I will avenge you, Robert!

Per farsi un’idea dell’immediato interesse che si è guadagnato Robert Eggers, basti pensare che, già molto prima che The Northman approdasse nelle sale, si era iniziato a chiacchierare – e a farlo con un certo hype – riguardo a un altro progetto del regista statunitense, cioè il re(re)make di Nosferatu. La notizia era stata accolta con l’accoglienza che si è ormai soliti riservare a notizie di questo tipo: non curiosità ma preventiva acclamazione (al coraggio?), non ansia ma pura trepidazione. Non si può aspettare, sarà un capolavoro.

Sì, perché il trentottenne Eggers, dopo soli due film, pareva già deputato a guidare la rinascita del Cinema, peraltro all’interno di una scena horror capace di affrancarsi dai franchise (e quindi Saw, Rec, Paranormal Activity e, più tardi, The Conjuring) e spostarsi su un piano più autoriale. Nel giro di poco è nata una triade quasi inseparabile: Jordan Peele (Scappa – Get Out, Noi), Ari Aster (Hereditary, Midsommar) e appunto Robert Eggers (The Witch, The Lighthouse e ora The Northman), a cui talvolta si aggiunge il nome di David Robert Mitchell, che però sembra appartenere meno al genere, dato che ha esordito con un coming of age (il delizioso e sottovalutatissimo The Myth of the American Sleepover) e che, dopo l’incursione horror con It follows (2014), è tornato con un simil-noir psichedelico mai distribuito in Italia (Under the silver lake, 2018).

Per quanto diversi nell’approccio (Scappa – Get Out per esempio resta comunque un cinema più vicino all’intrattenimento, e del resto Peele nasce come comico), i tre esordi avevano ricevuto un’approvazione – fino a sfociare nell’acclamazione – più o meno generale. Chiamati alla seconda prova (che è sempre la più difficile nella carriera di un artista, canta il luogo comune), i giudizi si sono assestati su una gerarchia più o meno condivisa: Peele, appunto, staccato dagli altri due (guai a premiare il cinema divertente!), con Eggers e Aster a contendersi il primato. Ritmi, ambizioni e cifre stilistiche avevano insomma collocato i due registi nella dimensione degli autori (questi, cioè, non vogliono [solo] divertire: vogliono fare arte).

The Lighthouse era un film autoriale in tutto e per tutto: dall’impostazione teatrale al lavoro sulla recitazione, dai riferimenti (moltissimi) letterari a – manco a dirlo, naturalmente – il bianco e nero. Eppure, a giudizio di chi scrive, questo impianto così fortemente autoriale, che pretendeva un’esegesi tanto stimolante per l’intelligenza e la cultura di certi spettatori (e in particolare di quello medio), finiva per risultare irritante – proprio per via dell’eccesso di simboli e riferimenti e interpretazioni in relazione a un’azione molto minimale – per altri.

The Northman è una riscrittura shakespeariana in salsa vichinga, invero con toni poco affini a Shakespeare e più debitori all’epica. Amleth (Alexander Skarsgard) deve vendicare suo padre (Ethan Hawke) assassinato da suo zio Fjolnir (Claes Bang). Siamo nelle terre del Nord, l’anno è l’895. Si tratta di un film poco riflessivo, per nulla introspettivo, privo di dubbi amletici. E questi aspetti, per quanto all’apparenza negativi, non rappresentano un difetto del film – semmai ne rappresentano un limite, il che è una cosa diversa. Il nostro sembra essere un tempo che ammette poco la dimensione del buono soprattutto di fronte al talento: se hai talento, o fai un capolavoro oppure fallisci.

The Northman ha dunque la colpa di essere un buon film senza essere il capolavoro che molti speravano che fosse, e non lo è perché, per quanto presuntuoso e comunque incerto possa sembrare questo processo alle intenzioni, non è questa la categoria a cui sente di poter appartenere. Volendo giocare, si potrebbe dire che è un po’ come se Lars von Trier e Peter Jackson si fossero divertiti a rifare insieme Il gladiatore. Questo, certo, non significa mica che Eggers mirasse a fare un film soltanto discreto (anzi), ma appare abbastanza chiaro – sempre a detta di chi scrive – che le ambizioni di questo film siano di natura molto diversa rispetto ai due che l’avevano preceduto.

Per esempio, è evidente che The Northman è, a differenza di The Lighthouse, un’esperienza soprattutto sensoriale: il discorso letterario si esaurisce quasi subito, poche sono le sfaccettature che possano essere appiglio a un ragionamento più profondo, i personaggi secondari sono sostanzialmente incolori, e il tutto è a servizio di un’immediatezza che deve esaltare la spettacolarità dell’esperienza visiva ed emotiva. Questa scelta si può anche scegliere di non sposarla, ma il talento che Eggers mostra nella sua resa difficilmente può essere negato.

Sembra allora che sia proprio questo il motivo di un’accoglienza piuttosto tiepida: non ha rispettato le nostre attese perché non è il film che ci aspettavamo da Eggers. Se The Northman fosse stato l’esordio di un regista sconosciuto, probabilmente avrebbe fatto molto meno rumore e sarebbe magari stato accolto con più onestà e preso per quello che è: un revenge movie di buonissima fattura, con molti aspetti convenzionali e una confezione tecnica di ottimo livello (quanto si abusa, oggi, dell’elogio alla regia, a maggior ragione quando si deve muovere una critica a un film [“non mi è piaciuto, però tecnicamente…”], ma Eggers è bravo per davvero, più bravo di molti di cui si premette la bravura). Non si perdona, però, l’incursione nel mainstream all’autore di talento. The Northman allora diventa un film non riuscito perché si è deciso di inserirlo nella categoria del cinema d’autore ed è perciò un film in bilico, a metà – e che non accontenta nessun pubblico, potrebbe aggiungere qualcuno.

In realtà, malgrado l’elevato minutaggio, il film scorre senz’alcun affanno, supportato da una regia che in alcuni momenti si fa persino videoludica (nelle scene più stealth), che sa esaltare gli splendidi paesaggi nordici e intende spettacolarizzare la dimensione ritualistica del mondo vichingo, con episodi a metà tra il sogno e la fantasia scanditi da un montaggio che gioca con la suggestione. The Northman insomma compie un abbassamento del materiale di partenza, lo semplifica fino a stilizzarlo, ed è in questo senso un’operazione inversa a quella di The Lighthouse, che era povero agli occhi per poi crescere nell’elaborazione esegetica a posteriori, mentre questo è un film di eccessi: di personaggi, di sangue, di violenza, di pessimismo (smorzato soltanto nel prefinale), di urla, di morti. Ma non c’è una traduzione di questo eccesso: possiamo forse intendere il viaggio di Amleth come un percorso catartico attraverso cui giungere all’amore («Non mi sono mai sentito vicino a nessuno prima di te», confessa a Olga) dopo aver espulso l’odio della vendetta, ma è inutile spingersi tanto oltre, perché la violenza è violenza e non ha altro significato se non quello di rivelare la natura ferina dell’uomo. La morte e il sangue, proprio come nei giochi gladiatori, sono qui mostrati al pubblico che cerca la crudeltà dello spettacolo e di quella vuole appagarsi.

Si tratta, potremmo dire, di un cinema d’intrattenimento di tipo ibrido, che non intende rinunciare allo stile e che lascia sullo sfondo la possibilità di una riflessione, a seconda dei casi, più o meno ampia ma comunque limitata, che ha una tensione narrativa più o meno costante, uno spessore psicologico ridotto e ritmi più accessibili.

The Northman, anche lo si voglia stroncare, è un buon esempio di questa sottocategoria, a cui si può opporre il recente Dune di Villeneuve proprio perché fa il percorso contrario: parte da un genere di massa (la fantascienza) e gli conferisce una “nobiltà” autoriale, con un ritmo dilatatissimo che rende il film, di fatto, un enorme preambolo. E mentre Villeneuve corre verso l’incoronazione (del tutto immeritata, a parere di chi scrive), Eggers va invece incontro a una svalutazione: forse ci siamo sbagliati su di lui? Il pubblico colto, nell’epoca socialmediatica, ha raggiunto una risonanza tale da confondersi (o sovrapporsi) alla critica certificata. L’impatto che un film ha su di esso è importante almeno quanto quello critico; di sicuro, riesce a fare perfino più rumore. The Northman ha infatti conquistato anche alcuni recensori importanti (Peter Bradshaw sul Guardian, per esempio), eppure si respira aria di delusione (del resto s’intende che non sono mancate le recensioni tiepide pure da parte della critica, come quelle apparse sul New Yorker).

In attesa del quarto, Eggers dovrà dunque incassare il responso del suo primo film mainstream, e non manca chi, con la fretta a sentenziare che si confà al nostro tempo, è pronto a darlo per morto. Se così fosse, qualcuno dovrà vendicarlo: chi scrive è disposto a farsene carico. I will avenge you, Robert!

(The Northman, di Robert Eggers, 2022, azione, 127’)

MORE D4TA, politica e techno

La cifra stilistica dei Moderat è consolidata. Riconoscibile. Le identità di Apparat e Modeselektor messe insieme. Nessuna delle due. Qualcosa che è altro. Moderat è un corpo che si muove a prescindere dalle anime che lo compongono. Dopo sei anni, il ritorno con MORE D4TA.

Techno da club anni 90 inglese (Surgeon o Cybersonik, per dirne un paio, ma anche necessariamente quella pietra miliare della scuola di Detroit, Jeff Mills),  idm (sempre con una propensione massimalista), Burial come uso dei campionamenti (da sempre punto di riferimento).

Chiaro l’intento dell’album, partendo semplicemente dall’immagine della copertina. L’astrattezza generale che emerge delinea un discorso sull’uso dei dati, dei numeri, l’algocrazia: la ricerca di come disciplinare il genere umano attraverso il calcolo non umano (nonostante sia un prodotto umano) e la sua raffigurazione artistica attraverso la macchina: il senso dell’album in  questo continuo gioco di rimandi e di paradossi. Ne esce il manifesto politico dei Moderat.

Intorno al discorso sulla musica, comunque, non ci solo  riferimenti alla techno o alla trance: perché per quanto sia necessaria la dimensione da Club/Live – l’aspetto su cui si basa la performance Moderat (l’idea di rave, di rito collettivo, il riconoscere l’altro attraverso il rito) -, con l’idea di groove e i suoni ossessivi e acidi, le radici di MORE D4TA le troviamo anche nelle istanze melodiche del pop che si fa post pop: ritroviamo quindi un corrispettivo contemporaneo in  Bon Iver (“Soft Edit“), la sua rilettura cyborg del pop, o nei Depeche Mode di Violator e il loro deformare la melodia attraverso il filtro dell’elettronica.

C’è Thom Yorke e non potrebbe essere diversamente: la sua carriera solista si sviluppa su binari che viaggiano verso una nuova interpretazione dell’elettropop, ed è dunque complicato fare un discorso sui Moderat senza citarlo (“Shipwreck” dei Modeselektor, no?). In fin dei conti, per parafrasare Dostoevskij, siamo tutti usciti dal cappotto di Thom Yorke.

Da “Fast Land” (dove riesce benissimo il tentativo di mischiare Boards of Canada e Massive Attack) al pezzo più melodico “More Love“, passando per il capolavoro post tecnho trance “Neon Rats“, fino all’elettrizzante “Undo Reno” (dove emergono i già citati Depeche Mode), esce fuori un album scritto da musicisti che confermano per l’ennesima volta di avere chiaro in testa come esprimere i propri contrasti con l’esterno.

I Moderat sono un’anomalia del sistema musica, un’entità che abbraccia diversi universi non riconoscendosi in nessuno, ma riuscendo a esprimerli con grande sensibilità: “MORE D4ATA” è l’ennesimo momento delle loro carriera in cui sembra che Apparat e Modeselektor trovino tutto ciò di cui hanno bisogno nell’altro.

Foresta Bottos

Raccontare la crisi climatica: la climate fiction

È il 2007 quando il giornalista Dan Bloom, per indicare un sottogenere della fantascienza incentrato sui cambiamenti climatici, parla per la prima volta di «cli-fi», termine ripreso cinque anni più tardi dalla scrittrice canadese Margaret Atwood in un tweet poi condiviso da migliaia di follower. Da allora è passato un decennio e sono molti i romanzi – e non solo – che hanno messo la crisi climatica al centro della narrazione, dando vigore a quel filone narrativo che ha preso il nome di climate fiction, o narrativa ambientale, a metà tra la fantascienza e il distopico, pur distinguendosi da questi due generi per diversi aspetti.

Innanzitutto le vicende narrate dai romanzi di climate fiction sono ambientate in un presente prossimo e possibile, e non in un futuro lontano, che non ci riguarda. Strettamente collegato alla prossimità temporale è il fatto che le vicende raccontate siano scientificamente possibili, e in questo senso i romanzi cli-fi appartengono anche a quella che Atwood ha definito «speculative fiction»: le vicende narrate nei romanzi di questo genere non solo sono possibili, ma potrebbero stare già accadendo. Di conseguenza un altro elemento che differenzia la climate fiction dalla fantascienza e dal distopico è la verosimiglianza, la necessità che i fenomeni narrati siano supportati da dati e ricerche scientifiche valide e approfondite.

Lo sa bene Bruno Arpaia che, per costruire l’immaginario di Qualcosa, là fuori (Guanda, 2016), il primo romanzo cli-fi italiano, ha confrontato i dati scientifici, tenendo conto del parere di diversi scienziati, da James Hansen della Nasa fino ai rapporti dell’IPCC. L’aspetto più affascinante di Qualcosa, là fuori è proprio il realismo speculativo di quanto narrato, ottenuto grazie a una rigorosa ricerca delle fonti e uno studio della letteratura scientifica sull’argomento. Il risultato è un romanzo che, sebbene ambientato nel 2100, è drammaticamente simile al nostro presente, in cui una moltitudine di profughi è in viaggio dall’Italia verso la Scandinavia, ultimo luogo incontaminato della Terra. Non è raro, perciò, che romanzi cli-fi finiscano per raccontare catastrofi che sono già in corso. Così è accaduto con Odds Against Tomorrow di Nathaniel Rich, pubblicato nel 2013 negli Stati Uniti, in cui un matematico trova lavoro in una società finanziaria che specula alimentando la paura di un cataclisma incombente. Rich stava lavorando al suo romanzo e alla descrizione di una New York inabissata dall’acqua proprio quando la parte orientale degli Stati Uniti veniva colpita dal ciclone Sandy.

Visto il bisogno di indagare il futuro prossimo – più simile al nostro presente, come si è visto –, è d’obbligo interfacciarsi anche con lettori giovani: il tentativo è sensibilizzare le generazioni che domani quel mondo lo vivranno certamente. E allora non è raro che la cli-fi si avvalga del genere young adult. L’autore francese Michel Bussi ne è un esempio. Nella sua saga distopica N.E.O. (pubblicata da edizioni e/o), narra di una Parigi in cui il disastro ambientale si è già consumato e in cui gli unici a essere ancora vivi sono i bambini. La narrazione assume i connotati di una parabola, similmente a quanto accade nel romanzo finalista al National Book Award 2020 di Lydia Millet I figli del diluvio (NN Editore, 2021) che, pur rifacendosi agli scenari di Il signore delle mosche di Golding e alle atmosfere alla Cormac McCarthy, si avvale di una cornice apocalittica di impronta biblica. L’impressione è che per spiegare l’imminenza della catastrofe non basti più il giudizio critico ma ci sia bisogno di lambire il religioso, in un ambito in cui la parabola ha la funzione di spiegare e annunciare in modo semplice la fine dei tempi, la fine dell’essere umano.

Se la cli-fi tende a immaginare scenari distopici e storie di fallimento, disastro e collasso della società, c’è un altro genere che però immagina esiti positivi e utopistici: è la solarpunk fiction, per la quale anche se le storie di fallimento possono avere un effetto catartico impediscono comunque la possibilità di pensare e immaginare futuri alternativi. Un romanzo su tutti: New York 2140 (Fanucci, 2017) di Kim Stanley Robinson, ambientato in una New York sommersa dall’acqua. Elemento, quello dell’acqua, al centro anche di romanzi come Riaffiorano le terre inabissate (Atlantide, 2021) di M. John Harrison e Il muro (Sellerio, 2020) di John Lanchester. In quest’ultimo ci sono tutti gli elementi del nostro presente: il cambiamento climatico e la Brexit come nel romanzo di Harrison, ma anche Donald Trump, gli immigrati e l’incapacità decisionale della politica.

L’ibridismo dei generi è l’altro tratto comune. In Il sussurro del mondo (La nave di Teseo, 2019) Richard Powers unisce divulgazione scientifica a elementi soprannaturali per raccontare la distruzione della natura operata dagli esseri umani. Il romanzo, oltre ad aver vinto il premio Pulitzer 2019, è stato osannato da più parti; in Italia Francesco Longo su Rivista Studio lo ha definito «la Bibbia della eco-fiction» mentre per il New York Times è «una gigantesca fiaba di genuine verità». Ma non si tratta soltanto di una storia sul rapporto con la natura: l’aspetto più interessante di questo romanzo riguarda l’incapacità dell’uomo ad aprirsi alla conoscenza di nuove forme di vita; ha luogo conseguentemente il collasso di una visione antropocentrica della narrazione: i veri protagonisti qui sono gli alberi, come lo sono anche nel romanzo di Michael Christie, I Greenwood (Marsilio, 2021), ambientato in un futuro prossimo in cui l’unico luogo dove è ancora possibile respirare come un tempo è a Greenwood Island.

A narrare un cambio di prospettiva, e di conseguenza la fine di quell’idea di “umanità” così come la conoscevamo, ci pensa anche il romanzo di Diane Cook dal titolo Un mondo quasi perfetto (SEM, 2022). Una figlia che sta morendo di inquinamento e sua madre lasciano la città per raggiungere lo Stato delle Terre Vergini, l’ultimo lembo di terra sopravvissuto ai cambiamenti climatici. Agnes e sua figlia Bea si sottopongono a un esperimento per verificare se l’uomo è in grado di convivere con la natura senza distruggerla; il risultato è un ritorno allo stato brado in cui i bisogni dell’essere umano sono ridotti alla ricerca di cibo e di un luogo dove ripararsi. Ma è davvero possibile una vita futura basata su un modo nuovo di pensare, su una sensibilità nuova? Se lo chiede pure la poetessa statunitense Kassandra Montag nel suo romanzo d’esordio Terre sommerse (HarperCollins Italia, 2020), in cui i personaggi fanno i conti con un mondo sommerso dall’acqua e sono costretti a superare lo smarrimento e a impegnarsi per costruire una nuova realtà.

L’ibridismo dei generi è tale da toccare anche la saggistica. Va menzionato di nuovo Nathaniel Rich e un altro suo libro, questa volta un saggio dal titolo Perdere la Terra (Mondadori, 2019), in cui si racconta l’incapacità delle potenze mondiali, fra il 1979 e il 1989, di creare un piano in collaborazione con scienziati e attivisti volto alla salvaguardia del pianeta. Quello di Rich non è un saggio secondo gli stilemi tradizionali, ma (come spiega l’autore in un articolo di La Lettura) «“una non-fiction narrativa sul cambiamento climatico: ricostruisco le storie intime di chi allora non solo cercò di trovare soluzioni politiche, ma si interrogò sulle conseguenze per le proprie famiglie e il futuro”». Ibrido è anche il saggio di Jonathan Safran Foer Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi (Guanda, 2019), che «all’ambiente non dedica un romanzo. Ma neppure un saggio tout court. Piuttosto “un’analisi con parti autobiografiche”».

Anche Amitav Ghosh si è speso molto per la causa ambientalista sia nei suoi numerosi interventi pubblici sia con le sue opere, a partire dal pamphlet La grande cecità (Neri Pozza, 2017), definito da Goffredo Fofi «una analisi rigorosa e convincente, e per forza di cose pessimista nonostante le caute dichiarazioni di speranza»: pure qui un saggio ibrido in cui lo scrittore indiano non attinge dal reale, ma intreccia mito, folklore e soprannaturale per narrare un mondo in cambiamento. Lo stesso fa con il suo ultimo lavoro, Jungle nama (Neri Pozza, 2021), una graphic novel illustrata dall’artista pakistano-americano Salman Toor. Qui Ghosh ricostruisce la leggenda di Bon Bibi, una figura sacra adorata sia dagli indù sia dai musulmani delle Sundarbans. Una storia che ha lo scopo di ricordare l’importanza del rispetto per la natura. Jungle nama, pur sembrando destinato ai bambini, è in realtà un libro per adulti molto serio. In un’intervista recente a la Repubblica Ghosh ha sostenuto che «una delle cose più bizzarre di questa cultura è che scrivere di tempeste e disastri naturali, per quanto devastanti, non è considerato letteratura seria. Diventa subito fantasy o fantascienza. È una trappola in cui la modernità si è cacciata. Perché è ovvio che gli eventi climatici che ci circondano sono fatalmente seri. […] Eppure queste tematiche faticano a trovare un inserimento nei testi che la cultura contemporanea considera seri. Un paradosso incredibile».

Secondo Ghosh il problema è proprio questo: con l’avvento della modernità il discorso attorno alla natura è stato progressivamente relegato al territorio della scienza, lasciando la cultura fuori dal dibattito. Si è creata perciò una divisione tra scrittori e questioni scientifiche. A un certo punto la letteratura ha smesso, secondo Ghosh, di occuparsi di questioni scientifiche.

E allora che ruolo ha la letteratura in tutto questo, deve “servire a qualcosa” o va semplicemente confinata nell’isola dell’intrattenimento? Secondo Carla Benedetti, autrice di La letteratura ci salverà dall’estinzione (Einaudi, 2021), la letteratura è in grado di arrivare lì dove politica, economia e diritto stanno fallendo, purché gli autori non si riducano a fare del cambiamento climatico una questione di contenuto o di tema. E invece spesso è proprio così che la letteratura affronta il problema dell’emergenza ambientale: «Ci si aspetta o storie di disastri ambientali e conseguenti collassi sociali, quali quelle a cui ci ha abituato la fantascienza apocalittica, post apocalittica o collassologica; oppure, al contrario, come auspicano alcuni psicologi del cambiamento climatico, “storie ambientali positive”, che raccontino anche solo di piccoli risultati raggiunti con gioia e determinazione».

È necessario invece che la parola non sia assertiva o profetica – come è nella letteratura apocalittica –, ma che sia in grado di suscitare empatia verso chi verrà e abiterà il pianeta dopo di noi; che ci renda «acrobati del tempo», dice Benedetti citando l’espressione del filosofo tedesco Günther Anders, e perché ciò accada è necessario guardare anche alla letteratura del passato. I romanzi cli-fi hanno sì il grande merito di «far crescere la consapevolezza dell’emergenza ambientale, ma […] fanno leva su un solo sentimento, lo spavento per la catastrofe che ci aspetta – che di per sé può portare all’azione ma anche alla paralisi. Poiché lo scoglio sta proprio qui: non è la consapevolezza della possibile catastrofe che ci manca, ma la forza di uscire dalla paralisi che l’attuale stato delle cose genera».

A questo stato di paralisi il filosofo Timothy Morton, esponente del realismo speculativo, ha dato un nome ben preciso: iperoggetto. Nel suo saggio Iperoggetti (Nero, 2018), sostiene che «l’iperoggetto per eccellenza è proprio il riscaldamento globale, la cui caratteristica principale è quella di esistere su dimensioni spazio-temporali troppo grandi perché possa essere visto o percepito in maniera diretta. Ad esempio un’ondata di caldo nelle Filippine può avere come conseguenza, per le complesse ragioni che fanno del clima un sistema grande quanto la Terra, un’estate particolarmente fredda in Francia». In questo contesto ci si può solo augurare che un genere come la climate fiction contribuisca a “ridurre” le dimensioni di questo iperoggetto che è il riscaldamento globale, e a far sì che si prenda contezza della realtà dell’apocalisse in un modo più efficace di quanto abbia fatto la fantascienza fino a oggi e che, parafrasando Alex Langer, la conversione ecologica sia presto socialmente desiderabile.

 

Fonte immagine: Federico Bottos su Unsplash

immagine di Arsenij Tarkovskij

Arsenij Tarkovskij, «perché fermare il tempo?»

Discorrendo su Tarkovskij il pensiero dell’interlocutore finisce per rivolgersi ad Andrej, sicuramente uno dei cineasti più influenti del secolo scorso. Capolavori come Andrej Rublëv, Solaris e Stalker hanno fatto la storia della settima arte, divenendo delle opere imprescindibili per chiunque voglia approfondirla. Almeno in Italia, Andrej Tarkovskij si impone all’attenzione della critica e del pubblico con il suo primo lungometraggio – L’infanzia di Ivan –, vincitore del Leone d’oro al Festival di Venezia. Nonostante in tutti i suoi film vi siano riferimenti autobiografici più o meno espliciti, la pellicola più intima del regista rimane Lo specchio. Opera del 1975, il film racconta la crescita dell’autore partendo dall’infanzia. In particolare, viene analizzato il rapporto con le figure genitoriali. Il legame indissolubile con la madre si pone in netto contrasto con l’assenza e le incomprensioni paterne. Un rapporto complesso, dunque, quello fra padre e figlio che, tuttavia, trova un proprio punto di incontro nell’arte. Infatti, il padre di Andrej è Arsenij Tarkovskij, uno dei poeti più rappresentativi della sua generazione.

 

«I primi incontri»

Nonostante il successo riscosso in patria – principalmente in epoca post-staliniana –, l’opera di Arsenij fatica a imporsi oltre i confini dell’Unione sovietica. I film del figlio, comunque, contribuiscono alla sua conoscenza e riscoperta. Opera fondamentale a riguardo è, appunto, Lo specchio; lo stesso, infatti, si apre proprio con dei suoi versi particolarmente evocativi. Tratti da I primi incontri la frase in esergo recita: «scendevi come una vertigine / saltando gli scalini, e mi conducevi / oltre l’umido lillà nei tuoi possedimenti / al di là dello specchio». Una poesia d’amore capace di alimentare la fantasia del lettore sia con impressioni liriche sia con oggetti concreti nella loro quotidianità. Il poeta ripercorre con il pensiero, appunto, i primi incontri con la moglie Marija Višnjakova, madre di Andrej. Un paesaggio idilliaco caratterizzato da immagini caratteristiche viene posto in contrasto con l’arredamento povero di una casa umile. Il pensiero, dunque, si leva al di là del reale e supera metaforicamente lo “specchio” per immergersi in un mondo alternativo: la visione degli amanti. Tuttavia, il senso di scissione e l’incertezza del futuro si riconfermano nel distico in chiusura: «Quando il destino ci seguiva passo a passo, / come un pazzo col rasoio in mano».

 

Tarkovskij e l’editoria italiana

Arsenij Tarkovskij deceduto nel 1989 ha visto in Italia solo poche pubblicazioni. Eccetto qualche occasionale uscita dei suoi versi, la prima pubblicazione organica della sua opera viene compiuta dall’editore Scheiwiller, pubblicando appena dopo la sua morte un volume di poesie scelte. Quattro anni dopo, sempre per Scheiwiller, è la volta di Costantinopoli. Prose varie e lettere. Corredato da un ricco apparato critico-filologico, l’opera in due volumi viene ripresa da Giometti&Antonello nel 2017, riproponendola in un solo volume decisamente più agile – ma comunque caratterizzato da una completezza e cura rari. Sempre per la traduzione di Gario Zappi, il libro così proposto è impreziosito da un’esaustiva nota biografica aggiornata da Maria Tarkovskaja, figlia del poeta. Stelle tardive – ecco il nome del volume – è un compendio per comprendere la poetica di Arsenij Tarkovskij, non solo tramite i componimenti ma anche attraverso prose selezionate. Tra quest’ultime emerge Costantinopoli, dieci racconti semi-autobiografici che l’autore pubblica per varie riviste a partire dal 1987. Di recente uscita, sempre per Giometti&Antonello, è anche il secondo volume di Stelle tardive, contenente poesie disperse e immagini inedite.

 

Gli inizi da traduttore

Come anticipato, il successo di Tarkovskij ha tardato – e tarda tutt’ora – ad arrivare in Occidente. Se si pensa a nomi come Marina Cvetaeva, Anna Achmatova, Osip Mandel’štam e Vladislav Chodasevič, Tarkovskij rimane un autore semisconosciuto. Tuttavia, già la censura staliniana ne aveva percepito il valore in un documento in cui viene riportato: «Poeta di grande talento, Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa cui appartengono anche Achmatova, Gumilëv, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič, e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi». A differenza di Chodasevič prima e di Iosif Brodskij poi, Tarkovskij non decide per l’esilio – lo stesso che il figlio narrerà in maniera magistrale in Nostalghia. Tarkovskij, infatti, rimane in URSS dedicandosi alle traduzioni di poesie e canti epici delle singole tradizioni nazionali dell’Unione. Parallelamente alla sua attività poetica personale osteggiata dal regime, Tarkovskij traduce capolavori dal turkmeno, karakalpako, armeno e georgiano. I continui viaggi gli permettono – per usare un’espressione di Manderl’štam – di «rovistare nell’anima» di poetiche variegate, ma anche e soprattutto di conoscere gli autori più rappresentativi dell’epoca. D’altronde fin dall’infanzia Tarkovskij frequenta una serie di circoli culturali di cui il padre Aleksandr faceva parte. Da lui eredita la passione per le lingue, ma anche un forte spirito politico. Già adolescente viene incarcerato per le proprie posizioni e fugge in cerca di riparo. Nel frattempo, scrive e riesce a recarsi a Leningrado per far leggere i propri componimenti al poeta simbolista Fëdor Sologub che non tarderà ad affermare: «Sono poesie molto brutte, giovanotto, ma non perdete la speranza, scrivete, e forse qualcosa vi riuscirà». Negli anni successivi approfondisce l’ambito letterario, collaborando con una serie di riviste. Intanto comincia a collezionare volumi antichi; migliaia di libri che, purtroppo, andranno perduti durante il secondo conflitto mondiale. Nonostante il prolifico lavoro di traduttore e la nascita di Andrej nel 1932, il rapporto con la moglie naufraga nel 1936 quando Tarkovskij decide di trasferirsi da Antonina Bochonova. Da qui il rapporto con il figlio andrà inevitabilmente a incrinarsi, legando ancora di più Andrej alla madre; queste esperienze, come anticipato, saranno il materiale principe per Lo specchio.

 

Il rapporto con i contemporanei

Durante la Seconda Guerra Mondiale diviene scrittore del giornale militare e, oltre a essere corrispondente di guerra, comincia a scrivere poesie per il coro dell’Armata rossa. Sono gli anni del suo incontro con Maria Cvetaeva, con la quale instaura un rapporto complesso e contradditorio. Nonostante l’affinità culturale, la Cvataeva è molto turbata e nervosa, condizionando negativamente la gente intorno a lei. Nulla vieta a Tarkovskij di dedicarle alcune poesie, fra cui la commovente Elabuga – scritta in occasione del suo suicidio: «Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba? / Hai udito l’ultima voce di Marina. // Ora, maledetta – com’è che non piangi? – / dovrai brillare come oro: nascondi Marina!». La morte della Cvataeva condizionerà l’immaginario dei poeti successivi – come, d’altronde, lo era stato quella di Majakovskij. Lo stesso Evtušenko, anni dopo, infatti, scriverà Il chiodo di Elabuga: «A Dio chiedeva, implorante, ferita, / che le dessero panni da lavare. / Vorrei restare un poco / dove ha vissuto lei, Marina Ivànovna». Finita la guerra, incontra Anna Achmatova a cui dedicherà alcuni versi stupendi; in particolare un sonetto in cui si legge: «Se mi fosse scritto nel destino / di giacere nella culla degli dèi …». A differenza della Cvetaeva, con l’Achmatova Tarkovskij matura un’intesa che andrà a consolidarsi negli anni. Nelle sue prose Tarkovskij ricorda un aneddoto a riguardo: «In Achmatova vi è una tale perfezione della forma! Una volta mi fece vedere un suo brano in prosa. A me non piacque, glielo dissi, e me ne andai. A casa raccontai l’accaduto a mia moglie che disse: “Compra dei fiori e vai immediatamente da Anna Andreevna a scusarti”. Ma io non ci andai. Dopo una settimana squilla il telefono. “Salve. Sono l’Achmatova. Sapete, ho pensato: siamo rimasti così in pochi: ci dobbiamo amare e lodare l’uno l’altro».

 

«La poesia è dovunque, dov’è il poeta c’è vita»

A differenza dei suoi contemporanei, Tarkovskij nelle proprie poesie raramente parla di tematiche politiche e sociali; inevitabilmente, in alcune sue composizioni, emerge una certa posizione morale, ma raramente in maniera esplicita. La sua ininterrotta indagine interiore lo porta a ripercorrere la propria infanzia, le proprie emozioni, così da esplorare e disvelare gradualmente il proprio microcosmo. Tarkovskij si eleva divenendo il cantore di una natura che è in continuo dialogo con l’anima. Nel poeta non vi è misticismo, ma la sua poesia è comunque intrisa di spiritualità, quasi panteistica: «Non c’è libertà nella natura, / ne è svanita la tentazione, / non occorre la libertà / turbare il bosco novembrino. // Nell’obbrobrio della morte i tremoli / si sono irrigiditi sul proprio fogliame / con le gambe all’insù / e il capo in terra». In Tarkovskij vi è questa fede incrollabile per il gesto poetico, tanto che considererà la sua stessa attività in prosa secondaria. In un passaggio precisa: «La poesia è dovunque, dov’è il poeta c’è la vita. La poesia gode degli elementi di tutte le arti compreso il balletto ed il circo, in quanto essa opera per mezzo di rappresentazioni […], di ritmo, colore, suono, temporalità». Proprio questa sua concezione – a tratti radicale – lo porterà a incrinare i suoi rapporti con Pasternak, dopo aver letto Il Dottor Zivago. Infatti, mentre Tarkovskij continua a stimare e apprezzare profondamente l’opera in versi dell’amico a confronto della prosa, Pasternak risponde come in realtà la poesia fosse, in fondo, una sciocchezza, futile rispetto all’indispensabilità della prosa.

 

L’atto creativo

Ancora inedito come poeta, l’opera di traduzione vale a Tarkovskij un maggiore riconoscimento nell’Unione degli scrittori. Il suo inesorabile successo come intellettuale, però non evita la separazione con la Bochonova e l’inizio di una nuova relazione sentimentale. Solo nel 1962 – l’anno de L’infanzia di IvanTarkovskij riesce a pubblicare il suo primo libro di poesie: Prima della Neve. Negli anni successivi, fino alla sua morte, continua a pubblicare libri in decine di migliaia di copie. Arsenij Tarkovskij muore nel 1989, tre anni dopo il figlio Andrej. Oggi possiamo affermare come la riscoperta di autori come Tarkovskij risulti indispensabile non solo per capire un’epoca, ma anche una tradizione letteraria. Un autore, a tratti, apparentemente fuori dal tempo, capace tuttavia di coglierne l’essenziale per poi riadattarlo alle sue esigenze. Per riprendere una frase del figlio, anche il padre è capace di “scolpire il tempo” e «stud[iare] su un libro di pietra il linguaggio dell’eterno». Tarkovskij contempla la vita negando la morte in ogni suo verso. Poesia come atto di ribellione verso l’ineluttabilità della vita. L’estremo tentativo di fermare e incasellare il tempo. Lo stesso Andrej – condizionato dalla visione del padre – scrive nei suoi diari: «L’atto creativo è già di per sé una negazione della morte. Ne consegue che esso è intrinsecamente ottimista, anche se in ultima analisi l’artista è una figura tragica. Per questo non possono esserci artisti ottimisti e artisti pessimisti. Possono esserci solo il talento e la mediocrità».

La fiaba nucleare dell’uomo bambino di Ismailov

La fiaba di un mondo umano, troppo umano

La paura indeterminata, quella che tormenta e stringe il cuore, è un sentimento ineluttabile che schiaccia qualsiasi vita. Un memento mori necessario a non dimenticare la sostanziale tragedia dell’esistenza: perché dalla vita, per quanto bella e fiabesca possa essere, non si esce vivi. Eržan, il protagonista di La fiaba nucleare dell’uomo bambino, romanzo breve scritto da Hamid Ismailov (Utopia Editore, 2021), lo ha compreso bene. In lui la paura è una presenza constante che «si manifesta all’inizio con un tremore alle ginocchia, poi invade il plesso solare come un peso opprimente che sale ancora più su, fino alla faringe, fino alla gola e che attanaglia il corpo paralizzandolo». Un’angoscia che si fa sempre più definita, che prende colore fino a diventare rabbia nei confronti di un destino tanto incomprensibile quanto inevitabile. Un atto di resistenza contro quel fluire esistenziale che non è altro se non il frammento di una trama più ampia.

La fiaba nucleare dell’uomo bambino è un libro fuori dal canone contemporaneo che pare rifarsi ai fasti di una letteratura ormai remota. Un racconto stimolato dall’eco delle fiabe popolari ma gravido di ombre, incubi e pericoli. Un espediente retorico ben congegnato utile a rivelare attraverso una scrittura poetica e suggestiva l’inevitabile incombenza umana. La tragedia di una fine preannunciata in cui anche il lettore suo malgrado scivola incosciente.

Il narratore del romanzo incontra su un treno un bambino di dieci o dodici anni di nome Eržan che suona divinamente il violino. Incantato dalla bravura di un così giovane prodigio gli si avvicina per porgli delle domande. Da questo incontro ha inizio il racconto, che si divide in tre atti e che fra mito e realtà ripercorre la storia di Eržan, che scopriamo avere ben ventisette anni.

Cresciuto nel villaggio di una stazione di transito circondata dalla steppa kazaka e composto da solo due case, Eržan – coccolato dai nonni, dagli zii e sempre in compagnia di Ajsulu, amica di giochi e sua promessa sposa – ha avuto una vita abbastanza serena, nonostante le periodiche esplosioni che sconvolgono la naturale routine del paesello. Queste deflagrazioni provengono dalla Zona: una parte del territorio kazako in cui l’Urss (in piena guerra fredda) svolge degli esperimenti nucleari.

Durante una gita scolastica avviene la complicazione, il momento topico di qualsiasi fiaba: Eržan non resiste alla tentazione di fare un tuffo nel Lago Morto, uno specchio d’acqua fermo e cristallino nato dalla voragine di una detonazione. La sua vita da quel momento in poi cambia per sempre. Il giovane protagonista smette di crescere mentre vede tutti superarlo in altezza. Si sente schiacciato, non riesce a comprendere come sia possibile vivere per sempre in un corpo di bambino. Eppure qualcosa della sua vicenda personale gli ricorda una leggenda raccontatagli da Petko, il bulgaro che gli ha insegnato a suonare il violino.

Per Eržan il destino pare seguire le orme del mito. Le numerose cronache popolari che hanno in qualche modo incrociato la sua vita sembrano parlare di lui, e la musica comincia ad avere un ruolo fondamentale: non più un divertimento ma una sorta di necessità attraverso cui esorcizzare i mali. Il suono del suo violino diviene il contenitore di tutte le angosce umane, così come il corpo minuto di Eržan non è altro che il luogo in cui convergono le storture del mondo.

Nel romanzo le tragedie collettive intersecano e contagiano la storia individuale del protagonista. Come in tutte le fiabe il particolare si fa tramite per conoscere l’universale, la narrazione però ci trasporta nella più drammatica delle realtà possibili: quella che viviamo, in cui anche gli eventi che non sembrano dipendere dall’uomo sono invece sempre «umani, troppo umani».

Ismailov narra di un destino segnato dalla violenza della storia attraverso un racconto atemporale, scandito solo dal ritmico sferragliare meccanico del treno; come a voler mischiare il tempo del progresso, dell’acciaio e del metallo, al tempo del mito, della magia leggendaria e della spietata forza del fato. Perché, sostiene lo scrittore uzbeko, l’unico modo per provare ad avvicinarsi alla vita, per provare a spiegarla, è farne un calco attraverso l’arte: l’unica dimensione umana in grado di riprodurre e allo stesso tempo sradicare, anche se per un solo istante, l’ineluttabilità del mondo che piega tutto intorno a sé.

 

(Hamid Ismailov, La fiaba nucleare dell’uomo bambino, trad. di Nadia Cigognini, Utopia Editore, 2021, 128 pp., euro 17, articolo di Giuseppe Maria Marmo)

 

Locandina di Esterno notte parte 1

L’ultima notte d’Italia

Vent’anni dopo Buongiorno, notte, Marco Bellocchio torna a guardare al sequestro e all’omicidio di Aldo Moro con Esterno notte. Lo fa in una serie tv anomala, in cui si sente soprattutto il cinema e che infatti nel cinema trovo il suo spazio ideale.

Dopo la presentazione al Festival di Cannes, Esterno notte arriva nelle sale italiane diviso in due parti prima di debuttare su Rai Uno nel prossimo autunno. In questa prima parte sono raccolti i primi tre episodi della serie.

Sembra iniziare come il seguito ideale di Buongiorno, notte il nuovo progetto di Bellocchio. Dove lì lasciavamo un Moro onirico che riusciva a scappare dalla sua prigione, qui troviamo un Moro dopo la fuga, salvo ma stanco, ricoverato in ospedale sotto lo sguardo degli amici di partito: Andreotti, Cossiga, Zaccagnini. È solo il prologo di un’opera che moltiplica i punti di vista ed esce dalla prospettiva del sequestro per guardare al Paese.

Nella prima delle tre puntate che compongono la prima parte di Esterno notte seguiamo Aldo Moro nei giorni immediatamente precedenti all’attentato. La tensione nella DC per l’apertura a sinistra, le contestazioni universitarie, la famiglia adorata, poi l’attacco. I due episodi successivi guardano alle conseguenze, alle reazioni anche corporali dei co-protagonisti, con il vomito violento di Andreotti, la decadenza fisica di papa Paolo VI. C’è lo Stato, incarnato da un Francesco Cossiga (ottimo Francesco Russo Alesi) spaesato, e la Chiesa, con il pontefice interpretato da Toni Servillo che soffre nel corpo e nello spirito.

Se già il trailer aveva colpito per l’incredibile livello di immedesimazione degli interpreti, Esterno notte arriva poi a impressionare per la precisione e la pazienza del lavoro di costruzione, ancor più che di ricostruzione.

Nel tornare a interrogarsi sul rapimento del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro del 16 marzo 1978 da parte delle Brigate Rosse e sui 55 giorni di prigionia, Marco Bellocchio ha trovato per Esterno notte un potente alleato in Fabrizio Gifuni. L’attore romano ha già nel suo repertorio un Moro cinematografico (Romanzo di una strage) e uno straordinario lavoro sulle lettere dalla prigione del presidente nello spettacolo teatrale Con il vostro irridente silenzio. Il suo Moro sullo schermo sembra uscire dalle immagini di repertorio per l’accuratezza dei gesti, dei movimenti, della voce. Nel calarsi totalmente nei panni e nel corpo del presidente, Gifuni aiuta lo spettatore a immergersi nella storia, a vivere il ’78 e le sue tensioni.

Dietro la macchina da presa e al tavolo della scrittura (con Ludovica Rampoldi, Stefano Bises e Davide Serino), Bellocchio sostiene la monumentale grandezza di Esterno notte con tutta la sua maestria. Nel solco che già aveva inaugurato con Il traditore, il cineasta di Bobbio conferma la sua capacità di coniugare la lezione del cinema civile del passato con uno sguardo più contemporaneo. Anche qui si sentono echi del Paolo Sorrentino di Il divo e di uno Young Pope meno glamour.

Il risultato di questa prima parte di Esterno notte è la traccia dell’episodio che più di tutti ha contribuito a formare la realtà politica e sociale italiana degli ultimi 45 anni, ma che più di tutti sembra essere stato rimosso. Quell’attacco al cuore dello stato che ha lasciato l’Italia esposta e che ha cambiato il corso della storia.

Marco Bellocchio lo ricostruisce con precisione e con libertà. Va a indagare anche nelle stanze private, mostrando la solitudine del potere, le fragilità e le incertezze di chi ha vissuto e sofferto la prigionia dall’esterno. E rende la storia un monumento a cui dovremmo guardare tutti.

(Esterno notte – prima parte, di Marco Bellocchio, 2022, storico/drammatico, 160’)

Copertina di Una politica estera per la sinistra di Michael Walzer

Giustizia globale
e uso della forza

La guerra in Ucraina ha acceso il dibattito, soprattutto a sinistra. Come reagire alla brutale invasione della Russia? Bisogna rispettare o rigettare la logica delle zone d’influenza? Ha senso un sostegno militare della Nato agli ucraini, anche inviando armi? La posizione degli Stati Uniti, che sembra puntare a un cambio al vertice al Cremlino, va sostenuta o avversata? E in fondo, poiché ci sono “un aggredito e un aggressore”, come possiamo restare indifferenti di fronte alle sofferenze del popolo di Kiev? Su domande simili possiamo riflettere riprendendo in mano un libro di Michael Walzer del 2018, Una politica estera per la sinistra (Raffaello Cortina Editore). Un volume dibattuto, pensato per lettori americani ma ricco di spunti di riflessione anche per chi vive al di qua dell’Atlantico. Soprattutto oggi.

La riflessione di Walzer, eminente filosofo politico, sfida la “posizione standard” della sinistra in politica estera: la neutralità, secondo la quale usare la forza non è mai una buona idea (antimilitarismo) perché è l’arma dei Paesi oppressori (antimperialismo), e di uno in particolare (antiamericanismo). Tuttavia, osserva Walzer, «La neutralità è un buon modo per avere e al tempo stesso non avere una politica estera». È per lui una linea insensata, ingenua, autoassolutoria: una linea da combattere e archiviare. «La saggezza politica non è né militarista né pacifista (né una via di mezzo)». Da questa premessa muove il lungo viaggio dell’autore, alla ricerca di una bussola morale per la diplomazia progressista.

Una politica estera per la sinistra non è un saggio di geopolitica: è una riflessione morale sull’internazionalismo. Non ha la pretesa di istruire sui buoni e sui cattivi del nostro tempo, né di tracciare una teoria generale della politica estera progressista. Dopotutto, Walzer spiega a chiare lettere di rivolgersi a una sinistra ampia e quindi piena di contraddizioni filosofiche. Un tentativo audace che persegue con rigore.

La sinistra si orienta con strumenti sbagliati, ma ha sbagliato analisi anche in passato. I massacri stalinisti, le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia, il terrorismo rosso e le dittature comunista in giro per il globo sono gli esempi più eclatanti. Tante le ipocrisie, le doppiezze della sinistra passata, che vanno conosciute e stigmatizzate, anche se con decenni di ritardo perché «La sinistra è la sua storia tanto quanto […] il suo presente quotidiano». E conoscere gli errori aiuta a comprenderne quali concetti sono da archiviare, o da ripensare. Per esempio, le teorie dell’imperialismo, che per Walzer non dovrebbero condurre a un antiamericanismo ossessivo. O il pregiudizio materialista (un «marxismo grezzo»), che impedisce perfino di vedere le cause religiose delle guerre di religione. Contro queste approssimazioni deve essere concepito l’approccio progressista alla politica estera, sempre però plasmandolo secondo i valori della sinistra.

Ma quali sono questi valori? La domanda è sempre più impegnativa nel terzo millennio. Il crollo del Muro ha liberato la sinistra dalla lealtà a Mosca. Ma dalla propensione ad appoggiare regimi dittatoriali che si oppongono (a parole) all’oppressione capitalista? Walzer conduce per pagine e pagine del suo volume un’appassionata denuncia contro l’ambiguo sostegno a Hamas e altre organizzazioni simili. I progressisti hanno ancora atteggiamenti equivoci davanti al terrorismo dell’ETA e dell’IRA (eppure già Lenin e Trotsky biasimavano i terroristi, che eccitano le masse senza coinvolgerle). E se i compagni all’estero sono in difficoltà, non chiedono loro di cosa hanno bisogno: preferiscono pontificare, far rimbalzare la palla all’Onu, proporre di uscire dalla Nato.

Walzer propone un altro metodo: l’internazionalismo di agency. Un impegno politico nuovo, che serva alla ricostruzione di Paesi devastati da guerra e massacri, oltre che al soccorso dei popoli in fuga. Essere internazionalisti significa – sostiene l’autore – impegnarsi per la rinascita dello Stato di diritto, per ottenere il cessate il fuoco e la fine dei massacri, per dare spazio e credibilità a chi combatte l’oppressione all’interno del proprio Stato. Non necessariamente interventi militari, bensì solidarietà pratica. È un ragionamento che l’autore sviluppa in uno dei capitoli più teorici del saggio, a cui affianca però qualche esempio. Un tempo si costituivano brigate internazionali per aiutare i rivoluzionari, mentre oggi esistono tante ONG alle quali dare sostegno (Walzer cita Human Rights Watch). O ancora: quante volte i dissidenti iraniani hanno chiesto una solidarietà morale che non è arrivata, poiché si preferiva discutere di un sempre rinviato e sicuramente violento intervento militare?

Ma ogni tanto, secondo Walzer, la mera forza deve essere usata. In un capitolo lungo e appassionato, l’autore difende questa tesi e delinea l’ABC dell’interventismo umanitario che la sinistra a suo avviso dovrebbe appoggiare. Quando bisogna interferire con la forza nelle vicende di altri Stati? «Quando essi stessi attaccano i loro cittadini o quando non possono garantire oltre la loro sicurezza contro signori della guerra predatori e sette religiose assassine». In altre parole, per fermare genocidi o violazioni massicce dei diritti umani. È una tesi che risale a Guerre giuste e ingiuste, che Michael Walzer pubblicò negli anni Settanta e poi aggiornò nel ’92, e che è diventato una sorta di pietra angolare per il pensiero liberal che ritiene di poter giustificare (o addirittura supportare) le avventure belliche americane degli anni Novanta e dei primi Duemila. Ecco come si esprime, per esempio, Walzer sulle bombe su Belgrado nel ’99: «La guerra in Kosovo» scrive «fu una guerra giusta e anche una guerra di sinistra moderata».

Walzer ama camminare sul filo tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è per la sinistra. Arriva a interrogarsi se davvero «Esiste un impero americano», per concludere che, se esiste, «Un modo intelligente di essere di sinistra dovrebbe puntare a garantire che il potere americano sia usato bene». L’autore sostiene che non si deve seguire Lenin, ma Gramsci: la chiave interpretativa giusta non è l’imperialismo bensì l’egemonia. Vivere nel mondo implica una serie di compromessi con gli altri attori, negoziati grazie all’influenza delle proprie ideologie: «dobbiamo operare per la limitazione dell’egemonia statunitense, per il compromesso (un equilibrio gramsciano) e per una divisione globale del lavoro. Dobbiamo dire ai nostri alleati all’estero che anche loro sono responsabili di come va il mondo».

Il pensiero di Walzer non manca di ambizione. Si allaccia a Rousseau e a Rawls per tracciare i confini di una giustizia globale, di una visione ideale di ciò che è «giusto all’estero» e per la quale valga la pena battersi. La politica estera della sinistra non dovrebbe limitarsi a consolidare le istituzionali internazionali. Due sono gli obiettivi da perseguire secondo Walzer. In primo luogo, «Chiunque può dovrebbe»: ogni Stato che sia in grado di risolvere una grave crisi umanitaria dovrebbe attivarsi per risolverla, senza attendere il permesso dell’Onu. Uno slancio altruistico che solo una sinistra organizzata e internazionalista può rendere possibile. Il secondo grande obiettivo è completare il consolidamento degli Stati nazionali. Per l’autore, la crisi dello Stato-nazione non fa venir meno la sua centralità: in particolare sottolinea la necessità dello Stato, per realizzare una giustizia interna anche per i popoli più poveri. Far intervenire chi può, costruire Stati solidi, rinforzare le organizzazioni internazionali e creare una rete di alleanze progressiste e avanzate tra nazioni: vaste programme, direbbe qualcuno.

Il libro ha sollevato diverse critiche, alla sua uscita nel 2018. Fulvio Lorefice su il manifesto lo avvicinava ai tentativi di «glorificare marchiane violazioni del diritto internazionale da parte di potenze straniere» in Libia e in Siria. Altri invece lo trovavano pieno di buonsenso e di pragmatismo. Certo Walzer è facile da collocare, nell’eterno dibattito delle Relazioni internazionali tra chi avverte, in caso di violazioni su larga scala dei diritti umani, l’urgenza morale di intervenire all’estero e chi invece denuncia l’assurdità e la pericolosità del portare la pace e la democrazia con le armi. In tempi di guerra chi vive a sinistra si corrode in questo dilemma: i massacri di Bucha e i carrarmati russi gridano vendetta, l’aggressione di Putin suscita sdegno; ma c’è anche il rischio sempre più pauroso di una Terza guerra mondiale, che l’amministrazione Biden sembra alimentare di giorno in giorno.

Quale politica estera, allora, per la sinistra? Leggere Walzer oggi può essere importante per non aggirare questa domanda. Si tratta di un libro utile per capire l’orizzonte ideale dei liberal americani e il loro appoggio agli interventi militari USA. Ma non convince chi, a differenza dell’autore, pensa che la soluzione ai problemi del mondo non sia un miscuglio di bombe e solidarietà. Chi (come me) cercava un approfondimento a più ampio raggio sulla complessità della politica estera troverà tanto moralismo, ma non abbastanza da spegnere l’ideale della pace.

 

(Michael Walzer, Una politica estera per la sinistra, trad. di Corrado Del Bò ed Eleonora Marchiafava, Raffaello Cortina Editore, 2018, pp. 210, euro 20. Articolo di Marco Di Geronimo)

Thom Yorke, Jonny Greenwood e Tom Skinner: The Smile

Thom Yorke e Jonny Greenwood decidono di tirare su un progetto che è altro dai Radiohead. Un’idea avuta pare nel periodo attorno al concerto oramai mitologico dei due nel 2017 a Macerata. Decidono allora di portarsi appresso il batterista dei Sons of Kemet, Tom Skinner.

Il nome che danno a questa nuova creatura rimanda a un concetto semplice, iper-riconoscibile, ma che fin da subito suona in qualche modo sinistro. Il sorriso, espressione del volto umano, ma anche la sua rappresentazione stilizzata, lo smile. Giocano probabilmente pure con l’immaginario/tristezza attorno ai Radiohead.  Decidono di scrivere un album dal nome evocativo “A Light for Attracting Attention” e la questione è capire che tipo di direzione possa prendere un lavoro del genere e che senso abbia.

Sono i Radiohead, non sono i Radiohead. I Radiohead sono finiti, no non lo sono. Quanto l’idea Radiohead può influenzare un progetto di due componenti dei Radiohead fuori dai Radiohed? Sappiamo che entrambi hanno carriere soliste separate, ma insieme?

Ciò che emerge, ed è l’aspetto più immediato che ti travolge ascoltando l’album, è sicuramente la grande necessità artistica alla base di tutto che doveva essere tirata fuori in qualche modo. Al di là del paragone necessario con i Radiohead, che siano dentro o fuori ai Radiohead, Yorke e Greenwood hanno ancora cose da raccontare. Fame di raccontare, di cercare alternative.  Nonostante la carriera, il tempo che passa. Vogliono ancora mettersi di traverso. È una necessità. Non si accontentano, non hanno risolto ancora nulla. Hanno la forza di farlo. Ancora.

Rispetto a A Moon Shaped Pool, che si distingueva per soluzioni intelligenti e finiva per essere un disco di grande classe, ma che in un certo modo ci raccontava qualcosa che – e non è per nulla scontato – potevamo aspettarci dai Radiohead, qui sorprende la facilità, e allo stesso tempo la complessità intrinseca, di come come i brani brillino e riverberino uno nell’altro. Di come abbiano le sembianze di quella necessità di un gruppo di artisti che per la prima volta si trova immerso in una piena creativa impossibile da arginare. E paradossalmente è una prima volta.

A Light for Attracting Attention” può ricordare Hail to The Thief, non esteticamente, ma per il modo in cui procede, ma che rispetto all’album dei Radiohead dura esattamente quanto deve durare. Sembrano avere lo stesso respiro, declinato poi in altra forma. La voce di Thom Yorke si muove tra l’interpretazione e la sonorità che lo caratterizza da A Moon Shaped Pool  e Anima (un falsetto esasperato, disperato) e alcuni spunti che possono ricordare certe suggestioni giovanili (e penso a “You Will Never Work In Television“, dove ci sono eco apparentemente inconciliabili con roba tipo “Stop Whispering” o “The Bends“).

L’esperienza oramai decennale di Greenwood da compositore, invece,  permette di tacciare traiettorie all’interno dei brani di livello altissimo (“Open The Flootgates”, “Free in The Knowledge”) che sono dei piccoli capolavori d’ambiente cinematografico. E in generale, spesso, la dimensione emotiva viene amplificata ed enfatizzata dalle sue orchestrazioni.

L’esperienza jazzistica di un batterista come Skinner e la tipologia di ritmica che immagina, accoglie con grande sensibilità le soluzioni degli intrecci ritmici e armonici (l’entrata in “Weaving A White Flag” è emblematica).  Il suo tocco, che muta brano dopo brano, silenzioso, dona all’album un’ulteriore dimensione di purezza.

A Light for Attracting Attention” è un lavoro lungo e non immediato. Tredici canzoni, quasi un’ora di ascolto. Ci sono brani che sono tipiche ballate radioheadiane (“Free in The Knowledge“/”Fake Plastic Trees“, “Open The Floodgates“/”Daydreaming“),  brani cupi caratteristici dell’estetica Radiohead (“The Same“/”Like Spinning Plates“), momenti che si muovono su altezze post-punk (“You Will Never Work in Television Again“, “We Don’t Know What Tomorrow Brings“),  e brani che escono completamente dagli schemi (“Thin Thing” starebbe bene come colonna sonora in un poliziottesco e “Weaving A White Flag” sembra scritta in collaborazione con i Goblin): c’è inventiva, genialità, cuore. “A Light for Attracting Attention” è  un grande album.

La sera sulle case di Eduard von Keyserling

Al di qua e al di là del castello

In La sera sulle case di Eduard von Keyserling, ricordato solo di passata nei manuali di letteratura – che L’orma editore ripropone in una nuova edizione (2022), tradotta e introdotta dal germanista Giovanni Tateo –, ci sono quattro castelli che dominano la vita dei personaggi e mostrano loro la via da percorrere. Quando scende la sera e si accendono le luci delle proprie stanze, i castelli si confortano della certezza di esserci ancora l’uno per l’altro, di continuare a essere quella bussola che orienta tutto e tutti verso un indiscutibile punto cardinale, neutralizzando strade alternative. Ci troviamo di fronte a un testo corale dove le vicende dei protagonisti si intersecano in un continuo porsi al di qua o al di là di questi castelli, generando un conflitto generazionale che prorompe in ogni pagina.

Ad abitare questi avamposti, che proteggono dall’esterno e nei quali ognuno deve rimanere al proprio posto di guardia – come nella Fortezza Bastiani di Dino Buzzati –, c’è una fiera nobiltà terriera di lingua tedesca che vive immersa in uno splendido, routinario ed elitario isolamento. Nobilità che prospera in quella Curlandia di cui Keyserling è originario, governatorato dell’Impero russo nel primo Novecento (adesso fa parte della Lettonia). Si tratta di una Heimat tronfia, con le proprie leggi, da cui pare discendano i cavalieri teutonici.

A fare impazzire l’ago di questa bussola ci pensa la generazione dei giovani, con la loro proposta di un lessico diverso rispetto alla “teoria dei castelli” , che non li faccia impaludare e che permetta loro di togliersi le ragnatele dalle dita. Benché amati con sincera devozione dai padri, si tratta di rampolli spesso insonni e dediti a pensieri ostinatamente penetranti, che cercano di contrastare il “sistema” con il genuino desiderio di un Altro e di un Altrove. Vogliono infatti prendere le distanze dalla stanca accettazione di chi, come i genitori, non ha niente da fare se non aspettare che una cosa dopo l’altra venga giù, sgretolandosi in quelle antiche dimore nei cui angoli bui sembra risuonare un muto lamento. Soli nelle proprie stanze, “in quell’età confusa di rimpianti simili a speranze e di speranze simili a rimpianti”, come direbbe Turgenev, cercano di strapparsi di dosso quella inazione che indossano come una veste molesta. E, mentre la foresta che li circonda è sconquassata da un forte vento che fa tremare il terreno delle certezze ma diffonde anche l’inebriante e familiare profumo delle betulle, i giovani dei castelli dai destini incrociati spesso fanno fronte comune, pure nella loro diversità.

La giovane baronessa Fastrade del castello di Paduren ha fatto la crocerossina in un’altra città per accudire il proprio ex precettore malato, con un sentimento di amore e compassione, che per lei sono la stessa cosa. Poi, costretta dal peggioramento del padre, si è riappropriata della sua vecchia vita ma solo parzialmente è rientrata nei ranghi. Vive infatti una relazione discutibile, che fa mormorare i castelli, e si impegna ancora ad aiutare il prossimo, cercando di mettere mano e ordine, con l’istinto della governante, nella vita scombinata del giovane barone Egloff del castello di Sirow.

Egloff infatti adotta una condotta anarchica ed egoista come sfida all’ideale morale in cui è stato allevato, dilapidando il patrimonio di famiglia al gioco, e vivendo come un animale notturno che di giorno rimane nella sua tana a dormire e, quando fa buio, si aggira furtivamente per case e pollai dove riposano tutti, escluse le complici della sua lussuria. Ma questo non gli basta: essendo a corto di finanze, decide di vendere gli alberi del parco del proprio castello per farne legna, abbattendo parte di quella foresta che ha sempre legato le generazioni dei castelli fra di loro, e creando di fatto una crepa nel paesaggio che alla vista dei padri ha le fattezze di uno sfregio.

Anche dagli altri due castelli giungono note stonate. Gertrud del castello dei Port ricorda con nostalgia gli anni di Dresda in mezzo ad artisti e caffè pieni di vita e di persone interessanti, un’esperienza bohémien da cantante che si è conclusa perché anche lei è dovuta rientrare nelle terre baltiche. Adesso, rassegnata, è costretta a domare la sua passione cantando, con le gambe tremanti, nel salotto di casa davanti a domestiche assonnate, o cercando nei romanzi un mondo che non può vivere. C’è infine il barone del castello di Barnewitz, un accorto amministratore dei propri beni, che sembra l’unico della nuova generazione in sintonia e in continuità con la tradizione dei padri; questo sebbene abbia sposato la figlia di un ricco industriale, che per i castelli è sempre rimasta un’esclusa.

Il padre di Fastrade ha sempre esercitato un tranquillo ma incontrastato dominio sui suoi pari. Con contegno dignitoso e autorevole è solito tracciare con la mano aperta una linea orizzontale nell’aria, come a simboleggiare un limite invalicabile di cui lui e gli altri signori dei castelli sono custodi e secondini. I vecchi infatti vogliono starsene in pace e festeggiare malinconicamente la sera della loro vita prima che questa si spenga, una cornice dentro la quale i giovani, benché refrattari, devono rimanere poiché solo in quella penombra si può avere pace e riserbo. E se anche questi ultimi cercano una luce, una via d’uscita, alla fine naufragano nell’impossibilità di trovare una valida alternativa, perché in fondo quel buio fa ancora parte di loro e non potrebbero farne a meno. Su questo punto il nostro sguardo si allunga a Il castello di Kafka: per questi giovani non avere più un castello significa, in ultima istanza, non avere più leggi, non avere più quella certezza – per quanto mal digerita, visto il suo correlato di assurdità –, quell’ordine che va bene così purché ci sia un ordine. E non importa se il proprio corpo si fa sismografo delle inquietudini somatizzandole nella fragilità dei nervi.

Keyserling ci offre una narrazione impressionistica e misurata, elegante e crepuscolare, nella quale accosta spesso frasi di grande contemplazione sulla natura baltica ad altre in cui acquarella i colori trasparenti della malinconia per un mondo che sta per spegnersi, anche se le ribellioni all’interno dei castelli sono state soffocate. Oramai cieco, si trova nella condizione di dettare il suo manoscritto e, nel cogliere i battiti del tempo che passa, sa farsi veggente, fiutando la fine di un’epoca, osservando quella sera che lentamente scenderà sulle case, perché di lì a poco sarà la Prima guerra mondiale a fare impazzire nuovamente l’ago di moltissime altre bussole.

La sera sulle case è dunque un’occasione per ritrovare un importante autore del primo Novecento tedesco che Jan Brokken, nelle sue Anime baltiche, ricorderà come uno dei personaggi più rappresentativi di quelle terre. Intanto i vecchi del romanzo non rinunciano alle loro abitudini, come per esempio attendere al tramonto l’arrivo delle anatre al lago, le quali possono anche volare altrove ma poi tornano sempre. E mentre ci si conforta nel «niente di nuovo nei dintorni», la generazione sconfitta dei giovani siede in silenzio e continua a percepire il placido conversare dei genitori come un’aggressione contro cui bisogna difendersi.

 

(Eduard von Keyserling, La sera sulle case, trad. di Giovanni Tateo, L’orma editore, 2022, 208 pp., euro 18, articolo di Claudio Musso)
Ufficio vintage Curry

Resistere non serve a niente?

In principio fu Bartleby, antesignano e santo protettore dello sciopero bianco. Era soltanto il 1853 quando Herman Melville, con il leggendario preferirei di no del suo scrivano, metteva in crisi l’autorità di un avvocato di Wall Street abituato all’obbedienza dei suoi dipendenti.

Storie vecchie, storie da XIX secolo, così lontane per modi e maniere da ispirare quasi tenerezza. Eppure fa un certo effetto notare come pochi decenni di protocapitalismo fossero già stati sufficienti per tratteggiare le dinamiche da ufficio, un micro-habitat che ancora oggi governa l’esistenza di gran parte delle persone, suddividendole in team e in spazi comuni, organizzandole in turni di lavoro e turni di riposo.

L’ufficio, così come lo conosciamo oggi, aveva trovato una prima sistemazione, per quanto provvisoria, «al piano superiore del numero tale di Wall Street», ospitando alcuni dei suoi archetipi più classici.

Il narratore del racconto, un avvocato prossimo ai sessanta, si barcamena nel quieto vivere della sua posizione apicale senza ulteriori ambizioni. L’unica cosa che lo turba è il cambiamento, come testimoniato, ancor prima dell’avvento di Bartleby, dalla sua estemporanea rimostranza nei confronti dell’abrogazione della carica di magistrato dell’Alta Corte di Giustizia, mansione «non particolarmente gravosa ma assai ben remunerata».

E cosa dire di Turkey, il veterano affetto da quello che oggi definiremmo burnout, che all’efficienza mattutina sostituisce una vulcanica e disastrosa condotta pomeridiana? In quanto individuo incapace di migliorare la propria condizione, e forse per questo motivo particolarmente apprezzato dall’avvocato, Turkey rifiuta con vigore la proposta di una riduzione dell’impiego a part-time.

«“Con rispetto, signore, […] io mi considero il vostro braccio destro. E al mattino mi limito a ben disporre le mie colonne, ma al pomeriggio mi pongo alla loro testa, e valorosamente vado all’assalto del nemico: così”, e diede una violenta stoccata con il righello».

Questa immagine di valoroso condottiero evocata da Turkey, assai poco consona alle meccaniche mansioni del copista legale, suggerisce due necessità che ancora oggi continuano a muovere gli impiegati: la professione di fedeltà nei confronti della figura di comando (il bravo soldato fedele) e la disperata ricerca di un senso nella professione svolta (il braccio destro che si mette al comando delle truppe).

Purtroppo per Turkey, la realtà descritta da Melville è ben lontana da un emozionante campo di battaglia. Come nota Gianni Celati nell’introduzione del racconto: «Nel nostro ufficio tutto è moto meccanico, dalla copiatura dei documenti al comportamento dei copisti. Tale moto è regolato da una specie di congegno spastico, che dipende dai modi in cui si sfogano le diverse idiosincrasie dei copisti […]. Questo ufficio ha tutto ciò che ci vuole per essere beatamente burocratico, cioè insensatamente meccanico».

Un modello ancora distante dalle Silicon Valley e dalle frenetiche ambizioni americane, forse più simile alla realtà della piccola impresa italiana, all’interno della quale la lenta sedimentazione di consuetudini riproduce in scala 1:2 il prototipo della vita in famiglia, là «dove le maniere e i manierismi umani possono ancora sfogarsi in modo inutile, con strani congegni di abitudini regolati dalle loro eccentricità» (Celati).

Facciamo ora un salto di mezzo secolo, nel bel mezzo del boom economico statunitense. In una cultura dominata dalla produzione e dai consumi, l’ufficio abbandona del tutto le piccole grettezze di famiglia per trasformarsi in una vera e propria savana dove il più debole è destinato a soccombere.

Lo racconta alla perfezione Barbara O’Brien (pseudonimo) nel suo Operatori e Cose (Adelphi, 2021), diario-confessione che attraversa la parentesi schizofrenica dell’autrice, una brillante impiegata che di punto in bianco si convince di essere cavia di un esperimento ordito da strane entità (gli Operatori) che manovrano in segreto le azioni degli esseri umani (definiti Cose).

Del libro si è giustamente sottolineata l’unicità dell’esperienza clinica della scrittrice – condotta in giro per gli Stati Uniti dai suoi deliri e poi guarita in tempi relativamente rapidi proprio grazie a questa “terapia d’urto” generata dall’inconscio – e l’esattezza della sua cronaca, mentre non si è forse dedicato il giusto spazio alla prima parte, nella quale O’Brien descrive con sorprendente lucidità le dinamiche predatorie dell’ufficio.

Negli anni trascorsi come impiegata alla Knox Company, l’autrice ha modo di osservare, prima, e di cadere vittima, poi, di uno dei più spietati esemplari di «carnivoro aziendale»: l’Operatore dell’Uncino.

L’Operatore dell’Uncino, spiega O’Brien, programma la sua ascesa con pazienza e calcolo, il suo agire non è mosso da antipatie personali, ma da un naturale senso di competizione che lo spinge a rimuovere tutto ciò che avverte come ostacolo. La sua caccia si articola in più fasi: appena entra in un’azienda individua l’Uomo di Potere, «la persona che emana l’odore più forte», e cerca di carpirne le debolezze.

«Dove c’è potere, in genere c’è anche il tipo di punto debole che lui cerca. Il punto debole è una cosa semplice: un segreto senso di insicurezza. Chi lo possiede ne è così acutamente consapevole che lo tiene nascosto in una scatolina in modo da non doverlo guardare e riconoscere. In compenso è estremamente suscettibile al riguardo, e il minimo segno che qualcuno possa sospettarne l’esistenza lo fa ammattire».

Una volta individuato il punto debole, l’Operatore costruisce «l’arma capace di ferire quel senso di insicurezza» per poi farla impugnare a una terza figura, l’uomo in ascesa, inconsapevole esecutore della propria fine. Per trasformare l’uomo in ascesa in kamikaze, è sufficiente anche in questo caso colpire il suo tallone d’Achille più comune, e cioè la «sensazione di non essere apprezzato quanto merita dai suoi capi». Insicurezza del comandante, insoddisfazione del comandato, e il gioco è fatto.

Il precario equilibrio dell’ufficio si basa quindi su un accordo implicito secondo il quale il titolare non deve mai avvertire la propria inadeguatezza e il dipendente non deve mai far trasparire la propria frustrazione.

«Godere della fiducia di Jim significava che lui poteva dimostrarmi quanto poco ne sapesse sul suo lavoro, nella certezza assoluta che io non avrei mai rivelato a nessuno la sua ignoranza. Significava inoltre, e questo era ancora più importante, che parlando con lui non gli avrei mai fatto capire che era un idiota senza un briciolo del background necessario a fare il suo lavoro, e che io lo sapevo».

Sullo sfondo di questo scontro fra titani, manovrato dall’Operatore dell’Uncino a colpi di malelingue e sviolinate, ci sono i dipendenti “comuni”. Consapevoli di non avere il talento necessario per uncinare una posizione più alta, gli impiegati si fanno più piccoli possibile. La paura di diventare a proprie spese pedine funzionali al gioco dell’Operatore dell’Uncino è tale da suggerire un comportamento poco appariscente, perché l’ufficio è diventato ormai territorio di conquista, e qualsiasi confidenza o esternazione potrebbe risultare fatale.

Sempre nello stesso periodo, ma al di qua dell’oceano, Giuseppe Pontiggia raccontava la parabola di un giovane impiegato nel romanzo breve La morte in banca (1959). Entrato in banca per finanziarsi gli studi universitari, Carabba – questo il nome del protagonista – viene man mano fagocitato dall’ambiente, in un processo di metamorfosi impiegatizia che conosce stadi progressivi. A un iniziale senso di curiosa estraneità con cui Carabba osserva i colleghi durante la fase di apprendistato, subentra l’idea di poter coltivare una doppia vita – lavoratore di giorno, studente la sera – a sua volta soppiantata dalla definitiva consapevolezza di aver silenziosamente preferito alle aspirazioni universitarie la sicurezza del posto fisso e di una routine costruita su fogli presenza, pause pranzo e fughe verso casa («Sono le sei. È finita»).

Pontiggia si sofferma in particolare su due reparti: il Portafoglio incasso, una sezione dominata dal frastuono della calcolatrici che prevede mansioni elementari, e lo Sconto, un ufficio «stranissimo», fumoso e dagli spazi angusti, nel quale l’obiettivo è quello di galleggiare sempre nella media degli anni precedenti in modo da non turbare gli standard di produzione.

«La statistica creava uno stato di tensione, di sorveglianza reciproca, di ipocrisia. […] Si rientrava così nella norma, si diminuiva la media delle proprie pratiche e si detestava il collega che la manteneva ancora alta».

«Dopo si cambia», ripetono in continuazione i colleghi di fronte agli errori e alle piccole ingenuità di Carabba, come se i veterani fossero ormai al corrente del fatto che, negli uffici, ciascun dipendente è legato al medesimo destino, unico e circolare per tutti gli impiegati.

Mansioni meccaniche, elementari, alienanti, ma non solo. Nei libri si parla anche di lavoro creativo da ufficio, come nel caso di La festa è finita di Eugenio Vendemiale (CaratteriMobili, 2014),  perla nascosta della letteratura italiana anni Dieci che dedica una manciata di pagine al settore editoriale.

Assunto da un piccolo editore di Firenze, il protagonista alter ego dell’autore è presto chiamato ad accantonare la sua idea romantica di redazione per fare i conti con quello che lui definisce “lo snobismo degli sconfitti”, ovvero l’atteggiamento di superiorità intellettuale che i colleghi attuano nei confronti del mondo esterno per rigettare l’idea di non essere nient’altro che impiegati della cultura («Okay, voi avete avuto tutto dalla vita, siete belli e brillanti, ma vediamo un po’ se sapete coniugare il verbo cuocere»).

La casa editrice di La festa è finita non è un gigantesco loft acceso da discussioni alte e da riunioni vivaci. Fuori dagli spazi dell’editore – un «Cecchi Gori abbellito» che occupa un raffinato ufficio pieno di libri – c’è soltanto una tana di risentimento occupata da sei redattori («Gente peggio vestita, peggio ridotta, non la si trova neanche nelle sacche di vera emarginazione, al liceo»). Il bilancio di Vendemiale non può che essere impietoso:

«Ho fatto orari da ufficio, ho compilato indici dei nomi. […] In questa storia meschina, di colleghi trascurati, tette sbirciate fumando, otto ore di lavoro quando si aspetta il sabato e ci si sente precipitare alla domenica, poca luce tutto il giorno […], ecco, in tutta questa meschinissima storia davvero non c’è romanzo. Non c’è nessuna poesia».

Avere l’impressione di svolgere un lavoro coinvolgente e sufficientemente creativo da dare un senso alla propria vita è diventata negli ultimi decenni quasi un’ossessione, soprattutto per le generazioni che si sono affacciate al mondo del lavoro a cavallo della crisi economica, attratte per motivi contingenti non tanto dalle proprietà, ma dalle esperienze. Ce lo racconta Anna Wiener in La valle oscura (Adelphi, 2020), cronaca autobiografica che narra il percorso lavorativo dell’autrice nell’ambito del tech.

Nelle start up della Silicon Valley, gli angusti cubicoli e gli stanzoni affollati di gente vengono sostituiti da confortevoli open space con divani e calcetti in cui si sbocconcella cibo tutto il giorno e si bevono elaborate miscele di caffè. L’ufficio diventa un salotto per agevolare l’integrazione tra sfera privata e sfera professionale. Non è più una questione di aziendalismo, ma di totale identificazione con l’azienda («Noi eravamo l’azienda, e l’azienda eravamo noi»).

Senza cartellini da timbrare e orari di lavoro da rispettare rigidamente, è il dipendente stesso ad autocontrollarsi, a stigmatizzare atteggiamenti di colleghi reputati non abbastanza coinvolti nella mission aziendale. Wiener ci racconta di uno smart working che rende i lavoratori isolati e sostituibili, di uffici che somigliano sempre più a luoghi di svago dove si suona la chitarra, si gira a piedi scalzi e si preparano cocktail, di uscite aziendali fortemente incoraggiate.

«I pasti in ufficio non erano un’opportunità per legare o un gesto d’attenzione, ma una decisione aziendale – un incentivo a restare lì, fermarsi più a lungo, continuare a sgobbare».

In un contesto del genere, l’essere sull’orlo di un esaurimento, o depressi, o soltanto infelici, non deriva più da una specifica situazione personale, ma da un disturbo globale che coinvolge intere categorie professionali e che, poco alla volta, si normalizza nel quotidiano lavorativo. Stress e sindromi varie sono ormai trattate come un male ordinario, un riflesso “da ufficio”.

Espressioni estreme di questo fenomeno si ritrovano sia nel racconto di Daniel Orozco “Orientamento”, sia nel recentissimo serial con regia di Ben Stiller Severance (prodotto, ironia della sorte, o forse no, da Apple Tv…).

In “Orientamento” assistiamo a un assurdo dialogo-monologo di un tutor che affianca un nuovo assunto alla sua prima giornata di lavoro. Tra una procedura insensata e un’informazione contraddittoria, tra amori non corrisposti e colleghi emarginati, affiorano in modo estemporaneo figure inquietanti, come Kevin Howard («Lui è un serial killer. Quello che chiamano lo Sgozzatore della Moquette, responsabile di diverse mutilazioni in citta. Non dovremmo saperlo quindi tu fa’ finta di niente») o John LaFountaine («Non è pericoloso, le sue scorribande nel territorio proibito del bagno femminile niente più che una fregola innocua»).

Grottesco a parte, è interessante notare come Orozco intenda rappresentare un ufficio nel quale la patologia viene relegata a semplice stranezza, un tic eccentrico da tollerare per non guastare l’ambiente. L’aspetto più mostruoso che forse vuole suggerirci “Orientamento” è che in uno scenario alienante come quello appena descritto, l’unico spazio per l’espressione della soggettività è tracciato dalla pazzia, tutto il resto è una catena di non-sense e di protocolli burocratici da assecondare senza porsi troppe domande.

Ma se riuscissimo a scollegare il cervello per otto ore al giorno vivremmo meglio fuori dal lavoro?

In Severance (2022), gli impiegati della Lumon, oscura multinazionale dal business non meglio precisato, si sottopongono volontariamente alla procedura di “scissione”, un’operazione che cancella tutti i ricordi dell’esistenza esterna quando ci si trova in ufficio, e viceversa. Vita privata e vita lavorativa non si toccano mai, ma l’individuo, anziché beneficiarne, finisce per sdoppiarsi in due io malinconicamente orfani l’uno dell’altro. La serie scritta da Dan Erickson ci dimostra che la costruzione di una doppia vita a compartimenti stagni come possibile exit strategy apre una voragine di controindicazioni non soltanto etiche e sociali, ma anche psicologiche.

La letteratura sembra quindi rivelarci che ogni tentativo di ribellione ai meccanismi dell’ufficio è vano, poiché l’ufficio tende a riprodurre le sue dinamiche in qualsiasi ambiente o contesto.

Chissà, forse il mite e imperscrutabile Bartleby era l’unico che aveva già capito tutto: «Tutto ciò che l’utilitarismo considera il male per il mondo, l’ozio, l’inerzia, la vita senza scopo, il pensiero che riposa silenziosamente in sé, qui ricompare come potenza dello scrivano che attraversa con inespugnabile riserbo il farnetico della vita» (Gianni Celati).

 

Fonte immagine: Chris Curry su Unsplash

bozzetti di munari

Il libro come contenuto e come contenitore

Se il valore precipuo del libro consiste anzitutto nei suoi contenuti, vale a dire in quell’essenza non immediatamente visibile che si rivela soltanto attraverso la lettura, di notevole importanza è nondimeno l’aspetto, la forma, la sfaccettata dimensione extratestuale grazie alla quale è reso fruibile, e che per prima cattura lo sguardo. Di fatto, come si chiede Bruno Munari in Da cosa nasce cosa (Laterza, 1981): «Il libro come oggetto, indipendentemente dalle parole stampate, può comunicare qualcosa? E che cosa?». Questione oggi più che mai attuale, perché la formula visiva mediante cui il testo si manifesta – sia essa cartacea, dunque fisica e tridimensionale oppure incorporea e digitale, come nel caso dell’e-book – ne è in entrambe le circostanze imprescindibile elemento informativo, interpretativo, identificativo e denotativo. Tra i vari esempi che offre il panorama italiano coevo vale citare la nuova casa editrice Tetra, particolarmente attenta al senso del linguaggio non verbale quale sostanziale medium espressivo della dialettica contenuto-contenitore, al varo con la pubblicazione cartacea quattro volte l’anno, il quattro del mese, di quattro racconti di quattro differenti autori a quattro euro ciascuno, in elegante formato quadrato.

L’insistenza sul numero quattro, già implicita nell’etimologia greca del logo e ribadita nei lati uguali del quadrato, non è gratuito esercizio ornamentale ma precisa scelta logistica, finalizzata a definire uno specifico estetico che diventi modello riconosciuto. Secondo alcuni studiosi il quadrato, presente già dalle incisioni rupestri dei primi uomini, sembra sia stato addirittura il formato più antico del libro, fin dai primordi della scrittura. Dimensione che persiste ancora durante il IV secolo, nel passaggio dal volumen – cioè dal rotolo su papiro – al codex piegato e ripiegato una singola tavoletta di legno ricoperta di cera e in seguito un gruppo di tavolette, tenute da lacci di cuoio e protette da due piatti di legatura – per evolvere nel più snello formato verticale del rettangolo, con un’altezza maggiore della larghezza, solamente durante il Rinascimento, quando i volumi abbandonano la massiccia mole medievale.

 

 

Richiamo dunque all’antica fascinazione del quadrato, il formato scelto da Tetra affida alla sua enigmatica semplicità – la cui simmetria è solo apparentemente ripetitiva perché in grado di generare i rettangoli armonici da cui si sviluppa la Successione di Fibonacci – il compito di rendere riconoscibile e possibilmente memorizzabile, nell’esuberante e caotica inflazione di proposte del panorama editoriale contemporaneo, la presentazione dell’oggetto culturale libro, diventando invito anche visivo alla lettura. Criterio morfologico, quello dell’utilizzo del quadrato nell’ambito della progettazione editoriale, di cui l’Italia vanta esempi di assoluto pregio, quali le indimenticabili copertine di Bruno Munari per la Piccola Biblioteca Einaudi, che prese l’avvio nel 1960. Ripartite in sei quadrati, con la possibilità di usarne anche solo una parte, potevano perciò declinarsi in numerose soluzioni entro cui collocare le informazioni necessarie all’identificazione del contenuto: autore, titolo, illustrazioni o fotografie. Per la stessa casa editrice Munari progetta altre due collane preposte alla saggistica: quella di impronta costruttivista de Il nuovo Politecnico, attiva dal 1965 al 1990, con quadrato rosso su fondo rigorosamente bianco, e la Paperbacks, edita dal 1969 al 1997, la cui sobria eleganza della cover è caratterizzata da un semplice quadrato blu posto sotto titolo e autore. Al genio di Munari si deve anche la speciale trilogia – edita da Scheiwiller dal 1960 e riproposta a partire dal 2005 da Corraini – in perfetto e agile formato rigorosamente quadrato, dedicata rispettivamente alla forma geometrica di quest’ultimo, del cerchio e del triangolo e alla loro storia, significati e usi lungo l’arco del tempo.

Ma nell’affastellarsi caotico delle soluzioni figurative che invadono il mercato editoriale degli ultimi anni, in cui la tendenza prevalente pare quella di un trionfo dell’eclettismo fine a se stesso, risolto nella sempre più sofisticata ricerca di una trovata originale che consenta al singolo libro, alla casa editrice o a una sua collana, di emergere dal contesto dell’esposizione sovraffollata di segni, stili e soprattutto colori, quale orientamento dare al lavoro d’immagine sul libro? A questo interrogativo Tetra sembra voler rispondere con un processo visivo di sottrazione e non di sovraccarico, per mezzo di una cover ben visibile, tuttavia non “urlata”, in cui l’illustrazione che accompagna e sottolinea il testo campeggia sopra uno sfondo dall’uniforme tono avorio. Riguardo alla copertina, principale veste visiva del libro, la storia della grafica editoriale insegna infatti quanto l’uso del colore ne sia strumento funzionale capace di definirsi come tratto distintivo, basti solo pensare alla moderna razionalità che caratterizza i bianchi e rossi della Nuova Universale Einaudi, al sereno classicismo che identifica gli azzurri di Sansoni, ai luminosi gialli immediatamente riconoscibili di Vallecchi, ai verdi intensi tipici della Medusa mondadoriana.

 

 

L’assai limitata superficie della copertina è, in un volume, lo spazio di pochi centimetri in cui si condensano ricerche di ritmo, monotonia e pluritonia, equilibrio e squilibrio, simmetria e asimmetria, e nel quale l’immagine – pittorica o fotografica – vi svolge un ruolo determinante. Tetra, in quanto giovane casa editrice che nasce con l’ambizioso obiettivo di rappresentare, tramite la forma breve del racconto, la complessità e il fascino della nostra epoca, per questo motivo sceglie illustrazioni originali realizzate mediante la tecnica del collage: frammenti pittorici di figure accostate, sovrapposte, intersecate variamente in composizioni-mosaico che si presentano, al contempo, come prodotto unico e irripetibile, sia pure realizzato in serie. Narrazione autonoma, parallela eppure di supporto al testo, scopo dell’illustrazione di copertina non è infatti quello di essere mera esibizione estetica, bensì di proporsi come precisa espressione extraverbale di portata semantica intesa a richiamare i contenuti al suo interno, perché «illustrare vuol dire commentare visivamente i prodotti di altri sistemi di segni», come osserva Umberto Eco in La struttura assente (Bompiani, 1968).

Ma assieme al tentativo di dare vita ad un’identità riconoscibile, alla cura dedicata agli aspetti relativi alla comunicazione visiva – tra l’altro ogni volume sarà numerato – e alla rivendicazione della formula del racconto come scrittura in grado di giocare un ruolo di primo piano nello scenario librario contemporaneo, intenzione di Tetra è anche quella, attraverso la scelta di proporsi a un costo molto contenuto, di avvicinare un pubblico il più vasto ed eterogeneo possibile. Incuriosire, catturare l’attenzione, coinvolgere tanto gli appassionati quanto i lettori occasionali, al fine di affermare sul mercato un nuovo prodotto editoriale, è aspirazione che cresce e si sviluppa soprattutto a partire dalla metà del XX secolo, quando l’editoria comincia per la prima volta a pensare in termini industriali e di divulgazione di massa. È allora che assistiamo, ad esempio, alla massiccia diffusione – dapprima sulla scena inglese e solo in seguito in Italia – dell’innovativo modello ideale di libro dei maneggevoli, pratici ed economici tascabili Penguin. Nata a Londra nel 1936 con la sigla editoriale the Bodley Head, negli anni Sessanta la Penguin Books di Allen Lane ne affida la direzione artistica a Germano Facetti, che mantenendone integri i contenuti culturali ma trasformandone l’aspetto esteriore – basti citare la celeberrima collana I Classici, sulla cui copertina a sfondo nero si staglia l’immagine a colori, per un effetto di grande impatto e immediata riconoscibilità – ne decreterà l’enorme riuscita commerciale a livello planetario.

In Italia, nel medesimo volgere di anni, il mercato editoriale è segnato dalla nascita e dallo straordinario successo degli Oscar Mondadori, da acquistarsi nelle edicole a basso prezzo in comodo formato tascabile. Nel lancio pubblicitario, scritto da Vittorio Sereni, si legge: «gli Oscar sono libri-transistor che fanno biblioteca, presentano settimanalmente i capolavori della letteratura e le storie più avvincenti in edizione integrale super economica per il tempo libero. Gli Oscar sono i libri per gli italiani che lavorano: per gli operai, per i tecnici, per gli impiegati, per i funzionari, per i dirigenti, per gli studenti, per la famiglia, per tutti i membri attivi e informati della società. A casa, in tram, in filobus, in metropolitana, in automobile, in taxi, in treno, in barca, in motoscafo, in transatlantico, in jet, in crociera, gli Oscar saranno sempre nella vostra tasca, sempre a portata di mano». La strategia di immagine, inizialmente curata da Bruno Binosi, si basa su un’impostazione coordinata che dà identità alla linea e, al contempo, studia ogni copertina – le cui illustrazioni vengono affidate a Mario Tempesti già autore, tra le altre, di quelle della Domenica del Corriere e del settimanale Anna – come se avesse carattere autonomo, pur rispettando i criteri di riconoscibilità della collana.

La sfida della moderna editoria, se vuole concorrere alla realizzazione del libro come messaggio autenticamente culturale, non può evitare di assegnare il giusto valore – al di là dei suoi fondanti contenuti testuali – alla continua ricerca di sempre nuove idee, sperimentazioni e soluzioni innovative quanto di comunicazione e fruizione che di lettura. È dunque sulla base di questo principio che si muove la nascente iniziativa editoriale di Tetra, quella cioè di proporsi quale medium comunicativo, percorso in divenire, spazio d’incontro in cui convergano i tanti e sfaccettati aspetti dell’oggetto-libro, finestra aperta sull’attraente intreccio delle trasformazioni del nostro tempo.

Cos’hai nel sangue di Gaia Giovagnoli

Teratophobia del sangue: la paura di generare mostri

Si definisce teratofobia la paura immotivata dei mostri e delle persone deformate. In medicina, ci si riferisce in particolar modo alle donne in gravidanza che hanno paura di partorire figli deformi, soprattutto quelle che hanno sofferto di rosolia e altre malattie che potrebbero creare malformazioni al feto.

Teratophobia (‘Round Midnight, 2018) è anche la prima raccolta poetica della riminese Gaia Giovagnoli, in cui la teratofobia diventa in senso metaforico la paura del mostruoso che si annida dentro la profondità del sé e nella materia del corpo. È la paura di conoscere ciò di cui siamo realmente fatti, i nostri errori e quelli delle generazioni a noi precedenti, e soprattutto di confrontarsi col dolore degli altri, come recitano i seguenti versi tratti dalla raccolta:

«Il chiodo dice cosa strazia: / ha aperto un nodo / come un tuffo l’acqua / Il chiodo tocca il buio / e dice del mostro: / se vuoi sentire di me / leggi nel sangue // – che dal sangue biforco / come rami di un cervo: / la debolezza fatta osso spino / a bucarmi la testa: / un’impotenza che è corona / che innalzo».

Questi versi sembrano il punto di partenza ideale per parlare di Cos’hai nel sangue (nottetempo, 2022), esordio alla narrativa di Giovagnoli, un’opera prima dove si fondono quelle realtà e suggestioni fantastiche che hanno portato Nicola H. Cosentino, nella sua recensione al romanzo per La Lettura, a collocarla nel filone del New weird italiano – o meglio, del “Novo Sconcertante Italico” – poiché «compatta brividi pop vecchi e nuovi, tra L’isola del dottor Moreau e Stranger Things per poi condurci dalle parti dell’Area X di Jeff VanderMeer».

Cos’hai nel sangue si apre con un’immagine dal forte impatto visivo e onirico, che potrebbe ricordare la scena iniziale del taglio all’occhio della donna di Un chien andalou di Luis Buñuel: un sogno raffigurante una donna, «la madre», distesa nella stanza con «la carne spalancata come quella di un coniglio», e una bambina che la cerca nel buio. Quella «ferita, umida e scura» è la vagina della donna, che si presenta come uno squarcio nella mente di chi quel sogno l’ha concepito, ovvero la protagonista Caterina. La ragazza, infatti, ha ancora una ferita aperta: il rapporto irrisolto con sua madre, la signora Gaggi, che conosceremo nel corso del romanzo come Cariclò. Questo legame complesso è strettamente connesso a un segreto nascosto da tempo e che riaffiora con l’arrivo a casa delle donne dell’antropologo Alessandro Spina. Il segreto riguarda il passato di Cariclò e il suo paese, Coragrotta, un inquietante borgo isolato dal resto del mondo che tanto ricorda il Carcosa di True Detective, dove si svolgono riti ancestrali e aleggia una maledizione di cui l’artefice si rivelerà essere Fara, la nonna di Caterina.

Il rimando alla poesia è molto forte, e si può rintracciare negli eserghi che Giovagnoli utilizza all’inizio della prima e della seconda parte del romanzo, tratti rispettivamente da Descending Figure di Louise Glück e The Journals of Susanna Moodie di Margaret Atwood. Entrambi anticipano i temi del sogno e dei conflitti irrisolti col passato, spesso rappresentati come mostri – o meglio, animali, come recita l’esergo di Atwood. Il romanzo è anche intriso di suggestioni alimentate dalle tradizioni popolari e dall’antropologia, retaggio degli studi universitari dell’autrice.  Lo si nota sia nella struttura dei capitoli dedicati ad Alessandro Spina, scritti come fossero un vero e proprio diario di un antropologo, che nei rimandi a santa Caterina da Siena e alla storia – presumibilmente inventata – della strega Caterina Foschi, bambina di tredici anni del Casentino che, in alcuni documenti datati 1567, si legge sia stata accusata di stregoneria.

Gaia Giovagnoli è riuscita a creare un immaginario sospeso fra la realtà e il sogno. Si pensi, per esempio, proprio alla figura di Caterina Foschi, i cui elementi principali sono stati mutuati da santa Caterina da Siena: il rifiuto del cibo, l’alimentarsi con le ostie, la morte per stenti diventano elementi di stregoneria associati a un rito attorno al quale ruota la società di Coragrotta:

«[…] la natura di Coragrotta è questa e non può essere altro: gli uomini sono stupidi e servono per il loro sperma, le donne invece partoriscono bambini, vivi o morti che siano. Tutto qua. E se non riesci ad accettarlo, se quel posto ti fa venire la nausea, se provi a immaginare qualcosa di più oltre agli alberi, ai corpi sudati, alla vergogna di aver fatto un figlio morto, non cambia nulla. Coragrotta è questo e lo sarà sempre».

A Coragrotta, infatti, le donne usano gli uomini, chiamati “svardùni” e ridotti allo stadio di animali da monta, per procreare e abortire i bambini che concepiscono – i «morticini», sepolti ai piedi del Monte Sospiro, da cui nascono i «lupi nudi», gli spiriti dei bambini mai nati. Il rito della Caterina santa e strega che rifiuta il cibo e che allo stesso tempo si nutre di ostie risulta essere, come sottolinea Spina, «una narrazione co-creata da entrambi i generi e molto radicata» a Coragrotta, che nasconde la paura di generare – qui da intendersi metaforicamente – mostri, ovvero il dolore della coscienza del proprio corpo e della possibilità di provare piacere da esso, lo stesso che alimenta Cariclò:

«La verità è che non sapeva di sé perché nessuno gliel’aveva mai detto com’è fatta. Aveva fatto sesso, era rimasta incinta, aveva partorito – e nessuno le aveva mai spiegato niente. Lei non aveva mai osato chiedere. Aveva scoperto tutto quanto da sola, e inventato dove non poteva capire – e deve aver subìto tutto, con una sorta di violenza sottile. Il suo pudore, come un’ulcera, era stato prima caos poi era marcito, diventando turbamento. Paura. Il corpo, tutti i corpi – lo capisco solo ora – le fanno paura».

La violenza dei corpi e la pulsione carnale sono ciò che nascondono le donne di Coragrotta, ma l’arrivo di Spina a casa di Caterina e Cariclò e il sogno della protagonista riaprono questa ferita e portano il mostro a uscire dal loro inconscio. Questo aspetto della rivelazione del sé attraverso il proprio corpo è stato già affrontato da Giovagnoli in un’intervista rilasciata a Claudia Tedeschi per Una / kοινῇ*:

«[…] il mostro nasce quando […] si capisce che la propria vita, il proprio corpo, il proprio alfabeto, sono elementi particolari e isolati, fallibili. Il mostro sorge quando qualcosa – un trauma, una ferita, una malattia, altro – ci forza alla consapevolezza e ci obbliga a vedere che quel quotidiano che si dava per scontato è in realtà costantemente sotto attacco. Cede di continuo. Non è così solido come si credeva».

Il sogno di Caterina e il risveglio dei ricordi di Cariclò costituiscono il trauma e la ferita a cui fa riferimento l’autrice, il richiamo del «paese che ti rivuole», «il chiodo che dice cosa strazia» e invita «a leggere di me nel sangue» dei versi citati prima da Teratophobia. Caterina afferma di «credere di fare delle cose per rispondere a desideri miei, quando in realtà sono solo una risposta a lei». Caterina è il mostro nel senso di monstrum, ovvero di “prodigio” e “rivelatrice”. Lei è venuta al mondo per portare Cariclò ad accettare la verità: i nostri sono corpi fragili, generano dolore, necessario per conoscersi e per vivere. La consapevolezza che fa sì che la maledizione di Coragrotta possa risolversi è la seguente: come Caterina è sia la santa che la strega, così le donne protagoniste e tutti gli abitanti di Coragrotta comprendono che accettare la propria carne e il proprio sangue significa accettare la ferita, la violenza, gli errori passati e quelli futuri.

Cos’hai nel sangue è la riprova di come sia possibile confrontarsi con temi tradizionali in maniera originale. Mescolando poesia e antropologia con contaminazioni weird, Gaia Giovagnoli ha saputo rinnovare il tema della colpa, della maternità e della consapevolezza del corpo, creando in Coragrotta uno specchio delle nostre anime, delle paure represse che ci tramandiamo di generazione in generazione e che si possono risolvere soltanto con l’accettazione della nostra fragilità e del nostro dolore.

*Claudia Tedeschi, Conversazione con Gaia Giovagnoli, Una / Kοινῇ – Rivista di studi sul classico e sulla sua ricezione nella letteratura italiana moderna e contemporanea, n. 2, 2021.

 

(Gaia Giovagnoli, Cos’hai nel sangue, nottetempo, 2022, 262 pp., euro 15, articolo di Alberto Paolo Palumbo)