altro più fiorentino e milanese che genovese». Conclude, però, con un invocazione al salvataggio delle realtà culturali locali.

Massimo Cacciapuoti (in un intervista su Il Libraio) ritorna sul tema mettendo in luce quanto sia stata importante la condizione di provinciale nella sua scrittura. E parlando del ruolo della provincia nella storia della letteratura italiana dice: «specie del primo dopoguerra, si è soffermata tanto e non a torto sulla provincia, luogo oscuro, informe, ma mia profonda convinzione anche origine di quei fermenti vitalistici, di quell’energia primordiale che da sola rappresenta una speranza e una conquista e da cui partire per comprendere nel profondo il senso della realtà nel suo complesso».

copertine di libri realisti

 

Periferia o provincia?

Un contributo piuttosto recente, sul quale occorre fare qualche riflessione, è apparso nel quarto volume del Romanzo in Italia (Carocci, 2018) a cura di Giancarlo Alfano e Francesco De Cristofaro. Nel saggio Raccontare la provincia, Riccardo Donati approccia al tema partendo dall’assunto che la provincia è una costruzione del pensiero che non rappresenta un’idea di territorialità in senso stretto, ma più largamente, una distanza temporale. Il ragionamento, in parte condivisibile, di Donati poggia, però, sull’errato abbattimento di una distinzione: perché il ragionamento regga, infatti, afferma Donati, bisogna ritenere equivalenti i concetti di periferia e di provincia in quanto sinonimi di ritardo rispetto alle trasformazioni che avvengono nei centri di potere culturale, politico, sociale.

In questo modo, però, si abbatte il senso di territorialità. La provincia diventa, così, estendibile all’infinito, e tutti diventiamo la provincia di qualcuno. Così: «L’Europa è la periferia dell’America, l’Italia è la periferia dell’Europa», dice Gilberto Severini riprendendo in parte l’assunto di Marshall McLuhan secondo il quale nel villaggio globale è tutto periferia e non esiste più il centro.

Qui, probabilmente, a giudizio di chi scrive, va fatta una precisazione. Siamo di fronte a un affiancamento di due termini non sovrapponibili, ma ormai ritenuti intercambiabili. La costruzione di un significato condiviso del concetto di provincia deve passare attraverso un’analisi delle diversità sostanziali tra i termini periferia e provincia, distanti per ragioni storiche e culturali, oltre che meramente lessicali.

Il termine periferia deriva dal verbo greco περιϕέρω, letteralmente: portare intorno, o girare. La periferia è etimologicamente legata al concetto di ruotare attorno a qualcos’altro, quindi, per estensione – riportando la dicitura del dizionario Treccani – è «la parte estrema e più marginale, contrapposta al centro, di uno spazio fisico o di un territorio più o meno ampio».

La provincia – termine che non ha un’etimologia così precisa – è in uso sin dal mondo latino come territorio italiano o estero amministrato da un rappresentante di Roma, e ancora, genericamente, nel mondo antico è da considerarsi come «sinonimo di regione o nazione» (fonte dizionario Treccani). Per estensione, infine, allude a «un mondo maggiormente attaccato alle tradizioni e alle abitudini e dalla minor varietà di attività culturali generalmente offerte dalle grandi città».

Benché i due termini siano accomunati dall’idea di distanza, risulta chiaro come non siano assimilabili, perché i legami della periferia e della provincia con i centri di riferimento sono di natura e consistenza ben diverse. La periferia, infatti, non può esistere senza il centro di cui è propaggine ed estensione naturale; la provincia, al contrario, sussiste in quanto tale e non in relazione ad un centro, in questo, il dato reale del territorio è indispensabile. Monti, mari, distanze fisiche e paesaggi differenti segnano le distanze prima di tutto fisiche.

Piero Chiara dice, riferendosi al decennio 1929-1939: «con grande ritardo finiva a Luino, e forse anche in altri posti, l’Ottocento»(da Spartizione, 1964), descrivendo così una provincia lontana dal centro nel bene e nel male, ma così lontana da non subirne l’influenza se non ad anni di distanza.

Pasolini, invece, maggiore cantore della periferia, la descrive come una «un urlante piaga umana (che) si espandeva sempre di più» un luogo dove lo straniamento e la mancanza di riferimenti comuni avrebbe portato alla fine dell’identità proletaria e della coscienza di classe. È, infatti, proprio il senso di non appartenenza e di smarrimento delle classi subalterne a fare spesso da collante nelle storie di periferia e non un sistema condiviso di valori o di necessità. La provincia, invece è, anche dal punto di vista amministrativo, un’entità autonoma che possiede “proprie regole” che ne governano la vita, la realtà e che, quindi, hanno influenzato anche la cultura letteraria.

Una riflessione più profonda sulla provincia in letteratura dovrebbe ripartire proprio dagli autori del dopoguerra come Jovine. Sono le province, fino ai primi effetti della globalizzazione, luoghi geograficamente e culturalmente isolati, dove però avviene un processo di identificazione che, in letteratura, possiede un significato universale. Emblematica in tal senso è la sentenza su Silone espressa da Albert Camus: «Silone parla a tutta l’Europa. Se io mi sento legato a lui, è perché egli è nello stesso tempo incredibilmente radicato nella sua tradizione nazionale e anche provinciale».

Poster del film La paranza dei bambini su Flanerí

Educazione napoletana

Secondo film tratto dai romanzi di Roberto SavianoLa paranza dei bambini è stato presentato in concorso al Festival internazionale del cinema di Berlino dove si è aggiudicato l’Orso d’argento per la sceneggiatura. Fa venire subito in mente Gomorra, questo nuovo film di Claudio Giovannesi. Più il film di Matteo Garrone che la serie ultra-muscolare e piena di gente che si guarda in cagnesco di Stefano Sollima. Sarà anche che alla sceneggiatura ha lavorato, oltre al regista e Saviano, Maurizio Braucci, già al fianco di Garrone nel 2008. Le differenze di stile, però, vengono fuori in fretta e il merito e nella visione del cinema di Giovannesi.

Un gruppo di ragazzini intorno ai quindici anni intraprende la carriera criminale per cercare di ottenere una vita migliore. Tra di loro si chiamano Tyson, Biscottino, Lollipo, O’Russ, Briato’. L’unico che ha diritto a un nome vero è Nicola,il loro capo. È lui a chiedere un lavoro al boss per primo, stanco di vedere sua madre pagare il pizzo. È lui a preparare il piano per diventare il nuovo boss del Rione Sanità di Napoli.

Claudio Giovannesi è abituato a raccontare il mondo degli adolescenti difficili. A partire dal suo secondo film, Alì ha gli occhi azzurri, per continuare poi con Fiore, ha spostato il suo sguardo su storie di crescita di marginali, più che emarginati. Italiani di seconda generazione, ragazzi in riformatorio, boss adolescenti. Grazie allo straordinario lavoro di casting fatto con Chiara Polizzi, è andato a cercare i volti per La paranza dei bambini tra più di quattromila candidati, girando per i quartieri di Napoli fermando i ragazzi per strada uno a uno. Il giovane protagonista, Francesco Di Napoli, è stato trovato grazie a una foto sul cellulare del cugino.

Più che ai tempi classici del neorealismo sembra di essere tornati a quella seconda fase a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta, a quei film di Marco Risi tipo Mery per sempre che raccontavano la vita difficile con i volti veri delle strade.

La paranza dei bambini è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione che viaggia su due binari paralleli. Da un lato, Nicola cresce come un qualsiasi adolescente. Conosce una ragazza, si innamora, passa il tempo con gli amici, ha sogni semplici come una maglietta che costa troppo o un’estate da trascorrere a Gallipoli. Dall’altro, la sua crescita passa attraverso le tappe di una carriera criminale velocissima. Non nasce in un clan, decide di entrarci per migliorare la sua condizione sociale, sfruttando una serie di piccole opportunità appena gli si presentano.

La differenza con Gomorra è qui. Non è la storia di criminali per nascita, per abitudine. È la storia di delinquenti per scelta, di giovanissimi che prendono la strada veloce per arrivare alle loro soddisfazioni transitorie. Giovannesi è riuscito a raccontare i ragazzi senza giudicare, mostrando una storia per quella che è, senza dimensioni esteriori rispetto alla loro vita quotidiana. C’è una specie di indulgenza nei loro confronti. Un’indulgenza che sa di comprensione.

Il crimine diventa la scelta più ovvia, da vivere quasi allo stesso modo con cui si vive qualsiasi altro gioco. I momenti chiave vanno immortalati con una foto (Giovannesi, Saviano, Braucci: grazie per non aver fatto pronunciare a nessuno dei ragazzini la parola “selfie”); per capire come funzionano le armi basta cercarsi un tutorial su YouTube.

In questi anni di continue proposte di cinema e televisione criminale all’italiana il rischio di essere di fronte a qualcosa di già visto è forte. Senza entrare nell’ambito delle polemiche sull’eventuale sfruttamento dell’estetica criminale per scopi esclusivamente commerciali, La paranza dei bambini rende con sguardo quasi socio-antropologico la difficile realtà di un’adolescenza a cui è negato l’accesso anche alle più elementari aspirazioni di benessere.

 

(La paranza dei bambini, di Claudio Giovannesi, 2019, drammatico, 105’)

Copertina di Sera in paradiso di Lucia Berlin

Gli opposti che si annullano

Una prosa incisiva, severa, essenziale al limite dello scarno eppure a tratti accesa da improvvisi lampi descrittivi, quella dei ventidue racconti che compongono Sera in paradiso di Lucia Berlin (Bollati Boringhieri, 2018) e, similmente alla sua disordinata e rocambolesca vita, altrettanto in bilico tra umorismo e dramma, superficialità e profondità. Gravata da una scoliosi che la costringeva a portare busti d’acciaio e finì per  perforarle un polmone, la scrittrice americana (1936-2004) alternò problemi di alcolismo, con conseguenti ricoveri in clinica, ad una carriera universitaria in cui fu molto amata dai suoi studenti, traendo ispirazione per questa sua raccolta di storie brevi da più di un tratto autobiografico, come l’infanzia nelle città minerarie del West, l’adolescenza passata in Cile e, da madre di quattro figli con tre divorzi alle spalle, dall’avventuroso vagabondare in cerca di lavoro tra Messico e California.

Una serie di cronache dall’accattivante sapore da bohème d’oltreoceano, che sanno di jazz e fiestas, whisky e scommesse, corride e quartieri ghetto, costituiscono l’ossatura portante e il fascino più immediatamente evidente di questa scrittura, in cui l’uso del passato remoto non è tuttavia sufficiente a liberare gli accadimenti dal loro puro e semplice svolgersi in un prevedibile ordine cronologico, perdendo la possibilità di evocare in maniera più originale e articolata – ma soprattutto profondamente significativa – quello che finisce per essere solo un effervescente collage, per quanto riuscito ed abile, di gringos, messicani, ricchi annoiati e cinici, poveri ingegnosi, adolescenti allo sbando, gigolò e attrici, secondo una pittoresca ma in fondo superficiale nomenclatura dei tipi umani.

Vaporosa evanescenza che si ritrova nel tratteggio del continente americano – dai paesaggi della profonda provincia agli sfondi alienanti delle metropoli – il quale, alla pari dei personaggi, è attraversato da uno sguardo orizzontale che non commenta né prende posizione, quasi non fosse partecipe delle vicende dei piccoli e grandi drammi che vi sono ambientati, geografia dei luoghi e dei caratteri che spazia in brillanti suggestioni che vibrano per un attimo, come le stelle cadenti del racconto Momenti d’estate, per poi svanire nel nulla, lasciando al lettore il vago disagio di un senso d’incompiutezza.

Lettura facile e scorrevole, in cui le frasi tronche al limite dell’elementare si alternano a descrizioni oggettive e funzionali, qua e là arricchite da inaspettati ma ben riusciti tocchi estetizzanti, Sera in paradiso dal principio attrae per la seduzione di uno stile dai toni leggeri fatto di detto e non detto, incerte allusioni e una diffusa quanto gradevole nonchalance da salotto bene, deludendo però per quella mancanza di spessore, quel quid in più che lascia questo pur godibile libro al di qua della grande letteratura.

Infatti, scrittrice sicuramente valida ma non eccelsa, la Berlin gioca tutte le storie sullo stesso registro privo di varianti, vale a dire un medesimo lineare schema compositivo senza alcun guizzo che possa sorprendere, come ad esempio nella trama di Andado. Romanzo gotico, in cui si capisce subito che la protagonista quattordicenne verrà inevitabilmente sedotta dal brizzolato Don Andrés, senza tuttavia che queste diffuse anticipazioni appaiano giustificate ai fini di un ulteriore livello di lettura. Se non il testo, stupisce in compenso l’affascinante gratuità del titolo, che a parte forse un pallido richiamo al topos della fanciulla perseguitata, non sembra avere ulteriori legami con motivi, temi o atmosfere tipiche del gotico.

Ma è principalmente nei dialoghi, che alcune volte appaiono improbabili e forzati – seppure sufficientemente agili e informali da eludere a prima vista quest’impressione – tanto quanto nella mancanza di interpretazione da parte della voce narrante, che questo eccesso di vaghezza a cui manca un vero sostegno viene a confermare l’ipotesi di non sottendere l’intenzione di una particolare ironia o di un’acuta analisi sociale o psicologica, bensì di fermarsi involontariamente ad una pennellata guizzante ed epidermica, un affresco veloce senza intenzionalità in cui bene e male, tragedia e commedia, finiscono per annullarsi a vicenda in un banale gioco delle equivalenze. Attraente pirotecnia delle immagini, Sera in paradiso non tocca nel profondo, non scuote, non aggiunge né toglie nulla ad una visione del mondo che non può nemmeno dirsi cinismo mascherato o disincanto, né possiede la forza di saper evocare il profondo dolore o la profonda gioia.

 

 

(Lucia Berlin, Sera in paradiso, Bollati Boringhieri, 2018, pp. 280, € 18.00 – Recensione di Claudia Cautillo)
Copertina di Il manuale dell'eremita di Vittorio Giacopini

Modelli di eremitismo moderno

Ammesso che oggi, nell’attuale era postmoderna a industrializzazione avanzata, sia ancora possibile sottrarsi totalmente alle influenze di una società sempre più schizoide a livello umano e capillarmente pervasa dalla cultura narcotizzante dell’alta tecnologia, quali potrebbero essere le strategie da adottare, quali gli itinerari da seguire e in quali luoghi incontaminati potremmo, infine, rifugiarci?

Se per caso state attraversando un momento di crisi esistenziale e vi state ponendo domande del genere, questo piccolo libro dal titolo semplice e suggestivo, Il manuale dell’eremita di Vittorio Giacopini (edizioni dell’asino, 2018), attirerà inevitabilmente la vostra attenzione. Ma se vi aspettate di trovarvi prescritta l’ennesima rivisitazione in chiave moderna del modello classico, oramai divenuto cliché, di eremitismo inteso come allontanamento dal mondo, isolamento forzato dagli uomini e tensione verso la riconquista della sfera spirituale nell’eremo di qualche sperduta montagna, rimarrete sicuramente delusi.

Si tratta bensì di una raccolta di episodi biografici di alcune tra le figure più emblematiche del Novecento, scrittori e filosofi del calibro di James Joyce, Ludwig Wittgenstein e Malcolm Lowry, artisti e musicisti come George Méliès e Bob Dylan. Quindi sembrerebbe lecito domandarsi: perché questo titolo? Cos’hanno a che fare questi personaggi tutt’altro che religiosi e, di sicuro, non adepti di qualche dottrina ascetica o mistica, con la figura dell’eremita?

Ebbene, prescindendo appunto da ogni connotazione dottrinale e religiosa, le esperienze di eremitismo descritte dall’autore ci mostrano come, nel nostro tempo, sia ancora possibile prendere le distanze dal mondo – sia come atto di volontà, sia perché indotti dalle circostanze – e mettersi momentaneamente da parte, sottraendosi così al giogo della Storia e alla tirannia dell’“attuale”.

Ci fanno vedere, inoltre, come sia possibile abitare dimensioni strettamente individuali senza necessariamente dissociarsi dai propri simili – «si perde sempre quando si sta isolati», diceva Van Gogh – tracciando delle “mappe” alternative del tutto personali, sfuggendo così alle reti tentacolari della società e creando altri mondi “fuori dal mondo” aventi vita propria, o ancora scoprendo “sottomondi” invisibili a uno sguardo che sfiora solo la superficie della realtà quotidiana.

Attraverso la scansione di alcune tappe della vita dei personaggi, come lo spegnersi delle luci della ribalta accompagnato dal grigiore dell’ultima parte della vita di Georges Méliès (l’«eremita urbano»), l’esilio volontario di Joyce a Roma o il tortuoso cammino di una missione che non è una missione, di Fernand Deligny, possiamo ritrovare noi stessi insieme all’essenza di ogni biografia: un divenire che rispetta determinate tempistiche, diverse per ciascuno, e scandito da un “prima”, un “dopo”, un “quando”, ma anche da un “non ancora”, e che appartiene, come scrive l’autore, alla «Storia di tutti, semplicemente», cioè «un luogo, un tempo, il ronzio di un’atmosfera diffusa, cioè un destino», tutto ciò «è parte di quello che siamo, o diventiamo. È qualcosa che ci plasma, o ci ha plasmato».

Vittorio Giacopini accompagna i suoi eroi nelle loro vicende con viva partecipazione, quasi sostituendosi a essi e dando voce diretta agli stati d’animo, alle angosce, alle riflessioni sugli scacchi amari subiti e il conseguente anelito al ritiro dal mondo che li accomuna, il tutto narrato in un tono mai solenne, a tratti spassosamente semiserio, altre volte cinico, ma in ogni caso umano.

Non si trasmette nessuna morale da predicare, nessuna lezione da imparare, non si fornisce nessun farmaco per lenire i mali dello spirito. In queste pagine traluce solamente una sorta di filosofia pratica, atta ad affrontare il mestiere di vivere nei suoi momenti culminanti e nel loro conseguente declino, ma soprattutto nello scorrere dei giorni qualunque – zone d’ombra, tratti di strada piana dove la tortuosità sarebbe in fin dei conti preferibile alla monotonia. Fasi in cui la vita, apparentemente quieta e indifferente, continua invece senza sosta a pulsare, ora seguendo ritmi sincopati, ora regolari, ma che sempre cova dentro qualcosa che, al momento opportuno – non prima – si saprà se sia un nuovo inizio o la fine.

La regola aurea sembra allora consistere solo in un dogmatico e perentorio: «Vade ultra!», inserito in un contesto, quello della vita e del suo divenire, che sembra refrattario a qualsivoglia metodo o regola prescrittivi: «Non c’è niente da insegnare e nessuno da educare, veramente, e l’unica strategia – o stratagemma – è lasciarsi portare dalla corrente, andare a rimorchio».

Per concludere, a mio parere, il più rappresentativamente compiuto – sulla falsariga tematica tracciata dall’autore – nonché di maggiore spessore e a tratti toccante, è il capitoletto dedicato alla vita di Fernand Deligny , il più lungo della serie, quello in cui Giacopini descrive le fasi, ma soprattutto le stasi – quei momenti di sospensione intrisi di amletiche riflessioni sulla propria identità, dove si è costanti solo nel rigetto di definizioni e attributi imposti dall’esterno – che sembrano indispensabili per fare sì che, in seguito, il motore della storia personale riprenda a girare.

 

 

(Vittorio Giacopini, Il manuale dell’eremita, edizioni dell’asino, 2018, pp. 228, euro 14)
copertina di stanza singola su flanerí

La Stanza singola di Franco 126, gli amori e le Peroni

Per parlare dell’album d’esordio di Franco 126, Stanza singola, è necessario tirare in ballo il suo collega Carl Brave, uscito lo scorso anno con Notti brave, con cui ha scritto nel 2017 Polaroid, album simbolo della congiunzione, in questi anni Social, tra itpop e rap/trap/hiphop.

Entrambi, nel post-Polaroid, hanno deciso di proseguire/iniziare la propria carriera separati dall’altro, seguendo le strade che già nella loro collaborazione erano nette: Carl Brave, senza eccessive pretese, in maniera quasi scanzonata, aveva scritto un album facendo perno su una nostalgia fatta di brevi istantanee, sulla scia del modus operandi figlio della prassi Facebook e compagnia. Franco 126, invece, con delle pretese, scrive oggi un album che nasce per essere più alto di quello del suo partner. Via l’auto-tune, il suo approccio, più serioso, sia da un punto di vista musicale, sia lirico, sembra mirare in tutto e per tutto al mondo del cantautorato, o quantomento a una sua nuova interpretazione dell’immaginario legato alla figura del cantautore.

Non è un caso, infatti, che Tommaso Paradiso sia presente nel singolo che ha dato il nome all’album e che ne ha anticipato l’uscita. Il leader dei Thegiornalisti, infatti, è l’emblema di ciò che significa essere un cantautore oggi.  Nessun personaggio avrebbe potuto essere più calzante di lui. Nel video, li vediamo camminare al rallentatore, Paradiso fuma con uno sguardo in stile James Dean, si scambiano una Peroni, c’è Roma alle loro spalle.

La scelta della Peroni non è un caso. Oramai la sua immagine è incatenata a una mitologia connessa al mondo dei negozi gestiti da bengalesi (i “bangla”): slegata da quella vecchia e stantia del muratore (meglio se rumeno), oggi è la concretizzazione di una generazione senza certezze e con un futuro già terminato – i The Pills potrebbero ricordare qualcosa. Franco126, con Stanza singola, centra in pieno la questione e riesce a fare suo quel dedalo di condivisioni Facebook e WhatsApp.

Non sono un caso, inoltre, la salsa di soia, le nuovole di drago e i noodle, legati palesemente ai ristoranti cinesi o a quelli giapponesi “all you can eat”, i luoghi dove ora le generazioni (le coppie, i gruppi di amici) possono permettersi di stare quando hanno bisogno di allontanarsi dalla crudeltà del mondo, o semplicemente vogliono portare qualcuno fuori a cena.

«Con il mondo che crolla / E noi due mano nella mano / Su un cielo di soia / E nuvole di drago».

In questo passaggio, da “Nuvole di drago”, possiamo trovare l’essenza della poetica di Franco126 in Stanza singola. Il fatto non è l’utilizzo del pretesto dell’universo orientale (principalmente cinese) declinato in questi anni in Italia (in special modo Roma) per disegnare, poi, un mondo reale fatto di indeterminatezza. Le canzoni dell’artista romano parlano di amori che stanno per iniziare, amori che stanno per finire, delusioni. Tutto ruota intorno alla tematica di come è difficile riuscire a essere felici con e per l’altro, se è possibile esserlo, quindi, rimanendo soli. Il problema più evidente non è il tema dell’amore: la scuola italiana ne ha tratto ispirazione da sempre, producendo delle opere eccelse. Qui ci troviamo di fronte a un lavoro in cui viene trattato l’amore in maniera adolescenziale: le canzoni di Franco126 sono scritte per adolescenti che si comportano da adolescenti, ragazzini, adulti adolescenti, adulti che non hanno mai superato una certa fase della propria vita. Sono mascherate da qualcosa che non riescono a essere: non esiste una reale profondità di analisi, esiste una patina su cui far scivolare un’interpretazione del mondo piuttosto semplice e banale.

Ed è un discorso che si può ampliare: dai Thegiornalisti a Calcutta, da Coez a Gazzelle, fino a Motta (ma ancora con qualche riserva), l’approccio dell’adolescente mascherato da adulto ricorre costanemente. E non ci sarebbe nulla di male, per carità – gli anni ’90 hanno visto l’esplosione del fenomeno delle boyband. Il punto è che questo è quello che viene assurto a presente e futuro del cantautorato italiano.

Stanza singola conferma Franco126 come portavoce del meticciato che unisce itpop e trap/rap/hiphop. Conferma, inoltre, una certa tendenza al ribasso di una parte della produzione musicale italiana odierna, sempre troppo presa a piacere e a dire ciò che il pubblico dovrebbe volere.

copertina di l’animale che mi porto dentro di francesco piccolo

Il maschio in gabbia, la gabbia del maschio

È utile raccogliere le reazioni dei lettori per scrivere dell’ultimo libro di Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro (Einaudi, 2018). Poco importa che appartengano a critici e recensori, quindi a “professionisti” della lettura che, in genere, soffrono l’immedesimazione. Non c’è, infatti, desiderio di distant reading nelle parole di Annalena Benini (Il Foglio) e Davide Brullo (Linkiesta) . Entrambi si misurano con l’uomo Francesco Piccolo, non con la sua scrittura. La prima lo fa con uno sforzo di comprensione, il secondo mostrando un affilatissimo disprezzo. Comunicano questo: L’animale che mi porto dentro colpisce, intimidisce e disturba. In una sola parola seduce.

La trama: Francesco Piccolo si confessa. Autofiction o no, non è questo che importa. Ci racconta le tappe della sua educazione maschile, la contraddizione culturale che attraversa tutti gli appartenenti al genere. Da un lato il bisogno umano di sentimentalismo (inteso non come ostentazione patetica, ma come inclinazione a fare emergere la propria emotività), dall’altro il bisogno maschile di attenersi alla narrazione comune per soddisfare un desiderio di appartenenza. «Sembravano tutte – così dicevano – magre, alte, allegre» scrive a proposito delle sue esperienze estive a Baia Domizia, quando era poco più che un bambino e la sua comitiva alimentava miti sessuali su un gruppo di ragazze svedesi. In quel «così dicevano» c’è il senso di tutto il discorso: quando ancora non sa cosa pensare del corpo femminile, ecco che dentro di lui si insinuano gli schemi della comunità.

Smanioso di entrare a far parte del gruppo dei grandi, Francesco assimila come una spugna, modifica il suo atteggiamento e la sua percezione del mondo. Ma cosa comunica, esattamente, questa narrazione? Che al maschio tutto è concesso, che per statuto ha la forza, l’intelligenza, il carisma per volare alto, l’indulgenza plenaria in caso di oscenità, volgarità, violenza e indolenza. Da qui il dramma: può sembrare paradossale, ma il maschio come ce lo racconta Piccolo soffre della forma più classica di bovarismo, ossia la frustrazione inevitabile dopo la scoperta che la realtà non coincide con la sua rappresentazione.

L’enorme disagio emotivo che ne consegue emerge dalle pieghe del discorso, non tanto dalla presa d’atto che la lotta tra affermazione della diversità e istinto connaturato è persa, quanto dall’ambivalenza che si crea tra bisogno di confessione ed esibizionismo. «La paura, ho capito grazie a questo libro, non la paura indotta ma la paura in sé, è un sentimento maschile» conclude Benini; «La biografia adolescenziale di Piccolo non tocca gli universali, non va oltre il quartiere dei fatti suoi, è piena di eventi dimenticabili, è un diario delle polluzioni notturne, nostalgiche», rincara Brullo.

Lo stile: cazzo è una parola molto ricorrente e, di certo, quella a cui si fa più caso durante la lettura. Usata in ogni contesto, Piccolo non ammette sinonimi. Questa particolare intransigenza è il sintomo della sua ossessione per la provocazione, la prova del fatto che la scelta della terminologia adatta all’organo maschile smaschera sempre un atteggiamento preciso. Il racconto della sua vita è una continua scarica di colpi contro la sensibilità del lettore, una sfilza di «scopate», «tette indimenticabili» e «dita in culo». Questo è il punto: Piccolo non può rivelarsi senza filtri, non se la sente. Ha bisogno del linguaggio della provocazione per tutelarsi. Essa funziona come schermo morale nel momento in cui attira su di sé la convinta antipatia del lettore, un gioco stilistico che crea un cortocircuito: “mi credi o non mi credi?”. Del resto, il fascino dell’autofiction sta tutto qui, nell’impossibilità di scindere il vero dal falso, di separare autore e personaggio. La ciclica disputa se sia o no pertinente operare questa separazione non ha davvero una risposta. Si anima, anzi, grazie alla combustione creata dalla continua riproposizione del quesito.

Altro aspetto, infine, è la separazione tra individuo e collettività, tra persona e «panopticon». Se vuole rinunciare a vivere dentro al carcere della virilità per recuperare una sua singolarità, il maschio deve fare i conti con «lo sguardo degli altri maschi che non riesci mai a toglierti di dosso nemmeno per un secondo». Questa bidimensionalità si esprime anche a livello stilistico: frequenti sono i passaggi dal racconto autobiografico all’analisi delle opere narrative entrate nell’immaginario collettivo (i film di Maciste, Il padrino, Malizia, i libri di Philip Roth). La riflessione sul film Malizia di Salvatore Samperi (1973), in particolare, è uno dei passaggi più belli del libro, perché unisce i due momenti fondamentali con cui si misura lo spirito critico quando ha a che fare con un’opera che lavora con l’immaginario: interpretazione sovrapersonale ed esperienza individuale.

Nel complesso, L’animale che mi porto dentro è un libro che costringe a schierarsi. Ha una sua coerenza simbolica e, soprattutto, una notevole credibilità narrativa che non infrange mai il patto col lettore. Questi, tra tutti, sono i punti di forza di ogni narrazione che ambisca a essere qualcosa di più di una semplice raccolta di aneddoti.

 

(Francesco Piccolo, L’animale che mi porto dentro, Einaudi, 2018, pp 240, euro 19,50)
Copertina di Le donne di Lazar di Marina Stepnova

Tre donne e il ventesimo secolo russo

«Nel 1985 Lidočka compì cinque anni e la sua vita andò a rotoli. Era la prima volta che si incontravano tanto da vicino, Lidočka e la sua vita, e fu per questo che entrambe fissarono nella mente con un’intensità vertiginosa ogni piccolo, salato, umido dettaglio della loro ultima estate felice». Così recita l’incipit folgorante di Le donne di Lazar’ di Marina Stepnova (Voland, 2018)  e la scrittura potente non verrà mai meno nelle più di quattrocento pagine di questo romanzo russo. Attraversa per lungo e per largo il terribile, sanguinario ma anche magnifico ventesimo secolo in cui la Russia prima, e l’Unione Sovietica poi, hanno avuto un ruolo determinante.

Camminiamo nella Storia seguendo le tracce del geniale fisico nucleare di origini ebraiche Lazar’ Lindt nato nel 1900: il suo destino si rispecchia nelle vite di tre donne a lui legate in qualche modo. Tre donne vicine e allo stesso tempo lontane, persino estranee: Marusja, moglie del professore che lo scopre e lo avvia alla carriera di scienziato, una signora trent’anni più grande di Lindt che gli fa da amorevole madre e che lui ama con un amore che va ben al di là di quello filiale; Galina, che sarà costretta a sposarlo giovanissima quando lui è già vecchio; infine Lidočka, la nipote che Lindt non ha mai incontrato. Sono loro le donne del titolo, sono e non sono di Lazar’.

Marusja, la moglie del mentore di Lindt, è la figura cruciale della lunga esistenza di Lazar’. Lei lo accoglie appena diciottenne, fuggito a Mosca dalla provincia probabilmente in seguito a un pogrom, subito dopo la Rivoluzione d’ottobre. Marusja non ha avuto figli e non sperava più di poterne avere, Lindt le regala la maternità che la natura le ha negato e lei lo ricambia con il calore della casa, l’affetto, la bellezza, la cura della sua persona. Marusja è l’icona della donna russa ottocentesca, è sempre prodiga e disponibile, e aiuta donne e bambini privi di mezzi durante la guerra. Lazar’ Lindt cercherà lei in tutte le donne, e per magia Marina Stenova riuscirà a farla rivivere in sua nipote Lidočka.

Galina Petrovna finisce nelle grinfie di Lindt, osannato e onnipotente sessantenne. Con un intrigo la ragazza è catapultata tra le sue braccia da fidanzata di un ragazzo semplice, entrambi senza particolari ambizioni se non quella di realizzare il più banale dei sogni d’amore. Galina è una nuvola rosa, che da un giorno all’altro si trova al centro della nomenklatura, e madre di un bambino che non può amare, perché frutto di una imposizione, di violenza anche se commessa con amore e tenerezza. La ragazza sentimentale diventa un’adulta anaffettiva, dura e calcolatrice, un uccello di paradiso in gabbia. Neppure la nipote di cinque anni, l’orfana di suo figlio, fa breccia nel suo cuore. Non la può abbandonare perché porta il suo stesso cognome, ma se ne prende cura solo con il denaro, che ha in abbondanza.

Perduti i genitori all’età di cinque anni, Lidočka cresce in ambienti elitari disciplinati, colti, ma privi di calore. Può diventare ballerina, ha talento ed è capace di sopportare anche la dura disciplina, ma desidera soltanto affetto, una casa, una famiglia. Tre donne, tre vite, tre periodi storici, un affresco che a tratti ricorda Tolstoj, Nabokov e Ulickaja, ma anche Il dottor Živago di Pasternak.

Le donne di Lazar’ (2011) è il secondo di tre romanzi di Marina Stepnova. Con questo libro si è classificata terza al più prestigioso premio letterario russo – il Bol’šaja kniga – ed è stata finalista fra gli altri ai premi Russkij Booker, Nacional’nyj bestseller e Jasnaja Poljana. Il libro ha ottenuto un ampio consenso di critica, ed è stato tradotto in ventiquattro lingue.

 

 

Più del recensore, può raccontare e svelare il libro il suo traduttore, perché il traduttore con esso trascorre a volte anche molti mesi e si immerge in quelle profondità che il lettore semplice raramente può o vuole toccare. Ho avuto l’opportunità di porre qualche domanda al traduttore di questo splendido libro, Corrado Piazzetta, e lui ha risposto volentieri, anche a domande che non riguardano strettamente Le donne di Lazar’, ma possono interessare in generale gli amanti della letteratura russa.

Caro Corrado, sapevo della tua passione per la lingua russa, ti conoscevo però soltanto come abilissima voce italiana di Penelope Lively. Il romanzo monumentale della Stepnova metterebbe in difficoltà anche un traduttore molto preparato e di lungo corso, quindi ti faccio i miei complimenti più sinceri. Com’è caduta la scelta di un esordiente, anche se esperto traduttore in un’altra combinazione linguistica, su questo libro che porta in sé tutte le difficoltà che una traduzione editoriale può rappresentare?

Cara Andrea, innanzitutto ti ringrazio molto dei complimenti. Come dici tu, la lingua e la cultura russe sono sempre state una mia grande passione, nata molto tempo fa quando mi imbattei per puro caso in un corso di russo trasmesso da quello che allora si chiamava Terzo canale (la neonata Rai Tre). Sempre in quegli anni è sbocciato anche l’amore per l’altra mia grande passione linguistica, ovvero l’inglese, che come giustamente ricordi è stato per anni la mia principale lingua di lavoro (e ti ringrazio di aver citato Penelope Lively, autrice che ho amato molto). In tutto questo tempo, però, il mio desiderio di lavorare con scrittori russi non si è mai spento (e, a dire il vero, oltre dieci anni fa ho tradotto per Guanda una serie di microracconti di un giovane autore russo poi finito nel dimenticatoio, per non parlare di La mite di Dostoevskij che mi era stata commissionata da una piccolissima casa editrice fallita poco prima che la mia traduzione vedesse la luce). I miei contatti col mondo editoriale, però, erano prevalentemente con case editrici che non lavorano mai o quasi mai col russo, e quindi ho ritenuto che il miglior modo per trovare nuovi canali fosse quello di presentarsi con una proposta inedita. Tutto ciò per dire che quando ho scoperto l’esistenza di Marina Stepnova, e ho visto che i suoi romanzi non erano ancora approdati in Italia, ho pensato che potesse essere un’autrice interessante da proporre. Come primo approccio, ho scelto Ženščiny Lazarja (titolo originale di Le donne di Lazar’) perché dalle poche righe di sinossi mi sembrava una vicenda che mi sarebbe potuta piacere. E così è stato, il libro mi ha convinto fin da subito, sia per la portata della storia, sia per la costruzione dei personaggi, sia per la lingua sontuosa e duttile di cui l’autrice dispone con grande maestria; lo stile della Stepnova mi ha davvero conquistato, la sua ricchezza, la sottile ironia che pervade l’intero racconto, anche nei momenti più tragici. Mi sembrava un’opera capace di incontrare i gusti di un pubblico più ampio del ristretto numero di addetti ai lavori, oltre che una bella sfida dal punto di vista del mio lavoro di traduttore. Queste le ragioni per cui ho deciso di intraprendere il non facile cammino di ricerca del referente giusto: ho dovuto bussare a un po’ di porte e ho incontrato varie difficoltà (i russi, specialmente se contemporanei, hanno vita più ardua in Italia, per varie ragioni – vuoi perché ritenuti, spesso a torto, poco allettanti per i lettori, vuoi perché sono poche le case editrici con editor che conoscono la lingua, e quindi in grado di revisionare adeguatamente le traduzioni), ma alla fine sono approdato a Voland, che all’inizio non avevo preso in considerazione perché non avevo mai avuto modo di collaborarci prima d’allora. Come ben sai, è un editore piccolo, ma molto attento alla qualità e pronto ad accogliere proposte nuove; oltretutto, come suggerisce il nome stesso, da Voland la letteratura russa è la benvenuta, perciò le donne di Lazar’ hanno finalmente potuto trovare la loro casa italiana.

 

Marina Stepnova utilizza vari registri, fa molti riferimenti culturali e lavora con un lessico particolarmente ricco. Da traduttore, come hai vissuto tutto questo ben di dio?

Come accennavo prima, è stata una bella sfida. La varietà di registri, la generosità con cui la Stepnova attinge al vasto lessico russo, lo stile spesso fiorito, i gergalismi, i numerosi riferimenti a fatti storici o a figure realmente esistite: tutto questo mi ha dato parecchio filo da torcere. Sono infinitamente grato alla rete per la quantità di fonti a cui consente di accedere con pochi clic, risorsa oramai imprescindibile per i traduttori: poter consultare in un attimo dizionari monolingue di ogni tipo, corpus letterari, esempi vivi di fraseologie, di modi di dire; distinguere citazioni letterarie da creazioni originali dell’autrice; verificare l’esattezza dei riferimenti storici (a onore della Stepnova – e, immagino, della sua redazione –, sempre precisi fin nei minimi dettagli). Tutto ciò non solo ha reso un po’ meno arduo il mio lavoro, ma mi ha permesso di migliorare l’accuratezza della traduzione, di ridurre il margine di dubbio e di lasciare meno spazio alle interpretazioni. E sono infinitamente grato alla stessa Stepnova, con cui sono stato in contatto fin da prima di iniziare il lavoro, e che si è sempre dimostrata più che disponibile a venirmi incontro e a rispondere con una rapidità spesso sorprendente alle mie non poche domande. È stata un’esperienza molto bella anche dal punto di vista umano, perché i nostri scambi mi hanno consentito non soltanto di ottenere un risultato di qualità migliore, ma anche di conoscere una bellissima persona, di trasformare un rapporto di lavoro in amicizia. Forse a questo ha contribuito anche la grande passione della Stepnova per l’Italia (lei e il marito hanno una casa in un paesino della Toscana, dove vengono spesso a trascorrere le vacanze, e infatti proprio in occasione di quest’ultime ferie natalizie abbiamo avuto modo di conoscerci finalmente di persona e di organizzare un paio di presentazioni del romanzo) e la sua gioia per il fatto che il Paese da lei tanto amato abbia finalmente deciso di pubblicarla.

 

Ti sei affezionato a qualcuno dei personaggi del libro, e se sì, a chi e perché?

Tra i personaggi principali, il mio preferito è senza dubbio Galina Petrovna. È un personaggio tragico, una ragazza che viene strappata alla sua vita e ai suoi sogni per ritrovarsi costretta a vivere accanto a un uomo anziano che detesta, rinchiusa in un mondo elitario fatto di privilegi ma di aridità sentimentale, che nemmeno la nascita di un figlio prima, e l’arrivo inaspettato di una nipotina poi, riescono a scalfire. La conosciamo all’inizio del romanzo già donna matura, algida, insensibile, a modo suo spietata, ma nel corso della storia scopriamo gradualmente la sua vicenda e il suo dramma, cosa che dà al personaggio uno spessore tragico, appunto, e ci fa quasi simpatizzare per lei, nonostante la sua alterigia, gli abiti costosi, i gioielli, i profumi, e la coltre di ghiaccio che le soffoca i sentimenti. Tra i personaggi minori, invece, mi sono rimaste nel cuore due coppie: i bambini Isaak ed El’vira/Elečka, che si incontrano da sfollati nella casa di Čaldonov e Marusja durante la Seconda guerra mondiale, e che poi passeranno insieme il resto della vita (fra l’altro, sono gli unici personaggi del libro ispirati a persone reali: i genitori dell’autrice, infatti, si conobbero in circostanze analoghe a quelle di Isaak ed Elečka ed ebbero una vita coniugale altrettanto lunga), e la coppia degli Carёv, i due giovani ricercatori che Lidočka conosce da adulta in quanto abitano nell’appartamento in cui viveva da piccola con i genitori, prima di rimanere orfana e di finire in casa della nonna Galina Petrovna. Di quest’ultimi ho apprezzato particolarmente quel loro incarnare le migliori qualità dell’intelligencija russa, la loro attenzione alla sostanza più che all’apparenza, il loro calore e il loro gioire per le piccole cose quotidiane: tutte qualità che mi hanno fatto riscoprire parte del motivo per cui mi sono innamorato di quel popolo, e che purtroppo trovo sempre meno negli esponenti di quello stesso popolo, con cui talvolta mi capita di avere a che fare in questi ultimi anni.

 

Un traduttore ha sempre un quadro piuttosto completo della letteratura della lingua dalla quale traduce, quindi è anche una fonte di consigli letterari. Da intenditore, te la sentiresti di indicarci qualcuno fra gli autori e i titoli russi pubblicati in italiano

Quando si parla di autori russi, il riferimento immediato è ai grandi nomi della letteratura classica – e giustamente, aggiungerei: i giganti dell’Ottocento russo, da Puškin a Tolstoj e a Dostoevskij, come pure maestri del Novecento quali Bulgakov o Pasternak o Solženicyn, rimangono figure imprescindibili, e le loro opere dei capisaldi la cui potenza continua ad affascinare ogni generazione (e, a questo proposito, mi permetto di segnalare la nuova traduzione di due fra i capolavori più iconici dell’Ottocento russo, Anna Karenina e Guerra e pace di Tolstoj, ritradotti per Einaudi da due valentissime traduttrici, rispettivamente Claudia Zonghetti ed Emanuela Guercetti, nonché la pubblicazione della versione integrale di Il primo cerchio di Solženicyn, tradotto per Voland dall’ottima Denise Silvestri). Ciò non significa, tuttavia, che la letteratura russa contemporanea non offra nomi e opere di qualità: penso, ad esempio, a Zachar Prilepin, o a Ljudmila Ulickaja, o al premio Nobel Svetlana Aleksievič, o a Vladimir Sorokin. Personalità molto diverse fra loro ma di indubbio valore letterario, e che non sempre da noi riescono ad avere l’attenzione e il riconoscimento che meritano. Spero che il lavoro di noi traduttori e delle case editrici che scelgono di puntare in quella direzione porterà a una sempre maggiore conoscenza dei “nuovi russi” (e uso l’espressione nel suo senso migliore), e spero pure che di questa schiera farà parte anche Marina Stepnova.

 

Spero che Le donne di Lazar’ sia solo l’inizio di una brillante carriera di traduttore dal russo. Hai già in cantiere qualche novità e qualche titolo che ti piacerebbe tradurre o che ritieni debba comunque essere tradotto in italiano?

Tradurre dal russo, nonostante l’offerta tutt’altro che irrilevante, non è una strada molto agevole, per  i motivi di cui si parlava prima. Comunque sì, ho qualcosa di nuovo in ballo, ma le notizie non sono ancora definitive e quindi, per scaramanzia, preferirei non parlarne. In generale, cerco di tenere gli occhi aperti su quello che arriva dalla Russia, in particolare su opere o autori che propongono visioni alternative, o in ogni caso al di fuori dagli schemi più battuti: credo che, in quest’epoca di nuovi conformismi, sia importante mantenere uno sguardo capace di osservare il mondo da punti di vista trasversali, uno sguardo che sappia rendere la realtà nelle sue infinite sfaccettature, magari anche quelle più scomode, quelle che tendono a essere ignorate se non osteggiate dal discorso ufficiale. Recentemente mi sono imbattuto in un’opera alquanto originale, una “autobiografia” di Gesù Cristo a opera di un autore, Oleg Zobern, che unisce erudizione teologica a uno stile dissacrante e ironico, e ci presenta un Cristo profondamente umano, che con i suoi metodi ben poco ortodossi – e talvolta a un passo dalla blasfemia – si avvicina all’essenza del suo messaggio più di quanto non facciano le narrazioni canoniche. Mi ha molto colpito il fatto che un’opera del genere sia stata pubblicata nella Russia di oggi, dove il peso della religione – e soprattutto della Chiesa – è molto più forte che in passato, e perciò mi piacerebbe che questa voce potesse avere un’eco anche al di fuori dai confini patrii. Se non dovesse andare in porto la proposta cui accennavo prima, potrei considerare questa autobiografia sui generis come una possibile proposta da presentare in giro. Staremo a vedere.

 

Grazie a Corrado Piazzetta per le tante informazioni preziose e non resta che augurare buona lettura, Le donne di Lazar’ non è un capolavoro, di opere perfette o quasi perfette ce ne sono molto poche, ma è sicuramente una lettura di ottimo livello.

 

 

(Marina Stepnova, Le donne di Lazar’, trad. di Corrado Piazzetta, Voland, 2018, pp. 448, € 20.00)