Poster del film Domani è un altro giorno

La copia perfetta di un’amicizia

Se avete visto Truman, fortunato e pluripremiato film spagnolo del 2015 diretto da Cesc Gay, Domani è un altro giorno non vi offrirà niente di nuovo. Siamo di fronte al rifacimento pressoché integrale. Cambiano gli interpreti, ovviamente, e l’ambientazione. Il regista Simone Spada e gli sceneggiatori Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo hanno deciso di mantenere inalterata la struttura e anche buona parte dei dialoghi.

A prendere il posto degli ottimi Ricardo Darín e Javier Cámara sono due tra i migliori attori del cinema italiano, Valerio Mastandrea e Marco Giallini, la marcia in più di questa versione italiana. Il cinema italiano, in evidente crisi di idee, attinge sempre più spesso da film stranieri per fare remake nazionali. Dopo l’enorme successo di Benvenuti al sud nel 2010 (dal francese Giù al nord), solo negli ultimi mesi sono arrivati L’agenzia dei bugiardi (da Alibi.com, sempre francese) e 10 giorni senza mamma (da un film argentino). Spesso la trama viene modificata per adattarla alla nostra realtà. Altre volte, come nel caso di Domani è un altro giorno, i cambi sono quasi inesistenti.

Giuliano (Giallini) è un attore con un cancro in fase terminale. Ha deciso di interrompere le cure e di vivere il tempo che gli resta come viene. Il suo migliore amico Tommaso (Mastandrea), che da anni vive in Canada, torna a Roma per quattro giorni. I due dovranno trovare il modo per dirsi addio e garantire il futuro migliore al cane di Giuliano, Pato.

Rispetto al modello spagnolo, in Domani è un altro giorno il cane ha un ruolo minore. Truman, da cui il titolo, era quasi un terzo protagonista. Spada e gli sceneggiatori hanno deciso di sfumarne la presenza concentrandosi sul rapporto umano.

Per il resto, tra Truman e Domani è un altro giorno non ci sono differenze particolari. Entrambi i film riescono a parlare di un argomento delicato come la malattia senza il timore di concedere sorrisi. Entrambi celebrano la vita e l’unione, più che concentrarsi sulla separazione e il dolore. Le scene principali sono le stesse, e pur passando da Madrid a Roma, l’atmosfera è praticamente immutata. Cambiano giusto i dettagli.

Simone Spada ha deciso di andare sul sicuro. Il suo esordio alla regia, Hotel Gagarin, partiva da un’idea interessante ma si perdeva in fretta. Per il suo secondo film si è affidato a un copione già testato con l’aiuto di da due sceneggiatori navigati come Vendruscolo e Ciarrapico (due terzi di Boris,  e registi di Ogni maledetto Natale, tra le altre cose).

L’affiatamento tra i due protagonisti fa la differenza. Amici nella vita, compagni di set da più di vent’anni, Mastandrea e Giallini lasciano che sia la loro intesa personale a dettare il ritmo del film. Iniziano con il piede sul freno, come due vecchi amici che non si vedono da molto tempo. Si sciolgono col passare dei minuti (dei giorni nel film), con una complicità autentica e profonda.

Senza conoscere il film originale, Domani è un altro giorno colpisce senza dubbio il centro del bersaglio. È un film equilibrato, pacato, spinto da due attori straordinari. I distributori italiani puntano forte sullo scarso successo che Truman aveva avuto da noi, ma se conoscete l’originale non vedrete altro che una copia.

Il titolo italiano è ripreso dalla canzone “Domani è un altro giorno”,  già comparsa cantata da Ornella Vanoni in una scena chiave di La prima notte di quiete di Valerio Zurlini (1972). In questo film la reinterpreta Noemi sui titoli di coda.

 

(Domani è un altro giorno, di Simone Spada, commedia, 2019, 110’)

 

copertina di "Le galanti" di Filippo Tuena

L’amore, l’arte, il sogno:
una conversazione
con Filippo Tuena

Le galanti (il Saggiatore, 2019) è il nuovo libro di Filippo Tuena, ma più che dirsi il nuovo capitolo di una ricerca trentennale – che ha visto l’incontro con le storie più disparate di arte, amore, avventura – lo si può considerare la summa. In questo lavoro Tuena mette in fila una serie di feticci e fascinazioni, un filotto di ricordi e di schizzi buttati giù nel corso degli anni. A fare da bussola l’amore per l’arte, e l’attrazione per gli interstizi della Storia. L’autore torna a visitare le molte vicende dei suoi libri precedenti, dalle vite degli artisti a quelle degli avventurieri, dalla propria biografia alla storia delle città in cui ha abitato; lo scopo è disporre i pezzi di un puzzle complesso, che trasfigura la cronaca storica in affresco onirico e la ricerca dell’ignoto in resoconto della propria vita. Sta al lettore, una volta intrapresa la lettura, accostare i pezzi l’uno vicino all’altro, e scorgervi un disegno unico.

Poiché si tratta di un libro stratificato, che non teme la complessità, ho rivolto alcune domande all’autore, nella speranza che le risposte siano piccole rotte tracciate nella mente del lettore.

 

“Quasi un’autobiografia” recita il sottotitolo di Le galanti, può sembrare un controsenso perché in fondo, almeno primariamente, parli molto poco di te; raccogli invece, come hai sempre fatto, tante storie, biografie, ricerche inerenti a un oggetto specifico. Cosa divide e cosa unisce la tua vita e questi feticci?

Non sono in grado di riferire nulla che non mi appartenga intimamente. Un’opera d’arte, una vicenda umana nel momento in cui diventano oggetto del mio narrare subiscono e operano una sorta di cannibalizzazione. Mi divorano o, specularmente, vengono divorate dalla mia esperienza personale. M’interessano perché, in qualche modo, segnano esperienze vissute o mi servono a spiegarle e a risolverle. Scrivendo questo libro ho scoperto i motivi di certi miei innamoramenti, il perché fossi travolto da determinate passioni.

 

Mi pare che questo lavoro sia la summa del tuo percorso: dentro ci troviamo l’arte che ami, la tua vita, una miriade di storie connesse ai tuoi libri precedenti. Qual è stata l’urgenza che ti ha fatto rimettere insieme i pezzi del puzzle?

Certamente una nausea della narrativa tradizionale. Ne scrissi anni fa su Nazione indiana, quando uscì Memoriali sul caso Schumann che consideravo e considero tutt’ora un requiem per il romanzo, almeno per il mio modo d’intendere il romanzo. Promettevo allora che avrei mutato orizzonti e Le galanti credo rispondano a questo mutamento di rotta. La frammentazione, l’allusività che mi sembrano le cifre stilistiche del libro rispondo a questa esigenza. Non posso “riassumere” alcunché, posso soltanto sottolinearlo, evidenziarlo, mostrarlo. Porto il lettore al mio fianco, gli suggerisco soluzioni, gli mostro punti di vista, lo spingo a riflettere. Ma sto sempre un passo indietro, rispetto alle storie che racconto, rispetto alla visione che emerge.

 

Nella tua scrittura è importante il documento: sia esso un manufatto attorno al quale costruire un discorso, sia una foto o uno schizzo che guida la ricerca e ne lascia traccia. In questo lavoro ci sono anche documenti del tuo privato – foto della tua scrivania e della tua casa –, perché è così importante rilevare la traccia? È un modo di ancorarsi al reale in una scrittura che evoca fantasmi?

Il vero deve avere una sua documentazione visiva. Questa cosa l’ho imparata scrivendo Le variazioni Reinach. Un conto è raccontare un documento e trascrivere una lista di nomi. Un altro è mostrare la lista dei deportati ad Auschwitz dove, tra quei nomi, compaiono quelli dei protagonisti del libro che lo scrittore sta scrivendo, che il lettore sta leggendo. L’impatto con la realtà, col documento è devastante. Nello specifico Le galanti è il resoconto di infinte ricerche; uno sterminato numero di libri letti, di immagini viste ma tutto si svolge all’interno della mia casa, all’interno della stanza dove lavoro. Volevo che questa sorta di claustrofobica vastità fosse documentata. Il libro è la narrazione di un pellegrinaggio circolare. Visito molti luoghi ma parto dalla mia casa e concludo il viaggio nella mia casa.

 

Di contro, non hai paura di inserire fantasticherie, inserti onirici, insomma di lasciarti possedere da quel fantasma che corteggi spudoratamente. In Le galanti la componente immateriale è quella del sogno: come gestisci gli elementi più evanescenti?

La struttura del libro è piramidale. Al centro, ovvero alla sommità c’è una lunga sezione onirica, in qualche caso annunciata o completata nelle altre parti del libro. È centrata sul senso di abbandono che proviamo ogni volta che abbandoniamo un luogo che abbiamo amato, un’opera d’arte che ci appartiene per pochi minuti o per poche ore. Le opere d’arte ci appartengono solo nel momento in cui le viviamo; poi rimangono memorie affettive, svaniscono un po’ come i sogni. Qualcuno permane ma la gran parte si fa evanescente. Ci rimane il sapore ma i particolari sfuggono. Ecco, volevo che in qualche modo, questo senso di struggimento onirico fosse presente nel libro.

 

Un altro elemento portante di questo libro è l’amore. Un amore declinato in tutte le sue forme: per l’arte, per il ricordo, per una donna o un uomo, per familiari e sconosciuti. Di pagina in pagina si sente la volontà di chiarire nella storia di ogni personaggio i desideri e i momenti in cui ha amato. Come a dire che l’amore è il motore primo delle azioni umane. Come mai hai deciso di affrontare di petto questo argomento? Come si fa a cartografare un tema così ampio? Se dovessi scegliere un modello, quale citeresti?

Eros è il più vicino degli dèi greci. Confonde, complica, disattende, intralcia e tuttavia è l’unico motore. Possiamo subire le vendette mortifere delle altre divinità, esserne feriti a morte, subire punizioni inenarrabili ma colui che muove il nostro essere è Eros. Nessun’altra divinità è così possente. Eros produce arte, mette in movimento le passioni, genera esseri umani, li avvicina e li mette contro. Determina l’esaltazione e la disperazione. Nessun altra divinità scuote così profondamente l’essere umano perché Eros non uccide, costringe a vivere le proprie passioni sino alle estreme conseguenze.

 

Il ritmo è di primaria importanza nella tua prosa. Di solito esordisci con paragrafi brevi, composti da frasi semplici e spezzettate. Poi, mano mano che il fiume dei ricordi si ingrossa, ti lascia andare a una prosa paratattica che fa volentieri a meno di punteggiatura. Come moduli il tuo modo di scrivere peculiare?

Ormai scrivo in maniera automatica. Se pensi, a parte i testi già pubblicati altrove – ma che qui ho rivisto in maniera significativa; alcuni sono stati ripristinati nella loro forma originaria, a bandiera, così com’erano stati pensati – il libro è stato scritto in un tempo relativamente breve, in poco più di un anno. Procedo lasciandomi guidare dal ritmo. Ho sempre in mente quel che diceva Aldo Busi, vestito da gaucho quando, in una trasmissione televisiva di molti anni fa, salì su un tavolo, si mise a battere i tacchi e schioccare le dita e disse con grande determinazione: «La letteratura è ritmo». Aveva perfettamente ragione. Non è nient’altro che questo. Inizio a scrivere, se percepisco la presenza di quel ritmo procedo, altrimenti lascio perdere e faccio altro.

 

Da anni, come una sorta di Vasari stravolto e contemporaneo, cerchi di narrare l’arte in tutte le sue sfumature: dalla vita degli artisti al momento della creazione, e poi ancora la storia travagliata di molte opere d’arte. Per un caso fortuito – o forse no? – abbiamo avuto in pochi mesi opere che trattano lo scrivere di arte, come ad esempio l’antologia dei ritratti di John Berger, sempre a opera di il Saggiatore, o l’ultimo romanzo di Tommaso Pincio, incentrato sulla figura di Caravaggio. Qual è per te il senso di narrare queste storie? C’è un modo “contemporaneo” di farlo?

 Non ho letto il libro di Pincio perché è uscito in fase di chiusura del mio ed ero compresso dal risolvere alcune questioni. Ma a Berger aggiungerei Marcenaro come esempi di autori che m’interessano parecchio. Poi, ovviamente c’è Sebald. È una linea di scrittura europea che si contrappone a quella nordamericana o sudamericana, molto seguite da miei colleghi più giovani. Io vengo dalla cultura europea dell’ultimo quarto del secolo scorso, i libri di Chatwin, di Bernhard, anche Noteboom ha spunti che m’interessano; il cinema di Herzog o Wenders. Autori che hanno sempre collegato il reale con le esperienze personali. Mi piace il loro modo di eliminare gli orpelli, badare al sodo, esprimere l’essenziale. A loro accosto i classici che mi innamorano (ecco che spunta questa parola) Ovidio, Omero, il mondo greco classico, così lontano ma così costantemente presente al nostro. Più passa il tempo e più lo trovo nostro contemporaneo. Mi ci trovo bene. Detesto questo presente, lo stravolgimento del pensiero politico mi opprime. È nel mondo antico che trovo la risposta, nelle simmetrie del bello. Non so oppormi in altro modo all’imbarbarimento che sta devastando quel che amo.

 

(Filippo Tuena, Le galanti – Quasi un’autobiografia, il Saggiatore, 2019, pp. 670, euro 32)
copertina di corochinato su flanerí

Gli Ex-Otago, l’itpop e Sanremo

Fino a In capo al mondo, gli Ex-Otago erano un gruppo che sonnecchiava nell’humus dell’underground musicale italiano. Nonostante fosse un buonissimo album, non riusciva ad aprirsi a un pubblico più vasto con un suono che si discostava da quello contemporaneo, andando a flirtare con i primi Tiromancino. Nel 2016, invece, la svolta: Marassi riusciva a inserirli a pieno titolo in quel calderone che è l’itpop. Era proprio il taglio dei pezzi che cambiava e riusciva a essere metabolizzato da un mercato ampio: Marassi era un lavoro che oscillava tra l’estetica Thegiornalisti e quella dell’universo creato da Calcutta, con la voce sghemba alla Jovanotti che caratterizzava le canzoni.

Per riuscire a emergere, quindi, è stato necessario cambiare verso un modello consolidato in questi ultimi anni. È chiaro, ed è retorico ribadirlo, che il mercato italiano, oggi, oltre a rap e trap (e ai loro meticci, Carl Brave) si nutra di certe sonorità e di certe tematiche. E gli Ex-Otago l’hanno capito.

Dopo il 2016, dopo la diffusione a livello nazionale, oggi, nel 2019, la band di Genova torna con Corochinato.

Tornano, soprattutto, dopo l’esperienza di Sanremo. L’Ariston gli ha regalato un quattordicesimo posto e la possibilità di farsi apprezzare da chiunque abbia passato un po’ di tempo su RaiUno durante la prima settimana di febbraio. Gli Ex-Otago che, dall’anonimato della gavetta, passando per l’itpop, arrivano in diretta nazionale, sono l’emblema del sogno americano legato alla musica di questi anni. Complici anche gli Afterhours che, con la loro partecipazione a Sanremo nel 2009 con Il paese è reale, hanno aperto quella crepa che separava l’indie dal mainstream – rapporto cambiato con I Cani e ribaltato completamente con Calcutta. In merito alla band milanese e soprattutto a Manuel Agnelli, pensando poi a come sia mutata la sua figura, è interessante tracciare una linea che lega Sui giovani d’oggi ci scatarro su, dall’album Hai paura del buio?, e Sui giovani d’oggi, da Marassi, per avere anche solo un’idea di come siano cambiati gli orizzonti.

Ma gli Ex-Otago non sono gli ultimi arrivati: con Marassi, nonostante tutto, avevano raggiunto un certo equilibrio tra qualità e compromessi. Nonostante la scrittura non fosse eccelsa e i pezzi non si distinguessero per particolare ingegnosità, il gruppo genoano era riuscito a scrivere un album interessante.

Corochinato arrivava dunque in un momento favorevole. Gli Ex-Otago potevano fare il vero salto di qualità, avendo dalla loro parte l’età, l’esperienza, la coscienza. C’erano i presupposti per ascoltare un lavoro maturo e denso.

Invece, l’impressione è che quest’occasione sia stata perduta e che la band ligure sia arrivata scarica. Corochinato è un lavoro con pochissimi spunti importanti, che si poggia sul suo predecessore tentando di ripercorrerlo, riuscendo però a tirare fuori solo qualcosa di amorfo: un album scialbo.

Peccato, perché il brano con cui hanno partecipato a Sanremo, “Solo una canzone” sarebbe potuto essere l’apripista ideale per avere il meglio dagli Ex-Otago. Corochinato parla della nostalgia e di ciò che non tornerà più (“Bambini” ne è l’emblema), affrontati come farebbe un Guccini che tutto a un tratto non sa più come fare il suo lavoro. La soft dance di matrice pop alla Coldplay permea i dieci brani (“Tutto bene”, per esempio), lo spettro di Tommaso Paradiso con il suo nichilismo da aperitivo sui Navigli si aggira tra i ricordi di Maurizio Carucci, un menefreghismo alla Vasco Rossi diluito in una canzone di Coez spunta di tanto in tanto (“Questa notte”). Corochinato è questo e poco più.

Gli Ex-Otago si confermano nuova-vecchia promessa mai mantenuta completamente: mai troppo coraggiosi per essere loro stessi, mai troppo asserviti per essere altro da loro.

Copertina di La custodia dei cieli profondi di Raffaele Riba

Quando l’universo famigliare si disgrega

Cosa succede quando ci scontriamo con la finitezza delle cose e delle relazioni che credevamo infinite? E in che modo tutto si disfa come la materia che ci circonda? La storia di Gabriele, protagonista di La custodia dei cieli profondi (66thand2nd, 2018), secondo romanzo di Raffaele Riba, cerca di esplorare queste dinamiche esistenziali e cosmiche, chiamando in causa processi millenari che accarezzano l’astronomia, la geofisica, l’evoluzione dell’universo. Il tutto scritto e raccontato da un punto di vista individuale attraverso l’esperienza familiare di Gabriele che negli anni assiste al disgregarsi del suo universo, appunto della sua famiglia, per restare una particella singola, custode dei ricordi e dei legami che un tempo erano solidi e persistenti, passando per un matto e un alienato come lo chiamano gli abitanti del suo paese.

Con una scrittura che sposa evocazioni scientifiche con una prosa visionaria e immaginifica (con il carattere blu notte scelto non a caso) il protagonista ci trasporta nel mondo di Cascina Odessa, la dimora isolata edificata dal nonno, deviando il corso del torrente Roburent, dove lui e suo fratello Emanuele hanno trascorso dapprima l’infanzia, poi l’adolescenza, fino alla separazione negli anni dell’università. La fratellanza è uno dei sentimenti cardine del romanzo: Riba snoda le sue dinamiche più profonde e conflittuali, l’intreccio serrato di due persone che sono legate indissolubilmente ma che non potrebbero essere al contempo più diverse e distanti.

Emanuele, il fratello maggiore, parte per l’università, il padre si ammala e decide di ricoverarsi in una clinica e qualche anno più tardi anche la madre si allontana, abbandonando i boschi di Cascina Odessa per trasferirsi in una località marina.

A custodire la casa resta Gabriele, che si rifugia sempre più nello scorrere dei giorni uguali, tenendo insieme i ricordi e le esperienze, ma capendo che anch’egli è parte di un disfacimento al quale non può opporsi. «Andare a cercare il momento esatto in cui una forza si è divisa, ha perso sincronia, l’accordo sinusoidale che teneva legati me e mio fratello. Forse bisogna tornare talmente indietro da toccare la natura stessa della fratellanza. La guerra è scontata, umana, sempre fratricida. Ma quando due fratelli si allontanano così tanto che si ritrovano assassini, non c’è più modo di comprendere».

Quello che ci trascina subito nella storia è la voce potente e visionaria del protagonista che è il custode e il cercatore di senso della disgregazione del suo universo familiare e che nella sua malinconica rassegnazione ci offre, malgrado tutto, delle soluzioni.

In La custodia dei cieli profondi gli altri due personaggi pulsanti sono Agnese e sua figlia, insieme passato (Agnese è infatti un’amica storica di Gabriele e suo fratello) e futuro, che irrompono nel suo isolamento a Cascina Odessa, fino al colpo di scena finale. «Ero rimasto l’unico che avrebbe potuto badare a Cascina Odessa […] ma detta così è un’approssimazione per difetto. La custodia era soprattutto affettiva. Ho fatto tutto con un amore pazzesco»: i sentimenti sono i veri dominatori di questa storia, insieme alle splendide immagini intrecciate tra le composizioni chimiche della materia e le descrizioni del paesaggio, talvolta luminoso e poetico, talvolta umido e freddo, sfondo di una natura quasi impazzita.

Riba ci consegna una storia semplice ma al tempo stesso complessa perché costruita con originalità e con uno stile fluido che mischia termini scientifici e parole incandescenti.

E ci invita a riflettere sui nostri mondi privati e sulle loro dinamiche, sulle aspettative che ciascuno di noi nutre sin dall’infanzia e sulla trasformazione a cui sono sottoposte.

 

(Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi, 66thand2nd, 2018, pp.190, euro 15)
Copertina di Amnesia di Cooper

Ricordare non è da tutti

Offresi lettura altamente addensata, con livelli di comprensione molteplici, significati spesso oscuri, condita di elevati riferimenti storico-poetici e dotata di trama refrattaria alla sintesi. Astenersi perditempo, è ovvio. Così, in un aguzzo perimetro da annuncio, potremmo incorniciare Amnesia, primo romanzo di Douglas Anthony Cooper già pubblicato da Fanucci nel 2000 e resuscitato nel 2018 per i tipi di D editore, con la traduzione di Sara Inga.

Ripetiamolo, non c’è niente di immediatamente accessibile nel gomitolo di quasi trecento pagine di quest’autore canadese trapiantato a Roma. Giornalista, scrittore, reporter, occhio ingordo, raccoglitore e intagliatore di immagini, curatore di progetti artistici e architetto di visioni. Insomma, una miscela perturbante, tutta confluita nell’alluvione narrativa chiamata Amnesia, che come già puntualizzato, non ama farsi imbrigliare nel guinzaglio di un riassunto.

Ma è meglio descrivere qualche breve arredo, ci permetterà di orientarci nei suoi organi. Stanze complesse, dove l’aria si fa ipnotica e l’uscita ingannevole. Izzy, un uomo sciatto, sfollato nei suoi abiti consunti, piomba nell’ufficio di un anonimo archivista, che in quel momento non sta nemmeno lavorando. È lì e non dovrebbe esserci. È lì e dovrebbe sposarsi, nel giro ottuso di quattro ore. Eppure l’archivista ascolta, eppure resta, sotto la doccia pluviale delle sue parole. Ha da dire Izzy, e molto. E dal racconto scrosciano spine, sintagmi della sua vita familiare: un fratello, Aaron, che s’ingegna per creare; un altro, Josh, che rievoca ciò che è scomparso. Uno è il complemento dell’altro: chi ricorda e chi dimentica.

Entrambi necessari per riuscire a sopravvivere. Ma quando Josh, colui che custodisce il passato, muore all’improvviso, il baricentro si scardina. L’equilibrio collettivo si sgrana come polvere. Quel senso comune di atmosfere e contrappesi smarrisce se stesso e la casa brucia, marcisce e implode sul suo evolvere impossibile. Senza un cimelio condiviso, il tempo può solo seppellire.

Così Izzy continua ad allagare quell’uomo e quelle mura con altri brani della storia. Tanto intima da farsi maiuscola. Il suo incontro con Katie, ragazza affetta da disturbi psichici che erodono velocemente la facoltà di rammentare qualunque cosa, di trattenere in quella scatola nera che è la mente conchiglie, ritagli, orli dei giorni grondati. Katie non sa più che lei e Izzy sono stati amanti, quella traccia è evaporata e non ha più ricordi per poterla salvare. Lo stesso Izzy non ha clemenza nelle tasche per quel peccato. E non la perdona. L’Amnesia è crudele, deve esserci chiaro.

Lui per primo è tarlato da quanto viene perduto. Cerca riparo, la sua tettoia sono i libri.

«Tutte queste storie si stanno nutrendo della mia vita e stanno frammentando l’integrità della mia voce. Mi sento che racconto le storie di altra gente come se fossero le mie, e sono certo che ci siano persone là fuori che conosco a malapena, che raccontano la mia. Sono ridotto a un crocevia di racconti rubati, così come le mie storie, che sono state rubate, che vengono alimentate da una bocca estranea e crescono in orecchie di estranei». Tutta la tortuosa struttura dell’opera vibra sul filo cangiante della memoria.

A volte appuntito, altre elettrificato, di vetro o d’acciaio. Pronto a recidersi o a strangolare. Memoria come mappa delle nostre r-esistenze. Averla o disgregarla decide della propria sorte. Del turgore delle vertebre.

La vicenda si schiude con una frase di Freud, da lui stesso più tardi contestata: «La mente è come una città». Più che altro un labirinto. Un dedalo furioso, d’ingressi tremuli e quartieri di quiete apparente. Esattamente come questo romanzo. Ben lontano dall’essere per tutti. Una massa pulsante di suggestioni e distorsioni. Non si fa in tempo ad addentrarsi in un distretto che una mano vorace ci strappa del selciato, portandoci altrove. Dal poeta greco Simonide ad esempio, nome di spicco assieme a Pindaro della lirica corale. Di lui si narra che oltre a forgiare versi sia stato il primo a brevettare una tecnica di memoria legata alla fissazione di elementi visivi. Una creatura ibrida, librata nel limbo tra Storia e leggenda. In grado di trascinare cose e persone. All’emozione e alla caduta. In grado di ricordare volti sbriciolati come terra. Di edificare e di distruggere, appunto.

L’intero DNA di Amnesia è un mosaico fittissimo sulla memoria, sulla stessa capacità/missione della letteratura e dell’arte di inventare solo trovando qualcosa che già c’era. Che aspettava un’anima destinata a ripescarlo. Proprio Cooper lo afferma in un passaggio: «Compresi che gli uomini creativi, gli uomini dall’immaginazione potente, come Artaud e Bataille, non sempre di limitano alla finzione. Questi uomini, se sono molto dotati, possono scrivere le loro strazianti e scorrevoli pagine nella carne delle nazioni».

La memoria spezza il sonno e l’incoscienza. Ci tiene svegli, ci tiene in piedi. Sconta i nostri delitti più delle ossa. Romanzi recenti come L’isola dei senza memoria di Yoko Ogawa e Il confine dell’oblio di Sergej Lebedev sono l’ennesima conferma editoriale di quanto ancora se ne debba parlare, come abitanti di noi stessi e di una comunità. Che ci governa con più forza, pare, solo quando non si tocca. E galleggia sotto la scorza di uno schermo. Ricordare e non disperdere. A questo risponde il tanto sbandierato Giorno della Memoria, come se ne bastasse solo uno, per tutti gli orrori innominati che ancora non sappiamo, che dormono sporchi sotto i nostri cuscini. Per olocausti di mondi che rimarranno lontani e vittime a cui la Storia non ha mai concesso onore. Perciò i libri servono e serviranno sempre, anche quelli complicati e fuorvianti come Amnesia. Sono l’eterno presente che ci è consentito. Una porta sul già accaduto che continua ad accadere, nell’istante stesso in cui ci risorge dentro.

(Douglas Anthony Cooper, Amnesia, D Editore, 2018, € 14.90, pp. 338)
copia originale poster su Flanerí

L’arte di falsificare le lettere

Si è aggiudicato tre nomination agli Oscar Copia originale, il film di Marielle Heller tratto dall’autobiografia di Lee Israel uscita nel 2007. Interessante mix di commedia, dramma e giallo, il film interpretato da Melissa McCarthy ripercorre la vera vicenda giudiziaria di Lee Israel, scrittrice specializzata in biografie, scomparsa nel 2014, e diventata a un certo punto della sua vita una truffatrice ricercata dall’FBI in tutti gli Stati Uniti.

Nella New York di inizio anni Novanta, Lee Israel è una scrittrice di grande talento ma con un pessimo carattere. Dopo aver ottenuto un buon successo di critica e pubblico scrivendo biografie di personaggi famosi, si ritrova disoccupata, senza amici e senza soldi. Per cercare di risolvere la sua situazione inizia, quasi per caso, a creare false lettere di personaggi famosi da vendere ai collezionisti. Con l’aiuto di Jack Hock, libertino spacciatore di cocaina, mette su un sistema che le inizia a fruttare un bel giro di denaro e problemi con l’FBI.

Il titolo originale di Copia originaleè Can You Ever Forgive Me?, potrai mai perdonarmi, come per il libro che Lee Israel pubblicò al termine della sua carriera criminale. Era anche il modo in cui la Dorothy Parker che interpretava era solita concludere le sue lettere del giorno successivo a sbronze di particolare importanza.

La regista Marielle Heller è soprattutto un’attrice, passata nel 2015 dietro la macchina da presa con Diario di una teenager. Per la sua opera seconda è partita da un progetto che girava per gli studios da alcuni anni. Una prima versione del film vedeva Julianne Moore come protagonista. Heller ha coinvolto Melissa McCarthy, attrice comica di grande successo negli Stati Uniti (ruoli tv in Una mamma per amicae Mike & Molly, di cui era protagonista). È lei la grande forza del film. Nel ruolo della misantropa e alcolizzata Israel, McCarthy dà la sua migliore interpretazione di sempre, dimostrando la padronanza di una gamma di registri ampia e sfaccettata. Le fa, ottimamente, da spalla l’attore britannico Richard E. Grant.

Tra i due interpreti si è creata un’intesa perfetta che ha portato entrambi a una meritata nomination agli Oscar, McCarthy come protagonista (la seconda in carriera dopo quella del 2012 da non protagonista per Le amiche della sposa), Grant per il ruolo di supporto. La terza candidatura è arrivata invece per la miglior sceneggiatura non originale firmata da Nicole Holofcener e Jeff Whitty.

Copia originale riesce a unire i generi con equilibrio e leggerezza. Si passa dalla commedia al dramma, con una tensione sotto traccia che rimanda al cinema thriller. Gli elementi biografici della vita di Israel vengono resi con delicatezza, senza lo sforzo di mostrare la scrittrice per quello che non era. Perché Lee Israel non è stata vittima di nient’altro che di se stessa, e il film in questo non è indulgente.

 

(Copia originale, di Marielle Heller, biografico, 2019, 106’)

D’Annunzio, Fedez e la nascita dell’Artistagram

Qualche anno fa su internet girava un diabolico quiz che ti snocciolava diverse frasi del tipo:

«[…] e noi che cerchiamo la pace a costo di farvi la guerra…»

Domandandoti se fosse di a) Alessandro Di Battista, b) Federico Moccia, c) Un giovane Che Guevara. Un gioco perturbante, nel suo mettere a nudo la tua incapacità, più o meno giustificata, di giudicare il contenuto di un messaggio a prescindere dal suo portatore. (E se non ci credete, aspettate la soluzione al termine di quest’articolo).
Ebbene, spesso quando mi spulcio il panorama musicale rappettaro-trappettaro sento tornare il fantasma di quel quiz. La procedura è questa:

1) Un mio amico mi esorta ad ascoltare un pezzo, nascondendo col dito la barra delle visualizzazioni Youtube.

2) Io gli domando ridendo chi sia quel papero analfabeta boro sbiascicante.

3) Lui toglie il dito a mostrare le 300.000 views, rivelandomi che è il volto emergente della trap romana.

4) Io mi ricompongo e sostengo che sia un cantore del disagio post-moderno a cui dobbiamo un silenzioso ascolto.

È utopico, nel 2019, voler giudicare la qualità di un’opera d’arte (?) prescindendo dal suo contesto, inseguire la bellezza sganciata da ogni contingenza, sorseggiando tè sul divano macchiato di Oscar Wilde. È utopico soprattutto perché il carisma dell’artista – da sempre importante nell’ammantare l’opera – sembra destinato a diventare così preponderante da schiacciarla, l’opera. Grazie a Instagram – e soprattutto alle storie, che seguono il flusso della vita – il rapper di turno ha la possibilità di dare continue pennellate al proprio universo estetico, non delegando per forza il compito alle sole sue canzoni.

Alcuni esempi: capita spesso di vedere Noyz Narcos, rapper vecchia scuola – che, per inciso, ha saputo creare il suo immaginario ben prima di comprarsi uno smartphone – postare storie di tranci di manzo sulla griglia o teste di gamberoni appena succhiate, in linea con un’estetica horror-pulp da sempre presente nei suoi pezzi. Per lui parlano, anzi rappano, le sue Instagram story: nella prima potete vedere il suo dito solleticare il pancino d’un’aragosta, nella seconda una carrellata su alcuni nuovi elementi della sua collezione.

 

Poi c’è Fedez. Le storie di Fedez ritraggono il più delle volte il figlio Leone sul cavallo a dondolo, come a corroborare in eterno il suo singolo “Prima d’ogni cosa”, con una violenza che, a mio parere, m’impedisce di fare mia la canzone, ma la lega inscindibilmente alla sua esperienza personale, a cui io devo in qualche modo soccombere in quanto suo fan o ribellarmi in quanto hater. Esemplare che, per lanciare il suddetto singolo, abbia deciso di metterci la faccia: se non la sua, quella che più gli assomiglia. La foto postata da Fedez ti dice: non è la storia universale d’un qualsiasi bambino, quella della canzone; che tu l’accetti o no, è la storia di mio figlio, Leone Ferragnez, aka: il bimbo dei Nirvana dopo aver raggiunto la banconota.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ancor più in là, proiettata nell’avanguardia pura, la Dark Polo Gang, in cui le storie di Instagram – intessute di slang, swag, carisma e merchandising – sono inseparabili dalle loro canzoni, e sono un continuo, ansioso intervento di manutenzione d’un immaginario in realtà solido quanto la casetta di paglia dei tre porcellini. Potete vedere come nella prima storia il frontman della gang, Tony Effe, concili taglio gangsteristico (taglio della gola) e zuccheroso in un’unica inquadratura. Nella seconda storia trovate invece cerchiati in rosso i tre emoji che definiscono questo immaginario della DPG: il cuore viola (colore degli sciroppi di codeina, droga di riferimento per i trappers), il fiocco di neve (il freddo delle collane, la freschezza del loro stile, la strizzata d’occhio alla neve, vedi iceberg di cocaina) e la navicella UFO (quegli alieni a cui spesso i tre trappers si paragonano).

 

C’è infine l’apoteosi dell’emergente Gallagher (interprete della Drill, sottogenere dark della Trap) in cui le canzoni si eclissano del tutto, lasciando solo le storie e, come ossi di seppia sulla spiaggia, dei denti d’oro. Così nella prima immagine potete vedere uno swaggante Gallagher in accappatoio “flexare” (alla lettera, “mostrare i muscoli”) il suo ragno intarsiato di pietre preziose, e nella seconda annunciare, poco tempo dopo, il suo nuovo singolo; ed è una tipica strategia commerciale d’un artista instagrammer, rendere il proprio pezzo o album associabile a un emoji, in modo da farlo spammare ai suoi fan e aumentare la visibilità dei post, e non è raro che un titolo venga scelto a tavolino in base alla sua “emojibilità”.

 

«Il padre gli aveva dato questa massima fondamentale: bisogna fare la propria vita come un’opera d’arte». Così Gabriele D’Annunzio, nel primo capitolo del suo romanzo Il Piacere, introduce quel trap-boypiccolo bastardo, piccolo spezzacuori – che era il protagonista Andrea Sperelli. D’Annunzio, che inscenò la propria morte per caduta da cavallo all’uscita della sua prima raccolta di poesie; anticipatore di quel Gallagher che, col suo primo album prossimo a uscire, decide improvvisamente di minacciare di morte mezza scena rap italiana. D’Annunzio in versione Superuomo, che potete vedere in foto, come il Gallagher versione Tuberuomo che di fatto nasconde le sua nudità dietro un emoji, e sostituisce al suo umano, troppo umano pene una superomistica proboscide di pixel.

 

E ancora D’Annunzio, che come Tony Effe coniò nuove parole – tramezzino per il vate, bufu per il trapper – e che come Fedez intrecciò amore e autopromozione – Eleonora Duse / Chiara Ferragni – è stato il pioniere di quell’estetismo che solo nel 2019 può trovare i suoi veri eredi: gli artisti prossimi venturi che faranno della propria vita una storia di Instagram, e saranno, in questo senso, opere d’arte ambulanti.

Le canzoni, in questo futuro, saranno un trascurabile corredo? Saranno materiale d’archivio a disposizione di chi, per pura curiosità filologica, vorrà integrare la biografia dell’artista, anzi dell’Artistagram? Quest’Artistagram preferirà sempre più affidare la resa del proprio immaginario a mezzi più immediati e spendibili, come gli emoji o il merchandising? “Prima d’ogni cosa” inaugura un nuovo genere autoriale in cui l’opera – prima d’ogni cosa, prima d’ogni cosa – è solo una stampella della vita? Anzi, non della vita, ma di quella reinvenzione della vita che è Instagram? Chi l’ha scritta quella frase a inizio-articolo, Di Battista, Moccia o un giovane Che Guevara? La risposta è al min 2.21:

 

copertina di Banco di prova di Patrizia Carrano

In morte di uno studente

Banco di Prova – Indagine su un delitto scolastico (Italo Svevo, 2018) è l’ultimo libro della poliedrica Patrizia Carrano che, ancora una volta, non perde la grazia della sua penna.

Il breve romanzo, scorrevole e malinconico, narra un fatto di cronaca nera avvenuto nella Capitale degli anni sessanta con sullo sfondo uno dei più prestigiosi licei: il Tasso. Protagonista di questa storia è il cupo Claudio Liberati, diciottenne studente del liceo che, dopo essere stato respinto per due volte consecutive, si fece trovare impiccato nel bagno di casa.

Nel giro di una manciata di pagine, Patrizia Carrano segue Claudio Liberati come si può seguire un’ombra (e proprio come un’ombra viene descritto lo studente) o una solitudine. Scopre piano questo ragazzo schivo e introverso, senza amici, che studia tanto e rende poco, spiandolo prevalentemente all’interno degli ambienti scolastici, mentre rimane in disparte, circondato dal carnevale umano del suo stesso contesto storico. Grazie al linguaggio delicato e malinconico dell’autrice, al lettore è concesso di avvicinarsi alla figura come da lontano, scostando appena le tende pesanti: il personaggio viene tutto fuori da quel “pathos della distanza” tanto caro a Calvino.

Però, in questo caso, non c’è nulla da inventare: la pena è tutta spontanea, quella autentica delle storie vere, e affonda in un fatto di cronaca risalente a più di cinquant’anni fa. Ecco la fotografia di un adolescente cresciuto, del fardello del suo fallimento, di come tutto intorno si muova la comunità scolastica, portando in atto quella che la Carrano stessa ha definito «la congiura del mondo degli adulti nei confronti della giovinezza».

Chi sia il colpevole, in questo piccolo romanzo, probabilmente è secondario. L’intera comunità scolastica, che forse questa colpa dovrebbe portare, si fissa nel tempo pagina dopo pagina grazie alle tradizionali fotografie annuali del fotografo scolastico, tracce di un tempo che la Carrano descrive bene, insieme a divise, registri e austerità impersonali, in un contesto storico in cui la selezione per formare la nuova classe dirigente inizia a farsi sempre più dura. Quando Claudio Liberati si suiciderà, proprio una di quelle foto verrà pubblicata sulle principali testate nazionali, per raccontare la sua storia.

Il registro stilistico di Patrizia Carrano non ha bisogno di presentazioni. Riesce sempre, con parole essenziali, a soggettivizzare l’oggettivo. Banco di Prova – Indagine su un delitto scolastico non fa eccezione, e vibra di quell’ulteriore personalità che gli deriva dal fatto che, negli anni della vicenda di Claudio, la scrittrice stessa era alunna del liceo Tasso, spettatrice giovane della vicenda.

Il tema del rapporto tra società e istruzione, del resto, non è nuovo alla scrittrice: suo, tra gli altri, Illuminata, la storia della prima donna laureata al mondo, nell’anno 1672, con oltre cinquemila persone accorse ad assistere all’evento.

Patrizia Carrano, veneta di nascita e romana d’adozione, ha all’attivo più di venti opere, edite dalle più importanti case editrici Italiane. Banco di Prova – Indagine su un delitto scolastico segue il grande successo del precedente Un ossimoro in Lambretta (Italo Svevo, 2016), tradotto in cinque lingue.

 

(Patrizia Carrano, Banco di prova – Indagine su un delitto scolastico, Italo Svevo, 2018, pp. 81, euro 12,50)

Le buone abitudini di Emidio Clementi

La questione che ruota attorno al significato legato alla produzione musicale del termine indipendente, se ha ancora senso parlarne, viene messa in chiaro dall’uscita del nuovo album dei Massimo Volume, Il nuotatore. Non si parla di intrecci con le major, ma semplicemente di attitudine: se in questo 2019 si vuol capire a cosa si fa riferimento quando si parla di indipendente è sufficiente vedere cosa e come suonano i Massimo Volume. È fare caso a Emidio Clementi, che con la sua scrittura e il suo cantato incarna da sempre quest’immagine, che non muta ma che, invece, osservando le strade intraprese dalla musica negli anni, rimane fedele a sé stessa, rafforzandosi.

Quindi ascoltare Il nuotatore, oggi, dopo la rivoluzione calcuttiana, è un chiaro ritorno a un passato dove essere indipendenti aveva un significato preciso e non fraintendibile. Perché Calcutta non era indie neanche quando suonava di fronte a venti persone nei locali romani.

Gli anni che hanno visto nascere i Massimo Volume erano gli stessi anni dei Csi, degli Afterhours di Germi, dei Marlene Kuntz di Catartica. Gruppi diversi tra di loro, ma che avevano un divisore comune: essere antagonisti al presente vissuto.

Negli anni a venire solo gli Offlaga Disco Pax e, forse, il primissimo Vasco Brondi sono riusciti a incarnare lo stesso spirito. Oggi, di base, lo slancio va verso l’essere in tutto e per tutto il presente. La distanza tra i due punti di partenza (e di arrivo) è abissale.

È straniante Il nuotatore, perché oggi la produzione musicale, e quindi l’ascolto, si sta standardizzando verso il basso – tranne alcune eccezioni, per esempio i Baustelle. Ci troviamo in un momento di picco di realtà come l’itpop e la trap. Un’abitudine all’accettare un certo modello che somiglia più a una moda iper temporanea rispetto a qualcosa che possa rimanere. L’ultimo di Franco126, Stanza singola, può rendere l’idea. È necessario, quindi, ricordare il ruolo ricoperto dai social e di come la tecnologia sia riuscita a rendere certi artisti forzatamente trasversali, condivisibili e familiari.

Ancora oggi, dopo più di vent’anni di carriera, i Massimo Volume riescono a scrivere un album che si pone di traverso rispetto al contesto contemporaneo. Probabilmente non era l’ambizione dei Massimo Volume. Il nuotatore avrebbe suonato così anche in un altro contesto che si sarebbe venuto a creare avendo altre premesse, ma il risultato è questo. Con Il nuotatore i Massimo Volume ci ricordano materialmente che è possibile l’alternativa.

C’è un momento, nel racconto incredibile di John Cheever, “Il nuotatore”, in cui inizia a tuonare in quella giornata bellissima – ma, di fondo, artificiale –  che ha spinto il protagonista, Neddy Merrill, a tornare a casa attraversando a nuoto tutte le piscine delle villette che lo separano dalla sua a Bullet Park, culla dell’ambiguo sogno americano. Quei tuoni sono i Massimo Volume che si abbattono sul presente e dal racconto dello scrittore americano, Emidio Clementi prende spunto per reinterpretare il brano “Il nuotatore” alla sua maniera e a diffondere lungo tutto l’album (ma sarebbe meglio dire lungo i bordi, che si parli di album o di esistenza) una sensazione di smarrimento di fronte anche alle cose più vicine a noi che affonda nelle radici della poetica dell’artista marchigiano.

Attorno al loro inconfondibile post rock che prende spunto dagli insegnamenti dei Sonic Youth e dei Fugazi, ripercorrendo gli spunti di quel capolavoro probabilmente inarrivabile che è Lungo i bordi, incrociandosi con il post rock di stampo americano post 2000 proposto in Cattive Abitudini, si muove la voce di Clementi, ispirato come sempre. Il nuotatore era l’album necessario per questo momento: non cambierà e non inclinerà certe tendenze di mercato, ma non potrebbe essere altrimenti. I Massimo Volume si confermano i Massimo Volume.

(Non ci sono singoli che anticipano Il nuotatore, quindi andiamo a ripescare da Lungo i bordi  “Il primo Dio”)

Rock Lit di Liborio Conca copertina

Canzoni e vite di musicisti segnate da grandi scrittori

Il matrimonio tra musica e letteratura è saldo e continua a dare esiti significativi. La missione di Rock Lit (Jimenez Edizioni, 2018) non è tanto contribuire al solito dibattito (vedi il Nobel a Bob Dylan) su quando la musica si elevi al rango di letteratura e poesia: preferisce scandagliare il più interessante processo creativo in cui la letteratura influisce nella composizione di una canzone. Liborio Conca, caporedattore del blog minima&moralia e una vita passata a parlare di musica sulle più autorevoli testate (ricordate la rubrica Re:Books sul Mucchio Selvaggio?), racconta alcuni dei frutti di quest’osmosi, presentando tante esistenze segnate artisticamente – e non solo – dalla letteratura.

Mixando artisti celebri a vicende più alternative e ricercate, ogni capitolo è un viaggio nel tempo: la scoperta di una scena, una città, una folgorazione. Apre le danze William S. Burroughs: un nome dall’estesa influenza che tornerà spesso nelle pagine di Rock Lit. L’autore di Il pasto nudo è una galassia creativa oscura verso cui confluiranno artisti del calibro di Patti Smith e Kurt Cobain, giusto per non svelare troppo al lettore. Da Burroughs si passa ai R.E.M.: la band di Athens incise con lo scrittore una nuova versione di “Star Me Kitten” da Automatic for the People. A colpi di Fiabe della Ricostruzione Stipe & Co. ci porteranno anche – a parere di chi scrive – al capitolo migliore del libro, incentrato sul Souther Gotic.

Il genere letterario nato dalle opere di autori immensi come Flannery O’Connor, Cormac McCarthy e Faulkner è arrivato negli accordi dei compianti Mark Linkous e Vic Chesnutt. Il primo, con gli Sparklehorse, ha segnato tra i momenti più alti della recente storia della musica americana, alimentato dalle letture di Pinckney Benedict e Breece D’J Pancake. Stesso discorso per i passaggi più intensi di Vic Chesnutt in cui si può trovare l’ironico tocco di Kafka. Prima di passare dall’altra parte dell’oceano, è giusto dedicarsi al cuore di Rock Lit e fermarsi un attimo al Chelsea Hotel di New York. Qui troviamo Leonard Cohen, l’artista che più di tutti ha annullato il divario tra musica e poesia. Ma come dicevamo, dall’America si passa all’Inghilterra ed ecco apparire i talentuosi primi passi di una certa Kate Bush ispirati dallo spirito guida Charlotte Brontë e i dolori del giovane Morrissey: un’adolescenza travagliata resa meno amara del suo miglior amico, Oscar Wilde.

Chiuso in maniera egregia da “Visioni”, Rock Lit – dalle fitte note da consultare obbligatoriamente – è senza dubbio un libro da leggere con la matita a portata di mano: sono innumerevoli le volte che il lettore dovrà appuntarsi i riferimenti e le opere da ascoltare, leggere e vedere. Consigliatissimo per gli appassionati di musica desiderosi di approfondire il background musicale, Rock Lit sarà una lettura felicissima anche per chi vuole conoscere nuove realtà di cui innamorarsi perdutamente. A prescindere dalla forma.

 

(Liborio Conca, Rock Lit, Jimenez Edizioni, 2018, pp. 208, euro 16)

Cosa leggeva Italo Calvino: i libri nei libri

Esiste un sentiero per esplorare la biblioteca di Italo Calvino che non passa per la materialità degli scaffali nelle case che ha abitato, ma attraversa le sue pagine scritte e – a dispetto della reticenza dell’autore a parlare di sé – rende possibile scoprire molto del lettore che è stato, ripercorrendo i suoi scritti di critica e d’invenzione letteraria.

Sin dai primi esperimenti di scrittura, l’opera narrativa di Calvino è costellata di personaggi intenti a fare ordine tra i propri libri, un’attività a cui lo stesso autore era solito dedicare molto tempo. Come Pietro, il protagonista del racconto I figli poltroni, di fronte alla sua modesta collezione: «Continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli malandati da una parte». Il lettore Calvino si riflette anche nei tratti del barone rampante, con i suoi scaffali sospesi che reggono i tomi dell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert insieme a «manuali d’arti e mestieri»: «Per tenere i libri, Cosimo costruì a più riprese delle specie di biblioteche pensili, riparate alla meglio dalla pioggia e dai roditori, ma cambiava loro continuamente di posto, secondo gli studi e i gusti del momento, perché egli considerava i libri un po’ come degli uccelli e non voleva vederli fermi o ingabbiati, se no diceva che intristivano».

Con l’idea che i libri non possano essere intrappolati, lo scrittore inizia a concepire i suoi «scaffali ideali» su cui i volumi non hanno il tempo di impolverarsi perché vengono spostati di continuo, descrivendo le orbite di un percorso in costante evoluzione. In un saggio del 1954, I capitani di Conrad, si legge: «Su questo mio scaffale ideale, Conrad ha il suo posto accanto all’aereo Stevenson, che è pure quasi il suo opposto, come vita e come stile. Eppure più di una volta sono stato tentato di spostarlo su un altro ripiano – meno sottomano per me – quello dei romanzieri analitici, psicologici, dei James, dei Proust, dei ricuperatori indefessi d’ogni briciola di sensazioni trascorse; o perfino su quello degli esteti più o meno maledetti, alla Poe, gravidi di amori trasposti; quand’anche le sue oscure inquietudini d’un universo assurdo non lo assegnino allo scaffale – non ancora ben ordinato e selezionato – degli “scrittori della crisi”. Invece l’ho tenuto sempre là, a portata di mano, con Stendhal che gli assomiglia così poco, con Nievo che non ci ha niente a che vedere».

Calvino concepisce la sua biblioteca per selezione e non per accumulo, come Amerigo Ormea in La giornata d’uno scrutatore: «Col passar degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere e ad evitare il superfluo». E l’esigenza di liberarsi dell’eccesso diventa tanto più pressante nel momento di inscatolare i propri libri per trasferirsi in una nuova città, come accade nel 1967, quando lascia Torino per Parigi.

Dallo scaffale francese si allontanano i modelli letterari della gioventù, mentre cresce la sua passione per Leopardi e per Galileo e compaiono nuovi riferimenti contemporanei: Borges, Valéry, Queneau, Perec. Fino a che vive a Parigi, con i libri «sempre un po’ qua un po’ là», la biblioteca di Calvino è ancora una mappa interiore – «quasi identificassi me stesso con una biblioteca ideale», dichiara in un’intervista a Valerio Riva nel 1974. Allo stesso modo che in Se una notte d’inverno un viaggiatore: «Lo scrittore percorre con lo sguardo le costole dei volumi sugli scaffali, socchiude gli occhi, vede la letteratura universale rifrangersi indefinitamente, moltiplicarsi, dilatarsi». La letteratura gli appare come «un campo di vibrazioni, una galassia in espansione perpetua» e i suoi volumi sono raggruppati in un «insieme che non forma una biblioteca».

Calvino ha l’abitudine di stilare liste e fermarsi di tanto in tanto per fare dei bilanci. Lo racconta in un breve scritto nella raccolta Collezione di sabbia: «Ogni tanto mi metto a fare un elenco degli ultimi libri che ho letto e di quelli che mi riprometto di leggere (la mia vita funziona a base di elenchi: rendiconti di cose lasciate in sospeso, progetti che non vengono realizzati)». E l’interesse per la ricerca di sistemi di pensiero sempre nuovi lo spinge verso i territori più disparati della conoscenza, come dimostra il gran numero di atlanti e mappe, libri di storia, etnologia, astronomia, fisica, che affollano le sue stanze di lettura. Sono testi che rispondono alla sua curiosità, ma sono anche funzionali a fornirgli modelli e spunti sempre originali per la scrittura letteraria, critica e teorica. Non la biblioteca di un bibliofilo o di un collezionista, dunque, ma quella di uno studioso e soprattutto di un appassionato lettore.

Man mano che si arricchisce il suo discorso critico e prende corpo una definizione di poetica, comincia a farsi largo l’idea di biblioteca come sistema. Scrive in un saggio del 1967 contenuto nella raccolta Una pietra sopra: «La letteratura non è fatta solo di opere singole ma di biblioteche, sistemi in cui le varie epoche e tradizioni organizzano i testi “canonici” e quelli “apocrifi”. […] Una biblioteca può avere un catalogo chiuso oppure può tendere a diventare la biblioteca universale ma sempre espandendosi attorno a un nucleo di libri “canonici”». E aggiunge: «La biblioteca ideale a cui tendo è quella che gravita verso il fuori, verso i libri “apocrifi”, nel senso etimologico della parola, cioè i libri “nascosti”. La letteratura è ricerca del libro nascosto lontano, che cambia il valore dei libri noti, è la tensione verso il nuovo testo apocrifo da ritrovare o da inventare».

Il centro di gravità della sua biblioteca – di ogni biblioteca – sono i classici, che per Calvino sono letture «formative nel senso che danno una forma alle esperienze future», come scrive in un articolo per L’Espresso del 1981 (Italiani, vi esorto ai classici). Lungi dall’operare «distinzioni d’antichità, di stile, d’autorità», «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» e ciascun lettore è tenuto a costruire la propria biblioteca senza imposizioni né percorsi prestabiliti perché «è solo nelle letture disinteressate che può accadere d’imbatterti nel libro che diventa il “tuo” libro». Per dirla ancora con le parole dell’autore: «Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali».

È sempre il piacere per la scoperta che lo accompagna nel momento di radunare i suoi spiriti guida per varcare la soglia del nuovo millennio: nelle Lezioni americane una sorprendente immagine di levità orienta le sue scelte, dal volo di Perseo agli improvvisi di Samuel Beckett. Sorretto dai suoi numi, Calvino guarda al presente e si prepara per un futuro che è capace di prevedere – ma che non avrà il tempo di incontrare – come il più poetico e forse anche il più autobiografico dei suoi personaggi: con la stessa trasognata lucidità con cui Palomar guarda un’onda, conta i fili d’erba, cataloga formaggi francesi o fa visita allo zoo all’ultimo esemplare di gorilla albino, il suo sguardo si posa sul mondo come su uno straordinario libro da leggere, nello sforzo incessante di «raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono».

Poster di Il primo re su Flanerí

La fondazione nel sangue

Ci sono due modi per parlare di Il primo re, film sulla nascita di Roma interpretato da Alessandro Borghi e Alessio Lapice. Il primo, e più diffuso, si sofferma sulla produzione per costruire un discorso a partire dalle differenze. Il secondo, a cui ci si dedica meno, mette al centro il film. Il ritorno alla regia di Matteo Rovere, già molto apprezzato per Veloce come il vento e come produttore di tante delle cose migliori viste in Italia di recente, è stato ampiamente anticipato. L’ambizione del progetto era chiara nella sua enormità sin dall’annuncio. L’idea di realizzare un film epico in Italia, di battaglie ed effetti speciali, sembrava temeraria, per non dire folle.

Sarà per questa attesa che univa speranza e timore che tutti i commenti sul film finiscono per sottolineare come il film sia “diverso”. «Non sembra un film italiano», si legge in giro. Vuole essere un complimento, a rimarcare il livello di produzione al di sopra – o al di fuori – degli standard nazionali, ma diventa paradossale osservando il percorso e le intenzioni di Rovere e della sua squadra.

Tutto il cast tecnico di Il primo re è italiano, dalla fotografia di Daniele Ciprì agli effetti speciali. Rovere voleva dimostrare che in Italia ci sono delle eccellenze in grado di fare cinema diverso. Del resto, era quello che aveva già fatto con Veloce come il vento e con i film di Smetto quando voglio. Il cinema italiano si è talmente appiattito sulle due direzioni dell’autorialità e della commedia da trascurare le infinite sfumature. Negli ultimi anni le cose sono cambiate e stanno continuando a cambiare. Basti pensare a Lo chiamavano Jeeg Robot o alla tante, troppe, produzioni criminali sparse tra tv e cinema. C’è una riscoperta del genere e c’è, soprattutto, il coraggio di provare cose diverse.

Il primo re non è un’anomalia isolata, ma la tappa di un percorso che Rovere e altre personalità stanno portando avanti. Ci sono tante idee che si muovono in direzioni nuove per tornare a un coraggio perduto del cinema italiano.

Il primo re cerca di percorrere una strada inedita, ed è ciò di cui bisogna parlare, della sostanza del film. La leggenda di Romolo e Remo si trasforma in un racconto antiepico delle origini di Roma. Non c’è divino, non c’è mito: ci sono solo gli uomini e la natura. Romolo e Remo sono due pastori travolti dalla piena del Tevere e presi prigionieri dai soldati della città di Alba. Riescono a scappare dopo essere stati costretti a battersi tra di loro e coinvolgono nella loro fuga gli altri prigionieri e una vestale, sacerdotessa che custodisce il fuoco, unico dio tangibile. Mentre scappano per i boschi, inseguiti dai soldati e con Romolo ferito, Remo diventa guida del gruppo e si autoproclama re.

Rovere paga due tributi evidenti con il suo film. Il primo è a Revenant di Alejandro Gonzalez Iñarritu, il secondo, più sorprendente, al cinema di Mel Gibson regista. Come per il film di Iñarritu, Il primo re è stato girato in condizioni estreme, con gli attori che hanno vissuto nei boschi senza lavarsi per immergersi nella parte. Il rapporto di sintesi con la natura si apre in tutta la sua violenza brutale. Non c’è una visione bucolica, lo chiarisce la piena iniziale del Tevere che strappa i due fratelli dalla terra e li spinge tra rami e rocce. In un mondo poco meno che primitivo, gli elementi sono sovrani. Il fuoco è temuto ma necessario, l’acqua è benedizione quando è pioggia, condanna quando è fiume.

Dalla simbiosi con una natura spietata nasce la violenza tra gli uomini. Animata da due elementi fondamentali, l’individualismo e il tribalismo, la violenza è il cemento della società. Ognuno è solo e opposto, pronto però a rinchiudersi in un nucleo in grado di proteggerlo, che sia la famiglia o un accenno di società. Il Lazio pre-Roma di Rovere sembra assomigliare allo stato di natura della filosofia giusnaturalista: senza autorità costituita prevale il più forte. Finché è più forte.

Per rappresentare questo mondo violento, Rovere attinge a piene mani dall’estetica di Mel Gibson (The PassionApocalypto e anche Hacksaw Ridge), regista controverso ma senz’altro capace di restituire il senso fisico del dolore. È da Gibson che prende anche l’idea più estrema del film: la lingua. Tutto Il primo re è recitato in un protolatino documentato e rigoroso, in nome di un realismo forse eccessivo.

Ed è qui il difetto del progetto di Rovere. La volontà di arrivare a una produzione colossale lo ha portato a trascurare il film stesso. Lo sforzo produttivo non viene accompagnato da personaggi che lascino davvero il segno. Sono solo accennati nei loro tratti radicali (Remo/Borghi, in particolare) che finiscono presto per essere esasperati. Così lo sviluppo della trama, con la fuga nella foresta diventa in fretta semplice pretesto (non c’è traccia di inseguitori) e dopo una prima parte tesa, silenziosa, inquietante, nella seconda Il primo re sembra andare avanti per inerzia.

La grandezza della produzione sembra aver catalizzato tutti gli sforzi. È un film destinato a fare la storia del cinema italiano, ma sembra comunque mancare di qualcosa.

 

(Il primo re, di Matteo Rovere, storico, 2019, 127’)