Enea

Non sai cosa sia un dimmer, ne come funzioni un mixer. Non hai mai collegato un cavo a una centralina. Ma ti ritrovi a farlo.
La mattina presto tu ed Enea Cognigni stipate la sua Renault dell’attrezzatura necessaria allo spettacolo e partite per l’entroterra. È il tuo primo lavoro da quando sei tornato a casa. Ti crea qualche inquietudine, ma ne sei orgoglioso.
«Lavoro a teatro», dici in giro.
Suona bene.
Portate in scena una favola scritta da Enea, Il corvo che voleva che la notte non fosse nera come la notte. Lo fate alle feste di paese, nelle aule magne delle scuole elementari di provincia, con i bimbi raccolti a cerchio sul pavimento e i maestri in piedi alle loro spalle, preoccupati che l’entusiasmo non tracimi in ammutinamento.
Enea entra in scena illuminato dal sagomatore. Ha un microfono ad archetto premuto sulla guancia, lo stesso che utilizzano i manager per spronare i venditori durante i meeting aziendali.
Lo sguardo, che per tutto il viaggio in macchina e durante l’allestimento ha tradito un’ansia diffusa (ma impari da lui la meticolosità sul lavoro, la gratificazione che da un compito portato a termine nel migliore dei modi, qualunque esso sia), si accende di colpo. Si rivolge alla scolaresca con un sorriso sornione, leggermente sinistro.
«Bimbi, sapete dove si rifugiano di solito i corvi quando cala la notte?»
Enea lascia che la domanda si posi nella mente di quel pubblico irrequieto e suscettibile con la sinuosità di un’anguilla.
Quando riparte, l’attenzione e tutta per lui.
Tu ti occupi dei cambi di luce, dei rumori di scena e, con l’aiuto di un comando a distanza, sostituisci le diapositive a ogni svolta del racconto.
Non sempre ti riesce.
A Camerino resetti per sbaglio il contagiri del registratore nel punto in cui il corvo incontra uno sciame di api, che lo scortano fino all’ingresso della “Valle della notte senza ombre”.
«Sentite anche voi questo ronzio?»
Enea è immobile al centro del cono di luce, la mano a coppa sull’orecchio, in attesa che le casse dell’impianto diano concretezza alle sue parole. Partono invece trenta secondi di tuoni e vento, previsti dal copione molto più avanti, giusto prima del finale.
Quei rumori dovrebbero accompagnare la scena in cui il corvo, sedotto dai racconti di una coppia di sterne, si imbatte in una tempesta mentre si dirige verso la luminosa notte artica. Ma arrivati a quel punto tu sei ormai nel panico e lanci il tema finale, uno sdolcinato motivo in trequarti, che trasforma la favola in una sorta di elegia alla morte per annegamento. Una conclusione che lascia interdetti gli insegnanti e smarriti gli alunni, condannati a fare per la prima volta i conti con la crudeltà dell’esistenza, in quella che doveva essere invece un’ora di puro svago.
Tirate su duecento euro netti a replica. Cento vanno a Enea, cinquanta sono per te e il resto serve a coprire le spese per la benzina e il pranzo. Se il calcolo delle spese e in eccesso, alla fine del mese dividete in parti uguali la somma avanzata.
Tu ed Enea non potete considerarvi amici. Ne siete coscienti entrambi. Lui ha dieci anni piu di te, una famiglia, e quando tu sprecavi il tuo tempo a ciondolare tra la piazza e la sala giochi del centro, lui frequentava già la scuola di recitazione, scriveva monologhi ispirati a Shepard e a Mamet, e al saggio di fine anno era sempre tra gli studenti più applauditi del corso.
Ciononostante Enea ha bisogno di te o di qualcosa che e attaccato a te. Lo avverti ogni volta che partite per una data. Gli piace averti accanto, specchiarsi nella tua giovinezza e vederci riflessa la sua.

 

illustrazione racconti Enea di Emidio Clementi

 

Questo passo è tratto da Enea, il racconto di Emidio Clementi, incluso nel volume effe – Periodico di Altre Narratività #9 . Illustrazione di Maurizio Lacavalla.

 

Emidio Clementi è nato ad Ascoli Piceno nel 1967. Scrittore e musicista, con i Massimo Volume, di cui è voce, autore dei testi e bassista, ha pubblicato sette dischi. L’ultimo, Il Nuotatore (42 Records), è uscito il 2 febbraio 2019. Con il progetto El Muniria, invece, ha pubblicato l’album Stanza 218 (Homesleep records, 2004) e con il nome Sorge, La guerra di domani (La Tempesta Dischi). Come scrittore ha esordito con la raccolta di racconti e poesie: Gara di resistenza (Gamberetti editrice, 1997). Poi i romanzi Il tempo di Prima (Derive Approdi editore, 2000); La notte del Pratello (Fazi editore, 2001); L’ultimo dio (Fazi editore, 2004) e Matilde e i suoi tre padri (Rizzoli, 2009). Del 2014 è la raccolta di racconti La ragione delle mani (Playground/Fandango). L’ultimo romanzo, L’amante imperfetto (Playground/Fandango) è del 2017. Da anni porta in scena reading poetici e conduce laboratori di scrittura creativa. Dal 2009 insegna all’Accademia di Belle Arti di Bologna.

 

effe – Periodico di Altre Narratività è un’antologia periodica di narrativa inedita illustrata ideata da Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, che nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano e offrire una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e dove i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione. Tutti i racconti sono illustrati da giovani artisti della scena contemporanea. effe ha una tiratura limitata e viene distribuito in maniera diretta (vis-à-vis con i librai) nelle librerie indipendenti, perché:
A) è un prodotto artigianale;
B) è importante che il libraio creda in ciò che vende.

 

 

copertina di Adulterio e altre scelte

Se il desiderio fosse fallire

Nel mondo della letteratura si aggira questa idea secondo cui esisterebbero due categorie di autori: gli scrittori per tutti e gli scrittori per gli scrittori. Di Andre Dubus si è sempre detto che appartenesse alla seconda, e che i suoi racconti venissero apprezzati più da autori del calibro di King, Oates , Yates, Updike e Vonnegut, che da un pubblico più ampio. Che abbia senso o no dividere le cose in questo modo, la questione rimane una: Adulterio e altre scelte (Mattioli 1885, 2018) è un capolavoro della narrativa mondiale, così come gran parte della sua produzione letteraria.

Tra i tanti meriti di Dubus in Adulterio e altre scelte, tradotto da Nicola Manuppelli, il più straordinario è quello di aver colto la verità dietro al desiderio occidentale. Se il racconto del sogno americano è incentrato sul lottare per vincere e poi vincere per davvero, il sogno dei singoli americani è il suo esatto opposto: quello di liberarsi dalla lotta quotidiana, di dare un calcio alla scala sociale e di arrendersi al fallimento. Ancora di più, quello di poter scegliere il fallimento come opzione, anche e soprattutto nei momenti topici della vita.

E dunque, all’interno della raccolta l’adulterio coincide con il tradimento dell’aspettativa. Il più delle volte verso il proprio padre, che in tutte le storie simboleggia l’ingombranza della vittoria redentiva come unica prospettiva. Ma anche sottilmente verso la figura della madre, che ossessionata dal dovere della cura, trasforma il supporto nel senso di colpa per l’insuccesso.
È una boccata d’aria fresca il momento in cui, in “Ritmo”, il militare amico del protagonista mette fine a un allenamento sfiancante rivolgendosi al comandante con un «me ne torno a casa». Dopo che per tutto il tempo del racconto si era guardato al protagonista resistente come unico possibile eroe della storia, il processo di liberazione prende vita nell’amico che si arrende. E non importa se nella storia chi resta troverà la forza di continuare grazie al fallimento dell’altro, usando la reputazione di chi se ne va come trampolino di lancio per il proprio riscatto: la bussola del lettore si è già spostata, dalla vittoria alla resa.

Tolti gli obblighi e i doveri, quel che resta della vita dei personaggi è quello che realmente è: le impressioni distratte, i ricordi improvvisi e confusi, le abitudini, gli automatismi, le reazioni emotive più spontanee. La narrativa di Dubus in Adulterio e altre scelte si sviluppa con il preciso intento di spezzare la coincidenza tra la vita e il dovere razionale. Nei suoi racconti, a vivere davvero sono i personaggi del contorno, quelli che, senza cercare mai di mettere a fuoco se stessi e la loro posizione, portano avanti la routine della quotidianità.

La vita è nelle pieghe delle giornate, in quei momenti in cui non ci si accorge di star vivendo. Non è un caso se la nostalgia dei protagonisti si manifesta secca nei particolari senza valore: «la birra che rimane sul fondo delle borse frigo», «la doccia calda e poi fredda», «i soffi di sabbia e le labbra screpolate». Una descrizione che va di pari passo con quella della natura, che non ha bisogno di fronzoli per affermare la propria necessità, e che Dubus riesce a portare avanti con un’agilità narrativa tale da conciliare insieme Čechov, Carver, Cheever, Pancake e Faulkner: «Il giorno dopo il sole e un vento gelido asciugarono la terra», oppure «appena oltre i tetti, dall’altra parte della strada, il sole stava scendendo verso l’oceano che non potevano vedere».

La voglia di riportare con forza l’essere umano sul piano naturale diventa la sua dote letteraria più incisiva, dote che probabilmente tocca i livelli più alti in “Adulterio”, l’ultimo racconto della raccolta e spunto che darà forma a Noi non abitiamo più qui: «Guardando le rose gialle di fianco al letto, sta dicendo addio a Hank, e sente quel saluto fin nel profondo, dentro il ventre e nel cuore».

Leggere Dubus fa male ai sensi, perché traccia un percorso emotivo dal quale difficilmente si esce indifferenti. Ma fa anche bene allo spirito: liberando i personaggi dalla menzogna del mito “o vittoria o morte”, ci ricorda che è sufficiente il nostro esserci e il nostro soffrire, tanto per la vita quanto per la letteratura.

 

(Andre Dubus, Adulterio e altre scelte, trad. di Nicola Manuppelli, Mattioli 1885, 2018, pp. 246, euro 16)
Copertina “L’assassinio del Commendatore”. Libro primo” di Haruki Murakami

Quando il romanzo di formazione rimane in sospeso

A volte i personaggi di Murakami sembrano alieni da sentimenti, apatici, indifferenti, incolori, per parafrasare uno degli ultimi lavori dello scrittore giapponese, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio (Einaudi, 2014), non una delle sue prove migliori.

L’attesa, per i lettori di Murakami, si era fatta dunque spasmodica e speranzosa che il nuovo cimento dello scrittore giapponese fosse all’altezza, se non meglio, di 1Q84 (Einaudi, 2011 e 2012).

Il nuovo romanzo L’assassinio del Commendatore. Libro primo (Einaudi, 2018) per molti versi gli somiglia, ma molte sono anche le differenze. Il lettore che viaggia nelle sue pagine viene aggredito da un mondo di immagini e caratteri in cui ogni pezzo della storia si incastra nell’altro creando un mosaioco tanto arzigogolato quanto coerentemente e in modo calcolato strutturato con la tecnica del cliffhanger, cioè con la chiusura dei capitoli rinvigorita da colpi di scena ed effetti di suspense. Del resto è nota l’abilità di Murakami nel creare un clima di grande attesa nel lettore muovendo da fatti apparentemente insignificanti che però si caricano di forza drammatica quando entrano in risonanza con la psicologia dei personaggi.

Il libro procede per momenti puramente intimisti e momenti surreali (fantasmi, mummie, una misteriosa creatura che vuol farsi chiamare «idea» e che solo il protagonista è in grado di vedere e sentire, etc.). Gli ingredienti per il mystery ci sono tutti e il suono di una campanella che si ode di notte non fa che accrescere la componente gotica del romanzo. Ma si cambia troppo spesso registro e l’azione rallenta.

Il protagonista è un anonimo artista trentaseienne, specializzato in ritratti, che dopo sei anni di matrimonio viene lasciato dalla moglie. Disorientato si mette in viaggio sulla sua Peugeot 205 verso Tōhoku e l’Hokkaidō: «Troppe cose nelle quali ero coinvolto erano rimaste irrisolte, mi sentivo senza un appiglio saldo. Avevo l’impressione che più cercavo di semplificarmi la vita, più la situazione diventava complicata e incoerente».

Dopo la separazione si sente spaventosamente solo e dipingere diventa un modo per fare i conti con se stesso, i suoi ricordi e con il vuoto che lasciano la morte o il distacco dalle persone che amiamo: «Pure a me piacerebbe capirmi. Ma non è facile. Per questo dipingo».

Questo cambiamento, apparentemente comune a molti al giorno d’oggi, suona come un capovolgimento nella vita del protagonista, che però lui decice di vivere in pieno stile Murakami. Si ha come l’impressione di uno scollamento dalla realtà e la storia sembra prendere le sembianze di una rievocazione onirica, sempre in bilico tra concretezza e astrazione fantastica. E qui entra in gioco la straordinaria capacità visionaria dell’autore che risolleva la vicenda dai suoi momenti di stanca.

Il tema dello shining, del luccichio, è onnipresente ed è proprio a Stephen King che fa pensare quando il pittore accetta di vivere in una casa appartenuta a un famoso artista della corrente nihonga, Amada Tomohiko, in una zona collinare a Sud di Tokyo, in cui presto si verificano fenomeni soprannaturali. Nel sottotetto il protagonista si imbatte in un quadro che ritrae la famosa scena del Don Giovanni di Mozart: L’assassinio del Commendatore, appunto. Che significato dare alla scena? È forse legata al passato del suo creatore?

D’altronde l’arte è anche questo: la possibilità che il passato torni. In quel passato è possibile frugarci come un detective selvaggio perché nel passato spesso si nascondono alcune chiavi per interpretare il presente.

Il terzo personaggio principale è Menshiki (in giapponese significa “senza colore”), versione giapponese e surreale di Jay Gatsby. Murakami del resto ha confessato di essersi ispirato a Francis Scott Fritzgerald di cui è traduttore in Giappone in un’intervista in cui dava anticipazioni su questo suo nuovo lavoro.

Attraverso la sua richiesta di farsi fare un ritratto Menshiki cambierà la vita del pittore senza volto per sempre.

Si tratta di un enigmatico signore di una certa età, piuttosto benestante, arricchitosi con investimenti nel campo dell’IT e senza una famiglia propria. Vive infatti solo in una villa posizionata sull’altro versante della collina rispetto alla casa del giovane pittore: «Quando la villa bianca scomparve alla vista, tutto quello che vi era avvenuto quella sera mi sembrò accaduto in sogno. Poco per volta non riuscii più a capire cosa fosse normale e cosa no, cosa fosse reale e cosa no».

Verso la fine di questo primo libro, veniamo a sapere che anche Menshiki in passato è stato innamorato e che quell’amore potrebbe anche aver lasciato i suoi frutti.

Si tratta di tre uomini incompleti, che vivono di arte e che ricercano se stessi attraverso l’arte e hanno perso l’amore di una donna. C’è anche qui una fortissima componiente erotica tipica di Murakami che analizza le dinamiche dei rapporti fra uomo e donna.

Anche in questo nuovo libro le due anime dell’autore, quella surreale e grottesca che sfida il nonsense, onirica e quella più realista, intimista ma spesso anch’essa surreale, sembrano convivere insieme. Il risultato non è pienamente convincente ma aspettiamo il secondo volume per dare un giudizio definitivo.

 

(Murakami Haruki, L’assassinio del Commendatore. Libro primo, trad. di Antonietta Pastore, Einaudi, 2018, pp. 424, euro 20)

Le intenzioni fallite

«Nella parte che ho letto fino adesso, sono più o meno a metà, il Mussolini che viene fuori è un Mussolini più intrigante di come io l’avevo sempre vissuto». Sono le parole dette dal conduttore radiofonico Linus durante un fuori onda di Deejay chiama Italia, popolare programma che ha ospitato Antonio Scurati lo scorso ottobre. Si può partire da qui, per parlare di M. Il figlio del secolo, perché questo è un libro che parla anche di popolo e che, secondo le intenzioni molto spesso espresse dal suo autore (e cioè che occorra spiegare – soprattutto ai giovani – cosa sia stato il fascismo), parla al popolo.

Perché partire da Linus? Perché è il conduttore di una delle trasmissioni radiofoniche più seguite d’Italia; ha sempre lavorato come dj e speaker, dirigendo anche alcune emittenti; ha pubblicato alcuni libri con Sperling & Kupfer e Mondadori. Insomma, non è il prototipo del – se esiste – italiano medio. Linus è anzi (mi si passi il termine, altrimenti è impossibile intendersi) un cittadino qualificato. Ebbene, arrivato al cuore del libro, gli sembra che il Mussolini di Scurati sia un personaggio più intrigante del Mussolini che si era sempre immaginato.

 

Le intenzioni dell’autore

Scurati si è proposto di scrivere un romanzo su Mussolini adottando il punto di vista dei fascisti (peraltro non è propriamente il primo autore a interessarsi del loro punto di vista, basti ricordare le molte voci che proprio per questo furono critiche con i libri di Renzo De Felice). M sarebbe un romanzo così tanto documentato da consentire all’autore di dichiarare: «Ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato».

Le ragioni di questa sua impresa, Scurati le chiarisce in quasi tutte le occasioni in cui è invitato a parlarne, come per esempio ha fatto rilasciando un’intervista a Fahrenheit Radio 3: «È caduta la pregiudiziale antifascista. Vale a dire che l’antifascismo su cui è fondata la Repubblica italiana si è fondato fino a ieri sulla pregiudiziale. Se tu volevi accedere al dibattito pubblico, al discorso politico, al discorso civile dovevi accettare la pregiudiziale antifascista; cioè la condizione preliminare era che tu ti dichiarassi antifascista. Sennò eri ai margini, eri emarginato. Oggi non è più così. Oggi le scuole sono piene di ragazzi, di militanti, […] dei movimenti neofascisti o di estrema destra ai quali se tu dici che il fascismo è un male, loro ti dicono: “Perché? Dimostramelo.” E questo è il motivo per cui finalmente si può e si deve raccontare veramente cosa sia stato Mussolini e il fascismo senza pregiudiziale ideologica, senza pregiudiziale politica. Nella speranza e nella convinzione (che è la mia) che alla fine di una narrazione (che è equanime – diciamo così – come quella che è sempre della letteratura) la condanna del fascismo giunga ancora più netta».

 

Il punto di vista equanime

Che la letteratura abbia un punto di vista equanime, l’autore di M. Il figlio del secolo lo sostiene anche come ospite della trasmissione Quante Storie condotta da Corrado Augias. È un concetto attorno al quale si potrebbe ragionare con interesse, non fosse che dal modo in cui Scurati lo espone sembra che l’equanimità sia un attributo esclusivo della letteratura e del romanziere: «Questo è il momento della letteratura, di raccontare in maniera equanime – che non significa indifferente ed equipollente – e di entrare nella testa di Mussolini, di entrare nel suo punto di vista, di raccontare il fascismo attraverso i fascisti».

Perciò a nulla varrebbero quelle molte volte in cui Emilio Gentile (esperto di fascismo di fama internazionale) in contesti di divulgazione storica ricorda vibratamente che i protagonisti delle vicende del passato non sapevano come le cose sarebbero andate a finire, e che pertanto le loro azioni, i loro pensieri e sentimenti, non possono essere giudicati col senno di poi ma occorre cercare di capire cosa essi sapevano, vedevano, e quali fossero le categorie con cui loro guardavano il mondo. Concetti, questi, con cui le matricole dei corsi di storia familiarizzano sin dalla prima ora di lezione e che concorrono appunto a quel tentativo di entrare nella testa di chi ha vissuto in altre epoche, senza nulla togliere – in tema di letteratura e storia – a libri come Guerra e pace; a film come Una giornata particolare, che anzi restano fondamentali per qualsiasi storico o appassionato.

 

 

Italiani brava gente

La pregiudiziale antifascista è superata, sostiene Scurati. E qui bisogna cercare di capire come. Sempre Scurati ama citare spesso (lo fa parlando di questo suo libro; l’ha fatto in passato scrivendo di Il male oscuro di Giuseppe Berto) una frase di Guido Ceronetti comparsa in un articolo del 1983: «Sembra lontanissimo, eppure la distanza è ancora poca per pensare Mussolini senza fallire: lasciamo venire il 1999, se verrà». Ebbene, cos’è il 1999 di Ceronetti? Non forse quella presa di coscienza delle colpe di un popolo, la loro elaborazione, lo sforzo di una comunità di farsi carico di responsabilità storiche? E cos’è invece oggi il superamento della pregiudiziale se non l’accoglienza – senza espiazione – nel dibattito pubblico dei fascisti? Cos’è se non l’accettazione che il fascismo sia un’opinione, ossia una fede politica come le altre anziché «l’antitesi delle fedi politiche», per dirla con Sandro Pertini?

Il 1999, che Scurati proclama giunto, non è ancora arrivato e un ragazzo che oggi chieda che gli venga spiegato perché il fascismo sia un male, non lo fa per equanime bisogno di conoscere come siano andati i fatti; molto più probabilmente lo chiede perché nella sua memoria famigliare l’oppressione dell’avversario, la soppressione delle sue libertà politiche e civili, la violenza costante contro di lui, il controllo pervasivo della polizia, l’impossibilità di lasciargli esprimere liberamente le proprie idee sono cose che vengono descritte in un modo tale da renderle tollerabili e finanche opportune. Lo chiede perché probabilmente pensa o crede di pensare che tutto sommato le colpe del fascismo possano ridursi all’aver portato l’Italia in guerra e aver promulgato le leggi razziali.

«Un paese che da quarant’anni va coprendo tutti gli specchi per dimenticare la sua vera faccia. – Scriveva Vitaliano Brancati nell’immediato dopoguerra – In questo modo le più gravi esperienze non servono a nulla, il tempo perduto si torna a perderlo, e il piacere di ricadere in un vecchio peccato è più dolce di ogni redenzione».

 

Fascismi di ieri e di oggi

È solito, Scurati, nelle interviste, specificare giustamente che le similitudini dei nostri tempi con il Ventennio non riguardano tale o talaltro politico portatore di idee autoritarie ed escludenti, ma che se è possibile rintracciare delle analogie con gli anni in cui emerse il fascismo, esse sono in noi e tutto attorno a noi. Non nei leader, ma nella folla: è il popolo di oggi a esser simile per insoddisfazione, rabbia, senso di tradimento e sconforto a quello del 1922. Siamo noi a coltivare quei sentimenti che potrebbero portare a una nuova dittatura, che non si presenterà col fez e il manganello – non importano le forme che potrebbe assumere – ma potrebbe arrivare, perché acclamata.

E cosa intende Scurati dare in pasto a questo popolo che sembra dirigersi sull’orlo del baratro? Ha, questo nostro popolo l’attrezzatura o – per dirla meglio – la cultura per interpretare e comprendere e non lasciarsi trarre in inganno dal punto di vista dei fascisti che viene adottato in M. Il figlio del secolo? O non è piuttosto molto più probabile che la reazione di un lettore non avvezzo agli scritti di Renzo De Felice, Emilio Gentile, Mario Isnenghi, Claudio Pavone – per citarne solo alcuni – possa essere quella di rafforzare un’idea vaga ma vitale di un passato fascista tutto sommato tollerabile nelle nostre coscienze?

Il giornalista Antonio D’Orrico, per esempio, sa a quale pubblico si sta rivolgendo mentre recensisce M su 7. Corriere della Sera, e sa che i suoi lettori possono non conoscere gli attori della storia, visto che sente il bisogno di spiegare chi sia stato e quale sorte abbia trovato Giacomo Matteotti. Sono righe sconfortanti, perché chiunque abbia ritenuto utile quella spiegazione farebbe bene a ripartire dal manuale scolastico, prima di leggere M.

 

Narratore e lettore

Per meglio orientare i lettori, Scurati inserisce al termine del volume le note biografiche dei personaggi principali, ma persino quelle possono trarre in inganno. Esse non solo si limitano all’arco temporale trattato nel romanzo (la biografia di Pietro Nenni, per esempio, si ferma al suo allontanamento dal fascismo poco dopo averne fondato la sezione bolognese), ma assumono il punto di vista dei fascisti. Probabile che siano state scritte con lo spirito di chi spiega brevemente i personaggi del romanzo, ma in un libro come questo, in cui l’eco e la responsabilità della storia si respirano a ogni capitolo, non possono – anche le note biografiche – essere intese come parte della narrazione. Così si presentano le voci di Matteotti e di Amerigo Dùmini, che fu tra i suoi assassini:

«Matteotti Giacomo: Figlio di un grande proprietario terriero sospettato di prestare denaro a usura, sposa fin dalla gioventù la causa dei contadini polesani – tra i più poveri d’Italia – affamati da suo padre. Colto, battagliero, intransigente, eletto in Parlamento nel dicembre del 1919, è venerato dai contadini della sua terra e odiato dai membri della sua classe che lo soprannominano “il socialista impellicciato”».

«Dùmini Amerigo: Figlio di emigranti, cittadino statunitense, si arruola volontario nella Compagnia della morte del maggiore Baseggio. Ferito, mutilato, decorato al valore, nel dopoguerra s’iscrive alla Alleanza di difesa cittadina in funzione antibolscevica ed è tra i fondatori del Fascio di Firenze».

Su Matteotti, lo sguardo equanime di Scurati si posa con costante giudizio. Giudizio che non arriva dai fascisti personaggi del romanzo, ma dal narratore stesso. Sono piccoli ma lampanti indizi abilmente disposti dallo scrittore. Persino le due voci biografiche descritte sopra possono fungere da esempio: Matteotti è figlio di un ricco forse avvezzo all’usura, Dùmini è un volontario decorato al valore figlio di migranti. Non si tratta di giudizi espliciti, sono anzi dati di fatto, ma disposti in tal modo offrono delle suggestioni.

In questo Scurati è sistematico, costruisce ogni capitolo non solo mostrando il punto di vista fascista, ma coinvolgendo, catturando, il lettore in esso. Ancora un esempio: se non volesse pilotare il giudizio di chi legge, Scurati non aprirebbe così il capitolo dedicato al congresso socialista di Livorno (da cui nascerà il Partito comunista): «Il XVII congresso del Partito socialista italiano è stato inaugurato a Livorno – meta turistica rinomata per i suoi pregiati stabilimenti balneari e termali – alle ore 14:00 del 5 gennaio 1921». Se non volesse pilotare il giudizio di chi legge, Scurati non darebbe la sensazione che i delegati socialisti avrebbero potuto mellifluamente immergersi nelle acque termali e passeggiare sul lungomare fra un lavoro congressuale e l’altro. Se non avesse voluto pilotare il giudizio di chi legge, non avrebbe scritto un primo formidabile capitolo in cui Mussolini parla in prima persona e sente lo spirito del tempo.

Oppure non avrebbe voluto, ma la cosa gli è sfuggita di mano.

 

Storico non di professione

«Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato», si legge alla pagina del colophon, e non ci sono dubbi che il libro sia sostenuto da una ingente messe di documenti. E però – gli storici lo sanno fin troppo bene – le fonti di chi indaga il passato spesso non chiariscono tutto. Per esempio – e si è costretti ancora a guardare verso Matteotti – non è storiograficamente chiaro se l’ordine di eliminarlo sia stato impartito direttamente dal Duce, o da Giovanni Marinelli, suo collaboratore, o che non vi sia stato nessun ordine di omicidio e il delitto sia stato commesso per errore. Esistono storiograficamente forti indizi che farebbero propendere per una di queste tre possibilità, ma non si possono escludere le altre. Scurati invece non ha dubbi: indica una teoria e delle altre non fornisce nemmeno un cenno. Con beata pace dell’equanimità.

 

 

Uno dei temi che spesso l’autore usa nelle interviste, per gettare discredito sui fascisti e amplificare così il racconto del suo libro come libro antifascista, è quello del rapporto fra Mussolini e le donne. Sul sito della casa editrice Bompiani sono disponibili alcuni video in cui l’autore presenta i temi del romanzo: «L’erotismo dei fascisti è una sorta di autoerotismo […]. Ce lo rivela lo stesso Mussolini in un suo appunto autobiografico […]: “Nessuna donna potrà mai dirsi soddisfatta dell’intimità con il sottoscritto, perché io pochi istanti dopo averla goduta vengo irresistibilmente attratto dalla visione del mio cappello”». Con questo il futuro dittatore vorrebbe descrivere il suo «impulso ad abbandonare la stanza» subito dopo l’amplesso, dimostrando così una sessualità rapace, irriguardosa nei confronti delle donne. Ma questo, più che al fascismo, attiene allo spirito dell’epoca, e cioè a un tempo in cui la strada verso la condivisione nella sessualità doveva ancora essere tracciata sulle mappe: «La consapevolezza, l’acquisizione a livello largamente comune che il rapporto deve essere bilanciato tra le due parti è una cosa che risale agli ultimi decenni del Novecento», replica Corrado Augias al racconto di questo stesso aneddoto durante la sua intervista a Scurati.

 

Induce in tranelli, il narratore di Scurati, quando viene il momento di raccontare il ricevimento della cittadinanza onoraria di Roma da parte di Mussolini: «Il Duce parla ispirato dall’onore più alto. Fin da ragazzo – rivela Mussolini – Roma è stata immensa nel suo spirito che si affacciava alla vita». Mussolini rivela: non proclama, non mente, non inventa. Eppure sembra difficile che il giovane Benito, figlio del fabbro Alessandro e della maestra Rosa; che il giovane socialista avesse una opinione così alta della capitale, e infatti nel 1910 scriveva: «Roma, città parassitaria di affittacamere, di lustrascarpe, di prostitute, di preti e burocrati. Roma, città senza proletariato degno di questo nome, non è il centro della vita politica nazionale, ma sibbene il focolare d’infezione della vita politica nazionale. Basta, dunque, con questo stupido pregiudizio unitario per cui tutto deve essere concentrato a Roma, in questa enorme città vampiro, che succhia il miglior sangue della nazione».

Sono questi alcuni esempi di come l’autore ha inteso maneggiare la materia storica, esempi che si sommano agli errori rilevati da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera o da Nunzio Dell’Erba in una lettera a Dagospia.

Vi sono poi brani su cui ci si potrebbe arrovellare a lungo (uno di questi si presenta già alla quinta riga del libro, in quel primo capitolo in cui Mussolini parla in prima persona): «Aspettano che io parli ma io non ho nulla da dire. La scena è vuota, alluvionata da undici milioni di cadaveri, una marea di corpi – ridotti a poltiglia, liquefatti – montata dalle trincee del Carso, dell’Ortigara, dell’Isonzo. I nostri eroi sono già stati uccisi o lo saranno. Li amiamo fino all’ultimo, senza distinzioni. Sediamo sul mucchio sacro dei morti». Mussolini si riferisce senz’altro ai morti italiani, ma come può dire undici milioni, corrispondenti a quasi un terzo della popolazione italiana del tempo? Potrebbe allora riferirsi a tutti i soldati caduti degli eserciti coinvolti, ma la guerra era finita da pochi mesi, quante sono le possibilità che il 23 marzo 1919, un uomo che sta per rivolgere il suo discorso a ex combattenti, dei quali vuol farsi leader, si preoccupi di amare anche i morti austroungarici? E comunque, quel numero, Mussolini, come poteva conoscerlo se ancora non esistevano stime plausibili? Svista redazionale, si dirà.

 

Per concludere

È questo un libro che si può leggere solo avendo già gli anticorpi antifascisti, altrimenti il rischio è quello di sottovalutare Mussolini. O di rimanerne infettati. E affascinati dalla reazione, dalla domestica placida sicurezza – decorosa e ordinata – che lo stato autoritario può trasmettere. E anche per questo sarà maggiormente ardito il compito di chi ne realizzerà la annunciata serie televisiva (la casa di produzione Wildside ha già acquisito i diritti).

L’augurio, ovviamente, è che tutti questi dubbi siano fugati dalle prossime prove, perché Scurati ha già dichiarato di voler raccontare la vicenda fascista, e con essa quella nazionale, sino a piazzale Loreto. Mi sembra però che ci sia una unica via (ed è forse è possibile rintracciarne alcuni indizi nella seconda parte di M. Il figlio del secolo): quella cioè di disegnare un’opera in tre volumi che parta da una iniziale fascinazione verso il fascismo, sino all’episodio che gli fu quasi fatale (l’omicidio Matteotti, appunto); che prosegua raccontando l’affermazione del regime sino alla proclamazione dell’Impero (momento di massima sintonia fra il dittatore e la folla); che si concluda con un libro carico di scetticismo, di critica e infine di aspra condanna e di lotta partigiana. Un percorso che sarebbe lo stesso intrapreso allora da molti italiani.

Potrebbe così dispiegarsi dinnanzi a noi una sorta di antropologia del fascismo. Ma se ne riparlerà, se cinque anni son serviti per dare alle stampe questo primo volume, fra un paio di lustri.

 

Poster italiano di Green Book su Flanerí

In macchina nel profondo Sud

Sono davvero strani i percorsi del cinema. Si può passare da Scemo e più scemo 2 alla notte degli Oscar in pochi anni. È quello che sta succedendo con Peter Farrelly, uno dei re della commedia demenziale statunitense insieme al fratello Bobby (Tutti pazzi per Mary). Il film della svolta è Green Book, commedia a tema razziale con Viggo Mortensen e Mahershala Ali.

Farrelly, produttore, regista e sceneggiatore del film, è partito da una storia vera per raccontare una parabola di integrazione e amicizia.  Nel 1962 Tony Vallelonga, buttafuori di origini italiane nei locali notturni di New York, accetta un incarico come autista di Don Shirley, raffinato compositore e pianista afroamericano. Dovrà accompagnarlo in tour negli Stati Uniti del sud, in zone profondamente razziste e con una forte segregazione razziale. Tra i due, distanti per cultura, formazione e visione del mondo, nascerà un legame profondo.

Il titolo del film deriva da una guida per afroamericani pubblicata tra gli anni ’30 e ’60 del secolo scorso, The Negro Motorist Green Book.La guida indicava gli hotel e ristoranti in cui erano benvenuti negli stati del Sud. Un insieme di posti dalle condizioni igieniche precarie, lontani da standard di decenza e dal benessere dei bianchi.

Erano anni di profondo razzismo. Il movimento per i diritti civili di Martin Luther King Jr. avrebbe raggiunto il suo apice nei due anni successivi (la marcia da Selma e Montgomery e il premio Nobel per la pace, per dirne due). I fratelli Kennedy avevano avviato da poco, dalle rispettive poltrone di procuratore generale (Robert) e presidente degli Stati Unti (John), i tentativi istituzionali per risolvere le tensioni. Il Ku Klux Klan dettava legge al sud, e una certa diffidenza verso gli afroamericani era diffusa anche negli altri stati.  Anche il Tony del film nasce razzista, al punto da voler buttare due bicchieri da cui hanno bevuto due operai di colore in casa sua.

Don Shirley decise di partire per quel tour per capire il razzismo dal vivo. Cresciuto in Russia, in un conservatorio di Leningrado, era tornato negli Stati Uniti riscuotendo un grande successo come musicista jazz dell’alta società. A New York  viveva in un appartamento sopra la Carnegie Hall, suonava nei teatri e alle feste private dell’altissima e colta borghesia cittadina. Negli Stati Uniti del sud, intanto, un monumento della musica come Nat King Cole veniva tirato giù dal palco di Birmingham, in Alabama, e aggredito davanti a un pubblico inerme. Era come se, superata una linea invisibile, i neri diventassero qualcosa di non umano.

Green Book parte dalle interviste che Nick Vallelonga, figlio di Tony, ha realizzato negli anni al padre e a Shirley. Peter Farrelly ne ha tirato fuori una sceneggiatura con il contributo di Brian Currie. Un copione perfetto per gli standard della Hollywood contemporanea, carico di buoni sentimenti e amare considerazioni su un passato non così distante.

La forza del film è l’interpretazione dei due protagonisti. Viggo Mortensen, ingrassato e spogliato della sua naturale eleganza, tira fuori una specie di antenato del Joey Tribbiani di Friends, sempre affamato, ignorante ma animato da una bontà radicale. Mahershala Ali conferma di poter fare praticamente qualsiasi ruolo.

Sono cinque le nomination agli Oscar: miglior film, sceneggiatura originale, montaggio e i due interpreti (Ali inserito come non protagonista per ragioni di calcolo, ma è protagonista quanto Mortensen). Ai Golden Globe Green Book ha già vinto come miglior commedia, per l’interpretazione di Ali (sempre come non protagonista) e per la sceneggiatura. Per gli standard attuali di equilibrio e correttezza dell’Academy è un film perfetto, una specie di A spasso con Daisy al contrario. Molto probabile che vincerà Ali (due anni dopo Moonlighte la sceneggiatura.

 

(Green Book, di Peter Farrelly, 2018, commedia, 120’)

Copertina Moby Dick Welles

Il sogno e l’ignoto del teatro

I libri di ItaloSvevo sono oggetti preziosi, curati nei minimi dettagli, volumetti che hanno il sapore di unicità e che rimandano a un’editoria d’altri tempi. Come particolari sono le scelte della casa editrice, che stampa di volta in volta testi mirati, eppure di grande valore, meritevoli di essere proposti e valorizzati, in controtendenza con il marasma di pubblicazioni anonime o rivedibili dell’editoria odierna. Particolarità e valore che di certo non si possono non attribuire all’ultimo volume edito, una riscrittura teatrale di Moby Dick a opera di Orson Welles. Che Welles sia grande uomo di teatro – che abbia mosso in quel campo i primi passi, trasportando poi il magnetismo del palcoscenico sul grande schermo – è cosa risaputa, così come non stupisce che il successo cinematografico non abbiano affievolito la pratica di Welles nella scrittura teatrale.

La riscrittura di Moby Dick in un dramma in due atti non è una mera trasposizione, ma ci troviamo di fronte a una vera e propria rielaborazione. Welles rimodula la prosa dal sapore epico di Melville in una partitura ricca di lirismo, che non ha paura di confrontarsi con i tempi in cui l’opera è andata in scena. Siamo nel 1955, e Moby Dick – Prove per un dramma in due atti va in scena a Londra, l’autore accarezza l’idea di trasformarla in un prodotto per il grande schermo. Da questo contesto Welles tira fuori un testo che dice molto di Melville, ma ancora di più di Welles. La vicenda si svolge durante le prove di una compagnia teatrale, gli attori stanno provando il Re Lear di Shakespeare, subentra l’Impresario, colui che propone di mettere in scena il capolavoro di Melville. Gli attori si accingono svogliati ad abbozzare qualche scena, con costumi abborracciati, definendo a braccio le parti, colluttando il Moby Dick con le battute dello spettacolo di Shakespeare. A fare da perno dell’azione è proprio quell’Impresario che recita la parte di Achab, e che lentamente si lascia prendere dalla follia del personaggio.

La follia è una tematica shakespeariana che Welles conosce bene, da grande artista lascia che l’ombra dell’autore seicentesco si allunghi su Melville. Lo scopo di Welles è molteplice: da una parte vuole riflettere sul significato della caccia alla Balena, dando la personale interpretazione di sfida all’ignoto; dall’altra vuole indicare il palcoscenico come spazio vuoto in cui il sogno può prendere vita, l’immaginazione e il desiderio possono incarnarsi nella Balena. Questo meccanismo di immedesimazione – gli attori che si lasciano prendere dal testo che stanno recitando – riflette il processo di immedesimazione che inizia quando si apre il sipario: gli spettatori a confronto con l’evidenza del teatro. È questo il senso ultimo verso cui verte l’opera di Welles: indagare la catarsi dell’arte, mostrare la potenza del mito che affascina fino a divenire realtà concreta, abbattendo – nel momento della narrazione, della riproduzione o della ricostruzione di una storia – la divisione fra vita e finzione. Che si tratti delle assi del palcoscenico o che sia invece la sala di proiezione poco importa: è l’affabulazione a rendere irresistibile l’attrazione dell’occhio verso le figure sulla scena.

Nelle mani di Welles la storia di Melville viene smembrata e ricomposta, ridotta a pochi episodi che ne mostrano il carattere iconico, ne risulta disvelato il carattere di viaggio rituale dell’intera vicenda. Un ritualismo che è quello della relazione fra spettatore e arte, fra soggetto che guarda e oggetto della rappresentazione. Ci troviamo fra le mani lo scontro fra due autori, la personale lettura dell’ignoto di un grande artista che ripensa l’opera di un suo pari, in questo confronto si avverte il magnetismo di due poli in dialogo e conflitto, fra riappropriazioni, fraintendimenti, passaggi a vuoto che vogliono rimanere tali, folgoranti illuminazioni. Anche Welles, riscrivendo un mito moderno, caccia la sua balena: nella ricerca si lascia dietro una scia di versi e intuizioni che non possiamo fare a meno di seguire.

(Orson Welles, Moby Dick – Prove per un dramma in due atti, trad. di Marco Rossari, ItaloSvevo, 116 pagine, 13,50 euro)
cover di You

Psicopatologia dell’amore secondo Netflix

L’amore segue dinamiche strane, percorsi a volte contorti, con esiti non sempre positivi. Numerosi individui si prefiggono come scopo della propria esistenza (o almeno di buona parte di essa) di incappare in qualcuno che possa far scattare quella scintilla, quel fuoco che dà genesi al turbinio di emozioni così tanto decantate dai poeti.

Ma, se la ricerca diviene una corsa spasmodica e disperata? Un appagamento personale che non serve più a completare la propria esistenza, ma a compensare un vuoto d’affetto difficilmente colmabile?

A rispondere ci pensa Netflix con la sua recente serie You, che esamina da vicino le tematiche più oscure legate alla visione distorta dell’amore, come quella del protagonista Joe Goldberg, (interpretato da un azzeccatissimo Penn Badgley, già apprezzato in Gossip Girl) un pacato e misterioso libraio che porta avanti la sua attività nella frenesia impietosa della Grande Mela. La sua modesta esistenza, rallegrata da una passione maniacale per i classici della letteratura, viene scompaginata dall’incontro con Beck (Elizabeth Lail), aspirante scrittrice che prova ad affermarsi nel campo con pochi sforzi e tantissima superficialità.

Eppure eccola la scintilla che scocca nel cuore di Joe: la ragazza sbarazzina e leggera che condivide la passione per i grandi autori letterari è la donna prescelta da amare e proteggere. A modo di Joe però.

L’incontro, apparentemente banale e insignificante, è in realtà l’incipit di uno stalkeraggio seriale facilitato dalle infinite vie di rintracciamento permesse dai social network, nuove divinità moderne alle quali abbiamo sacrificato completamente la nostra privacy.

Armi improprie se finiscono in mani sbagliate, le peggiori in questo caso, tali da rendere Joe giudice, giuria e giustiziere della vita di Beck e soprattutto dei “nemici” della loro relazione. Perché l’amore secondo Joe vince su ogni cosa, e come diceva il suo padre adottivo: «Alcune persone sono malvagie, meritano di morire».

La scia di sangue ha inizio, Joe torna alle vecchie abitudini. L’introspezione lascia spazio all’azione spregiudicata che segue più l’istinto che la premeditazione (discostando nettamente Joe dal più celebre Dexter, con il quale è concessa qualche analogia) facendolo scivolare in errori grossolani, come colpire un bersaglio con una pietra in una soleggiata mattinata nel cuore di Central Park. Follia intermittente? Probabile.

La personificazione di Joe basterebbe da sola a designarlo come il villain di turno, tuttavia la forza di You risiede proprio nel continuo scambio di ruolo tra i due protagonisti: più volte l’identità del carnefice e della vittima confonderà lo spettatore nell’arco di un solo episodio – l’ossessione patologica di Joe non può soddisfare l’insaziabile richiesta di attenzione di Beck, che usa la propria femminilità come merce di scambio per arrivare a quell’affetto tanto desiderato, salvo poi disfarsene una volta ottenuto con sorprendente nonchalance, per poi assorbire nuovamente l’attenzione del nuovo individuo di sesso maschile di turno. Un gioco al massacro, un’esplosione che può essere detonata dalla virtù femminile.

Dal pericolo derivante dall’utilizzo incauto dei social alle relazioni promiscue e vacue simbolo dei tempi ristretti delle grandi metropoli, You propone un ritratto non proprio edificante sulla generazione Y, con le sue nevrosi, i sogni da realizzare e le insicurezze in un mondo che crediamo di conoscere attraverso un clic.

 

La delicatezza dell’essere di passaggio

«Esiste un posto dove non siamo di passaggio? Disorientata, persa, sbalestrata, sballata, sbandata, scombussolata, smarrita, spaesata, spiantata, stranita: in questa parentela di termini mi ritrovo. Ecco la dimora, le parole che mi mettono al mondo».

È difficile definire Dove mi trovo (Guanda, 2018), libro di Jhumpa Lahiri, semplicemente come un romanzo. Quello che all’inizio appare come una serie di episodi brevi e autoconclusivi, marcati sempre dal luogo – fisico ma anche emotivo – in cui avvengono, che raccolgono i pensieri e le osservazioni di una donna senza nome, costruisce un passo alla volta una trama più ampia: un tratto della vita della protagonista, e i cambiamenti lievi, quasi impercettibili delle sue sensazioni e del suo rapporto con il mondo esterno, attraverso lo scorrere dei giorni e delle stagioni, che la portano lentamente verso il futuro.

Tutto ciò avviene però attraverso un cambio netto di prospettiva: la scrittrice sembra destrutturare la dimensione temporale in una dimensione spaziale, così che lo scorrere del tempo viene raccontato attraverso i luoghi in cui la vita accade, attraverso incontri, stimoli e illuminazioni fulminee, piccoli avvenimenti che ne costituiscono la parte più vera e profonda.

A emergere è la figura di una donna che vive sola, per caso ma anche per scelta, che con la solitudine viene a patti «come una disciplina, [che] cerca di perfezionare eppure ne patisce». Un personaggio dal passato nebuloso, sovrastato da una famiglia amata e odiata, mai del tutto perdonata, e con pochi affetti, quasi tutti descritti in termini di ciò che è stato, o che potrebbe semmai essere, ma poi non riesce a essere. E in realtà quasi niente nella sua vita è per davvero, se non la casa e la città, in cui ha sempre vissuto ma in cui sembra sentirsi comunque estranea – una città che, quando la descrive, ha l’aspetto e l’odore di Roma, fatta di quartieri che sono come paesi, di ville e cupole, sporca e con i sampietrini fatiscenti, in pezzi ma amatissima.

Dove mi trovo diventa così il racconto di uno sradicamento profondo, del sentire di non appartenere a nulla: descrivere la casa, il tra sé e sé, alla stregua di una piscina o di un museo, come luoghi in cui ci si trova, significa percepirsi come sempre in movimento, persino dentro la propria pelle. La malinconia che ne scaturisce distacca la protagonista da ogni cosa e le permette di accettare che, come noi, anche le persone che incontriamo siano solo di passaggio: che ci siano solo per qualche giorno – incrociate in un agosto solitario o attraversando la strada – altre volte per qualche mese o anno, ma mai destinate a restare Quella stessa malinconia le fa percepire la vita in modo lancinante, nelle sue piccole gioie e nei suoi regali inaspettati – il contatto con l’acqua, elemento rigenerante che copre senza affogare, o un’alba vista dalla terrazza di casa, uno spettacolo quotidiano che stringe il cuore – così come nei piccoli fastidi, nelle sofferenze e nei timori.

Dove mi trovo è un libro di una delicatezza e finezza rara, il primo vero romanzo scritto in italiano da Jhumpa Lahiri, scrittrice di madrelingua inglese che sembra aver trovato nella nostra lingua una sorta di patria interiore, che le consente di accedere a profondità più scure, ad altre verità. Luoghi, in ogni caso, in cui vale la pena di lasciarsi guidare e perdersi.

 

 

(Jhumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, 2018, pp. 163, € 15.00)
“Quante bugie hai detto questa sera” di Alessio Di Girolamo copertina

L’educazione sentimentale
di Anna

Permettetemi di esordire con una banalità: che bello leggere un libro sorprendente. Forse questa affermazione nasconde una mancanza di memoria, perché di fatto molti dei libri sorprendenti che ho letto nell’ultimo anno sono pubblicati dalla medesima casa editrice: TerraRossa edizioni. D’ora in avanti non mi sorprenderanno più i libri di Francesco Dezio, uno dei migliori scrittori del lavoro in Italia, secondo solo a Giorgio Falco. E non mi sorprenderanno le opere di Cristò, eversivo scrittore meridionale capace unire prolificità a qualità. Giovanni Turi convoca attorno a sé un gruppo di autori solidi sia dal punto di vista contenutistico, che da quello formale. L’esordiente Alessio Di Girolamo è l’ennesimo prodotto di questa schiera: Quante bugie hai detto questa sera è un romanzo maturo, che dimostra una sensibilità fuori dal comune.

Ci vuole infatti una grande sensibilità per svelare i meccanismi del pensiero femminile senza scadere nel clichè del maschio che tenta di approcciarsi alla femminilità pur non essendone in connessione. Un dialogo che nella scrittura di Di Girolamo riesce magnificamente, e che diviene vero e proprio studio della sessualità. Il romanzo racconta l’educazione sentimentale di Anna, una ragazza che scopre la sessualità precocemente e lascia che i propri desideri divengano il filtro attraverso cui fare esperienza del mondo. Il diario di Anna si snoda attraverso una serie di relazioni in cui i rapporti di potere fra maschio e femmina si fanno tangibili, tanto squilibrati da portare il maschio a dominare inconsciamente, grazie a una serie di meccanismi mentali comuni, ma resi da Di Girolamo con l’eccezionalità che meritano. Proprio questo è uno dei punti di forza del romanzo: mettere in scena il rapporto fra uomini e donne e porre l’accento su quella serie di pratiche, sedimentatesi a livello sociale, che generano lo scompenso ambientale fra possibilità di azione di un uomo e ventaglio di risposte di una donna. La prosa dell’autore fa risaltare quanto di sociale e politico ci sia nella sfera privata, quante cose date per scontato in realtà segnalano lo squilibrio del patriarcato.

Allo stesso tempo Di Girolamo crea una psicologia complessa: in grado di racchiudere il cosmo della femminilità e restituire, senza vittimismo, un quadro della condizione della donna nella nostra società. Per riuscire nell’intento, l’autore evoca una scrittura minuziosa, figlia del modernismo, in cui il flusso di coscienza si alterna a parti dialogate. Possiamo dire che oltre a Anna, alla sua famiglia, e agli uomini che la circondano, un altro personaggio cardine è “la voce interiore di Anna”, una sorta di spia della coscienza che razionalizza le esperienze della ragazza, allertandola nei momenti di pericolo. Sembra quasi che l’autore voglia intrufolarsi nella sua stessa storia, avvicinandosi alla propria creazione in maniera più diretta. Il risultato è un romanzo che scorre velocissimo e allo stesso tempo su cui è bello ritornare, per soppesare gli eventi descritti, sviscerare i problemi dell’incontro fra uomo e donna. La sfera della sessualità è trattata con il rispetto che merita: da una parte dischiusa per permettere l’analisi, dall’altra lasciata sempre sospesa, come a voler sottolineare il mistero del privato.

Anna è un personaggio solido, un prisma attraverso cui rivedere le proprie esperienze e riflettere su elementi che non avevamo mai preso in considerazione. In un periodo in cui la questione femminile si è fatta di primaria importanza – e in cui si stanno raggiungendo grandi traguardi in merito – un libro del genere è prezioso, perché non si schiera apertamente dalla parte del conflitto, ma suggerisce una serie di fascinazioni e tematiche laterali, ben congegnate. Un universo privato che però può risultare esempio politico, una biografia che rispecchierà quella di tante, e che qui è resa magistralmente come esperienza a cui guardare. Lo sforzo di uomo nel lasciarsi dietro tutti i privilegi della propria condizione di maschio occidentale. Lo sforzo di un autore nel costruire una storia letterariamente valida, in grado di dirci qualcosa in più sulla palude del privato. Più ne scrivo, più mi convinco: leggere questo libro è doveroso.

(Alessio Di Girolamo, Quante bugie hai detto questa sera, TerraRossa edizioni, pp. 188, euro 15)
Poster di La favorita su Flanerí

Giochi di corte

Con La favorita il regista greco Yorgos Lanthimos ha allo stesso tempo normalizzato ed esasperato la sua idea di cinema. Passato alle produzioni in lingua inglese nel 2015, dopo aver attirato l’attenzione mondiale con Dogtooth Alps, in quattro anni ha tirato fuori tre film solo all’apparenza diversi tra loro. Di fondo, dietro a tutto, c’è sempre l’analisi delle dinamiche umane. The Lobster (2015) indagava il senso dell’amore. Il sacrificio del cervo sacro (2017) i rapporti familiari. La favorita torna all’amore, sentimentale o carnale, come strumento di potere.

Con una sceneggiatura affidata per la prima volta ad altri (Tony McNamara e Deborah Davis), Lanthimos si è spostato nel Regno Unito di inizio Settecento per raccontare la storia di un triangolo imperniato sulla regina Anna. L’arrivo a corte di Abigail, una nuova cameriera con passato da nobile, stravolge il disequilibrio del palazzo, con la regina fragile di nervi e corpo abituata ad affidarsi completamente all’amica Lady Sarah, dispotica e pragmatica. Abigail conquista prima Sarah, poi la regina per arrivare a occupare quello che, di fatto, è il posto più importante del reame.

Premiato a Venezia con il Gran premio della giuria e con la Coppa Volpi per l’Anna di Olivia Colman, candidato a dieci premi Oscar, come Roma di Cuarón, tra cui miglior film, miglior regia, sceneggiatura originale e tutte e tre le interpreti (Colman come protagonista, l’Abigail di Emma Stone e la Lady Sarah di Rachel Weisz non), La favorita  si propone come uno dei grandi nomi per la notte del 24 febbraio. Sarebbe stato strano immaginare un film simile – così poco hollywoodiano, così poco da grande pubblico – agli Oscar, qualche anno fa, ma la continua ricerca dell’Academy di una nuova collocazione che non scontenti nessuno rende tutto possibile. È lecito aspettarsi il premio per Olivia Colman, così come quello per la sceneggiatura. Potrebbe vincere anche Emma Stone, vera protagonista del film ma inserita nelle liste delle non protagoniste per semplice calcolo.

Il cinema di Lanthimos è un cinema straniante, distante da letture semplici e di puro intrattenimento. Rispetto alle produzioni precedenti, La favorita è però un film lineare e – quasi – canonico. Non ci sono elementi sovrannaturali, non c’è il fantastico.

Sono sempre presenti gli elementi tipici del regista greco. Il rigore formale pronto a spezzarsi in un’ironia inaspettata trova qui, nel contrasto con un ambientazione che richiama un preciso tipo di cinema, la sua massima espressione. La favorita sovverte i canoni espositivi del cinema di corte, basati su composizioni eleganti, dettagli pittorici, coreografie accurate e banchetti sontuosi, distruggendone l’immaginario standard. In un modo completamente diverso rispetto all’iconoclastia pop di Sofia Coppola in Maria Antonietta, Lanthimos sembra partire da Barry Lindon di Kubrick e I misteri del giardino di Compton House di Greenaway per sovvertire gli standard di un immaginario consolidato. La corte è un luogo angosciante e spietato, le persone che la abitano semplici opportunisti interessati solo a loro stessi.

Dietro le sembianze di un cinema più convenzionale continuano a muoversi, quindi, tutti i fantasmi che popolano i film di Lanthimos. La corte diventa metafora della società, che è a sua volta metafora della famiglia. I rapporti si reggono su una tensione violenta pronta a trasformare l’amore in odio. È soprattutto l’Abigail di Emma Stone (sempre bravissima) a incarnare lo spirito tipico di Lanthimos. La sua ambizione di riscatto non rispetta nessuno. È pronta a spazzare via tutto, a calpestare chiunque provi a mettersi in mezzo.

La favorita soffre però la mancanza della libertà totale dei film precedenti di Lanthimos. Le dinamiche di un cinema più convenzionale, per quanto rivoluzionato, finiscono per togliere la valvola di sfogo dell’irrazionale alla base The Lobster Il sacrificio del cervo sacro, per rimanere sui film in inglese. Senza una dimensione ulteriore siamo solo davanti alla crudeltà insondabile del  genere umano, disperato e solo in ogni momento.

 

(La favorita, di Yorgos Lanthimos, 2018, storico, 120’)

Copertina di "Il ritorno di Coniglio"

Tutte le luci sono spente

Sono passati dieci anni dalla prima fuga di Coniglio. Anni difficili, questi, «di sgobbo alla linotype, di indizi di debolezza, di un cedimento nell’insignificante». Sono stati gli anni d’oro dei Sessanta e il primo vero tentativo, da parte dell’America, d’imposizione nel mondo. Sono stati, a pensarla così, anni di luce dopo un lungo periodo di buio. È cambiato il mondo, dall’ultima volta che Updike ce lo aveva raccontato. Eppure l’incipit del romanzo, che contiene gli elementi essenziali che andranno poi a caratterizzarlo, è una sorta di ribaltamento di fronte che appare perfino inaspettato. Se nel primo libro Updike aveva scelto di aprire mostrando la disillusione del suo protagonista, in Il ritorno di Coniglio l’invecchiamento di Harry coincide con l’ascesa culturale degli Stati Uniti, che viene però presentata nelle sue palesi contraddizioni, attraverso un’esaltazione volutamente piena di contrasto, spesso amara o addirittura glaciale.

I progressi del proprio Paese e del mondo – il cinema di fantascienza, le navicelle spaziali, la televisione a portata di tutti – non hanno risollevato Harry, e l’hanno forse schiacciato maggiormente nell’inconsistenza della propria vita, a guardare da vicino la propria inettitudine e i propri fallimenti. Harry è ingrassato, ha perso il proprio smalto, si è piegato a un lavoro ordinario. «Sono passati ormai molti anni da quando lo chiamavano Coniglio».

Nel frattempo Janice, sua moglie, è andata via e Ma’, sua madre, si è ammalata di Parkinson. Adesso anche loro, queste altre due donne così importanti per lui, sono un’immagine da scacciare. Come già gli è accaduto, il rifiuto dell’immagine reale sfocia per Coniglio in una suggestione fantastica o in una rievocazione modificata, e ora che Ma’ è tutt’ossa e rantola le sue ultime parole, gli viene da pensarla quand’era ancora giovane come non ha mai avuto modo di conoscerla. E pensa: ha mai tradito papà? In questa domanda – che Coniglio sopprime perché non ha abbastanza confidenza con suo padre per poterglielo chiedere – Updike sottende una colpa singhiozzata che non trova espiazione, ma che ha bisogno di conforto, nell’ordine mancato del mondo. Sono tutti colpevoli, forse, o forse non è colpevole nessuno, perché non ci è ancora chiaro il Disegno, perché le ombre offuscano il Bene, che resta baluginante e indefinito.

La poetica del contrasto in Updike – questi contrasti che non sono mai schematici – risulta in questo volume ancora più evidente che in precedenza. C’è un contrasto per gli ambienti – gli interni e gli esterni, che sono quasi sempre l’intimità e lo sguardo del mondo (e di Dio?) –, uno per il tempo – prima e adesso, pace e guerra – e un altro per gli uomini – i bianchi e i neri, in una lotta che non si risolve e che probabilmente esula anche dal razzismo – ma soprattutto un contrasto ininterrotto tra luce e ombra, tra giorno e notte.

E anche le luci si sfumano, non tutte sono pure allo stesso modo («gli uomini escono dalla tipografia: pallidi, spettrali per qualche attimo, abbacinati finché la luce esterna cancella quell’espressione da continua luce artificiale che si portano dietro»). Ci sono le luci delle candele, le luci a neon sulla superstrada o nelle insegne dei motel, le luci delle finestre (e le finestre che non fanno luce) e le luci del cielo, quella pallida della luna o quella accecante del sole. Ognuna di esse ha un significato particolare e decisivo, anche quando manca. Se questa storia fosse un film, si direbbe senza sbagliare: ha una bella fotografia.

Torniamo al primo contrasto e cerchiamo di risolverlo. In Corri, Coniglio, soprattutto per quanto riguarda la prima parte, gli ambienti della scena erano perlopiù esterni e rappresentavano, nell’indefinitezza degli spazi, una via di fuga dall’oppressione – dalla limitatezza, appunto – domestica.

Dieci anni più tardi è Janice a scappare, ma la “camera” di Updike resta su Coniglio, che è ormai un impiegato e un padre di famiglia (pur con le sue negligenza), e che è quindi vincolato, o rassegnato, agli ambienti interni. L’ufficio, l’ospedale, la casa: Harry non scappa più, ma gira intorno a se stesso. Ci sono poi le finestre – e mai le porte – come il segnale di una fuga pensata e non più attuabile, il tramite per guardare un mondo che non può più essere vissuto appieno. («La sua unica finestra dà su un passaggio senza sole tra le case»). C’è naturalmente la televisione, presenza invasiva ma che comunque non distrae, e anzi diventa mezzo di rievocazione di ricordi. C’è il Cinema sullo sfondo, ci sono i continui rimandi a Kubrick e al suo 2001: Odissea nello spazio. Erano, quelli, i tempi dell’allunaggio e delle prime esplorazioni spaziali. Sembra quasi che Updike voglia suggerire al lettore una domanda: e se non ci fosse più salvezza su questo pianeta, se fosse troppo piccolo per poter scappare? Se non ci restasse altro che lo spazio, che invece è lontano e infinito?

Il secondo contrasto, quello temporale, è il più chiaro e raramente viene soltanto alluso; quasi sempre Updike lo sottolinea in modo esplicito e le visioni di Harry, nel loro vivido distacco fra l’una e l’altra, diventano quelle del lettore.

C’è poi il contrasto tra gli uomini, e quello resta il più complicato da sbrogliare. L’atteggiamento dell’autore non è fazioso né ideologico – e anzi la dialettica di Skeeter risulta spesso più convincente del patriottismo insicuro di Harry – e soprattutto non sfiora mai la retorica. La guerra, di cui si parla e non si racconta, si trova a essere, paradossalmente, l’unico luogo – e il campo di battaglia è un ambiente esterno, non a caso – in cui ogni uomo è uguale all’altro. A dirla tutta, è forse il solo luogo – e il solo momento – di piena fratellanza (Ungaretti si rivolgeva ai soldati chiamandoli proprio così: fratelli).

Ancora una volta la presenza di Dio si nota solo per contrasto – e dopotutto quello tra reale e percepito, o sentito, è solo un riflesso del contrasto tra la concretezza degli uomini e l’astrazione degli dèi. In Sua assenza, si scatenano i falsi profeti e tocca quindi agli uomini, che sono soltanto uomini, rivestire il ruolo di Dio.

I risultati non possono che essere disastrosi. Ma senza alibi. Se anche Dio non esistesse, non sarebbe una scusa valida: agli uomini tocca fare gli uomini, e farlo al meglio delle loro possibilità. «Per lui la colpa si ferma e resta nel mondo degli uomini, non ha altri posti dove andare».

Quando anche questa storia finisce, Coniglio ha perso di nuovo. Ha perso la fede («Mi sarebbe piaciuto crederci, ma sono troppo razionale».) e l’amore di suo figlio («il ragazzo ora mi odia per davvero»). Ha perso Jill, qualunque cosa fosse (l’illusione di un nuovo amore, il riflesso di una giovinezza perduta, un sostitutivo alla bambina, un bel corpo da guardare). Ma sono tutte perdite momentanee, perché la vita non l’ha persa ancora. Sono soltanto buchi da tappare, un ostacolo che si aggiunge alla via irraggiungibile della spensieratezza, un peso nell’estasi dei prossimi orgasmi. Harry e Janice si stringono tra le lenzuola dopo il sesso che non c’è stato. Come sarà il risveglio? Di quanto tempo abbiamo bisogno per arrenderci? Ci penseremo domani. È notte, adesso – e di notte possiamo reinventare il mondo. Spegniamo le luci.

 

(John Updike, Il ritorno di Coniglio, trad. di Attilio Valardi, Einaudi Stile Libero Big, 2015, pagg. 500, €22)

James Blake sa sbagliare

James Blake si è mostrato nel 2011 al pubblico mondiale come un essere alieno. La sua scrittura aveva le sembianze di un cantautorato che non appartenesse a questo mondo. Era riuscito a guardare oltre il preciso contesto storico/musicale dell’epoca, andando a scavare ai confini dell’esistenza, regalandoci un perno su cui far ruotare la musica contemporanea. Il nuovo decennio era appena iniziato e già avevamo un nuovo canone. Con James Blake, il suo primo lavoro, l’artista inglese sembrava aver captato il modo di intendere un modo di declinare il cantautorato di un momento storico futuro.

Il modo di architettare la canzone era del tutto nuovo: soul, pop, R’n’B, elettronica in un’unica formula. A questo, si univa una voce totalizzante che si muoveva con enorme grazia tra i beat, il piano sincopato e i synth. Aspetti che esistono ancora, ma con un peso  inferiore: in questi nove anni le cose sono decisamente cambiate. Assume Form è il suo ultimo lavoro, a tre anni dall’uscita di The Colour in Anything.

Ancora oggi, l’immagine di James Blake ha i contorni eterei del mito. Le sue uscite, i suoi ritorni, rendono la sua attesa un’impresa eroica: Penelope e Ulisse. E nell’hype dei suoi lavori – nella sua interpretazione – c’è molto (troppo) del James Blake di questi tempi.
Fondamentale, infatti, è vedere quanto impatto abbia la combinazione attesa/personaggio in rapporto a quello che è la sua reale produzione artistica.

James Blake è il prototipo dell’artista iper contemporaneo, e questa sospensione del tempo che precede un suo lavoro se la porta dietro in automatico. Ma dovrebbe essere una breve componente, qualcosa che a un certo punto fa spazio all’opera: un’apripista importante, non le fondamenta.

In Assume Form, la cornice catalizza le attenzioni per mancanza di vita nell’album. Ciò che rimane dell’album è il momento precedente all’uscita dell’album.

Con Assume Form, l’impressione è che la spinta vitale verso il futuro stia arrancando. Che il futuro da lui disegnato stia lentamente mutando in un presente appesantito che guarda indietro. La sorpresa prodotta nei primi due album sembra non riuscire a tenere il passo di sé stessa. James Blake dà l’impressione di non stare più al passo di James Blake. In quest’ottica, Bon Iver con 22, a Million ha fatto quello che avrebbe potuto (dovuto) fare lui.

Overgrown, il suo secondo lavoro, continuava sulla scia del precedente. Lì era ancora ben impressa l’idea monumentale che aveva mosso James Blake. Pieno di momenti di altissima scrittura, avevamo tra le mani un dittico che assurgeva l’artista inglese tra i grandi del tempo.

Già con The Colour in Anything, a dispetto dell’enorme talento profuso lungo i diciassette brani, si notava una certa flessione.

Oggi, con Assume Form, non sappiamo bene chi abbiamo di fronte. Perché quest’ultimo lavoro sembra nato in procinto di invecchiare. È privo di novità, impalpabile, la genialità è coperta da soluzioni già sperimentate – chiaramente James Blake è bravo e ci sono momenti da ricordare: la title track, che però si trasforma in una promessa non mantenuta, e l’ultima traccia, “Lullaby for My Insomniac”, una ninnananna ansiogena dove emerge tutto il suo talento.

Il lato preoccupante, però – perché scrivere un album minore non è un reato –, è che abbia voluto strizzare un po’ l’occhio a un certo mondo trap (per esempio “Mile High”, in collaborazione con Travis Scott e Metro Boomin), piegando il suono e le intenzioni a un mercato di più facile fruizione.

Che James Blake si stia trasformando in altro da ciò da ciò che è sempre stato, in un surrogato dell’artista, andando avanti promuovendo un’immagine di sé accattivante con dei contorni falsamente misteriosi, sembrando più un banale mostro commerciale che a un’artista (almeno nelle sue più intime convinzioni) ancora non si può dire. Ciò che si può dire è che Assume Form è il primo passo falso della sua carriera.