“effe – Periodico di altre narratività” numero nove

effe – Periodico di Altre Narratività #9, il secondo volume del 2018 è pronto. Otto storie a tema libero, accompagnate da otto illustrazioni. Due nomi noti della narrativa – Emidio Clementi e Andrea Tarabbia – affiancano sei scrittori emergenti – Sara Gambolati, Angela Giammatteo, Luca Giommoni, Andrea Herman, Raffaele Notaro e Andreea Simionel. A cui si aggiunge il consueto editoriale a firma di Roberto Bioy Fälsher.

Otto illustratori già affermati – Cristiano Baricelli, Lucia Biancalana, Andrea Casciu, Caterina delli Carri, Carla Indipendente, Maurizio Lacavalla, Serena Schinaia e Ombretta Tavano – e la copertina realizzata da Ritardo. Tutto come da tradizione.

È stato un lavoro intenso e più lungo del solito, lo ammettiamo. Dal micro-contest di fine giugno sono passati diversi mesi, di selezione e di confronto prima, di coordinamento, di editing e di redazione dopo. Fino alla chiusura del numero, avvenuta qualche settimana fa.

Nell’attesa di progettare quello che sarà il numero dieci, un traguardo appena immaginato sei anni fa, aggiungiamo con soddisfazione questi nuovi otto autori all’elenco già lungo di scrittori passati per effe, tra cui figurano Luciano Funetta, Elisa Casseri, Matteo Pascoletti, Paolo Zardi, Demetrio Paolin, Vins Gallico, Carla Vasio, Luca Ricci, Paolo Cognetti, Antonella Cilento, Michele Vaccari e Tiziano Scarpa.

 

Per chi ancora non lo conoscesse:
effe – Periodico di Altre Narratività è un’antologia periodica di narrativa inedita illustrata ideata da Flanerí in collaborazione con lo studio editoriale 42Linee, che nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano e offrire una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e dove i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione. Tutti i racconti sono illustrati da giovani artisti della scena contemporanea. effe ha una tiratura limitata e viene distribuito in maniera diretta (vis-à-vis con i librai) nelle librerie indipendenti, perché:
A) è un prodotto artigianale;
B) è importante che il libraio creda in ciò che vende.

 

Questo il sommario di effe – Periodico di Altre Narratività, numero nove:

 

  • L’immaginario della sopravvivenza di Roberto Bioy Fälsher
  • Enea di Emidio Clementi (ill. di Maurizio Lacavalla)
  • Le rammagliatrici di Raffaele Notaro (ill. di Caterina delli Carri)
  • Cara vita di Andreea Simionel (ill. di Ombretta Tavano)
  • Waldeinsamkeit di Andrea Herman (ill. di Lucia Biancalana)
  • Manifesto di una mancata evoluzione di Luca Giommoni (ill. di Serena Schinaia)
  • Le stelle di San Vito di Sara Gambolati (ill. di Carla Indipendente)
  • Agosto è una bugia di Angela Giammatteo (ill. di Cristiano Baricelli)
  • I ceci e il teschio di Goya #3 di Andrea Tarabbia (ill. di Andrea Casciu)

 

Qui è possibile acquistare online effe #9 e consultare l’elenco delle librerie indipendenti amiche.

 

Best 2018 libri

[Best 2018] I libri

Di fronte alle consuete liste di fine anno,  abbiamo deciso di segnalarvi quei titoli che ci hanno colpito maggiormente nel corso del 2018. Cinque libri di narrativa, cinque di saggistica e una rivista. Rigorosamente in ordine casuale. Buona lettura.

 

Dilettanti di Gilberto Severini (Fandango/Playground)
Severini torna, dopo Backstage, con un romanzo che è anche una lettera aperta, ironica e dolorosa. Il racconto di esistenze solitarie – di uomini costretti a negare la propria omosessualità per il solo desiderio di “sentirsi normali” – che trova luogo nell’intensità del ricordo.

 

Voragine di Andrea Esposito (ilSaggiatore)
Esposito firma un romanzo stratificato e al contempo diretto, feroce e tagliente come una lama di ghiaccio, in una prosa di rara potenza e con un ritmo narrativo incalzante.

 

Vinpeel degli orizzonti di Peppe Millanta (Neo Edizioni)
Una storia scritta sul mare. Con Vinpeel e la sua grande creatività è ancora possibile immaginare un mondo più felice.

 

Hamburg di Marco Lupo (ilSaggiatore)
Una storia fatta di storie che ci ricorda la molteplicità del gioco letterario e la meraviglia del viaggio iniziatico.

 

Disturbi di luminosità di Ilaria Palomba (Gaffi editore)
Un flusso di coscienza in cui il lettore può identificare almeno una parte del proprio sé, un’autofiction sul disturbo borderline, sui traumi e sulle cicatrici dell’esistenza che, in assenza di consapevolezza, diventa un eterno saṃsāra di dolore e autoflagellazione.

 

Inverno. Il racconto dell’attesa di Alessandro Vanoli (Il Mulino)
Fu per secoli il periodo della sospensione, senza battaglie, senza lavoro nei campi; un libro per ritrovare la natura storica di una stagione.

 

Punire. Una passione contemporanea di Didier Fassin (Feltrinelli)
Talvolta occorre fare dei passi indietro e cancellare i presupposti con cui giudichiamo l’agire umano: la punizione è ancora uno strumento legittimo o contribuisce ad allargare le disuguaglianze sociali?

 

Milano di carta di Michele Turazzi (il Palindromo)
Milano diventa di carta, si fa racconto e si immagina attraverso grandi autori del ’900. Milano underground dei Navigli, la meraviglia della Scala e le rovine della guerra, la Milano dei vini ghiacciati di Hemingway, in via Verdi e via Manzoni e di via della Moscova di Buzzati. La Milano di Giorgio Scerbanenco, piena di storie potenti e criminali a Lambrate e quella composta e borghese di Lalla Romano, ai giardini pubblici tra via Manin e Porta Venezia, passando attraverso il Castello sforzesco negli scritti di Carlo Emilio Gadda e arrivando a via Monte Napoleone descritta da Emilio Tadini. Fino al simbolo della città, il Duomo e le sue 145 guglie.

 

La partita perfetta. Filosofia del calcio di Corrado Del Bò e Filippo Santoni de Sio (Utet)
Due filosofi di professione inscenano un derby a colpi di citazioni colte cercando di trovare lo spirito del calcio. Un percorso che in fin dei conti non ci allontana da una convinzione atavica: che esso sia nella semplicità di un gioco che non ha bisogno di molto per iniziare, bastando talvolta uno straccio arrotolato.

 

Rimbaud e la vedova di Edgardo Franzosini (Skira)
Rimbaud poeta e venditore d’armi, la narrazione del suo soggiorno milanese attraverso tracce leggere lasciate nella città dell’epoca.

 

Freeman’s – Scrittori dal futuro (Black Coffee)
La giovane casa editrice fiorentina porta in Italia il quarto numero della rivista letteraria americana a cura di John Freeman, dedicato a ventinove scrittori da tenere in considerazione per il futuro. La buona notizia è che non si tratta di un’operazione isolata: è stato annunciato un nuovo numero per il 2019.

[Best 2018] Gli album

Anno forse più sommesso rispetto ai precedenti, questo 2018. Il mondo occidentale ha prodotto molto, forse troppo, ha visto la conferma del rap e della trap, in continua ascesa sul mercato.  Ci apprestiamo comunque a entrare nel 2019 lasciandoci alle spalle i Low che sembrano tornare ai fasti di I Could Live In Hope, i Dead Can Dance che continuano la loro sperimentazione e questa volta hanno le sembianze di veri e propri stregoni, Thom Yorke alla prima colonna sonora della sua carriera, Kurt Vile e il suo consolidato eclettismo, Joan As  Police Woman che riesce finalmente a dare il meglio di sé (con qualche piccolissima riserva) e il progetto P-E-O-P-L-E, dove Justin Vernon e Aaron Dessner con Big Red Machine tirano fuori un qualcosa per cui vale la pena strabuzzare gli occhi. In Italia c’è stata la riconferma dei Baustelle con il secondo episodio de L’amore e La Violenza, dell’itpop e la dittatura calcuttiana (guardare Gazzelle), Cosmo con il suo techno-pop trasversale, il rap guidato dal suo nume tutelare, Salmo e, sulla coda, l’assurda tragedia di Corinaldo, dove avrebbe dovuto esibirsi Sfera Ebbasta.
In ordine sparso, ciò che è piaciuto di più alla redazione di musica:

L’amore e la violenza vol.2, dei Baustelle: Francesco Bianconi è, in questo momento, il miglior autore italiano di testi di canzoni. Il dittico L’amore e la violenza lo conferma. Ora i suoi Baustelle si prenderanno una pausa: il vuoto che lasceranno  – sono sempre dolorosi i silenzi dei Baustelle – sarà colmato del nuovo album dei Massimo Volume in uscita nel 2019?

Big Red Machinedei Big Red Machine: Bon Iver è quello che sta portando il cantautorato verso altri orizzonti, mentre Aaron Dessner è una delle menti di uno dei gruppi fondamentali del 2000, i The National. Un progetto che ha queste premesse (P-E-O-P-L-E) non avrebbe potuto non portare qualcosa di buono: Big Red Machine è uno degli ascolti fondamentali del 2018.

Double Negative, dei Low: Solo tre anni fa avevano scritto un grande album come Ones And Sixes. Oggi riescono addirittura a fare meglio. Double Negative è la radiografia della violenza, un’opera imprescindibile in questi anni. Il trio originario di Duluth non scrive mai un album come l’altro: quest’anno è stato il loro anno.

Suspiria, di Thom Yorke: prima colonna sonora firmata dal leader dei Radiohead, Suspiria vive di vita propria anche al di fuori del film di Guadagnino. È stato confermato che nel 2019 Thom Yorke uscirà con un nuovo album solista, ma intanto questa nuova prova è stata superata a pieni voti.

Bottle It In, di Kurt Vile: con quest’ultimo lavoro, spaziando dalla psichedelia al blues, dall’indie rock al country, l’ex socio di Adam Granduciel scrive una delle migliori cose della sua carriera. Fondamentale la collaborazione con Kim Gordon.

Dyonisus, dei Dead Can Dance: la world music del duo anglo australiano si stabilizza su livelli altissimi con Dyonisus. Sarà probabilmente impossibile ricreare le stesse condizioni che hanno portato al loro album totemico, Spleen And Ideal, ma anche nel 2018 i Dead Can Dance proseguono con ferocia il loro percorso, tra alchimia e stregoneria.

Damned Devotion, di Joan as police woman: eccoci, finalmente: la cantautrice statunitense piazza un album notevole. Il pop mischiato al trip pop, seguendo l’insegnamento dei Portishead, fa di Damned Devotion la spinta definitiva per la carriera di Joan Wasser.

Playlistdi Salmo: Salmo è il punto cardinale del rap italiano. Playlist non fa che ribadirlo. La forza espressiva e lirica di quest’ultimo lavoro ha pochi pari dalle nostre parti. Nel 2018, se si cerca l’impegno, probabilmente deve essere cercato da questi lidi.

[Best 2018] I film

Ce n’è bisogno? Assolutamente no, e quindi ecco quelli che per noi sono i migliori film del 2018. Come al solito, intendiamo i film distribuiti nelle sale italiane a partire da gennaio fino a dicembre 2018, non ci saranno film presentati in anteprima o che non hanno avuto neanche un passaggio in sala (quindi non ci troverete La ballata di Buster Scrugs dei fratelli Coen, che non ha mai visto il grande schermo se non a Venezia, ma ci sarà invece Roma di Alfonso Cuarón,  che seppur per tre giorni è passato anche in sala). I titoli non sono in ordine, non è una classifica.

Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino. Uno dei titoli del 2017 in gran parte del mondo, arrivato da noi solo a gennaio inoltrato, il film tratto dal romanzo di André Aciman ha dato finalmente lustro d’autore a Guadagnino anche in patria, dopo la relativa freddezza riservata ai suoi lavori precedenti. Romanzo di formazione attraverso l’amore, Chiamami col tuo nome è un’opera di immagini e interpretazioni con un equilibrio raro e perfetto. Forse ci sarà un seguito (viene quasi da sperare di no), intanto Guadagnino è uno dei registi più corteggiati di Hollywood e il suo Suspiria (dal classico di Dario Argento) in arrivo il primo gennaio finirà probabilmente nelle classifiche del 2019, sicuramente nella nostra.

Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson. Fosse anche solo per quella che dovrebbe essere l’ultima interpretazione di uno dei più grandi attori di tutti i tempi, Daniel Day Lewis, Il filo nascosto è un film destinato a essere ricordato. Anderson parla di ossessioni, per l’amore e per il lavoro, con il rigore dell’ossessionato e affidandosi a un grande esperto in materia di dedizione maniacale come Day Lewis.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh. Sullo sfondo di un’America sbagliata, Frances McDormand giganteggia in un cast eccezionale. Tre manifesti è un film di scrittura e riflessione capace di raccontare gli Stati Uniti di oggi senza il bisogno di salire sul pulpito del predicatore.

Roma, di Alfonso Cuarón. Il film più personale di uno dei più importanti registi contemporanei. Girato in un rigoroso e splendido bianco e nero, Roma restituisce il ritratto di un paese e di un’epoca attraverso la storia di un’ultima, la cameriera Cleo al servizio di una famiglia altolocata del quartiere Roma di Città del Messico. Cuarón si conferma un “tecnico” strepitoso, curando oltre alla regia anche fotografia e montaggio (assieme a dei collaboratori). È soprattutto, però, la qualità altissima della scrittura a colpire.

Dogman, di Matteo Garrone. Ma anche Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, La terra dell’abbondanza dei fratelli D’Innocenzo, Santiago Italia di Nanni Moretti e Troppa grazia di Gianni Zanasi. Il cinema italiano ha tante voci interessanti, tante idee, tanti bravissimi interpreti e registi. Se non si soffocasse da solo continuando a crescere a dismisura (in media vengono distribuiti in sala ogni anno duecento film di produzione italiana), forse riuscirebbe a far parlare molto più di sé. Peccato per Dogman, che non è riuscito a entrare nella short list per l’Oscar al miglior film straniero, ma i selezionatori italiani hanno fatto un (grosso) errore di valutazione. Sarebbe bastato dare un’occhiata a qualche sito di critica statunitense (tipo il New York Times) per rendersi conto che era Lazzaro felice il film su cui puntare per conquistare un posto.

Menzioni d’onore: non sono tra i migliori per una serie di piccoli motivi, ma vogliamo comunque ricordare The Post di Steven Spielberg, A Quiet Place di John Krasinski, L’isola dei cani di Wes Anderson, Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos e L’ora più buia di Joe Wright.

Menzioni di disonoreLa forma dell’acqua, acclamato e premiato come capolavoro, per noi è un filmetto. Paolo Sorrentino ha mirato in alto per fare il colpaccio con Loro. Non l’ha sparata alle stelle ma diciamo che ha preso la traversa, e da lui ci si aspettava di più. L’anno sbagliato di Paolo Virzì, che è stato in sala con due film, Ella & John Notti magiche, e non è riuscito a convincere del tutto con nessuno dei due, anzi.

Foto di André Malraux

L’uomo al centro

È possibile inventare la vita? Abbellirla, renderla più interessante, strapparle di dosso quel velo di straziante orrore e trasformarla in qualcosa di tollerabile? È possibile costruire la propria identità al punto da diventarne vittima? Accade di rado che qualcuno lo faccia perché il prezzo da pagare è quasi sempre troppo alto. André Malraux è uno di quei pochi a esserci riuscito. Era solo un ragazzino quando fu rifiutato dal liceo Condorcet: un colpo al cuore, l’ennesimo, per lui che abitava al primo piano di un palazzo, in un sobborgo a una decina di chilometri da Parigi. Dalla finestra di quella casa vide suo padre andarsene per rifarsi una vita, altrove, lontano da lui e da sua madre. Era un finale già scritto, visti i tradimenti che si susseguivano con maniacale regolarità. Anche per questo l’infanzia gli è sempre apparsa come qualcosa di terribile, un luogo doloroso e insignificante da cui prendere le distanze, come racconta Olivier Todd in Une vie, biografia dedicata allo scrittore francese pubblicata qualche anno fa. La rabbia per la vita che gli era toccata in sorte gli si leggeva in corpo, pieno di tic, di scatti e perennemente avvolto dal fumo nervoso di una sigaretta. Da grande, anche quando divenne famoso, fece di tutto per disperdere le tracce di quella gioventù tanto odiata, di quelle origini mediocri e lontane dall’immagine che aveva di sé. Perché Malraux sapeva bene che la vita non è mai degna di essere vissuta: esistono condizioni umane intollerabili, che comprendono il senso profondo dell’esistenza, al punto da non aver neppure paura della morte.

E proprio di questo parlerà nel suo romanzo più famoso La condizione umana, riproposto ora da Bompiani con la traduzione di Stefania Ricciardi, e vincitore nel 1933 del premio Goncourt. Per conquistare l’alta borghesia francese si era servito di una storia lontana chilometri dagli ambienti intellettuali: era riuscito a parlare di un fallimento clamoroso, quello della Rivoluzione cinese nel 1927, finita in un bagno di sangue, nella delusione e nella certezza che la vita, qualunque vita, è sempre circondata da un alone di morte, più o meno vicino, più o meno evidente. Gli uomini protagonisti sono dilaniati dalla nausea dell’esistenza, perennemente traditi dagli eventi, sacrificati dalla storia e consumati dalla solitudine, dalla rabbia, dalla paura. Divisi senza neppure averne consapevolezza credono di lottare in nome di un’ideale, di una giustizia che non esita a farsi traditrice appena può. È un mondo senza speranza, lontano dall’oppressione kafkiana ma inevitabilmente vicino alla rassegnazione di Sartre e al malessere di Camus.

Malraux sa bene cos’è la vita ed è per questo che per resistere si aggrappa a ciò che può: ai viaggi in terre lontane, alle avventure esotiche, ai grandi innamoramenti culturali e politici, alla joie de vivre, ai soldi che vanno e vengono. Ma anche a quella vita inventata, fatta di storie mai accadute, di aneddoti inesistenti, di studi mai compiuti. Per Malraux erano l’unico antidoto all’orrore che lo perseguitava: ideare la vita era solo un modo come un altro per sfuggire almeno un po’ alla morte. I fatti contano più delle parole e delle idee ed è per questo che ne inventava molti. Pervicacemente fedele a sé stesso, riuscì ad affascinare i grandi dell’epoca, che speravano di osservarlo nella sua veste di gentiluomo rétro e di ascoltarlo mentre raccontava delle sue spedizioni in Oriente a dissotterrare reperti archeologici. O di quanto amasse i gatti. La maschera di viveur nascondeva tutto il dolore accumulato in gioventù, e quello che gli toccherà subire da adulto, quando moriranno i suoi due figli e la sua compagna.

La condizione umana fu un libro molto amato dalla critica, probabilmente stregata dal fascino del suo autore, e rimane un romanzo complesso, in cui gli orrori individuali riaffiorano a fatica nella Storia. La scrittura stessa sembra risentire del peso intellettuale di Malraux: il carisma che aveva costruito nel tempo sembra tradursi nelle parole, in una prigione, da cui non vuole, però, fuggire. Chi fosse realmente Malraux non è dato saperlo del tutto: ma ciò che sappiamo con certezza è che per lui l’uomo e la sua condizione erano più importanti di qualunque cosa, di qualunque ideologia e di qualunque evento storico.

Fiumani e le cose che non torneranno più

Vedere certi giganti della musica continuare a produrre album nonostante gli anni che passano, proseguendo per la propria strada senza essere influenzati minimamente da quanto succede nel contemporaneo, fa un certo effetto. Come chiusi in una sorta di bolla, i Diaframma di Federico Fiumani sono tornati con il loro ennesimo album in studio, L’abisso.

I Diaframma il loro marchio sulla Storia della musica italiana l’hanno già messo negli anni ’80 con Siberia e quella rimarrà sempre la loro epoca, dove la propria narrazione ha trovato il miglior terreno per esprimersi: figli di Ian Curtis e dei suoi Joy Division, sono riusciti a importare in Italia la rabbia e il dolore che trasudava in Unknown Pleasures e Closer.

Quindi, oggi, dopo trent’anni, dal gruppo di origine toscana non ci si aspetta nulla di più di quello che riescano a dare. La retorica attorno al i Diaframma oggi non possono più stravolgere la musica è tanto banale quanto necessaria. Perché è vero che non possono più spostare il filo della Storia della musica verso di loro, ma possono sicuramente produrre dei buonissimi album. L’abisso lo testimonia.

Nonostante Fiumani di anni, in questo 2018, ne abbia compiuti cinquantotto, dentro quest’ultimo lavoro c’è una carica artistica violenta. Il tempo è passato, sì, ma non lo ha reso miope. A differenza di certe tendenze di mercato di oggi, dove è molto complicato riuscire a identificare un perno artistico attorno a cui muovere i propri lavori, nei Diaframma (ma vengono in mente dei quasi coetanei come Cesare Malfatti o Paolo Benvegnù), questo si trova, è lampante: chiaramente, poi, potrà piacere o no, ma è innegabile che si abbia a che fare con qualcuno che ha qualcosa da dire. Che non sta scrivendo album con l’unico obiettivo di entrare in classifica.

Quello che ancora oggi fa Federico Fiumani è cercare di raccontare qualcosa in maniera diversa: alternativa. Dietro questa parola, che negli ultimi anni ha subito deformazioni mostruose, ci sono due possibili letture: o una non appartenenza a una major, o un modo di raccontare che non segua un’idea artistica (tendenzialmente, però, di mercato) dominante. I Diaframma abbracciano quest’ultima e lo fanno a volte meglio e a volte peggio: ma lo fanno sempre.

Musicalmente non ci sono grossi stravolgimenti, chitarre dark wave, sprazzi di punk e cantautorato – note di merito per “Leggerezza” e “Così delicata”, qualche punto in meno per “L’impero del male”.
L’abisso, infatti, non è la cosa migliore tirata fuori dai Diaframma, ma è sicuramente un lavoro che cerca di manifestarsi nel modo più onesto possibile.

L’abisso è, come dice lo stesso Fiumani, il quasi raggiungimento dei sessant’anni e il luogo dove sta sprofondando l’Occidente: ma è, soprattutto, la riconferma di un artista che ha a che fare con il mondo (quello interno e quello esterno) che un po’ alla volta sta andando in frantumi.

Certi amori fanno giri immensi perché abbitano a Rebbibbia

Ce so’ storie che nun succedono, tipo in metro.
A me in metro nun me succede mai gnente. Tipo: mo’ sto in metro, e nun succede gnente. Sto zitta io, stanno zitti l’altri, ogni tanto sale uno co’ ’a chitara, poi uno coi bonghi, poi n’antro caa fisarmonica, poi uno caa pianola, uno cor piffero, n’antro caa tromba, arivi a Termini che pe usci’ dar vagone devi chiede er permesso alla filastrobbica de’ Londra, porcoddèna.
Io so ’na pischella come tante de oggi, solo ’n pochetto più busta* delle altre de oggi, irrimedievormente convinta che i valori so’ più importanti dell’aspetto. Un concetto che non tutti capiscono, ma essendo io ’na busta certificata dai tempi der liceo, penso de esse nata facilitata. Mo’ che c’ho ventiquattr’anni er quadro daa situazione l’ho inteso bene.

Comunque vabbè, dicevo che a me in metro nun succede gnente, però all’altri sì. Tipo all’amica mia Marusca.
’A prima cosa che fa Marusca, quanno se sveja aa matina, è chiamamme. Un tempo era da fisso a fisso, poi da cellulare a fisso, poi da cellulare a cellulare, poi da smartfon a cellulare, mo’ da ovunque a ovunque. Se nun rispondo, me imbocca direttamente a casa.
N’estate de quarche anno fa, mentre stavo a Termini a fa’ l’unico lavoro che avevo trovato, cioè spigne ai passeggeri i questionari pe verifica’ ’a gradevolezza der servizio daa stazzione, me sòna er devais. Era Marusca, e io sapevo che n’era successo gnente, però j’ho chiesto uguale.
«Che d’è?»
«Gnente».
A Termini quer giorno a lavora’ co’ me, tanto pe cambia’, ce stava pure Sharon, l’artra mijore amica mia. Siccome lei “accollo” ce l’ha scritto ’n faccia, ’a gente già da svariati metri facevano er giro largo pe scanzalla, oppure strizzavano l’occhi pe fingese cecati e passa’ avanti senza inculassela de pezza. Poi ariva er messaggetto de Marusca:

e decidemo che è ora de anna’ in pausa pranzo ar piano inferiore daa stazzione, che c’ha li stessi negozi e posti pe’ magna der centro commerciale Euroma2 ma co più spazio pe’ muovese cor trolly e co ’e valigge.
Mentre s’abbuffamo de fritti cinesi come se nun ce sarebbe ’n domani, Marusca se n’esce incongrua:
«Ma v’aricordate che tajo, er campeggio de Ladispoli?»
Io e Sharon se guardamo nell’occhi.
A Ladispoli insieme ce semo state dieci giorni l’estate prima, ammassate ’n tre in una tenda bucata che cascava ar primo soffio de vento. L’urtimi due giorni ’a tenda l’amo usata direttamente come coperta.
Sharon era stata tutta la vacanza da ’na parte a fa’ l’amebba ar solito suo, Marusca invece s’era messa co Giangrande, uno timido e secco de Rebbibbia. J’avemo dovuto tene’ er moccolo e lassaje ’a tenda-coperta l’urtimi tre giorni.
Vabbè, armeno me so’ fatta er bagno a un mare diverso da li cancelli de Ostia e de Capocotta, sinnò a Ladispoli che ce vai a fa’?

Ar campeggio de Ladispoli incontri gente de Roma che a Roma nun te fileresti mai perché sta lontana trenta chilometri da casa tua, ché a mòvese coi mezzi diventano anni luce. Poi quando torni a Roma, se voi mantene’ i rapporti, devi esse bravo.
Marusca è ’na cifra brava, sta co’ Gerlando da tipo nove anni e mezzo, e lui in questi anni è sempre stato l’unico, ce sta scritto pure su Feisbuc:

Da ’na parte ce sta lui che è l’unico, dall’altra tutti l’artri che invece so’ numeroni.
Marusca li mette tutti come fidanzati unici su Feisbuc e poi filtra i contenuti. L’insieme degli unici lo visualizzamo solo io e lei, che lei de me se fida e poi ar pollicetto mio der laic Marusca ce tiene sempre ad aveccelo.
Gerlando secondo me in nove anni e mezzo s’è ammoscato ’n po’, e lei che è de larghe vedute, ma ’n ha mai approfondito ’a probblematica.
Lui Marusca la ama pe’ davero, in fondo je piace così.
Co ’a quarta de reggiseno.

Comunque ’sta cosa che all’improvviso Marusca se mette a rivanga’ er campeggio a Ladispoli, e c’è venuta fino ar cinese de Termini pe’ dilla, è sospetta. Io penso che ’sta a intrallazza’ quarcosa, e de sicuro ’o pensa pure Sharon. Che ’nfatti me sta a guarda’ co’ du’ occhioni eloquibbili da un minuto bono.
E poi me dice:
«Che me passi er chèciap
N’ha capito ’n cazzo. Come ar solito.
Pijo io l’iniziativa, forse è mejo.
«Ma che te sei risentita co’ Giangrande, per caso?»
Marusca arossisce tipo vergine der Medievo.
«Eh, casuarmente me sa che sto giusto a anna’ da lui».
«A Rebbibbia?»
«Eh. Là abbita».
’Na cosa che m’arisurta de Marusca è che lei nun pensa, se butta.
Mica come me, che sempre a pensa’ a che faccio, a che nun faccio, ma sarà er caso, ma ’ndo vado che so’ ’na boosta co’ du O.
E intanto er tempo passa.
E dar cinese so’ rimasta da sola.

Quando torno ai binari pe riattacca’ er lavoro, ce sta Sharon co’ ’na regazzina de dieci anni, piccoletta co’ ’n par de occhiali tipo Augusto dei Monadi.
«Aoh – me dice Sharon – io me so’ scocciata. Nun se ferma nessuno. Vado a vede’ da Ichea se c’anno lavoro».
«E ’a regazzina?»
«È l’unica che me s’è accollata, e manco è grande abbastanza pe valida’ er questionario. Ciao Boo».
«Mi fai il sondaggio?», me chiede la regazzina.
«Ma ’n cell’hai ’na madre?», je dico.
Sharon sta già sulle scale mobbili che me grida: «Vabbè, dài, se sentimio».
Me tocca cerca’ pe tutta la stazione ’a mamma de st’accollo, che nun sta zitta n’atomo e ner frattempo pija er modulo mio der sondaggio e se mette pure a ’nventasse ’e domande.
«Ce l’hai il fidanzato?»
«No».
«Sai fare la ruota?»
«No».
«Ce l’hai il lavoro?»
«Fa’ n’attimo mente locale. Tu’ madre ’ndo po’ èsse annata, seconno te?»
«E la tua?»
«Sta ’n Francia», je dico.
«Perché?»
«Boh. È francese, sta in Francia. Mi’ padre è der Laurentino P38, e là sta. ’A gente vivono nei posti loro».
’A creatura stacca er fojo e moo dà.
«Tieni, ti ho fatto il sondaggio. ’Sto lavoro è proprio una cavolata».

Ar megafono daa stazzione quarcuno se schiarisce er raspino ’n gola e poi dice che ar binario cinque ce sta ‘n treno che va a Milano.
«Dove ti piacerebbe andare?», me chiede l’accollo.
«Boh. Nun so’ mai stata da nessuna parte».
«Non vorresti andare in Francia?»
«E che ce vado a fa’?»
«Per stare vicino alla tua mamma. È brutto stare senza la mamma».
Me casca er core.
«Dài, piccole’, mo’ la trovamo tu’ madre, tranquilla», je dico.
«Ma io lo so dov’è la mia mamma».
«E allora che cazzo vòi che me stai a fa’ perde ’na giornata sana?»
«Non ti volevo lasciare – m’arisponne. – Mi sembravi tanto sola».

’A mamma de Carola stava alla Coin der binario ventiquattro, quello ’n fonno a tutto. De mestiere trucca ’e signore che passeno e le ristucca da capo a dodici, poi dopo je spigne i prodotti der meicàp. Manco s’era accorta che su’ fija se n’era annata via. Capirai, quanno sei regazzina, er tempo de girasse e ciao mamma.
In quel momento sento annuncia’ l’urtima chiamata der treno pe’ Milano. Sarebbe ’n atomo salicce. Cinque ore ar cesso in classe Superscroccoeconomy e poi, ’na volta a Milano, che ce metto a ariva’ ’n Francia?
Mentre che me perdo ner mio viaggio mentale ma pur sempre economico, che qua pure li sogni a occhi aperti ormai te presentano er conto, me uozzappa Sharon: dice che l’hanno presa da Ichea a fa’ la pianta ornamentale. Poi me uozzappa Marusca, che sta de novo ar cinese a piagne e me dice: «Te prego, vieni che sto male».
E siccome quella che mò sto a racconta’ è ’a storia de Marusca e no ’a mia, me lasso tutti i binari a ’spalle e imbocco de novo dar cinese.
Marusca c’ha ’na rosa in mano ed er trucco sfatto de lacrime. N’è mai annata da Giangrande.  «So’ ’na zoccola», continua a ripete come ’n ciddì masterizzato a cazzo.
Praticamente, prima de pija’ ’a metro, ha incontrato un modello polacco bellissimo che se chiamava Kasimiro, Kazimiero, boh, cazzi sua, e gnente, questo s’era perso, e lei invece s’era ’nammorata come ’na cojona.
L’ha accompagnato a piedi a San Lorenzo e lui j’ha pure offerto er vino coi bruscolini, poi s’è fermato ar portone daa fidanzata sua, j’ha detto «Krazie tante sciao bela» e l’ha accannata là.
Me ricorda che Giangrande la sta a aspetta’ a Rebbibbia da tipo n’ora e mezzo bòna, poi scoppia a piagne de novo perché je s’è pure scaricato er telefono a forza de fasse i serfi cor polacco bellissimo.
«Nun so che fa’, Boo».
«Ma scusa, vai a Rebbibbia a vede’ se ce sta ancora, no?»
Me guarda strana. Poi fa de sì caa capoccia.
«E sì. E certo. È l’unica. Sei popo n’amica. Grazie, Boo».
’A vedo scompari’ sculettando ner carnaio de gente, direzione Rebbibbia.
Li grandi ammori, prima che ariva l’eppi ending, hai fatto ’n tempo a finì quindici eppi auar.
Però poi com’è annata a fini’ non lo so manco io. Marusca, tutte ’e vorte che je lo chiedo, dice sempre:
«Too dico n’antra vorta».
Ce so’ storie che succedono all’artri e non a te, e ce pensi pe’ passa’ er tempo. E meno male che ’n sai come finiscono, perché fòri dar vagone ce sta scritto Lepanto e io so’ arivata e devo scenne. C’ho n’appuntamento che me può svortà ’a vita, de quelli che dopo gnente sarà più come prima. Ma lo racconterò n’artra vorta.

* Se stai a Roma e nun sei esattamente ’na bella ragazza, sei ’na busta. Se poi sei talmente busta che pure le buste quando te vedono se mettono a ride, allora sei ’na Boosta Pazzesca.

 

Boosta Pazzesca nasce e vive orgojosamente al Laurentino 38, a Roma sud. È qualcosista FRI LENZ, fa qualunque cosa pe’ diventà qualunque cosa. Pe’ provacce ce prova, pe’ riuscicce non ce riesce. Ner frattempo però ha scritto su Nuovo Paese Sera, Mymovies e Il Garantista. Ha molti sogni ner cassetto e un romanzo ner settimino perché i cassetti, come li cassonetti, so’ già troppo pieni.

Copertina di Ricrescite di Sergio Nelli

La scrittura come emersione

Il progetto sulla narrativa di Tunué si arricchisce di due importanti filoni: uno è quello della narrativa straniera, l’altro interessa opere italiane ormai fuori commercio che, schiacciate dalla frenetica macchina editoriale, è bene ripubblicare, poiché meritevoli e di valore. Il primo titolo a essere recuperato è Ricrescite del fiorentino Sergio Nelli, un autore di grande esperienza che fa dello studio della parola il punto centrale della propria poetica.

Ogni frase di Nelli è cesellata, costruita con parole soppesate all’inverosimile, per questo la prosa di Nelli – più che urlare e affermare – genera uno spazio riflessivo in cui sono le domande e i silenzi a stimolare l’atto della scrittura.

Le opere di Nelli, vedasi Orbita clandestina o Il primo mondo, sono narrazioni sospese nel vuoto, assemblate con minuzia, in cui le sfumature e le allusioni risultano importanti tanto quanto ciò che appare sulla pagina. In un’editoria muscolare, sempre alla ricerca di un pensiero forte, di un preciso ordinamento del mondo, la ricerca di Nelli va dalla parte opposta, preferendo la lenta maturazione e lo spiraglio di luce nel buio. Forse è questo uno dei motivi della poca fortuna di Ricrescite, un libro costruito come un diario in cui si fa tangibile la stratificazione di anni di scrittura e lavorio sotterraneo. Un lento scavare i cui detriti si coagulano in note di poche pagine, paragrafi cristallini, un incedere incerto nella trama della realtà, seminando domande, più che regalando risposte.

Il libro, apparso nel 2004 per Bollati Boringhieri, torna ora con la solita veste grafica Tunué, ed è arricchito dall’introduzione di Antonio Moresco, a testimonianza del fatto che ci troviamo di fronte a letteratura di una sostanza diversa rispetto a quella a cui siamo abituati dalla macchina industrial-editoriale.

Il romanzo può dirsi quasi senza trama: un narratore che fa l’insegnante e il giornalista appunta i suoi pensieri su un diario, con lui condivide la quotidianità il figlio, che illumina molti silenzi del padre attraverso uno sguardo stralunato sulla realtà. In questo spazio neutro agisce la prosa di Nelli, una sofisticata partitura di temi che cercano di illuminare il sublime e il dolore. Nelli organizza in modo diaristico una serie di immagini che si intrecciano fra loro: la vulcanologia, l’alcolismo, il rapporto padre-figlio. Centellinando riflessioni e considerazioni su ognuno di questi temi si crea un delicato mosaico della vita di un uomo alle prese con il mistero dell’incontro con l’Altro. La monotonia diviene una forma laica di gnosi, un processo ascetico che culmina nella rivelazione della scrittura.

Ricrescite è un libro importante perché risponde a una particolare esigenza della scrittore: l’urgenza privata di mettere su carta i propri pensieri e lasciarli sedimentare, sapendo che quelle parole sono destinate innanzitutto a se stessi.

Per indicare il movimento della poetica di Nelli, potremmo dire che, se altri scrittori si lasciano affascinare dalla costruzione di mondi o dalla resa pedissequa del reale, il fiorentino lascia emergere una realtà parziale, filtrata da due sensibilità differenti: quella pensosa del narratore, quella a tratti disturbante di suo figlio. L’emersione è la categoria principe di Sergio Nelli: un’emersione frutto del lavoro segreto dell’esperienza.

Le parole che leggiamo ci lasciano intravedere uno spicchio di ciò che c’è sotto e ci chiariscono la possibilità di trovare lo stesso cosmo complesso in ognuno di noi. Ricrescite è un libro prezioso che è un bene sia stato ripreso: in primo luogo perché ci dona uno studio della parola a cui tutti dovrebbero guardare, anche solo per arricchire il proprio lessico privato, quello con cui esprimiamo i sentimenti. In secondo luogo perché è opera di uno scrittore di razza che ci suggerisce una grande verità: guardare intorno a noi e credere nella fibra della materia, persino la più insignificante sciocchezza quotidiana può essere trasfigurata in metafora, l’importante è sintonizzarsi sulla giusta sensibilità. Salutiamo dunque il ritorno di un maestro privato, ci approcciamo al sismografo della sua scrittura.

 

(Sergio Nelli, Ricrescite, Tunué, 2018, pp. 117, euro 15)

Gesù ritorna e parla di calcio e donne

«Che poi, chi ci ha mai detto che Gesù non fosse un cavaliere ammattito che barcolla per le vie della Spagna?» Il significato dell’apparizione dell’Argentino, l’uomo che dà il titolo al terzo romanzo di Ivano Porpora (Marsilio, 2018), è senza dubbio messianico.

Chi è quest’uomo misterioso che «l’Argentina manco in foto l’aveva vista» e che arriva un giorno in un paese della Spagna franchista – un luogo sospeso nel tempo e nello spazio, che se non per il nome e pochi dettagli potrebbe essere qualunque paese del Mediterraneo più povero – a sconvolgerne i lenti equilibri, se non un nuovo Cristo? E Verano, il narratore, chi è se non un apostolo scelto per stargli accanto e continuare a predicare per il mondo dopo la sua scomparsa?

Solo che Verano è un adolescente in piena tempesta ormonale, carico di noia esistenziale e di piccoli problemi di ragazzo di campagna, e l’Argentino è un «santo bastardo, o una specie di incrocio tra il Cristo e l’Iscariota».

L’Argentino accoglie con tenerezza le debolezze dei pochi buoni, ma poi spinge Verano a colpire con un sasso un cane malato per mostrare di essere anche lui un «bastardo»; e smaschera i cattivi, sfidando il parroco a suon di citazioni della Bibbia, e a tavola il ricco macellaio, il vero padrone del paese.

Ingaggia, soprattutto, una battaglia da far west con Rosario, rappresentante del male assoluto del paese, che non a caso lo riconosce subito in quanto portatore del bene, e lo teme. Solo che, in realtà, Rosario è solo il capo di una banda di ragazzi nemica a quella di Verano, una sorta di Bimbo sperduto di Peter Pan, che più che di un duello avrebbe bisogno di una madre che si prenda cura di lui.

Questo nuovo Cristo torna sulla Terra a diffondere il Verbo, e ancora una volta subisce la diffidenza e poi la cattiveria degli uomini. Tuttavia, è un Cristo arrivato con poche verità e poca misericordia, e in compenso con una buona dose di arrogante paternalismo; e non è venuto per redimere, ma solo per umiliare i paesani per le loro piccole e grandi miserie umane, ammonendoli con un vago: «Non imparate mai».

Ciò che sfugge, della persona dell’Argentino così come di tutto il racconto, è il pensiero che lo sostiene. Leggendo il romanzo, viene spesso da domandarsi il perché di ciò che si sta leggendo. A cosa serve, ai fini di un racconto di questo genere, una scrittura densa e ricorsiva – di per sé anche musicale e affascinante – come quella che usa Porpora, carica di epiteti e ripetizioni? Il meraviglioso si esprime al meglio con parole semplici. Cosa aggiungono le frequenti lunghe digressioni, che dilatano la storia costringendo l’autore a riprenderla più e più volte, come se ne perdesse a tratti lui stesso il filo?

Cosa insegnano davvero le perle di saggezza popolare, i «si sa» (di cui trovo sia sempre meglio diffidare, perché non sempre ciò che penso io corrisponde a ciò che sanno tutti), gli insegnamenti à la Coelho?

La risposta è che tutto questo serve a indorare la pillola. A mascherare cioè con una bella prosa un vuoto di contenuto, o forse il fatto che il tema reale del romanzo è molto più prosaico della cornice messianica e post-religiosa.

Ed è riassumibile nell’intramontabile binomio calcio-donne.

A guardare oltre la nuvola di parole che Porpora ben compone, L’Argentino non è che l’ennesima storia di un adolescente, appassionato di calcio e in preda all’impeto ormonale, raccontata da un sé anziano e solo apparentemente più maturo.

Non c’è capitolo in cui non si ripeta la formazione degli amici con cui si gioca al campetto, e quale grande calciatore del Real Madrid ognuno impersona, a volte calciando un maglione arrotolato come un pallone.

E non c’è capitolo in cui, nel pieno della storia così come nel vortice delle digressioni, non si faccia accenno a una coscia di donna, a un respirino, a un buco da lavare, a un uccello e a un’erezione, a una donna sdraiata o a carponi che dice ancóra.

Dal pensiero fisso non sono risparmiate neanche le donne della famiglia – di solito, almeno quelle, angeli del focolare: Estrella, la sorella del protagonista, compare sempre e solo in quanto oggetto sessuale, «meravigliosa nella sua vestaglietta da nulla», o con la sua «scollatura voluttuosa», o come immagine da usare per masturbarsi; della madre si nomina il santo buco da cui è uscito il protagonista, il suo essere prima picchiata dal padre, e poi oggetto del desiderio – innocente, suvvia! – di un vicino.

L’Argentino appare quindi così speciale per il discepolo Verano perché gli mostra come far cadere ai suoi piedi ogni donna che vuole, anche quando lei a parole dice di odiarlo, e perché gli insegna le cose (davvero?) importanti della vita attraverso metafore sul Bernabéu e la formazione del Real.

Un Cristo perfetto per «un’epoca in cui la riflessione a vuoto troneggia sull’impasto di polvere e acqua; e poi bla, e bla, e bla ancora». Venuto a ricordarci che le donne non vanno picchiate o maltrattate come fanno i cattivi del paese, per carità, ma solo scopate, dentro e fuori dal matrimonio; che possono essere tradite anche se amatissime, se viene la fregola. Ché tanto tutte sotto sotto vogliono solo «il bastone»: basta solo, come insegna l’Argentino, trovare il modo giusto per convincerle. Ma questo non c’è bisogno che venga Gesù a dircelo.

 

(Ivano Porpora, L’argentino, Marsilio, 2018, pp. 164, €16.00)
Poster di La ballata di buster scruggs su Flanerí

Sei modi per morire nel West

Nella loro carriera i fratelli Coen hanno fatto tutto. Hanno scritto e diretto ogni genere di film, hanno scritto per altri, hanno prodotto un documentario, un film di Natale (Babbo bastardo) e una serie tratta da un loro film (Fargo). Manca solo un cartone animato, perché in teoria hanno anche ideato e diretto una serie tv per Netflix che poi è stata trasformata in un film. La ballata di Buster Scruggs, presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2018, dove ha vinto il premio per sceneggiatura, è stato pubblicato direttamente su Netflix lo scorso novembre.

Doveva essere una miniserie in sei episodi, ognuno basato su una storia di ambientazione western scritta dai fratelli nell’arco degli ultimi venticinque anni. Poi, lo scorso luglio, è stato annunciato che il progetto era diventato un unico film, sempre a episodi. È stato aggiunto un raccordo unico, nella forma di un libro illustrato che viene sfogliato e si sofferma sulle varie storie– un po’ come per i vecchi cartoni tratti dalle favole – e le sei puntate sono diventate i sei capitoli di La ballata di Buster Scruggs.

Si inizia con il racconto che dà il titolo al film, la storia di un pistolero cantante che va incontro al suo destino, e si passa a un fuorilegge che viene impiccato due volte nella stessa giornata. Ci spostiamo sulla storia di uno spettacolo itinerante e del suo protagonista, un ragazzo senza braccia e senza gambe che intrattiene il pubblico recitando un monologo infinito che mette insieme la Bibbia e la dichiarazione d’indipendenza, e dell’impresario che lo sfrutta finché non trova di meglio. C’è poi il grande classico della corsa all’oro, nel capitolo più lirico e alto del film, retto da un monumentale Tom Waits, e l’altro grande tema del cinema western: la carovana in viaggio verso ovest sotto la minaccia degli indiani. La conclusione è affidata alla diligenza, altro topos narrativo del genere.

Con La ballata di Buster Scruggs i Coen hanno operato una doppia sintesi. La prima racchiude – quasi – tutti i modi in cui il mito del Far West è stato raccontato al cinema, nei suoi clichés narrativi, nei suoi stereotipi, nelle sue evoluzioni nella storia cinematografica. La seconda, più sottotraccia, fornisce un riassunto del cinema dei fratelli. Hanno spaziato attraverso tutti i generi, abbiamo detto, e apparentemente questa ballata è la loro terza incursione nel cinema western dopo la variante contemporanea di Non è un paese per vecchi e il classico Il grinta. In questo bizzarro film a episodi, però, si trovano tutti gli elementi fondamentali del loro cinema. Prima di tutto la capacità di cambiare genere senza mai offuscare l’identità, il talento nel raccontare con toni diversi storie diverse. C’è, poi e più di ogni altra cosa, la classica e profonda riflessione morale sull’uomo e la sua condizione.

Il perno di tutta La ballata di Buster Scruggs è la morte. C’è sempre almeno un morto, in ognuno degli episodi, che arriva in un modo diverso, che ha un significato e un valore diversi. La violenza e la la sua estrema conseguenza sono elementi centrali nei film dei Coen, e La ballata non fa eccezione.

Sei racconti così vicini permettono di farsi un’idea sul senso della morte nella produzione coeniana: destino inevitabile e allo stesso tempo motore della vita (vedi l’episodio di Tom Waits e quello finale).

Sotto le sembianze di una miniserie, poi diventata film, western, i Coen hanno fatto con La ballata di Buster Scruggs una specie di manifesto del loro cinema. L’ambientazione e il genere sono puri pretesti per giocare con la storia del cinema, come avevano fatto di recente con Ave, Cesare. Al centro di tutto c’è ancora una volta la riflessione sull’uomo e su tutto quello di cui è capace.

(La ballata di Buster Scruggs, di Joel e Ethan Coen, 2018, western, 132’)

 

Gli occhi su una lingua “minore”

Ho avuto il piacere di incontrare Monika Woźniak in un circolo dei lettori romano e solo il suo aspetto insolito a queste latitudini, e naturalmente il cognome, mi hanno fatto capire che non è italiana, perché il suo italiano è perfetto ed è anche privo di accento. Monika si è laureata in Filologia polacca all’Università Cattolica di Lublino e in Filologia italiana all’Università Jagellonica di Cracovia. Ha conseguito il PhD in scienze umanistiche con una monografia sul fantastico nella narrativa di Tommaso Landolfi e dal 2008 è professoressa associata alla  Sapienza,  specializzata in teoria della traduzione, traduzione letteraria, traduzione audiovisiva, traduzione e letteratura per l’infanzia e nell’analisi del discorso. Il suo perfetto bilinguismo le consente di tradurre autori polacchi in italiano (e viceversa) fra i quali Moravia, Fallaci, Camilleri, Agus, e Mazzucco. È anche autrice di numerosi articoli scientifici in polacco, italiano e inglese.

Queste note biografiche per dire che Monika Woźniak rappresenta l’occasione da non perdere per avvicinarsi al binomio letterario
Italia-Polonia:

Cara Monika, potresti presentarti ai nostri lettori e raccontarci del tuo rapporto con la lingua italiana? Perché e com’è nato?

Sono alta, bionda e non del tutto decrepita, anche se abbastanza grande da ricordarmi bene i tempi del comunismo. E infatti proprio allora, quando frequentavo ancora il liceo, era cominciata la mia avventura con la lingua italiana, complici l’opera lirica e – sorprendentemente – l’Ungheria. Infatti, grazie al negozio di Hungaroton, aperto a Varsavia all’inizio degli anni Ottanta, che aveva tanti dischi di musica classica non reperibili altrove in Polonia, avevo cominciato ad ascoltare le registrazioni di opera lirica, correlati anche di libretti completi. Mi era venuta la curiosità di capire che cosa dicono i personaggi… mi ero messa a studiare la lingua prima da sola, poi ho trovato qualche corso (non era un’impresa facile in quei tempi in una città come Lublino, dove abitavo), insomma, il mio interesse per la lingua e la cultura italiana continuava a crescere. A un certo momento ho avuto un’illuminazione: voglio proprio studiare l’italiano all’università! Stavo per concludere gli studi di polonistica all’Università cattolica di Lublino, ma ero riuscita a farmi ammettere anche a Italianistica a Cracovia. E voilà, eccomi 50% polonista e 50% italianista.


Sei docente e ricercatrice, e hai firmato diverse traduzione dal polacco all’italiano e viceversa. Ce ne puoi parlare, anche rispetto alle difficoltà che incontrano i traduttori fra queste due lingue?

Il bello del mio lavoro è poter conciliare l’aspetto pratico e quello teorico della traduzione. Insegnando la letteratura italiana in Polonia, mi era venuta l’idea di tradurre in polacco le poesie italiane del Duecento che in originale i miei studenti stentavano a capire. Così è nata l’antologia Prima di Petrarca (Przed Petrarka, Collegium Colombinum, 2005). Adesso, devo confessarlo, traduco soprattutto i libri che mi propongono le case editrici, ma le mie esperienze diventano spesso uno spunto utile per le lezioni e i workshop con gli studenti. E lavorando tra l’Italia e la Polonia posso anche invertire il punto di vista riguardo al processo traduttivo. Direi che il problema maggiore da affrontare quando si traduce tra il polacco e l’italiano è il registro stilistico. L’italiano è sempre stata una lingua scritta, letteraria, mentre il parlato veniva affidato ai dialetti. Fino al giorno d’oggi la scrittura tende ad alzare il registro rispetto al parlato, e se vuole proprio abbassarlo, si avvale di elementi dialettali. In Polonia questo divario non è mai stato così pronunciato, anzi, la lingua parlata o perfino il gergo penetrano facilmente nei testi letterari, che altrimenti darebbero l’impressione di essere alquanto pretenziosi o artificiali. Trovare un giusto equilibrio nel passaggio tra il registro stilistico “italiano” e quello “polacco” mi sembra più arduo che risolvere tipici problemi di equivalenza lessicale, giochi linguistici ecc.


Sei certamente un’esperta anche delle due letterature, quindi sorge spontanea la domanda: come vedi la letteratura polacca tradotta in italiano? Rappresenta sufficientemente la produzione di quel paese oppure noti qualche lacuna da colmare? Che titoli consigli al lettore italiano digiuno di letteratura polacca come primi passi da compiere per cominciare a orientarsi?

La letteratura polacca non ha mai avuto molta popolarità in Italia, essendo il polacco una lingua poco conosciuta e considerata esotica. Inoltre, per molto tempo non ha avuto fortuna di trovare bravi traduttori. Sconsiglierei vivamente di leggere vecchie traduzioni di classici polacchi, fatte di solito da dilettanti e di regola non dalla lingua originale ma da altre lingue come francese, russo, tedesco… Per fortuna è appena uscita una nuova traduzione del capolavoro del romanticismo polacco, il Pan Tadeusz (Messer Taddeo, Marsilio, 2018, a cura di Silvano De Fanti) di Adam Mickiewicz (una lettura assai più divertente dei Promessi sposi).

La situazione è migliore per quanto riguarda la letteratura contemporanea. Se il Nobel per la letteratura conferito a Czesław Miłosz nel 1980 non ha fatto molto per rendere lo scrittore conosciuto in Italia (nonostante ci siano delle traduzioni, e fatte anche bene!), diverso è il caso di Wisława Szymborska (premio Nobel nel 1996) amatissima in Italia e letta non solo dai polonofili.

Piace anche Ryszard Kapuściński, viaggiatore e reporter, tradotto quasi per intero in italiano. I miei studenti leggono invece con tanto entusiasmo Andrzej Sapkowski, il più famoso autore fantasy polacco, pubblicato dalla editrice Nord[i]. Cercando, si trovano nelle librerie e nelle biblioteche anche altri narratori, come Andrzej Stasiuk[ii], Pawel Huelle[iii], e Olga Tokarczuk[iv].


Come giudichi invece la letteratura italiana reperibile in traduzione polacca? Chi sono gli autori italiani di maggior successo?

La letteratura italiana ha sempre svolto un ruolo molto importante in Polonia e ha dato uno stimolo fondamentale allo sviluppo della letteratura nazionale, ma per molti secoli vi arrivava in una maniera selettiva: ad esempio Castiglione, Tasso e Ariosto furono tradotti nel Rinascimento, Marino nell’età barocca, ma la prima traduzione polacca del Decamerone risale al Novecento. Gli autori importanti dello scorso secolo sono stati tradotti quasi tutti; non tutti hanno avuto un successo durevole, ma dopo la seconda guerra mondiale sicuramente Moravia e Calvino ne ebbero. Oggi si pubblica soprattutto la letteratura di successo: i gialli di Camilleri, di Manzini, di Malvaldi, i romanzi di Elena Ferrante, la produzione per l’infanzia di Geronimo Stilton e i romanzi d’avventura di Pierdomenico Baccalario.
Ringrazio Monika Woźniak per questa panoramica, per gli spunti e i suggerimenti di lettura. Le auguro buon lavoro e spero di poter leggere sempre più autori polacchi in italiano e di vedere nelle vetrine delle librerie polacche tanti buoni titoli italiani, facendo uso e tesoro dei risultati delle sue ricerche e dei suoi studi relativi alle tecniche di traduzione.

 

[i] Il sangue degli elfi, Il guardiano degli innocenti, La spada del destino, La stagione delle tempeste, Il battesimo del fuoco, Il tempo della guerra, La signora del lago, La torre della rondine, La strada senza ritorno, tradotti da Raffaella Belletti.

[ii] Il mondo dietro Dukla, traduzione di A. Amenta e L. Quercioli Mincer; Il cielo sopra Varsavia e Corvo bianco, tradotti da L. Quercioli Mincer; tutti titoli pubblicati da Bompiani.

[iii] Mercedes-Benz. Da alcune lettere a Hrabal, Voland, 2007, traduzione di Raffaella Belletti

[iv] L’anima smarrita, TopiPittori, traduzione di Raffaella Belletti; Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, nottetempo, traduzione di Silvano De Fanti; Casa di giorno, casa di notte, Fahrenheit 451, traduzione di Raffaella Belletti; Nella quiete del tempo, nottetempo, traduzione di Raffaella Belletti; Che Guevara e altri racconti, Forum Edizioni, traduzione di Silvano De Fanti

Faccia da schiaffi

Benvenuto Cellini, lo scultore rinascimentale di quel “Perseo con la testa di Medusa” che si può ammirare a Firenze, nella sua Vita riporta un ricordo d’infanzia: un giorno vede far capolino, tra le ceneri del caminetto, una rarissima e brillante salamandra. È lì che il padre gli molla un fragoroso scapaccione sulla guancia; ma nell’asciugargli le lacrime con le dita, rivela di averlo fatto per il suo bene: grazie allo schiaffo non dimenticherà mai quel che ha visto.
Ex studente di liceo artistico, non è detto che Salmo non conosca l’aneddoto. Certo è che il rapper sardo gli schiaffi se li cerca molti più di Cellini. Provocatore per istinto, troll all’occorrenza, Salmo ha conferito al suo ultimo album, Playlist, un’estetica trash da CD masterizzato al volo prima d’un lungo viaggio in macchina, dalla confezione minimalista, alla scritta a pennarello sul disco, alla copertina raffigurante un ritratto mono-orecchio disegnato da un suo fan di otto anni. Le stesse tracce, nella loro estrema varietà tematica, stilistica e sonora, sembrano non poter ricevere alcun raggruppamento più calzante d’una generica playlist.

Quando si cerca di trovare un minimo comun denominatore tra elementi tanto diversi, tutto s’asciuga e rimangono solo quelle poche linee portanti, fondamentali, tracciate dalla mano di un bambino. In un album che annovera il pezzo politico (“90 min”), come l’hip hop irriverente (“Stai zitto”), o una trap per giovanissimi (“Cabriolet”), l’autobiografia (“Ho paura d’uscire”), lo story telling (“Sparare alla Luna”), la canzone d’amore (“Il cielo nella stanza”) il dissing (“Perdonami”) e il brano intimista (“Lunedì”), come si fa a mantenere un’identità definita? La risposta è negli schiaffi.

La versatilità e i vari livelli interpretativi dei testi di Salmo ricordano, seppur in scala 1:x, quelli di Dante Alighieri. Così come nella poesia dantesca il filo rosso di un immenso arsenale stilistico consiste nella concretezza delle immagini e nell’impatto della visione, le rime di Salmo sono di un realismo crudo, a volte grezzo, che accompagna ogni messaggio, come una cinquina ben stampata.

«I rapper di oggi si vestono male / E cantano male / E più fanno schifo / Più sale la fama / Ti sembra normale? / È come se adesso ti vomito in faccia / Ti passa la fame» (“Perdonami”)

Oppure:

«Mi voglio ripulire e dare colpe alla droga / Dici se non piove non crescono i fiori / Ma io sono ottimista e ci piscerò sopra» (“Lunedì”)

Lo schiaffo è doppiamente funzionale nel rap, rispetto alla letteratura. È sbagliato pensare che il rap sia letteratura, per la differenza fondamentale che il rap non nasce per essere letto, ma per essere ascoltato, e per essere ascoltato in fretta. Lo schiaffo rimane impresso nella memoria laddove la memoria sembra non avere tempo per trovare appiglio. Lo schiaffo dà il tempo. Lo schiaffo di Salmo è educativo, non solo nei confronti degli ascoltatori, ma anche verso una nuova scena rap a cui sono stati proprio la gavetta e gli schiaffi a mancare, e in ultima analisi verso una fantozziana classe politica che si prende il palco ormai unicamente per sparare a zero sulla Corazzata Potëmki:

«E facce che cercano schiaffi / Ma trovano sempre gli applausi / Applausi /90 minuti di applausi» (“90min”)

Eppure, per ogni schiaffo che Salmo molla, non ce n’è uno che lui non abbia ricevuto dalla vita, dalla scena, dal sistema, prima di arrivare a dove è ora. Sono i ceffoni che non ti fanno dimenticare da dove vieni, di quelli che ti piazza un genitore quando ti sei assentato troppo a lungo da casa. Sarà per questo che quel volto sulla copertina di Playlist è così minimal. È sfigurato, e forse per questo essenziale, più maturo che mai.

C’è una vicenda che rende, per contrasto, il volto di Salmo. Nel dicembre 2016, ha un alterco via Instagram con Fedez. Quest’ultimo è l’emblema della riconduzione della musica al suo volto, un volto ultra dettagliato e sotto i riflettori almeno quanto quello di Salmo è asciugato dagli orpelli. Della polemica è importante notare la mimica: Fedez, nell’accusare Salmo di essere un invidioso che non sa godersi la vita, guarda fisso in camera, scuote la testa didascalico. Dal tic con cui si sistema i capelli, hai l’impressione che si stia specchiando, più che rivolgendosi a un interlocutore. Accade qualcosa di strano: le sue dichiarazioni, per quanto dure possano essere, suonano blande come carezze. Il prezzo del mostrare in piena luce il proprio volto, nella sua diretta come nella sua musica, è quello di veder svanire la potenza delle proprie parole. Salmo risponderà qualche giorno dopo. È alla guida della sua auto. Lo sguardo è sfuggente, guarda continuamente la strada, un po’ per perlustrare l’incrocio, un po’ per timidezza. Salmo è abituato a negare il suo volto, all’occorrenza. Non per niente è solito indossare una maschera ai concerti, la stessa maschera dei mostri, dei deformi, dei mutilati. Ma le sue parole, come sempre, sono schiaffi:

«Probabilmente è così. Io non sono mai felice. Sto sempre male. Ecco perché continuo a scrivere delle canzoni decenti».