Cover “L’uomo che trema” di Andrea Pomella

Essere da soli,
essere con gli altri

Il 6 settembre del 2017 Andrea Pomella esce con un pezzo piuttosto lungo sulla rivista culturale Doppiozero. Il titolo, Storia della mia depressione, è lo stesso del primo capitolo di L’uomo che trema (Einaudi, 2018). Diventato virale dopo la messa in rete, quell’articolo si era ingrandito fino ad assumere le proporzioni di un memoir autobiografico. Storia della mia depressione, però, se a ragione poteva essere il titolo del pezzo su rivista, con più fatica riusciva a racchiudere la sostanza di un libro che era ormai arrivato a trattare una quantità enorme ed eterogenea di temi. L’uomo che trema non racconta la depressione, ma la attraversa per interrogarsi sul senso e sul non senso della vita.  

La trama: un uomo di quarant’anni decide di lasciare traccia del suo percorso di autoanalisi in seguito a un brutto episodio di crisi depressiva (trattandosi di un memoir, fatti e persone sono dichiaratamente reali). La compagna lo convince a rivolgersi a uno psichiatra. Tra i vari personaggi che animano la sua quotidianità, ecco dunque comparire un inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina, un ansiolitico e un ipnotico simil-benzodiazepinico. Sarà tra le macerie della «guerra chimica» che avviene nel suo organismo che Pomella inserirà, a poco a poco, l’episodio più significativo della sua vita, ossia la separazione senza rimedio dal padre dopo il divorzio dei suoi genitori. «Sono passati quasi quarant’anni dall’ultima volta che ho visto mio padre» è un motivo sufficiente per sospettare che la causa della sua depressione sia da ricercare nei dintorni di quel trauma. Quello che è evidente per alcuni, però, non lo è per altri e il percorso che porterà l’autore a rendersi conto di questo è parte di un viaggio faticoso dentro e fuori di sé.

Lo stile: una serie di parole colpisce durante la lettura dei primi capitoli: “oggettività”, “obiettività”, “logico”, “razionale”. Pomella introduce la sua storia personale con una nettezza e una precisione tipiche del linguaggio scientifico. Le questioni che apre e le conclusioni a cui arriva dopo lunghi giri di argomentazioni sono logicamente inattaccabili e, per questo, parti del discorso di una sofferenza senza dolore emotivo. La depressione induce, infatti, a una disposizione d’animo «bianca», cioè a una condizione di visione dall’alto della propria esperienza che svuota di senso tutte le cose, che esclude il piano connotativo della vita offrendo, chiara, la visione dei contorni del mondo. Per questo “relazioni” è la parola che scardina la sequenza: le richieste di aiuto durante le fasi più intense dei suoi attacchi (la depressione scatena panico, ansia, fobie sociali) si manifestano con un linguaggio che rinuncia ai tecnicismi da manuale di fisiologia e diventa figurato. «Ho il casco», «ho il nano» per dire “ho quello strano cerchio alla testa”, “ho quella sensazione come se avessi un piccolo essere dentro di me che non mi lascia respirare” sono l’altra faccia dei tentativi con cui Pomella gestisce e dà senso alle sfumature della sua depressione, liberandosi dallo sforzo opprimente di argomentare il mondo, più che nominarlo. Questa opposizione tra linguaggio logico/razionale e linguaggio figurato caratterizza tutta la vicenda e assume di volta in volta forme diverse: opposizione tra argomentazione e intuizione, tra realismo e magia, esattezza e imperfezione, solitudine e relazione. È la cifra stilistica di un uomo con due anime, una scissione linguistica che ci comunica questo: sono gli altri che ci salvano, perché è arricchendo il nostro sguardo col loro che il mondo ridiventa opaco, nebbioso, quindi abitabile.

L’uomo che trema non è un libro angosciante, nonostante il tema possa suggerirlo. Tutt’altro. È la storia di un uomo che ha accolto il proprio tremore per intraprendere un percorso di liberazione. Non è un percorso semplice e Pomella fa di tutto per restituirne la fatica delle speranze disattese e dei fallimenti. Noi che leggiamo attraversiamo la sua storia personale in punta di piedi, facciamo il tifo sussurrando frasi di incoraggiamento, riattiviamo, pagina dopo pagina, quel rapporto sacro e virtuoso tra l’autore e il suo pubblico fedele.

 

(Andrea Pomella, L’uomo che trema, Einaudi, 2018, pp. 216, euro 18,50)

La Resistenza e un futuro da cui fuggire

La paga del sabato ha rischiato di non venire mai alla luce. È il 1950 e Beppe Fenoglio ha ventotto anni, quando sottopone il manoscritto a Einaudi che lo affida alle cure di Italo Calvino. Lo scrittore invia una lettera a Fenoglio nella quale recensisce il romanzo giudicandolo talvolta «trascurato nel linguaggio» ma anche capace di «centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che mi sembra davvero rara». Sebbene Calvino descriva La paga del sabato elencandone i tanti pregi sommati ad alcuni difetti, Fenoglio interpreta il giudizio finale come una bocciatura e rimette il romanzo nel cassetto.

Dovranno passare diciannove anni prima che a queste pagine venga accordato l’onore della pubblicazione, ma purtroppo – come per Il partigiano Johnny – Fenoglio non è vissuto abbastanza da sfogliare questo libro fatto e finito. Un romanzo che in poco più di cento pagine condensa tutti i temi che troviamo nei testi più maturi dell’autore: insoddisfazione, amore, libertà, disillusione e, ovviamente, la guerra partigiana.

La paga del sabato vede come protagonista Ettore, un giovane che ha preso parte alla Resistenza e che ora deve reinserirsi nella società civile. Incapace di rassegnarsi alla monotonia di un lavoro modesto, s’impegna in attività criminose associandosi con Bianco, anch’egli ex-partigiano. Quando decide di abbandonare gli affari per sposare Vanda e mettersi regolarmente in proprio, andrà in contro a un destino tragico.

Si tratta di un romanzo neorealista che contiene tutti gli elementi tipici della corrente postbellica (l’ambientazione paesana, la Resistenza, la realtà piemontese veicolata attraverso un peculiare utilizzo del linguaggio) che Fenoglio arricchisce con una parte legata all’interiorità del personaggio principale e alle sue relazioni con chi lo circonda. Ettore sembra non sapere cosa sia l’amore se slegato dalle briglie della violenza. I due rapporti umani più profondi e significativi sono quello con la madre e quello con Vanda, la donna di cui è innamorato. Nel primo caso, madre e figlio si scontrano continuamente sui problemi della vita quotidiana, lei vorrebbe vederlo lavorare e dare una mano in casa, lui sembra indignarsi di fronte alla venalità della donna, e si sente incompreso nel suo stato di ex-partigiano ora costretto rassegnarsi a una vita civile. Ogni dialogo che i due hanno è uno scontro, che però termina con una dimostrazione d’affetto da parte di Ettore talmente intensa da sfiorare i confini con la violenza: «Ettore corse addosso a sua madre, la prese per le spalle, nascose la faccia nei suoi capelli vecchi, lei lottava e puntava le ginocchia, gridava».

Il protagonista sembra incapace di mostrare affetto in altro modo: anche il rapporto con Vanda mette in scena momenti di dolcezza profonda e violenza incontrollabile: «Non riuscivano a staccar le mani, si facevano male per non lasciarsi andare, poi si staccarono con una specie di strappo, se ne andarono oppostamente».

Questo amore violento potrebbe essere visto come il risvolto più intimo della Resistenza. Ettore, così come Fenoglio, è stato partigiano, ha quindi scelto di combattere volontariamente per un ideale. In una visione romantica, forse addirittura naïve, delle vicende partigiane, diremmo che Ettore è andato in guerra per amore di un’idea, collegando questo sentimento in maniera molto profonda alla violenza che, di fatto, costituisce la natura di ogni battaglia.

Ma il macro-tema della Resistenza introduce anche quello della libertà che in Fenoglio si manifesta come valore assoluto e che il protagonista ricerca strenuamente nei vari ambiti della sua vita. In primo luogo, Ettore non accetta di rassegnarsi a un qualunque lavoro dipendente: «Mi facevano portare il calcestruzzo dalla betoniera a dove faceva di bisogno, […] io da partigiano comandavo venti uomini, e quello non era un lavoro da me». Adotta anche una visione estremamente critica verso chi si sottomette alle regole della fabbrica, ed è nel frangente in cui Ettore osserva i lavoratori varcare il cancello dell’impresa che Fenoglio ci dona una delle più belle pagine di questo libro, in cui la voce dello scrittore emerge in tutta la sua misurata grandezza: «Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno […] e alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese, e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata». Se Ettore decide di impegnarsi nelle attività criminose che gestisce Bianco è solo perché in questo modo può lavorare dominando il prossimo e mantenendo allo stesso tempo il controllo su se stesso. È come se Ettore dovesse sempre sentirsi la vita in pugno. Questo lo rende in definitiva un libro sulla libertà. Libertà di dominare il destino, libertà di amare secondo il proprio istinto, libertà di combattere per ciò in cui si crede.

Beppe Fenoglio scrive questo libro mentre è impiegato come corrispondente per l’estero di un’azienda vinicola di Alba. Alcune pagine del manoscritto sono redatte sulla carta intestata dell’azienda. È impossibile non pensare che Fenoglio scrivesse per fuggire a un destino di lavoratore dipendente che percepiva come imposto dalla società per cui aveva combattuto. Quando Beppe scrive delle avventure di Ettore è come se permettesse a se stesso di vivere una seconda vita nella quale tutte le decisioni che prende il protagonista sono all’insegna della valorizzazione dell’Io. Un po’ come vorremmo fare tutti, quando sentiamo che le situazioni in cui ci troviamo proprio non ci appartengono. E allora Fenoglio scrive, scrive un romanzo amaro ma liberatorio, che ha rischiato di non venire alla luce, ma che per fortuna possiamo sfogliare ogni qualvolta ci sentiamo in prigione.

(Beppe Fenoglio, La paga del sabato, Einaudi, 1969)
poster italiano di Suspiria su Flanerí

Oltre l’orrore, verso l’arte

Nella sua recensione per il New Yorker, Richard Brody non usa parole lievi per Suspiria, il remake filmato Luca Guadagnino del cult di Dario Argento del 1977. Sono due i commenti che lasciano il segno, tra i tanti. Il primo, che è diventato anche il titolo dell’articolo, riconosce al film «la stessa sostanza politica di una maglietta del Che fatta da un marchio di moda». Il secondo liquida i tentativi di uscire dal puro genere verso più ampi territori cinematografici come «superficialità da Wikipedia».

Il commento del New Yorker è solo uno dei tanti esempi dell’accoglienza senz’altro particolare che la stampa mondiale, e il pubblico, hanno riservato e stanno riservando al Suspiria di Guadagnino. Accolto tra gli applausi a Venezia, il film sembrava destinato a un consenso collettivo. Invece, prevale la perplessità, se non addirittura il fastidio. Con Guadagnino le cose vanno così, spesso. Era già successo con A Bigger Splash, ma sembrava che il successo di Chiamami col tuo nome avesse ormai consegnato il regista a un livello superiore di considerazione.

È chiaro che quando si vanno a scomodare dei film oggetti di culto ci si espone alla furia degli appassionati. Suspiria, l’originale di Dario Argento, ha fatto la storia del cinema per l’incredibile uso di luce e colori messo a punto con il direttore della fotografia Luciano Tovoli. Un capolavoro visivo, destinato a influenzare vari strati dell’immaginario pop negli anni a seguire. È stato lo stesso Argento a cedere i diritti per il remake dieci anni fa (insieme a quelli di un altro pilastro della sua filmografia, L’uccello dalle piume di cristallo). I produttori ci hanno pensato a lungo prima di trovare un progetto adeguato per rilanciare il mito. Si era parlato di David Gordon Green alla regia (ha diretto Strafumati Lo spaventapassere, ma anche l’ultima versione di Halloween) e poi di una serie tv. Si è arrivati, alla fine, a Guadagnino, un regista il cui stile e la cui estetica sono chiari e distanti dal modello di Argento.

Del film originale sono rimaste le premesse e poco altro. Non siamo più a Friburgo ma nella Berlino divisa del 1977. La giovane ballerina Susie Bannion arriva dagli Stati Uniti rurali per un provino con la compagnia di ballo Markos. Il suo talento emerge in fretta e colpisce l’attenzione della coreografa Madame Blanc. Susie diventa la protagonista dello spettacolo che stanno preparando e, soprattutto, l’oggetto dell’attenzione di tutte le insegnanti, streghe che cercano di mantenere in vita la fondatrice della scuola, Helena Markos, attraverso il corpo di giovani ballerine. Intorno alla scuola di danza si muove uno psicanalista, il dottor Josef Klemperer, che ha in cura una allieva sparita misteriosamente.

Guadagnino e lo sceneggiatore David Kajganich hanno allungato, spostato, approfondito e trasformato il film originale. Dai 98 minuti di Argento siamo arrivati ai 152 di questa nuova versione. Dalla realtà chiusa intorno alla scuola siamo arrivati a un mondo in pieno tormento di tensioni violente. Sullo sfondo della Berlino divisa scorre il terrorismo della banda Baader-Meinhof, il dirottamento del volo Lufthansa LH181 da parte di un commando palestinese, i ricordi della seconda guerra mondiale e della Shoah.

Sembra quasi che gli autori di questo Suspiria abbiano cercato di portarsi il più lontano possibile dall’originale, di andare in altre direzioni, tutte le altre direzioni possibili per evitare il confronto o i riferimenti troppo diretti. Del resto, Argento stesso dopo averlo visto ha riconosciuto che la versione di Guadagnino prende solo un vago spunto dal suo film. Niente di più. E allora che senso ha concentrare le analisi su un confronto? Qual è il senso di liquidare questo Suspiria 2018 come la versione consumistica e glamour della rivoluzione? Non è chiaro.

Il film di Guadagnino merita tutta la considerazione di una visione non influenzata da confronti. E questo Suspiria è un’opera complessa, strutturata, visivamente affascinante, sicuramente carica di ambizione. I riferimenti alla Storia servono a collocare la vicenda all’interno di una riflessione più ampia sul senso del Male che va ben oltre i confini del genere horror. Per questo, probabilmente, ha deluso un’ampia parte degli spettatori, ma aspettarsi da un regista di questo tipo il semplice film dell’orrore, con tutto il rispetto per il genere, era una follia.

Guadagnino ha messo in chiaro nelle immagini il senso di questa nuova versione (molto interessante, in questo senso, l’analisi di Adriano Ercolani su minima & moralia). L’ampio spazio riservato alla psicanalisi e al dottor Klemperer serve a esplicitare il significato profondo della ricerca di figure materne, non solo di Susie, ma di tutti i personaggi coinvolti. La stessa ambiguità fisica di Klemperer, interpretato da Tilda Swinton straordinaria nei suoi tre diversi ruoli ( gli altri sono Blanc e Markos), conferisce ulteriore valore alla ricerca di sicurezza nella figura dell’analista, oltre al transfert che viene suggerito da uno dei libri che si vede nel suo studio, esattamente La psicologia del transfert di Jung.

Due archetipi fondamentali come il Male e la Madre fanno da fondamenta a un film che si nutre di simboli e di spinte intellettuali, in cui ogni elemento concorre alla costruzione di una riflessione che richiede una visione attenta, possibilmente ripetuta, per essere compresa. Freddo , rigoroso e sontuoso nella sua messa in scena, Suspiria si scatena nella danza, veicolo di violenza e trasformazione alimentato dalla colonna sonora incredibile di Thom Yorke, così profondamente collegata alle immagini da diventare un elemento della regia prima ancora che della visione.

Il Suspiria di Dario Argento è stato un film fondamentale. Guadagnino ha avuto l’ambizione di fare un’opera d’arte.

(Suspiria, di Luca Guadagnino, 2018, horror, 152’)

 

copertina di “L’idiota” di Elif Batuman

Tra romanzo e personal essay, sulle tracce della giovinezza

È difficile rendere onore a questo libro, così come è difficile prendere sul serio chi non l’ha apprezzato. E questo non perché non sia costruttivo e affascinante prendere in esame punti di vista differenti dal proprio, ma perché L’idiota di Elif Batuman (Einaudi, 2018), primo romanzo della scrittrice americana di origine turca, è molto più di un caso, è il libro, splendidamente scritto, in cui chiunque frequenti a un livello profondo il mondo delle lettere – per motivi di studio, professionali o di evasione presa nell’accezione più alta del termine – aspettava da tempo di imbattersi, come in un’isola felice dopo un lungo e alterno navigare.

Una prosa elegante, cesellata e mai incline al superfluo, attraverso cui traspare l’intelligenza dell’autrice, racconta in prima persona la storia di Selin, alter ego di Batuman, come lei di origine turca, alle prese con il primo anno di università ad Harvard. È il 1995. Selin si aggira tra coinquiline strampalate, corsi di linguistica, letteratura russa e arte tenuti da professori più simili a mitologiche chimere che a insegnanti istituzionali, e compagni di studi dalle variegate esitenze.

Ragazza colta, osservatrice e perennemente pronta a domandarsi il perché delle cose, si approccia con il primo nascere delle e-mail e del World Wild Web: una forma nuova di comunicare, l’e-mail, che le permetterà di intessere una tormentata relazione epistolare con Ivan, brillante studente di matematica di origini ungheresi per il quale Selin prova un trasporto che trascende l’infatuazione, giungendo a toccare punti profondi e sommersi in libera associazione, dal significato dell’esistenza, a quello del libero arbitrio, sino a un discorso metalinguistico che investe la validità del linguaggio e la sua declinazione nelle differenti lingue esistenti.

La riflessione sulla lingua e sulle parole, su alcuni lemmi e sulla loro origine culturale, è una delle cose più sorprendenti del libro: un’attenzione costante ai fondamenti delle relazioni umane, della prima relazione su tutte, quella che collega una cosa al modo in cui si cerca di descriverla, attraverso il linguaggio appunto. Elif Batuman per bocca di Selin cita nomi cari e luoghi cari, evoca la semiotica, i formalisti russi, i dipartimenti polverosi e sconclusionati, mette sulla pagina lo studio quello vero, uno studio che tende a scardinare la contingenza e diventa interrogazione costante, rovello interiore, caldo nodo di affinità oppure di scontro.

Tutto quel che Selin vede e sente sembra surreale: il corso di arte e design “mondi costruiti” per esempio, in cui l’esame consiste nel portare un progetto che rappresenti un sistema autosufficiente – lei risolverà la questione scrivendo un racconto, ça va sans dire – oppure il corso di lingua russa, nel quale per esercitarsi gli studenti leggono e mettono in scena un testo didattico creato ad hoc, dal titolo Nina in Siberia, che per assurdo è una sorta di specchio spaventosamente preciso di ciò che sta accadendo a Selin nella vita vera.

Lei si muove ed esplora, continuando a domandarsi qualsiasi cosa. Ci sono i Nirvana e le metropolitane, il New Jersey ma anche Parigi, camere condivise con ragazze particolarissime, che smontano e costruiscono radio oppure passano ore a resocontare dialoghi col proprio analista, c’è la collettività e c’è molta solitudine, ci sono chili di letture di saggi, giornali, studi critici e testi di matematica, e sopra a tutto c’è la letteratura russa, grande passione dell’autrice. Ci sono inverni e primavere, scambi di battute che si avvicinano al senso senza mai raggiungerlo, e tutto un universo di madri, zie, sorelle che telefonano da cabine telefoniche poste in punti imprecisati di una geografia che non è contorno, ma vero e proprio contesto socioculturale, elemento fondativo.

Tutta la seconda parte del libro situata in Ungheria, dove Selin accetta di trascorrere l’estate insegnando l’inglese e “cultura americana” ai ragazzi delle campagne per amor di Ivan, e la parentesi conclusiva tra Istanbul e Ankara, coloratissima, struggente, rappresentano se possibile un’elevazione a potenza del clima di stralunatezza del romanzo, così come il cammeo parigino ne è un po’ il cuore emotivo.

La scrittura che informa, tocca, smonta e rimonta i pezzi del reale, sempre sorvegliata, sempre raffinata e chiara, crea un orizzonte immobile in cui tutto sta sospeso in una specie di eterno presente, le cose succedono e non succedono, si stratificano senza finire, quasi che i nessi temporali o di causa-effetto fossero, in fondo, superflui.

Questo pantano dorato, eternamente fluttuante nell’aria, fatto di nomi propri, di errori, di pensieri, di vestiti indossati e voci ascoltate, questo riecheggiare lontano come il mormorio di una fontana invisibile, cercata e mai più trovata, è la giovinezza, un tempo meravigliosamente imperfetto a cui Batuman è riuscita a dedicare un grande tributo.

 

(Elif Batuman, L’idiota, trad. di Martina Testa, Einaudi, 2018, pp. 432, euro 21)

L’eredità dei Goblin in Suspiria di Thom Yorke

Parlare della colonna sonora di un film senza sapere come i pezzi e le orchestrazioni si sarebbero andati a incastrare tra le immagini è un lavoro fattibile, ma fondamentalmente inutile. Per cui, cercare di capire cos’abbia fatto Thom Yorke con Suspiria per l’ultimo film di Luca Guadagnino necessitava del supporto visivo. La valutazione era parziale e non poteva andare al centro della questione – nonostante, comunque, già si capisse che era stata presa un’altra direzione rispetto all’originale. Ribadirlo è tanto retorico quanto fondamentale, perché l’opera si sarebbe offuscata nel ricordo del 2018 e non avrebbe potuto vivere per quello che è: la colonna sonora di un film. Soprattutto perché parliamo di uno degli autori pop/rock più importanti degli ultimi trent’anni che si cimentava per la prima in un mestiere tanto simile al suo quanto completamente dissimile, con l’opera di uno dei registi italiani fondamentali di oggi – nonostante dalle nostre parti venga messo ancora un po’ ai margini e nonostante sia, a detta dello stesso Dario Argento, uno dei registi europei più importanti.

Relazionarsi con un film cult del genere è complesso, perché  parliamo della storia della cinematografia, ma forse ancor di più di quella delle colonne sonore; quel Suspiria di Dario Argento che ha segnato, a fine anni settanta, un genere e la colonna sonora dei Goblin, che è riuscita a rimanere impressa e a vivere di vita propria anche al di fuori del film. Quindi, in maniera intelligente, Guadagnino ha convinto e coinvolto Thom Yorke  (il quale, inizialmente, aveva declinato l’offerta della scrittura di Suspiria) in questo lavoro, cercando di distaccarsi il più possibile dall’opera originale. Riuscendo nell’impresa di rendere il Suspiria di Argento un pretesto per parlare d’altro.  La colonna sonora, quindi, non avrebbe potuto che essere anch’essa altro da quello che è stato, anche perché pensare di andare  a percorrere la strada battuta dai Goblin avrebbe avuto la forma  di un suicidio; ma il punto non è andare a toccare un mostro sacro.  Il punto è la necessaria differenza che deve esistere tra i due lavori in ottica di quelle che sono le esigenze strutturali dei due film.

La melodia di “Suspiria”, per esempio, ancora oggi, è l’incarnazione del suono che si fa orrore: quel carillon ansiogeno doveva disturbare, doveva far paura, doveva metterci di fronte all’idea della paura irrazionale, doveva rendere la scuola di ballo l’inferno. E questo riusciva a fare. Nel film di Guadagnino, per la sua natura diametralmente opposta, questo non serve, perché tutto si sposta su un discorso più cerebrale. Thom Yorke non scrive nulla di così estremo, perché il film non ne ha bisogno – le letture molteplici del film di Guadagnino non hanno bisogno di un impatto alla Goblin. Quindi, a dispetto di tutto, un brano pop al piano, lo splendido valzer di “Suspirium”, è ciò che va a integrarsi meglio con i risvolti psicologici (ma anche sociali) di Guadagnino.

Brani come “Watch”, “Opening To The Sight” o “Sighs”, che nascono per inquietare, per andare a colpire in maniera diretta quella parte del cervello dove vive la paura, mancano completamente. Ci sono alcune suggestioni ( “Volk”, che  è quella che potrebbe rientrare maggiormente  in un discorso gobliniano), ma Thom Yorke decide – necessariamente – di dare un altro taglio. Il canto di “Sabbath Incantation”, che sembra adatto anche a un certo tipo di film di Sorrentino, non potrebbe mai esistere nella testa di Dario Argento.

La stessa “The Hooks”, probabilmente il pezzo più inquietante del Suspiria di Yorke,  è una paura meno viscerale, meno mostruosa, come attutita della ragione.

Senza l’aiuto delle immagini, a svettare nell’opera di Thom Yorke (e non sarebbe potuto non essere così), sono i brani dalla forma canzone: “Suspirium”, “Has Ended”, “Open Again”, “Unmade”. Questi quattro brani comporrebbero un Ep degno (molto più che degno) della produzione di Yorke e, per estensione, dei Radiohead – diversi sono i rimandi al periodo Kid A/Amnesiac, soprattutto le b-sides, da “Kinetic” a “Fog”. Nella sua completezza, invece, anche il resto dei brani assumono la funzione di collante, necessario per amalgamare la laboriosità del tutto.

L’opera dei Goblin, invece, esiste per quello che è anche da sola. L’impressione è che negli anni, ma forse già dal principio, la forza dei brani scritti dai Goblin  sia riuscita a scardinare il rapporto diretto film/musica  e a dargli la possibilità di poter esistere anche in autonomia.

Ma è proprio la natura dei due artisti (e l’esperienza nel campo) a emergere in quanto manifestazione sonora dei due film: tanto è martellante e labirintica quella dei Goblin, quanto è sospesa ed estatica quella di Thom Yorke (dove ritroviamo una ritmica ossessiva solo in “Has Ended”, ma declinata al pop e non al prog).

Da un punto di vista formale, non ci sono punti in comune.  Thom Yorke si appoggia vagamente, ma ne fa altro. Per quanto riguarda l’aver compreso come i propri registi avrebbero mutato le immagini in suono, ci siamo. Thom Yorke ha compreso come fare quello che i Goblin hanno fatto per Argento senza fare i Goblin.

Copertina di Chilografia

L’obesità come bussola narrativa

La particolarità di Effequ, casa editrice toscana di grande esperienza, è pubblicare opere dall’identità forte. Lo abbiamo visto con la saggistica: La guerra dei meme è un longseller dall’argomento unico in Italia, e adesso la casa editrice ci riprova con Nerdopoli, miscellanea che indaga la cultura nerd con acume. Lo abbiamo visto anche nella narrativa: Odi – Quindici declinazioni di un sentimento è una raccolta di voci emergenti. Il nuovo titolo di Effequ si chiama Chilografia,e porta la firma di Domitilla Pirro. La scrittrice, benché all’esordio, non è alla prime armi: la Pirro infatti ha già collaborato in vari campi con la Scuola Holden.

La scrittura dell’autrice non tradisce perché può contare su una trama ben congegnata e ricca di colpi di scena, nonché su una scrittura muscolare in continua mutazione. Chilografia narra la storia di Palla, una ragazza chiamata così sin da piccola per il peso: la sua vita si snoda attraverso le peripezie di una famiglia disfunzionale che raggruppa una madre fedifraga, un padre assente, una sorella rivale. Da questo contesto la protagonista cerca di estraniarsi buttandosi sui giochi di ruolo, la realtà virtuale diviene per lei una seconda vita, un mondo parallelo che sa di rinascita e in cui trova addirittura l’amore.

Domitilla Pirro organizza la storia in tre movimenti: se la prima parte è dedicata alla famiglia, la seconda racconta la vita virtuale di Palla, mentre la terza si inabissa nei marosi della storia travagliata fra la ragazza e Angelo, il suo compagno. La trama non risparmia colpi di scena e cambi di prospettiva inaspettati: grazie a una narrazione interessante l’autrice riesce a incollare il lettore alla pagina, una riga dietro l’altra.

La prosa è infatti un punto di forza di questo lavoro, poiché non risparmia preziosismi, discorsi liberi indiretti che inglobano termini dialettali, un florilegio di gergalismi inquadrati nel periodare complesso. Spesso si hanno in odio le scuole di scrittura creativa, perché si pensa che formino eserciti di scrittori-cloni. In parte è vero, spesso la scrittura che viene insegnata in queste scuole è monotona o al contrario iper-emotiva, ma nel caso della Pirro troviamo un’eccezione: qui la nozione di preziosismo è resa al suo meglio, i dispositivi narrativi evocati non sono mai gratuiti, e riescono nell’intento di dare smalto a una storia a tratti cupa e scabrosa.

L’incedere ironico della Pirro non risparmia momenti di dura rivelazione, la progressiva obesità della protagonista è narrata come una corsa verso il baratro. D’altronde il peso di Palla è il vero leitmotiv del romanzo, non solo i capitoli presentano una numerazione particolare – riportano infatti il chili della protagonista al momento della scena – ma anche a chiusura di ogni episodio è disegnata una bilancia che ricorda il peso di Palla. Seguiamo dunque la ragazza sin dal momento del concepimento, e la vediamo crescere fra piccoli traumi e grandi incognite, ci scontriamo con il suo peso sempre crescente, che a un certo punto si fa rilevante, tanto da suscitare le prime canzonature dei compagni di scuola. Da questo momento la stazza diviene, da problema privato, fatto sociale: la Pirro indaga l’intersezione fra una protagonista particolare e il mondo intorno a lei che non l’accetta. Forse è proprio per questo che Palla fugge nel virtuale, e poi ancora in una relazione costruita su dinamica di potere stravolte.

Domitilla Pirro tratteggia una protagonista dalle molteplici sfumature che attraversa una storia ricca di difficoltà, ma proprio per questo interessante. La vita di Palla è quasi una metafora della dialettica fra debolezza e solitudine: da una parte c’è un’anima chiusa in se stessa, murata dietro un corpo enorme, dall’altra c’è la volontà di interagire con l’altro: con i familiari che in un modo nell’altro la allontanano, con un uomo che non la ama veramente. In questo spazio privato ritroviamo molto dei problemi sociali che ci affliggono, uno sconfinamento che l’autrice riesce a rendere bene, senza che la morale venga inculcata con metodi farraginosi. Salutiamo dunque un romanzo ben costruito, in cui ogni pagina ci suggerisce, a livello tematico e narrativo, un piccolo spunto su cui soffermarci.

 

(Domitilla Pirro, Chilografia, Effequ, 2018, pp. 208, euro 15)

Casa è una somma di mezze speranze

In un pomeriggio afoso d’ottobre Elif e Hasan camminano sugli scogli di Bostanci. Hanno quindici e diciassette anni, sono cupi, contrariati, vedono il quartiere capitolare «davanti all’odore dell’uniforme, della plastica, del metallo e degli insulti»: è la fine del 1980, un colpo di stato – il terzo in vent’anni – costringe nelle carceri e nelle corti marziali centinaia di migliaia di turchi. «A quei tempi – dirà Elif – tutto si strappava molto in fretta».

A partire da quel pomeriggio, La casa sul Bosforo (romanzo di Pinar Selek, Fandango Libri, 2018) affida a quattro adolescenti inquieti e al quartiere di Yedikule il racconto di vent’anni di storia di Istanbul e della Turchia. Molte le chiavi di lettura possibili: la tensione individuale e collettiva verso la libertà e la giustizia, l’approccio femminile alla politica e alla costruzione di comunità, la resistenza della diversità culturale e privata.

Ho scelto di leggerlo come un romanzo sugli strappi, seguendo i suggerimenti della giovane Elif e dell’autrice del romanzo, Pinar Selek, sociologa e attivista turca che ha trascorso più di due anni in carcere e altri undici nei tribunali; ha subito torture ed è stata accusata di complicità con il Pkk e di terrorismo. Condannata all’ergastolo, vive in esilio in Francia dal 2009, e se nel romanzo ha affidato alle parole del poeta Konstantinos Kavafis il dolore di un suo personaggio, l’armeno Rafi («Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. Ti verrà dietro la città»), ha invece così descritto il suo ad Alessandra Pigliaru, su “il manifesto”: «Quando ho intrapreso la strada per l’esilio, Istanbul mi ha seguita. Non come un bagaglio, bensì sanguinando dentro di me. Per bloccare l’emorragia, mi sono dovuta fermare. Prima di rivolgermi ai nuovi luoghi, ho toccato ciò che stava soffrendo. Mi sono presa cura dello strappo e scrivendo l’ho ricucito con questo romanzo».

Ricucire, riparare, ricostruire, resistere. Ognuno a suo modo, per ognuno il giusto strumento. Per Elif la rivoluzione, per Sema la tempesta, per Hasan la melodia, per Salih il sacrificio. E ancora, per Jemal le radici, per Handé il coltello, per Guljan l’ago e il filo, per Artin il legno, per Belguin le profezie, per Kemal il segreto: come Pinar Selek, i personaggi che affollano La casa sul Bosforo non fanno altro che ricucire strappi – personali, privati, ma anche pubblici, politici, naturali.

Strappo è un terremoto, strappo è un colpo di stato. Strappo è l’assenza dei padri, è la povertà, è la prigione, è essere curdi o armeni, è essere greci e subire persecuzioni a Istanbul o essere turchi e convivere con la vergogna di non aver reagito.

Ma ricucire strappi non è una passeggiata. Gli abitanti di Yedikule non ridono poi molto, vivono con rimpianto il passato e con timore il futuro – e più generalmente il tempo, una «strana cosa» cui nulla resiste. Hanno fatto o subito errori, sono partiti o tornati al momento sbagliato, non hanno amato quando potevano o non hanno potuto quando volevano.

Non è mai la speranza a buttarli giù dal letto: come si ripete spesso nel romanzo, ciò che resta è «una mezza speranza», e al rivoluzionario che si rimette in cammino per cercare la propria via viene detto che «per chi è morto non c’è più niente da fare ormai, ma tu cerca di non morire», provaci.

L’unica leggerezza, l’unico desiderio di resistere agli strappi e di ricostruire, l’unica – in ultima istanza – salvezza viene dalla comunità. Yedikule, hanno tutti ben presente, e più di tutti forse la stessa Selek, è più forte della somma delle solitudini che la abitano. Così, chi parte torna e se riparte non lo fa da solo, chi vive solo apre la sua casa, chi non ha figli ne adotta, chi non ha padri ne sceglie di nuovi. “Esserci” è l’imperativo, la condizione necessaria perché una mezza speranza trovi sostegno in un’altra metà, e in un’altra ancora.

«Sai cosa ho pensato ieri sera?», confessa Hasan a Elif, in un pomeriggio afoso dell’ottobre del 1980, mentre il loro mondo cede all’insulto: «Forse stiamo vivendo una leggenda. I grandi sentimenti danno vita a grandi leggende. Ecco forse qual è il nostro destino».

Non sanno ancora che la loro leggenda racconterà di aghi e fucili, di fughe e ritorni, di un orto lontano e di una casa sul Bosforo che darà pareti e soffitti e calore a un’idea – leggendaria sì – di comunità, di convivenza e di resistenza agli strappi e al tempo. «Questo luogo è sacro!» si dirà allora, «La casa sul Bosforo vivrà più di cent’anni!».

 

 

(Pinar Selek, La casa sul Bosforo, traduzione di A. Tosatti – C. Diez, Fandango Libri, 2018, 314 pp. € 20.00)
poster di Baby, serie netflix

Perché “Baby” è meglio di come è stata descritta

Di Baby, la seconda serie italiana prodotta da Netflix e disponibile sulla piattaforma il 30 novembre, si è già detto molto. Ha diviso in fazioni, scatenato discussioni, e ha anche riacceso il sempreverde spirito di autodistruzione all’italiana per il quale tutto ciò che è fatto in Italia è automaticamente da buttare – piuttosto diffuso tra gli appassionati di serie tv – mentre opere di livello decisamente più basso vengono descritte come geniali, o come capolavori, solo perché prodotte in America. 

Non che Baby sia un capolavoro.

Soffre di due errori di base che la sviliscono in modo inutile e la espongono – purtroppo a ragione – alle critiche dei peggiori americanofili. Da una parte è ambientata «nel quartiere più bello di Roma», i Parioli, ma i ragazzi frequentano un liceo, il Collodi, che salta all’occhio subito per il suo aspetto da liceo americano, con tanto di divise blu, corridoio con gli armadietti e grandi campi sportivi. Eppure le nostre scuole per ricchi non sono mai state così: ci sono i licei statali storici, frequentati da un certo tipo di borghesia, spesso politicamente orientati; e ci sono le scuole paritarie – le scuole delle suore – che grandi traumi hanno inflitto ai borghesi di tutta Italia. E poi ci sono le scuole americane, d’accordo: ma il Collodi di americano ha solo l’abito, e la sensazione di scimmiottamento è inevitabile.
Quanto diverso sarebbe stata la storia di Baby, se gli stessi personaggi fossero stati inseriti in un contesto più reale? E quanto ci avrebbe però guadagnato in serietà e coerenza? 

Dall’altra, è ridicolo anche collocare l’outsider della storia, Damiano, ragazzo del Quarticciolo trapiantato ai Parioli dopo la morte della madre, a vivere con il padre diplomatico, fino a quel momento inesistente, all’interno di un’ambasciata. Ha qualcosa di falso, di incoerente rispetto alla realtà ma anche a tutti i personaggi in causa – una scelta di comodo che consente agli autori di produrre facili scene da ragazzo ribelle maltrattato, ma che fa perdere credibilità a tutta la situazione. 

Sono scelte che fanno sorridere sin dall’inizio, ma che soprattutto aprono la strada a critiche meno giuste. È vero che non tutti gli attori sono eccezionali, e a volte gli autori scivolano in stereotipi facili sui Parioli – che tuttavia potrebbero in alcuni casi corrispondere a verità, e forse proprio questo ha provocato reazioni piccate da parte di chi a quel mondo appartiene, e non può guardarsi dall’esterno. 

La critica più insensata che è stata mossa verso la serie è però quella di non mantenere le promesse. Nominalmente, Baby è ispirato alla vicenda delle baby-squillo dei Parioli, e se ciò che si cerca nella serie è la prostituzione minorile in senso stretto – il sano tema engagé senza cui sembra che niente sia degno di essere prodotto né guardato – se ne troverà in effetti poca (almeno nella prima stagione). Si tratta però di una scelta cosciente, e ben pensata. 

Baby è, e non vuole essere altro che una seria storia di adolescenti. È calata in un tempo e in un luogo preciso, come è giusto che sia per non rischiare di risultare troppo vaga, ma non sembra davvero voler rappresentare, né denunciare nulla, se non un pezzo difficile e doloroso della vita di un gruppo di ragazzi – e soprattutto di ragazze.
E questo lo fa in realtà piuttosto bene. 

Chiara e Ludovica, così come Damiano e gli altri studenti del Collodi sono adolescenti che si ritrovano in vari modi a trasgredire le regole, in alcuni casi mettendosi in situazioni di vero pericolo, ma si tratta sempre di ragazzi tutto sommato per bene. Compiono scelte discutibili, si fanno del male e fanno del male agli altri in alcuni casi per attirare l’attenzione – non tanto dei genitori, distanti e spesso distruttivi, quanto dei coetanei, il vero centro del loro mondo – ma anche, soprattutto, per sentirsi vivi.

È proprio questo a rendere interessante Baby e i suoi personaggi, la sua migliore intuizione: ciò che incombe su tutti loro, che guida le loro scelte e le loro azioni, è una ricerca di libertà, di amore, e al contempo un vago senso di morte, è un cercare altrove la vita che in casa, a scuola, nella piattezza della vita di tutti i giorni non riescono a trovare. Un sentimento proprio dell’adolescenza, che va oltre lo status sociale e le scelte di vita personali, e che gli autori hanno avuto la sensibilità per cogliere: nell’assurda leggerezza con cui Ludovica compie una attraente autodistruzione; nel modo in cui Chiara ne è contagiata e lascia indietro la propria vita quotidiana per seguirla; nella rabbiosa sofferenza di Damiano e nei modi in cui reagisce ai torti subiti. 

Di più. Ciò che Baby prova a compiere è una reale immedesimazione dell’adolescenza com’è oggi – non così diversa in fondo, se non nei mezzi e nelle possibilità, da com’è stata ieri. Prova ne è il modo fresco e naturale in cui la musica, Whatsapp, le storie di Instagram appaiono nella serie, non come decorazione ma come parte integrante delle vite dei personaggi – così come le parole scritte, le fotografie pubblicate, l’immagine che si dà di sé plasmano la vita interiore e i rapporti degli adolescenti di oggi. Ma anche una scena, che appare abbastanza presto nella serie, in cui Chiara non sa come calmare un Damiano seduto disperato in mezzo alla strada, e allora comincia, dal nulla, a cantare «Che super taglio di capelli che hai, potresti vincere tutto».  Ed è terribile, e fa ridere – e però è serissima, ed è un modo credibile in cui una ragazza del liceo potrebbe pensare di consolare qualcuno che considera amico e che vede soffrire: distraendolo, facendolo ridere. Cantando, precisamente.  

Quello che ha fatto così arrabbiare di Baby è forse che lo sguardo verso le vicende in scena non è quello di un adulto: non c’è un intento esplicitamente pedagogico. Baby non cerca di spiegare ai ragazzi il bene e il male, cosa è giusto e cosa è sbagliato fare – esattamente ciò che scatena il rifiuto di qualunque adolescente. Cerca invece di raccontarli, di guardare il mondo attraverso i loro occhi, di descrivere i loro modelli e la loro idea di grande e di trasgressivo, come opposto a un mondo adulto sentito come stretto e limitato. E non risparmia di mostrare la bruttezza dei mondi oscuri in cui rischiano di immergersi, ma anche la loro attrattiva, e le ragioni che li portano a ricercare quei mondi, l’occhio lucidissimo con cui osservano e giudicano l’ipocrisia, l’immaturità di chi dovrebbe insegnare loro a vivere. 

Baby coglie tutta la carica di energia, la voglia di scoprire, di innamorarsi, di sbagliare e scoprire i propri limiti dei ragazzi di 15 anni, e lo fa bene, dal loro punto di vista, senza filtri né falsi pudori, senza temere di rappresentare o di offendere qualcuno.
Per questa ragione, al di là dei suoi limiti, è qualcosa di nuovo rispetto al passato.  Ed è anche molto meglio di com’è stata descritta. 

Copertina di Elmet

La terra dei senza legge

È tutta una questione di terra, a Elmet. Alcuni, per diritto, ne sono proprietari. Altri, per contratto, sono autorizzati ad abitarla temporaneamente. Altri ancora, invece, la conquistano e se ne prendono cura, rispettando leggi ben più antiche di quelle stabilite dall’uomo.

Elmet (Fazi, 2018), esordio letterario della giovane scrittrice britannica Fiona Mozley, è ambientato nell’omonimo territorio situato nell’attuale Yorkshire. Da come ce lo descrive l’autrice, quello che fu l’ultimo regno dei Celti sembra non aver ancora trovato padrone, abitato com’è da vagabondi, girovaghi e uomini abituati a regolare una disputa senza prendersi la briga di fare un salto in tribunale.

Tra i boschi si combatte, per onore o per soldi, si costruiscono case abusive, si catturano piccole prede con le trappole, si caccia con l’arco. Uno scenario molto più vicino alla sconfinata e selvaggia frontiera della letteratura statunitense che al classico sobborgo working class britannico.

Ad abitare il bosco troviamo John, con i suoi due figli Cathy e Daniel. La casa dove vivono i tre protagonisti del romanzo è stata costruita con il sudore, dal primo all’ultimo mattone, in una terra formalmente posseduta dal signorotto della zona, il Signor Price, «il tipo d’uomo che accelerava quando i pedoni attraversano la strada».

John, conosciuto in tutto il paese per la sua forza strabiliante («aveva una reputazione che andava ben al di là dei confini dell’Inghilterra e dell’Irlanda»), è un uomo ruvido, di poche parole. La sua è un’intelligenza pratica, fondata su competenze concrete e sulla sua debordante fisicità.

«A quanto sembrava, era sempre quello il motivo per cui qualcuno faceva qualcosa per noi. O avevano paura di lui, oppure gli dovevano un favore. […] Gli altri percepivano debiti e reciprocità, immaginavano minacce fondate unicamente sulla sua presenza fisica, fardelli posati sulle loro spalle dalla sua esistenza all’interno del loro mondo».

Eppure, per quanto temuto, John è un uomo giusto, che difende i più deboli e che ama la propria famiglia di un amore “tribale”. Il suo progetto, forse utopico, è quello di forgiare i due figli e, allo stesso tempo, di sottrarli a una realtà cittadina fatta di piccoli soprusi, umiliazioni e meschinità.

«Papà aveva visto la violenza, e continuava a vederla, e non riusciva a capire come fosse possibile per una persona difendersi o crearsi un posto nel mondo se non grazie ai soli muscoli e a mani nude. Per questo ci teneva lì. E adesso capisco che ci aveva vincolati a tutto ciò che ammirava e temeva».

Dopo aver trascorso alcuni anni con la nonna, Cathy e Daniel crescono in questa realtà originaria, fuori dalle regole della civiltà del loro tempo. Cacciano, fumano, cantano e suonano con il padre, proseguono la loro istruzione prendendo lezioni private da Vivien, un’amica di John.

Entrambi taciturni e selvatici, profondamente legati tra loro, i due ragazzi presentano però un’attrazione divergente, rispettivamente verso l’esterno e l’interno del loro mondo.

Con il passare del tempo, la sorella maggiore, abile con l’arco e gran fumatrice, sembra avvertire una spinta sempre più forte nei confronti dell’ignoto. Anziché assistere agli incontri del padre o alle lezioni di Vivien, la troviamo più volte vagabondare per i campi e per i boschi, scontrarsi con bulletti infastiditi dal suo essere “diversa” dagli altri.

«“Sono sempre arrabbiata, Danny. Tu no?”.
Le risposi di no, che non lo ero. Le spiegai che non mi arrabbiavo quasi mai, e lei mi ripeté che si sentiva costantemente arrabbiata. Mi disse che qualche volta le sembrava di andare in pezzi. Che qualche volta era come se si trovasse ferma con i piedi piantati per terra, e nello stesso tempo una parte di lei stesse correndo in avanti verso un fuoco che ruggiva».

Alle fughe di Cathy, si contrappone la spensierata serenità di Daniel. Voce narrante della vicenda, Danny è un ragazzino sensibile, che preferisce cucinare pasticci di carne e studiare di fronte al caminetto con Vivien, piuttosto che bighellonare.

La sua visione del futuro non va oltre il limitare dei frassini del bosco («Vivevo con mia sorella e mio padre, e loro erano tutto il mio mondo»), nella sua vita non sembra esserci spazio per qualcosa di differente dagli affetti da cui è circondato e difeso.

In un passaggio significativo del romanzo, Vivien paragona il desiderio di violenza di John alla necessità delle balene di saltare fuori dall’acqua:

«Quando balzano fuori dall’acqua [le balene] avvertono pienamente le dimensioni e il peso del proprio corpo nell’aria. La gravità, il freddo secco».

E se Cathy dimostrerà di essere in tutto e per tutto figlia di John, il “balzo” di Daniel, la presa di coscienza di se stesso come individuo, sarà invece determinato da fattori esterni e imprevedibili che lo costringeranno a fare i conti con la vendetta. È ancora la terra (ben 48 ricorrenze nel testo) a unire e a dividere gli uomini, a metterli uno contro l’altro, a farli lottare come in una moderna età feudale.

L’esordio di Fiona Mozley convince soltanto in parte: la riflessione sulla violenza resta in superficie – troppo cattivi i “cattivi”; il lato oscuro dei “buoni”, invece, non emerge realmente, ma rimane  appeso al progetto ideale dell’autrice – mentre a flashback di un certo impatto lirico si alterna una narrazione più lineare, soggetta talvolta a qualche licenza stonata, come nel caso della frettolosa (quanto poco credibile) descrizione di un omicidio da parte di uno degli scagnozzi di Price:

«Quando lo abbiamo tolto abbiamo visto che aveva gli occhi spalancati, come capita qualche volta ai cadaveri, lo sai. Animali, uccelli, persone, è lo stesso. Spalancati per la sorpresa; molto più di quello che possono sollevarsi le palpebre da vivi, come se il ragazzo avesse voluto cogliere tutto quello che poteva del mondo, catturare un fermo immagine di quel bel boschetto, della luce che entrava tra gli alberi, dei fiorellini sotto i frassini e le querce, catturarlo e portarlo con sé. Solo quell’unica immagine fissa, con gli occhi spalancati. Ha usato i suoi ultimi momenti per riempirsi gli occhi di colori. Ma da lui i colori erano scomparsi. E qualunque tinta avesse ancora negli occhi, sulla sua pelle non ce n’erano più».

Finalista al Man Booker Prize, Elmet racconta un processo di crescita attorno a un doloroso confronto con il male, lo fa costruendo uno scenario scuro e singolare – una sorta di foresta di Sherwood popolata da uomini e donne senza leggi – ispezionando i legami e le pulsioni più profonde dell’animo umano. Una favola cupa, connotata da una visione politica forte che non risparmia alcune interessanti considerazioni sul concetto di proprietà e di ribellione femminile.

 

(Fiona Mozley, Elmet, trad. di Silvia Castoldi, Fazi, 2018, pp. 280, euro 18)

Il 2019 In Musica

Il 2018 ci ha lasciato alle spalle l’ultimo lavoro immenso dei Low, un’ottima Joan As Police Woman, i Dead Can Dance all’ennesima potenza, l’ambizioso progetto P-E-O-P-L-E e ciò che ne è derivato, i Big Red Machine, la prima colonna sonora di Thom Yorke.
In Italia, l’ennesima grande prova dei Baustelle, l’importanza di Salmo, il dominio dell’itpop (Calcutta) e della trap (Sfera Ebbasta).
Il 2019 si prevede già ricco di graditi ritorni, in Italia e all’estero:

Massimo Volume: Sei anni da Aspettando i barbari. Tanto è il  silenzio dei Massimo Volume. L’attesa è stata lunghissima, l’aspettativa per il nuovo album è altissima. Sarà interessante capire, poi, se il passaggio di etichetta (da La Tempesta alla 42 Records) inciderà sul lavoro finale.
(Senza titolo, 1 Febbraio)

Tool: Ogni anno è sempre la stessa storia. L’uscita del nuovo album dei Tool ha oramai fattezze mitologiche. Questo 2019 pare sia realmente l’anno buono, stando a quanto detto da Maynard Keenan. Non che sia una garanzia, ma quantomeno fonte di speranza. Vediamo se finalmente 10,000 Days avrà il suo erede. (Senza titolo, da definire)

Thom Yorke: Messa da parte l’esperienza cinematografica con Suspiria, Thom Yorke ha dichiarato a El Mundo che nel 2019 vedrà la luce, a cinque anni di distanza da Tomorrow’s Modern Boxes, il suo nuovo lavoro solista. Ha dichiarato, inoltre, che sarà molto elettronico, ma completamente diverso da qualsiasi cosa abbia fatto in passato. (Senza titolo, da definire)

Ghali: Ha detto di voler puntare al Coachella. In questo momento ha le mani sul mercato e consensi trasversali. Questo nuovo anno potrebbe regalare il nuovo disco dell’artista milanese: il disco che potrebbe spostare di nuovo le tendenze musicali italiane. (Senza titolo, da definire)

Ex-Otago: Marassi, del 2016, è stato l’album che ha dato maggiore visibilità al gruppo ligure. In uscita l’8 Marzo, Corochinato sarà un banco di prova per capire quale direzione prenderanno i cinque: quella più facile dell’itpop o qualcosa di meno innocuo. (Corochinato, 8 marzo)

Tre Allegri Ragazzi Morti: Il trio friulano esce in questo gennaio con Sindacato dei sogni, a tre anni da Inumani. Con quest’ultimo, la band di Toffolo era riuscita a rielaborare le proprie esperienze passate in un ottimo disco. Vediamo cosa succede oggi.
(Sindacato dei sogni, 25 gennaio)

Beirut: Registrato in parte in Italia (Lecce), in parte negli Stati Uniti (New York), in parte in Germania (Berlino), Gallipoli è il nuovo album dei Beirut, che tornano dopo quattro anni da No No No. Dovranno provare a fare meglio . L’uscita di un loro album porta  appresso grosse speranze: il ricordo di Gulag Orkestar è sempre molto vivo. (Gallipoli, 1 Febbraio)

Tiziano Ferro: Sarà Timbaland a scrollargi di dosso quella fastidiosa patina nazional popolare? Perché la collaborazione con il rapper/produttore americano potrebbe finalmente svelare tutto il potenziale di un artista pieno di talento. (Senza titolo, da definire)

I Cani: Scompare dai social, riappare, fa uscire un singolo nel 2018 (“Nascosta in piena vista”), nel frattempo lavora a altri progetti (Faccio un casino di Coez) e scrive la colonna sonora del film Troppa Grazia di Gianni Zanasi. Senza certezza, nel 2019 dovrebbe tornare il pioniere della musica indie degli anni ’10, quella deformata dall’avvento di Calcutta. (Senza titolo, da definire)

La prima vita di Italo Orlando copertina

La magia che si realizza

In principio è un corpo nudo che respira, dorme. È giallo. Quasi non sembra vero. Attorno s’immaginano prati e distese di mandorli a perdita d’occhio. Irene è la prima a vedere quel corpo; è una ragazzina orfana di madre, ha la passione per la fotografia, e un animo che immediatamente pare gentile. Il padre Giuseppe è fotografo vero; scosta sua figlia e copre il corpo con la giacca. Ordina a Irene di prendere abiti. Nella casa a Sette Cannelle, dove la famiglia trascorre i mesi estivi, c’è la nonna, la matriarca decaduta ma ancora avviluppata da un’aurea di saggezza. La casa è una antica tenuta ormai in declino che, come la nonna, conserva il prestigio di un tempo che fu. Siamo in Sicilia, nella campagna di Marsala, è il giugno del 1957. Quel corpo giallo si pensa sia di Italo Orlando e questa è la prima delle sue tre apparizioni.

Carola Susani torna in libreria per i tipi di minimum fax con il romanzo La prima vita di Italo Orlando, primo volume di una trilogia che ruota attorno alle vicende di un ragazzo enigmatico, magico.

Di Italo Orlando non si sa nulla, lui un giorno appare, senza memoria, senza passato. Ha la pelle vellutata dal colorito uniforme. È dolce, garbato, ma al contempo gli aleggia attorno un’aura inquietante. Anche il nome è incerto, glielo dà la famiglia di Irene ipotizzando si tratti del figlio di un noto avvocato di Marsala che, sotto la pressione del padre, ha perso il senno al primo anno di università e di cui si sono smarrite le tracce. Italo è abile, lo mostra fin da subito riparando il camino del casale e cavando dalla cappa fumaria un sacco di antiche monete. Italo è portentoso e, dalla campagna al vicino paese di Casteldorto, la gente comincia a parlare di lui, a cercare di ammaliarlo per avere i suoi prodigi, a temerlo dicendo in giro si tratti del “diavolo” o di un “uomo-serpente”. Se sia buono o malvagio non se ne avrà mai piena certezza, l’unica cosa veramente certa a tutti è che Italo è magico. affascinare

Le vicende dell’estate del ’57 che riempiono le 141 pagine del libro ce le racconta Irene. Attraverso la sua fascinazione per Italo, i suoi timori, la sua acerba passione, verremo messi a parte dello strano rapporto, quasi mistico, che si instaura tra il ragazzo e la nonna, delle continue ricerche per scoprire la sua vera identità, degli aiuti che Italo offre a tutto il vicinato, della relazione che si consolida con gli altri bambini, di cui Irene è un po’ gelosa, delle repentine sparizioni e riapparizioni del giovane dalla pelle gialla, della preziosa raccolta delle mandorle, e dell’interesse che alcuni geologi, intenti nella ricerca di petrolio in Sicilia in quegli anni, maturano per Italo. Tra lui e Irene c’è un’intimità difficile da decifrare, un po’ fratelli, un po’ innamorati, un po’ perfetti sconosciuti.

La prima vita di Italo Orlando è un’atmosfera. La voce narrante narra, affabula, sussurra, e suggestiona. La confidenza con i personaggi, le vicende, i luoghi è immediata. La Susani ci fa immergere in un mondo incantato prendendo un’unica boccata d’ossigeno, e l’aria non viene mai a mancare. Il patto di fiducia con il lettore è gestito in modo sapiente: sembra di essere attorno a un fuoco e di sentire un’amica raccontare le vicende, veritiere o d’immaginazione non importa, della sua infanzia. È realismo magico, quello della Susani, e tra i più riusciti se leggendo le sue pagine il fascino che si sperimenta è così vicino, nella forza e nello stile, a quello di Anna Maria Ortese e di L’Iguana. È un paranormale domestico, nostrano, che mai scricchiola, mai dimentica di portare con sé la fantasia e soprattutto le regole della fantasia che rapiscono il lettore. È una piccola, grande magia.

Non ci rimane dunque che attendere il ritorno di Italo e delle sue prossime due vite.

 

(Carola Susani, La prima vita di Italo Orlando, minimum fax, 2018, pp. 144, euro 15)

Come s’impara a morire raccogliendo dati

I nomi spesso aiutano. Stringono cose in un laccio di voce. Chiamare qualcuno si crede possa risvegliarlo per intero, solleticando anche i millimetri invisibili. Così tanto che per esempio anche Elias Canetti si chiede se sia possibile postulare un mondo innominato. Un fogliame indistinto di volti e oggetti dentro cui non resta che sbracciarsi ammutoliti. Pilotati dagli odori come intima sostanza. Quando poi si tratta di storie, un protagonista con un nome addosso sembra ancora più incarnato, più afferrabile, spuntato da trifoglio nel bel mezzo di un salotto.

Il romanzo di Jesse Ball sfida ciascuna di queste leggi implicite. Censimento (NN Editore, 2018) si snoda tutto in un Paese ignoto, forse un’America truccata da nazione X, in cui un anziano dottore in pensione si avvia assieme a suo figlio verso un viaggio che malgrado tutto, conserva sempre un sapore inconoscibile. Entrambi non hanno un suono proprio associato alla faccia, non sapremo mai come e se qualcuno abbia amato farli voltare pizzicandoli fino all’ultima corda.

Però sappiamo altro. Sappiamo che il padre non ha molti giorni seminati davanti. Il cuore è affannato, si accascia facilmente e quello che sta per affrontare è di certo lo sforzo finale. Sappiamo che è rimasto vedovo, di una donna e del personaggio a lei allegato. Sua moglie era un clown, ben lontana dagli stilemi imparruccati che quella professione potrebbe fecondare. Sua moglie analizzava la gente, la inchiodava a silenzi allungati, lasciando germinare ogni tipo di reazione. Molto spesso la fuga. Lui non scappò. Lui rimase accalappiato e scelse di sposarla. E di renderla madre.

Sappiamo che hanno avuto un solo figlio. Un figlio down. Imbarcato con suo padre nella missione di censire. Il loro compito quindi è partire, scandire chilometri dentro nuclei di città. Che ovviamente un nome non ce l’hanno. Sono come faldoni, catalogati per volere di alfabeto. Dalla A alla Z di lettere spoglie si snocciola tutto il senso del loro agire. Non è così semplice svolgere il mestiere. Comportarsi da rilevatore. Bussare, avvicinarsi, raccogliere dati e infine marchiare. Tatuare i soggetti incontrati. E ben pochi risultano entusiasti: «Un aspetto della rilevazione è la capacità di argomentare a favore del censimento. Non tutti acconsentono immediatamente. Non tutti sono disposti…»

Occorre ingegnarsi, prendere misure ben prima di aver acquisito una sola informazione, rassicurare, persuadere, convincere se stessi di poterlo fare.

E ingoiare le amarezze disperse per la strada. «Capita spesso, in questa faccenda del censimento, di scoprirsi incapaci di ridestare nelle persone che si incontrano ciò che più li contraddistingue. Naturalmente è proprio questo il nostro dovere, e il mio insuccesso nel cogliere l’essenza di un intervistato mi ricade addosso di continuo».

C’è chi accoglie con favore, chi si dimostra stoico, chi si contorce di lamenti per i segni sulla pelle, chi semplicemente si rifiuta. Sottraendosi o insultando. L’nventario del disagio è sempre aperto. E impattare con ognuno di questi pianeti include un riverbero irrecusabile.

Il viaggio non occorre solo per valutare gli altri. Serve a ricapitolarsi, a disseppellire frammenti di vita. La carriera di medico, gli scampoli matrimoniali, il sogno della moglie di salpare tutti in auto per esplorare altri confini. La monumentale delicatezza del ruolo di padre, con un figlio prezioso e perennemente fragile, spesso deriso, ferito dalle schegge dell’ignoranza della gente. L’inderogabile esigenza di lasciarlo esprimere, nonostante i crepacci: «In qualsiasi momento ogni parte di questo mondo è eternamente affascinante. Non esiste una griglia di valutazione efficace che consenta di scegliere tra fare una cosa o una qualsiasi altra. Perciò, quando mio figlio decide semplicemente di osservare questo e quello, e sguscia fuori da sé per entrare in empatia con l’oggetto osservato – sia questo una ruota panoramica o una tartaruga – io non riesco mai a oppormi, e certamente non ho mai tentato di mutare ciò che costituisce, ai miei occhi, una risorsa fondamentale: la capacità di scoprire in ogni momento qualcosa di profondo».

La coscienza e la facoltà di raccontare un’anima pulita come quella del ragazzo sono doni che l’autore ha strappato a se stesso. Allo sguardo, al respiro, alle impronte di una creatura con nome e cognome bene incisi sulla pietra. Abram Ball, suo fratello, con la stessa sindrome, morto da vent’anni. Parte del suo flusso, della sua freschezza si sono rovesciati in questo figlio indomito, paziente e curioso, che si ritrova, stavolta, a sopravvivere, a resistere alla fine di chi ama. A non capire la morte del tutto, ma a farlo comunque.

Censimento non ha certo una trama esondante di colpi di scena. E chi li aspetta o li privilegia farebbe bene a rivolgersi altrove. Passando in rassegna i centri abitati piovono al massimo scaglie di solitudini, imperfezioni, inesattezze e rimpianti. Felicità piccolissime e distacchi necessari. Lo specchio di ciò che galleggia nelle ultime ore di un uomo.

Come in altri romanzi in cammino, tra cui lo straordinario Gli anelli di Saturno di W. G. Sebald, In viaggio contromano di Michael Zadoorian o Il figlio del figlio di Marco Balzano, la sua ricchezza totalmente priva d’imprevisti dimora in altre punte, in ciò che si snocciola come piume rarissime durante il tragitto. Poetica e sottile è la presenza dei libri di Gerhard Mutter, citati e letti dal protagonista. Una donna dall’apparenza maschile, sindaco di una città tedesca nei pressi di Stoccarda che «scrisse compulsivamente di cormorani per tutta la vita». E che da loro ereditò pagine di consapevolezza: «L’impressione che un cormorano ha del crepuscolo non ha niente a che vedere con quella che abbiamo noi umani. Noi che siamo maestri del nulla – noi che dobbiamo cambiare le cose per poterle dominare, non possiamo comprendere cosa significhi essere dominatori per natura: acquisire una sovranità che non è avida, ma si estende in linee quasi palpabili dall’estremità di ogni penna, dalla punta del becco, dai globi oculari. […] Le nostre vittorie umane, per loro stessa natura, non hanno gloria».

La nostra sola possibilità è quella di cavalcare il viaggio, fiutare il mare o la polvere dei cocci. Esattamente quello che fa il nostro anonimo rilevatore, fino all’ultima tappa, finché suo figlio non salirà su un altro treno e porterà avanti altre storie, con nomi infiniti incollati sul petto.

E forse, quel posto vuoto di sillabe accanto a luoghi e persone, potrà essere anche il nostro, popolato mille volte da ciò che ancora ci manca.

 

(Jesse Ball, Censimento, NN editore, traduzione di G. Calza, 2018, pp. 262, € 18.00)