Alpha Games dei Bloc Party

I primi del 2000 sono gli anni dell’indie rock, ci sono gli Strokes, i Franz Ferdinand.  Diversamente gli Interpol, gli Editors. Gli Arcade Fire, etc etc.  Poi nel 2005 esce quest’album, Silent Alarm, che è una specie di bomba che esplode silenziosa sul mercato. Diventa album di culto, diversamente dai colleghi appena citati, e immagine di un modo di interpretare il rock.  Quasi vent’anni dopo, quattro album dopo, diversi stravolgimenti dopo,  esce un nuovo album, Alpha Games.

Se Silent Alarm è palesemente l’album che li rappresenta, che funzione come racconto di cosa sono i Bloc Party,  e A Weekend in the City il lavoro più complesso, è innegabile che da Intimacy (Forse quindi un po’ prima?) qualcosa si sia rotto. L’album solista di Orekere, The Boxer (e tutto quello che si è portato a presso da solo),  suona come un brutto incubo raccontato male, ma soprattutto i due album Four e Hyms sono stati dei buchi nell’acqua. Ingiustificabili certe scelte, la sensazione degli ultimi dieci anni è che i Bloc Party fossero solo un bel ricordo.  Dovevamo fare i patti con il fatto che quella cosa lì sarebbe rimasta quella cosa lì.

Qualcosa comunque è successa nel tempo perché la formazione cambia nel 2012: Matt Tong lascia. Nel 2015 viene seguito da Gordon Moakes. Insomma, i Bloc Party devono reimmaginarsi, ripensarsi, capire cosa fare, cosa essere. Kele Okereke e Russell Lisack. Non ce la fanno.

Questa non è una storia di redenzione: Alpha Games non è un grande album, non riabilita i Bloc Party. Non completamente, o non come ci aspettiamo oramai ogni volta, anche ingenuamente, all’idea di un nuovo album dei Bloc Party. È sicuramente qualcosa in più dei suoi due predecessori. Ha spunti che possono emozionare. La voce di Okereke è sempre piena di drammaticità e le sue venature gonfie di disperazione. È un album che regala qualche sussulto (“Rough Justice” sembra il brano che meglio possa rappresentare quello che da più di dieci anni Okereke vuole dire, ma che non riesce a tirare fuori), ma non è capace di andare oltre certi confini.

Interessante capire, invece, la scelta di non far ruotare l’album attorno a un’idea che prendesse spunto dall’ultimo brano, “The Peace Offering“: uno spoken album, slow core, avrebbe dato un’altra prospettiva a ciò che sono i Bloc Party, quantomeno un tentativo in una materia in cui pare che possano trovarsi a loro agio (palesemente il brano migliore); invece sembrano sempre schiavi di alcuni cliché portati avanti da loro nel tempo (quelle chitarre che tempestavano Silent Alarm, buttate in mezzo ogni tanto fanno sorridere, e il che non è proprio qualcosa di positivo), dando l’impressione di usarli quando le idee scarseggiano.

Perché non bastano due-tre pezzi validi (“Traps” su tutti, davvero ispirato e pronto a incarnare il sentimento di un ipotetico nuovo percorso Bloc Party), per riuscire a codificarsi in un presente che è lontano anni luce da un momento di grande ispirazione artistica.  Senza arrivare a dire che i Bloc Party sono morti e noi dobbiamo abituarci alla cosa, possiamo sperare che la ricerca di Kele Okereke continui e che trovi a un certo punto una chiave di volta.

Copertina di Quel maledetto Vronskij

Solitudini tolstoiane

Claudio Piersanti è uno dei nostri più solidi scrittori, come ha dimostrato con i suoi libri dagli anni Ottanta in poi. Il suo nuovo romanzo, Quel maledetto Vronskij (Rizzoli, 2021), è una conferma della sua capacità di narrare con raffinata tessitura psicologica.

La storia è quella di Giovanni, tipografo di mezza età che dopo il licenziamento dalla grande azienda editoriale milanese ha aperto una piccola tipografia in centro. Ama stampare i libri, la fattura elegante, la perfezione delle bozze, ma non ne legge per sé (se non due volte nella vita: I promessi Sposi e Don Chisciotte). È un uomo gentile, forse troppo, dice la voce narrante. È sposato e sempre innamorato di Giulia, con cui ha una figlia che vive all’estero. Giulia all’improvviso si ammala gravemente e nonostante le cure qualcosa è minato per sempre. Infatti un giorno scompare, lasciando Giovanni disorientato. Tra rispetto e incapacità, lui non la cerca, aspetta. Il tempo passa ma la moglie non torna e allora, ricordando le loro sere, in cui Giulia leggeva sempre mentre lui dormiva davanti alla tv, sceglie un libro della moglie, a caso, cercando la chiave di quell’allontanamento.

La scelta cade su Anna Karenina. Giovanni cerca di entrare nel libro a suo modo, dal lato materico: lo copia per comporlo in un’edizione a stampa di lusso, in copia unica. Ma il libro, per certi aspetti come il “male” in Giulia, lo invade: seguendo i tradimenti di Anna Karenina, Giovanni si convince che Giulia sia scappata con un simil-Vronskij fascinoso. Giovanni legge alla lettera il libro, da tipografo ne idolatra il contenuto (proprio come Chisciotte, e forse anche Bovary). Odia Vronskij e disprezza Anna («è pur sempre la storia di un matta che si butta sotto un treno», pensa a un certo punto) e un po’ anche Giulia, ora. Accetta la sua nuova condizione solitaria e guardando in tv la caduta delle Torri gemelle (il romanzo è retrodatato, partendo dal principio del nuovo secolo) pensa semplicemente: «È iniziata la parte della Storia che non condivido con Giulia».

Copiare diventa una mania, anche se non proprio come il Pierre Menard di Borges, e questo specchio con il romanzo preso alla lettera non si cancellerà. Piersanti tuttavia non fa metaletteratura, fa letteratura (sebbene avverta della sua insufficienza e dei suoi inganni). Sarà però la vita a sorprenderlo, perché Giulia torna, rivelando l’esatto legame della sua fuga proprio con quel libro. Così questa storia di due cuori semplici riprende nell’accudimento uno dell’altro, ma qualcosa oramai è irreversibile. Per Giovanni è il pensiero di Vronskij, la consapevolezza che il male erode; Giulia porta con sé l’ombra della morte che la chiude, nonostante non sembri. Come I promessi sposi, anche quello di Piersanti è un “romanzo senza idillio”. Il tempo che resta dopo il falso finale (Giulia che torna a casa) mostra le crepe: lui non si era accorto del suo disagio e lei non ha sentito il bisogno di coinvolgerlo nei suoi pensieri.

Piersanti tiene la sua scrittura attentissima alle minime variazioni, mostrando la forma di un’inquietudine dentro la più mite delle vite. Vronskij è sempre tra loro come elemento perturbante, o della mancanza, dell’inadeguatezza (è ciò che fa fare scatti d’ira al mansueto Giovanni e ciò che spinge Giulia a omettere, a non dire tutto al marito di sé stessa, come ancora una volta una fuga al lago, dopo il ritorno). Giovanni non ha raccontato certi sogni in cui è presente la morte, i suoi pensieri restano «chiusi in cassaforte» perché «devono proteggere l’altra parte di sé», più che proteggere l’altro.

Una storia in apparenza così luminosa porta Piersanti a creare sulla superficie degli eventi venature, vortici, mulinelli, la prosa calibrata lascia trasparire il tremendo senza assertività. L’adozione di una sintassi e una struttura tradizionale servono ad arginare il patetico, il sentimentalismo, con uso di ellissi di distacco nella terza persona intrisa però di discorso indiretto.

Sono due solitudini in bilico su un precipizio, Giovanni e Giulia, che rivelano come dietro il più grande amore ci siano due monadi che al fondo restano tali. Quelle due monadi tengono il segreto più profondo in comune e pure ognuno per sé. Vivono tutto in comune, specie in questo secondo tempo che resta, ma la morte è un segreto che resta irriducibilmente singolare, dove «ciascuno sta solo sul cuor della terra».

La morte non arriva dalla fine ma ti raggiunge dal passato, dall’infanzia, dove sei stato felice, caldo e concepito, nel tutto-uno dell’amore materno, e prima ancora. La morte non è il buio oltre noi, ma un buio che ritorna dal passato come un’indistinta assenza in cui siamo generati. È questo ciò che entra in gioco con gli sbocchi di gelosia di Giovanni che nessuno vede, le sue furie per quel maledetto Vronskij che vorrebbe uccidere: l’abbandono ci rimette di fronte quel buio dove noi non-siamo. La gelosia del mite Giovanni è parte dei codici patriarcali dell’amore romantico, esprime un possesso ma insieme anche la paura dell’essere abbandonati.

Oltre l’Alien del film che Giulia suggerisce a Giovanni («mi sento così, con un mostro dentro»), c’è la morte. È quel buio dei due pozzi paralleli ciò che bisogna affrontare. Piersanti dà allora alla coppia un solo spiraglio di empatia vera: di notte, parlando «nel buio assoluto della camera» e simbolicamente tornando a quell’indistinto che cancella le loro individualità, replica la fusione della scena primaria dell’infanzia da cui nasce quella forma di abbandono irreversibile. L’unica possibile forma d’amore che non sia possesso è il conforto di una condivisione della paura della morte. La funzione-Vronskij nel romanzo è quella di rilevare questa fragilità del singolo e paradossalmente spingere i due a guardarla in faccia insieme, «lasciandosi andare alla paura abbracciati come bambini».

È in quella condivisione che i due si fanno specie e natura, come le piante che accudiscono. Il mondo vegetale che vive oltre le singole piante: qui è il “per sempre”, non nell’amore di coppia, quello romantico di cui è vittima Karenina. Al massimo in mutuo soccorso, riconnessi più alla vita creaturale (insieme al loro cane e alle piante) che individuale. Lasciar andare la nuda vita in sé, oltre le singolarità degli egoismi, che è ciò che rende le famiglie (e le coppie) infelici. Giulia e Giovanni, esaurita la loro coppia, nel loro secondo tempo impastano con la paura della morte una solidarietà di creature. Cercando una diversa felicità fragile e senza desideri, nel tenersi vicini e di fronte all’estremo del male.

Non perché “Vronskij” esaurirà così la sua energia distruttiva, ma perché è l’unica cosa da fare: pensarsi in una continuità, entro un campo delle forme viventi, o addirittura «rinascere pietra», come dice Giovanni. La memoria diventa parte di quel campo, gli eventi accaduti, come fiori freschi che nascono da terra concimata con ciò che resta dei fiori morti. In questa naturalezza del morire, sta tutto il segreto del vivere.

 

(Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Rizzoli, 2021, 240 pp., euro 18, articolo di Mario De Santis)

 

Il ritorno dello stregone

È ormai difficile trovare un reale motivo di interesse nell’esplosione continua di cinecomic nelle sale cinematografiche. Doctor Strange nel multiverso della follia rappresenta una solida eccezione per il ritorno alla regia di Sam Raimi.

Se esiste una cosa che è mancata ai film Marvel fino a questo momento è stato un vero e proprio tocco d’autore. La personalità dei registi coinvolti è stata spesso assorbita dai progetti a cui hanno lavorato, o ha portato a risultati trascurabili (è il caso del Thor di Kenneth Branagh o più di recente di Eternals di Chloé Zhao, l’autrice premio Oscar e Leone d’oro per Nomadland).

Con Doctor Strange  nel multiverso della follia Raimi è riuscito a fare qualcosa di diverso. A livello di trama, il titolo rappresenta un nuovo punto di partenza nell’universo cinematografico verso quella è chiamata la fase 4. Dopo i fatti di Avengers: Endgame e gli incidenti di Spider Man: No Way Home, il dottor Strange e lo stregone supremo Wong si trovano ad aiutare una ragazzina sbucata dal nulla inseguita da demoni multidimensionali. È America Chavez, una giovanissima capace di muoversi tra i vari livelli del Multiverso. Per questo suo potere che ancora non riesce a controllare, è braccata da strane creature. Per aiutarla, Strange cerca l’aiuto di Wanda Maximoff, ma scopre che qualcosa di terribile ha sconvolto per sempre l’ex Avenger.

Sam Raimi è stato tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta uno dei registi più interessanti e visionari grazie a film come La casaDarkman L’armata delle tenebre. A partire dal 2002 ha contribuito a formare il cinema di fumetti così come lo intendiamo oggi con la sua trilogia di Spider Man, raffinato equilibrio di azione, commedia e introspezione psicologica.

Con Doctor Strange  nel multiverso della follia il regista statunitense torna indietro nel tempo al suo passato a tinte horror e fantasy. Il film unisce magia, demoni e zombie, maledizioni e libri oscuri. Mai un film Marvel aveva assunto toni così oscuri, mai un personaggio malvagio era risultato così concretamente spaventoso.

Il tocco del regista si nota in tutta la seconda avventura in solitaria (che poi è solitaria fino a un certo punto) dello stregone interpretato da Benedict Cumberbatch. Era dal sottovalutato Il grande e potente Oz del 2013 che Raimi non dirigeva un film. Se nove anni fa aveva dimostrato di essere in grado di rielaborare un immaginario consolidato come quello di Il mago di Oz per aggiornarlo, con Doctor Strange fa qualcosa di analogo dimostrando che è possibile essere originali e interessanti anche quando c’è da portare avanti una macrotrama sempre più complessa.

La verità è che sta diventando sempre più difficile godersi un film Marvel senza tutti i punti di riferimento. Per capire Doctor Strange nel multiverso della follia c’è bisogno di conoscere il primo film, gli ultimi Avenger, l’ultimo Spider Man, la serie tv WandaVision e qualche episodio di What If?Loki.

L’universo Marvel sempre più ampio si consolida con legami e rimandi continui, soprattutto nei film più importanti come questo. Il grande vantaggio di Doctor Strange nel multiverso della follia è che la presenza di Raimi garantisce motivi di interesse anche a chi non ha voglia di badare a rimandi, sottintesi, camei più o meno sorprendenti e tracce per possibili sviluppi.

Doctor Strange 2 è un film ampio, complesso e visionario che accontenta anche chi cerca una semplice esperienza filmica visionaria tra spettacolo, divertimento e horror.

(Doctor Strange nel multiverso della follia, di Sam Raimi, 2022, fantastico, 127’)

Atti di un mancato addio di Ghiotti

Elegia della giovinezza e della mancanza

«Questo libro è dedicato a coloro che, in un modo o nell’altro, hanno fatto sì che noi potessimo continuare a camminare. Ai dispersi, sulla terra ovunque». Con questa dedica evocativa, si chiude – o si apre, a seconda dei punti di vista – il nuovo romanzo di Giorgio Ghiotti, Atti di un mancato addio (Hacca, 2021).

A due anni di distanza dalla raccolta di racconti Gli occhi vuoti dei santi (Hacca, 2019), Ghiotti torna con una storia di un giovanissimo gruppo di ragazzi colti in quello strano e perturbante momento che è la post adolescenza. L’amicizia di Edo, Massi, Cecchi, Trottola e Giulio ­­­– conosciutisi durante il periodo universitario e consorziatisi tra loro proprio in virtù delle solitudini e delle mancanze seppur diverse che li albergano – è narrata con estremo garbo dalla voce di uno di loro, Edoardo, che in un dopo sfuggente che lo vede adulto e scrittore decide di camminare avanti e indietro lungo la linea del tempo per narrare quel “bagliore di giovinezza” e gli avvenimenti accaduti in quegli anni.

Pur nella loro lampante diversità, appare chiara fin da subito la presenza di un potente motore che accumuna e alimenta le vite dei protagonisti: si tratta dell’approccio quasi mistico al viaggio, come strumento per cercarsi e perdersi di continuo, metaforicamente e non, lungo le traiettorie dei treni regionali su cui salgono per andare incontro a posti conosciuti e sconosciuti.

L’ebbrezza di visitare borghi nella provincia laziale, le gite al mare sono un modo per amplificare le proprie esistenze, per regalarsi un eterno hic et nunc che trova il suo culmine con il viaggio a Bologna, luogo che sempre evoca in Edoardo sentimenti di intimità conturbante. «Viaggiavamo di continuo, in preda a un senso criminale e divino della vita. Affamati e innocenti come lupi bianchi. Ognuno scappava da qualcosa, verso qualcosa. Ci erano ignoti la partenza e l’arrivo, quel muoversi insieme in direzione di. Ci era noto soltanto il ritorno. E il ritorno era la madre. E la nostra madre era un simbolo, un nome, una bestia. Era Roma dal ventre gonfio di latte, e noi i suoi cuccioli dalla bocca sporca di bianco».

Ma nonostante la presenza di questa Roma avvolgente e rassicurante, o più precisamente del quartiere San Lorenzo che non viene meno ai suoi luoghi sacri, canonici e, in certo qual senso, stabilizzanti, nonostante questo, quindi, c’è chi decide di incamminarsi su una strada che non è più quella del branco, e scompare per sempre dall’orizzonte. È quanto sceglie di fare Giulio, «che un giorno ha camminato sulla Tiburtina, camminato camminato e non è tornato più indietro».

Questa sottrazione, ennesima mancanza che scava il proprio antro nelle anime di chi resta, Ghiotti riesce a trasformarla in una presenza eterna. E se il lutto si può elaborare, la scomparsa è un magma terribile che riemerge in superficie sotto forma di domande e solidifica in misteri destinati a rimanere insoluti.

«L’umanità si divide in persone che hanno buona memoria e persone che sanno improvvisare».

Di sicuro l’io narrante della storia fa parte del primo gruppo, sebbene la sua memoria si regala la libertà di cambiare, rimescolare e, perché no, di mistificare le immagini e le parole che danno corpo alla storia. Giulio, invece, è l’improvvisatore. Colui che riesce nel coup de théâtre più complesso, quello di far sparire sé stesso per donare alla propria persona lo status vampiresco dell’inestinto. Trasformandosi così in un essere magico, mitologico, anche prima della sua incarnazione letteraria per mezzo delle parole di Edoardo.

«Lo spreco è la misura della giovinezza» è l’appunto epifanico che l’Edoardo scrittore prende in prestito dallo stesso Ghiotti – in un gioco di specchi la frase si ritrova nel primo capitolo intitolato “Una giovinezza inventata”, tratto da Costellazioni (Empirìa, 2019), saggio di Ghiotti sulla poesia contemporanea – e lascia che questo frammento torni a galla. Forse Giulio, che di tutto il gruppo è quello maggiormente capace di misurare le proprie azioni, decide di venire meno allo spreco e di interrompere la sua giovinezza eternandola. Ma così facendo, consapevolmente, decide anche delle vite dei suoi stessi amici, bruscamente costretti a fare i conti con la sua assenza e la conseguente necessità di trovare il baricentro del “dopo”.

Ghiotti, che ha dimestichezza con la poesia – tra le sue raccolte di poesie ricordiamo La città che ti abita (Empirìa, 2017) e Alfabeto primitivo (Perrone, 2020) –, ci regala un romanzo che assomiglia a un lungo componimento lirico, che fa vibrare nell’aria lo sboccio di un’età dell’oro, quella dei protagonisti, non ancora velata dal nembo dell’età adulta, e fa dire al suo alter ego Edoardo che scrivere non è altro che «cogliere, dalla matassa intricata e informe dell’esistenza, qualche immagine, momenti, poco o nulla, e avvicinarli tra loro senza un ordine definito per reinventare ogni volta la storia; disfarla ancora; darle infine la pace meritata del silenzio».

Il silenzio di tutti gli atti mancati.

A un certo punto, lungo il fluire della narrazione, baluginii lontani sembrano restituire alcune assonanze con Il corpo di Stephen King, non fosse altro che per quella dimensione vagheggiata di giovinezza totalizzante, quei continui viaggi iniziatici per rincorrere zenonianamente la tartaruga dell’età adulta.

Ghiotti la chiama “trentennificazione”, quel tragitto inesorabile su di un “nastro trasportatore” che conduce oltre la soglia della purezza giovanile. Ghiotti, che quella fatidica soglia non l’ha ancora varcata, ha saputo imbastire un «romanzo sulla giovinezza come fosse un’epoca lontanissima», per dirlo con le lucide parole di Sandra Petrignani, in occasione della sua candidatura di Atti di un mancato addio al Premio Strega 2022.

Viene da chiedersi come abbia fatto Ghiotti a trattare una materia a lui così vicina, la giovinezza, con il tocco maturo di chi ha già consumato parecchie paia di scarpe. Ma forse anche questo deve restare un mistero, come quello di Giulio. Forse diventare adulti significa comprendere che alcuni nodi non possono essere sciolti, ma vanno accettati. E questo è ciò che deve fare anche il lettore.

 

(Giorgio Ghiotti, Atti di un mancato addio, Hacca, 2021, 186 pp., euro 15, articolo di Giulia Eusebi)

 

Copertina di Milena Q. di Elisa Giobbi

Anomalia di sistema

Milena Q. Assassina di uomini violenti (Mar dei Sargassi Edizioni, 2022) è una stilettata alla società patriarcale italiana, prima di tutto. Tramite il recupero di un fatto di cronaca nera degli anni Novanta – un’insolita storia di androcidio, ossia l’uccisione sistematica di uomini per ragioni di genere – l’autrice, Elisa Giobbi, racconta un’anomalia di sistema, quella che si verifica quando una donna abusata si ribella.

Siamo nel pavesano. È il 2 agosto del 1998 e nel pomeriggio fa un caldo infernale. Milena Quaglini, quarantuno anni, telefona ai carabinieri di Stradella. «Ho ammazzato mio marito», dice. In casa ci sono anche le sue bambine, che però non hanno visto niente. Mario Fogli, invece, è avvolto in un tappeto sul balcone, senza vita. «Venite a prendermi», dice prima di agganciare. «Sono qui». Così ha inizio la storia di Milena, che Giobbi ci restituisce intervallando il racconto delle memorie della sua protagonista alle perizie e ai documenti ufficiali del caso, recuperati grazie all’aiuto dell’avvocata di Milena, Licia Sardo.

Leggendo questo libro a metà tra la biografia, il reportage e il romanzo, viene in mente una storia che circola in giro, l’aneddoto del professore di filosofia che mostra ai suoi alunni un vaso di vetro. Dopo avervi inserito dei sassi, chiede loro se il vaso sia pieno e quelli dicono di sì. Il professore, allora, ci rovescia sopra dei piselli, sui piselli della sabbia, sulla sabbia del liquido. Sembra esserci sempre spazio. Allo stesso modo la vita di Milena si riempie di dolore. Nata nel 1957 a Mezzanino, in provincia di Pavia, si sente dire in continuazione dal padre è che è «nata storta», frase che prenderà a ripetersi lei stessa ogni volta che le cose si metteranno male nella sua vita. In casa ci sono tre donne, lei, la sorella e la madre. Tutte e tre riempite di «schiaffi, pedate, insulti» dal “padrone di casa”, per giunta costantemente ubriaco, dal quale Milena trova il coraggio di scappare a diciannove anni, consapevole che «un’infanzia infelice è qualcosa che non ti abbandona mai, un rumore di fondo che non si smorza mai». A quel punto, come direbbe Giorgio Caproni, è già stato gettato “il seme del piangere”.

Milena va a vivere tra Como e Lodi, trova lavori saltuari. A un certo punto conosce “l’Enrico”, col quale ha un figlio amatissimo, D. Sono poveri, ma non importa, perché con Enrico arriva un’idea nuova dell’altro sesso, diversa dalla brutalità che la donna ha conosciuto tra le mura domestiche. «Non mi ha mai dato uno schiaffo, lui, soltanto carezze, e non insisteva per fare l’amore se a me non andava. Ma non era debole per questo: un uomo gentile non è mai debole». Tuttavia, quando Enrico muore di un diabete fulminante a pochi anni dal loro matrimonio, Milena cade, precipita rovinosamente nella depressione e nell’alcol, e tutto ciò che troverà da lì in avanti sarà una tragica reiterazione delle violenze della sua infanzia.

L’incontro successivo, infatti, è quello col secondo marito, Mario Fogli, un operaio sulla cinquantina, all’apparenza gentile, che Milena conosce al lavoro. Fogli si rivela presto una copia del padre: picchia, abusa, beve, non vuole che dipinga (passione che accompagna Milena per tutta la vita), soprattutto non vuole che lavori, perché una donna che lavora prima o poi tradisce. Come se non bastasse, quest’essere col quale Milena avrà due figlie detesta D., il figlio avuto con Enrico, tanto da costringerlo ad andarsene di casa. Milena incassa, beve sempre di più per sopportare tutto – il dente rotto, l’udito danneggiato per sempre, le offese –, si lascia trattare come una specie di cosa «buona solo da fottere e bastonare», finché, finalmente, il vaso è colmo. Non ci entra più niente, nemmeno una goccia. Milena allora si sdoppia, si spezza in due, e una delle parti decide che è arrivato il momento di uccidere. Chi uccide, però, non è solo Mario, ma in generale «gli uomini violenti, quelli che picchiano, abusano, umiliano, quelli che usano la loro forza sui più deboli, sulle donne, sui bambini; quelli che ci tolgono la libertà, quelli che vogliono solo fotterci, in tutti i sensi; quelli che credono di aver più diritti solo perché sono nati maschi: il diritto di possederci, di usarci, di abbandonarci, di seguirci, di perseguitarci, di picchiarci se noi femmine non ci comportiamo come vogliono loro, se non ci vestiamo come vogliono loro, se rivolgiamo le nostre attenzioni a qualcun altro, chiunque sia. Ecco, quegli uomini sì, li odio e li ucciderei tutti, perché loro uccidono noi, se li lasciamo, se li tradiamo, se rappresentiamo un ostacolo nella loro vita, e se non lo fanno ci annullano».

Nelle pagine successive emergeranno altri due omicidi, uno precedente e uno successivo all’uccisione di Mario Fogli. Entrambi gli uomini hanno provato a violentarla; uno, Angelo Porrello, che aveva precedenti penali per violenza su minori, secondo quanto dichiarato da Milena c’è riuscito per due volte, prima che lei lo uccidesse.

Milena ormai entra ed esce dal carcere, dalle comunità, dai domiciliari. La sua mente si sfalda un passo alla volta sotto i colpi delle sentenze che le allontanano i figli, degli antidepressivi, della solitudine. Anche in mezzo a questo dolore accecante cerca comunque di difendersi, non si stanca di raccontare le sue ragioni, ma non basta. «Sì, li ho uccisi, sono morti, lì per lì ho avuto la meglio, ma alla fine hanno vinto loro. […] Io ormai sono solo un problema, una vergogna, un’onta per la mia famiglia. Per la società sono solo una scheggia impazzita. Sono sola, come sempre. E da soli non ci si salva». Non si salva, infatti. Il 17 ottobre del 2001, nel carcere femminile di Vigevano dove era in attesa di sentenza per l’assassinio di Angelo Porrello, si toglie la vita. Secondo l’ultima perizia psichiatrica, nonostante le botte e lo stupro, al momento dell’omicidio era in grado di intendere e di volere. Era troppo.

Risulterà forse più evidente, ora, come quella che Elisa Giobbi si è proposta nel momento in cui ha accettato di scrivere la storia di Milena non fosse una sfida semplice. Non c’era da raccontare solo la vita di Milena – cosa che Giobbi riesce a fare magistralmente, restituendo tutta la complessità della mente della sua protagonista, la sua rabbia, la sua sensibilità –, ma un intero sistema che produce e cerca di rendere accettabile una spietata violenza di genere, e c’era da farlo senza mettersi a difendere l’indifendibile, ossia il reato d’omicidio. Di quel sistema, d’altronde, sono vittime sia le donne come la madre di Milena, che chiede alla figlia di voltare la testa mentre il marito fa di lei ciò che vuole, sia uomini come il padre stesso, che utilizza la forza, le botte e il sesso come strumenti di autoaffermazione in una società che lo vuole, appunto, padrone.

All’inizio dicevamo che Milena Q. è una storia di androcidio, ed è vero. Non a caso, al tempo la sua vicenda è stata strumentalizzata per rispondere alle troppe accuse di femminicidio che venivano (e vengono) registrate ogni giorno, il che, per l’appunto, non fa che confermare quanto il male sia sistemico, antico. Basta leggere la sua storia per vedere, anzi per sentire, che se Milena ha ucciso tre uomini, il sistema patriarcale in cui è cresciuta l’ha uccisa decine di volte. La sua “anomalia”, appunto, è stata quella di insorgere. «Nel mondo, almeno in quello che ho conosciuto io, spesso la donna deve essere martire o schiava, l’uomo è padrone e nessuno viene a salvarti. Non ci sto, impazzisco. Tra assassina e vittima io scelgo di uccidere: quella è la mia ribellione».

Alla fine del libro non c’è alcun consiglio, c’è solo una vicenda dura e senza lieto fine; un episodio della storia del nostro paese che forse sarebbe finito nel dimenticatoio senza l’accurato lavoro di ricostruzione di Elisa Giobbi. Giobbi, già autrice di alcuni romanzi, con Milena Q. inaugura L’Anguilla, la collana di narrativa italiana di Mar dei Sargassi Edizioni, neonata casa editrice con sede nel napoletano. L’intento della redazione, che ha alle spalle l’esperienza dell’omonima testata giornalistica nata nel 2016, è proprio quello di dar voce alle storie di confine (sociale, politico, urbano), rendendosi «megafono per le voci e le generazioni che il settore ha tagliato fuori dai salotti intellettuali» e interrogandosi «sull’esperienza dell’essere etichettati dalla cultura dominante sulla base della “differenza” – di genere, di razza, di ceto, di nazionalità, di orientamento sessuale, di religione, di stile di vita».

Non c’è dubbio sul fatto che la vicenda di Milena si inscriva bene in questo proposito, raccontando una storia di violenza di genere da un punto di vista ancora inesplorato e, soprattutto, restituendo la prima persona a Milena, dando voce alle sue ragioni.

 

(Elisa Giobbi, Milena Q. Assassina di uomini violenti, Mar dei Sargassi Edizioni, 2022, 170 pp., euro 16, 50, articolo di Elena Panzera)
Poster di Settembre

Il mese della ripartenza

Settembre segna il debutto dietro la macchina da presa di Giulia Louise Steigerwalt, sceneggiatrice con un passato da attrice. Dopo gli esordi giovanissima con Gabriele Muccino (Come te nessuno mai, L’ultimo bacio) e tanti altri ruoli tra cinema e televisione, Steigerwalt è passata nel 2013 dall’altra parte del set, quella meno visibile, dedicandosi alla scrittura. Nove anni più tardi, eccola pronta alla sua prima regia con un film riuscito su crescita e cambiamenti.

In una Roma settembrina si intrecciano tre storie. Francesca (Barbara Ronchi) soffre il matrimonio con Alberto (Andrea Sartoretti), uomo pigro e distratto. Quando riceve una notizia sconvolgente, che condivide solo con la migliore amica Simona (Thony), trova il coraggio di cambiare tutto. Anche suo figlio adolescente, Sergio (Luca Nozzoli), è alle prese con un cambiamento. Mentre aiuta la coetanea Maria (Margherita Rebeggiani) a prepararsi al primo appuntamento con Christian, capisce che c’è qualcosa di più. Ana (Tesa Litvan), invece, è una ragazza dell’est Europa costretta a prostituirsi. Vorrebbe smettere, diventare estetista e innamorarsi di Matteo (Enrico Borello), il panettiere gentile del quartiere, ma si vergogna del suo lavoro. Il suo unico confidente è Guglielmo (Fabrizio Bentivoglio), un cliente amareggiato dalla vita dopo il divorzio, che è anche il ginecologo di Francesca.

Come sceneggiatrice, Steigerwalt ha contribuito ad alcuni dei più interessanti film italiani degli ultimi anni come Moglie e marito, Croce e delizia e Marilyn ha gli occhi neri (tutti con Simone Godano), o ancora Il campione.

Nell’affiancare alla scrittura la regia, l’autrice di Settembre è riuscita a trovare subito un proprio efficace equilibrio. La sua opera prima si inserisce nel solco di quelle commedie solo all’apparenza leggere che raccontano la società attraverso storie individuali. Vengono in mente titoli come Scialla!  di Francesco Bruni, o il meno noto – ma ottimo – L’ospite di Duccio Chiarini, più per la sottile amarezza di fondo, che per eventuali collegamenti delle trame. Sono racconti di fallimenti vari, in cui però c’è sempre, evidente e invincibile, la speranza.

La forza di Settembre è soprattutto il suo cast, ampio e variegato. Steigerwalt si rivela un’ottima direttrice degli interpreti e lascia fluire con spontaneità adulti e adolescenti. Li segue con affetto, senza mai giudicare, accompagnandoli nei loro problemi quotidiani come farebbe un’amica.

Il cinema italiano ha bisogno, tra le altre cose, di autrici e autori capaci di ridare dignità anche alle commedieSettembre può avere l’apparenza di un film già visto, verrà accusato probabilmente di un eccesso di romanità, ma è un piccolo grande film di quelli che sarebbe bello vedere più spesso.

(Settembre, di Giulia Louise Steigerwalt, 2022, commedia, 110’)

Immagine di Margaret Atwood

La Loulou di Margaret Atwood

Poetessa, scrittrice, attivista e fine osservatrice, Margaret Atwood famosa per il suo Racconto dell’ancella (Ponte alle Grazie, 2017) portato alla ribalta dall’omonima serie tv Hulu (IMDb, 2017) brilla come autrice di perle come l’antologia L’uovo di Barbablù (Racconti, 2020). Qui voci femminili si succedono in racconti autodiegetici e non, del proprio sofferto vissuto, di esperienze d’infanzia e taciti drammi della maturità. Ciò che stupisce maggiormente scorrendo i racconti non è unicamente l’attualità dei temi in un romanzo corale del 1983 (modernità cui Atwood ci ha abituati, in ogni sua riga) ma la coerenza con cui l’autrice sembra mettere liricamente in scena i meccanismi e le osservazioni delle moderne teorie letterarie e di genere ancora oggetto di studi.

In questa ottica è di certo Loulou il racconto che meglio sembra riproporre un dipinto narrativo delle teorie di Gayatri Chakravorty Spivak e Beatrice Seligardi. La prima, filosofa e esponente illustre dei postcolonial studies, analizza come la figura femminile risulti subalterna nell’affermazione della propria identità, definita dall’esterno, spesso da un pubblico maschile, e viva come simbolo svuotato di significato, cui l’artista si serve per rappresentare più lo slancio poetico e parziale della musa che per immortalare la donna che ha dinnanzi (Turia, 2018).

Ed è proprio questo il quadro che Atwood ci mostra nel racconto: Loulou è un’artigiana dalla corporatura robusta e il pensiero quadrato che condivide la casa con un gruppo di poeti che, infestando il suo soggiorno con la confidenza di vecchi amanti, la vezzeggiano e la provocano, coinvolgendola e escludendola allo stesso tempo. Nonostante l’apparente bonarietà del gruppo di intellettuali nei confronti della protagonista, l’autrice nel corso del racconto alimenta il dubbio che questo rapporto di amore e odio, di affetto e amarezza celi in realtà il sopito rancore di Loulou che si sente derisa, inquadrata e persino dissanguata dai poeti che ospita a cena ogni sera. Viene così delineandosi un rapporto parassitario dove l’uomo-artista se da un lato dedica versi d’amore elegiaco alla donna-musa dai capelli neri e i fianchi robusti, dall’altro considera quella creatura semplice, dritta, poco istruita e dalle sembianze poco armoniose.

Un appiattimento consapevole delle proprie capacità e della propria psicologia che con il tempo Loulou ha attuato, arrivando a identificarsi per prima in quell’immagine che i poeti vedono in lei: non si autodetermina ma finisce appunto per essere subalterna all’opinione maschile, si adegua al ruolo di musa vuota e svuotata, assecondando, forse in parte compiacendosene, le modeste aspettative di buona borghese sempliciotta riposte in lei. L’omologazione a questa recita si esplica perfettamente nel nome della protagonista, a lei conferito dagli uomini-artisti che trovano divertente nel vezzeggiativo Loulou l’ossimoro con la sua fisicità robusta: in questo modo il nome scelto dalla cerchia maschile determina il soggetto femminile, lo intrappola e lo inquadra, finisce per oscurare l’identità della donna e diventa titolo dell’intero racconto.

A questo meccanismo lucidamente esplicato da Spivak e scientemente messo in atto da Atwood succede un atteggiamento di Loulou che ben si uniforma alle osservazioni di Seligardi: il silenzio. Nel racconto torna preponderante la dicotomia tra il chiasso prodotto dagli uomini, sempre intenti a discutere di donne e di letteratura, di poetica e massimi sistemi e il silenzio della protagonista che si limita ad ascoltare mentre compie i meccanici gesti che tutti si aspettano che compia. L’aria taciturna di Loulou è da imputarsi in primo luogo alla sua convinzione fallace di non essere in grado neanche di interessarsi degli argomenti trattati a cena che non le competono in quanto creatura semplice e “tutta d’un pezzo”, in secondo luogo sembra calzare a pennello la tesi di Seligardi (Morellini, 2018) per cui la donna-musa finisce per rinchiudersi nel suo silenzio per impedire all’uomo di sondare quel mondo interiore che gli è precluso e di cui è all’oscuro.

 

 

Questo meccanismo di difesa sembra in effetti essere messo in atto da Loulou nel momento in cui uno dei poeti la incalza per farle spiegare, invano, il significato di una parola particolarmente ricercata. All’aperta provocazione la donna, improvvisamente resa partecipe della conversazione come oggetto di ludibrio, preferisce rispondere con qualche imprecazione per poi barricarsi nuovamente nel proprio silenzio, che la tiene al riparo dallo scherno e scherma i suoi reali pensieri. E come nell’arte visiva i pittori, scultori e fotografi tendono a rendere un’immagine dormiente delle proprie muse, con gli occhi chiusi a sbarrar loro la strada, così i poeti del racconto fanno di quel silenzio un tratto caratteristico del carattere ruvido di Loulou, per spiegarsi qualcosa che non sono in grado di conoscere.

Senza identità e circondata da una patina nebbiosa, risulta ostico persino al lettore permeare questo personaggio, tanto è radicale il suo silenzio. Eppure l’autrice risulta in grado in parte di risollevare le sorti di Loulou dandole voce con la propria prosa, invertendo quel processo artistico-svilente che viene invece avviato dai poeti.

Loulou avvia nel corso della narrazione un processo di intima deglaciazione, attraverso un atto segreto e liberatorio: un breve incontro del tutto innocente col commercialista si trasforma in un gioco di seduzione dove Loulou riesce a riguadagnare, grazie a questo scambio imprevisto e insospettabile, la propria individualità che spezza la monotonia e la emancipa dall’immagine che i poeti hanno di lei. Da donna di carta torna ad essere donna in carne ed ossa in grado di sedurre un uomo e vivere a pieno la propria sessualità. Ed è proprio attraverso questa fugace trasgressione che Loulou riacquista la tridimensionalità della propria psiche e la consapevolezza di poter scegliere e vivere fuori dal copione affidatole.

Saremmo dunque indotti a sperare in un superamento della sua condizione di subalterna, ma in questo caso Atwood dimostra a quali vertici desolanti e amari giunge la sua parabola: sebbene a causa del suo fugace incontro sessuale con il commercialista arrivi in ritardo per la cena spezzando la preziosa routine dei suoi ospiti fissi, il finale del racconto lascia presagire l’ormai totale sottomissione della donna alle dinamiche maschili dalle quali, in fondo, si sente lusingata. Quasi cullata dalle attenzioni che suo malgrado quegli uomini le rivolgono, la protagonista non sembra trovare il vigore necessario all’emancipazione definitiva, intorpidita in quel ruolo musivo tutto sommato rassicurante. Nonostante vibri per la sua esperienza segreta che ha alimentato in lei quel mondo interiore di cui parla Seligardi, sempre più contratta soffoca quella timida scintilla, la custodisce gelosamente al punto da lasciare che non divampi mai del tutto. Per questo motivo Loulou rimane una musa bidimensionale e donna sconfitta, capace tutt’al più di piccole trasgressioni come arrivare tardi per la cena e costringere i poeti a ordinare una pizza.

La certezza che niente potrà davvero cambiare in quella soffocante dinamica è forse la vera spinta propulsiva della narrativa di Atwood, coronata dal senso di sospensione con cui chiude la vicenda di Loulou che suo malgrado resta lucida prigioniera, accontentandosi di qualche fugace evasione. Ma è forse la decadenza di questa eroina, incarnazione delle teorie di Spivak e Seligardi, a rendere Loulou un manifesto generazionale e ontologico della condizione femminile fuori e dentro l’arte: così questa riflessione metapoetica nasce dalla penna di una delle autrici più ispirate e ispiranti della contemporaneità, Margaret Atwood, che a Loulou, anche se solo per qualche pagina, presta la propria voce.

Gli angeli personali di Brianna Carafa

Grandi e piccole questioni dell’esistenza

Nel pregevole volume I libri degli altri di Italo Calvino sono raccolte le lettere che lo scrittore, negli anni dorati dell’Einaudi del Novecento, ha indirizzato a personaggi del calibro di Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Alba de Céspedes. Le lettere arrivano a metà anni Settanta; ciononostante, giunti all’anno 1975 non si trova alcun cenno alla scrittrice Brianna Carafa, cui pure Calvino aveva rivolto dei complimenti, riferendosi al suo La vita involontaria.

La storia di questo romanzo, e di chi lo scrisse, è stata già ampiamente raccontata negli ultimi due anni perché è unica nel suo genere. Il libro si classificò ultimo nella cinquina del premio Strega di quell’anno – a vincere fu Landolfi con A caso; da allora cadde nel dimenticatoio e dell’autrice andarono perse le tracce. L’oblio si protrarrà per quarantacinque anni, fino a quando nel 2020 la casa editrice Cliquot non ne farà un recupero cui è difficile non fare cenno. Alla pubblicazione di La vita involontaria è seguita quella, pochi mesi fa, di Gli angeli personali, una raccolta di racconti che videro la luce per la prima volta tra il ’57 e il ’78 sulle riviste letterarie Paragone letteratura e Botteghe oscure: si trovano qui ritratti familiari e no, tenuti insieme dalla capacità narrativa di Carafa di immortalare un tempo che non c’è più, sostenendo il racconto con una padronanza pacata e ferma dei ricordi.

Due voci autoriali complementari ma distinte caratterizzano da un lato il romanzo, dall’altro i racconti. Nel primo caso, complice la scelta di un personaggio non ancora formato e di cui anzi la storia è ancora da scrivere, tutto è in divenire, ogni episodio non è mai definitivo e viene puntualmente ridiscusso: con la prima persona la resa sposa questa provvisorietà dell’animo, costretto suo malgrado a interrogarsi continuamente. Nel secondo caso, i personaggi sono già cristallizzati nel tempo, fissi a loro modo, senza però quello strato di polvere che ci si aspetterebbe da una serie di ritratti di persone defunte: una maturità sorprendente e uno sguardo ormai non più compromesso lega ciascuno di questi scritti.

La vita involontaria, che dà il titolo al romanzo, è quella di Paolo Pintus, cresciuto nella fittizia città di Oblenz con sua zia Beatrice, senza madre, perché morta alla sua nascita, e senza padre perché morto in guerra. Pintus è giovane e insicuro, vittima di una certa idea del mondo che non gli si è ancora rivelata. Subisce il fascino dell’ignoto, dell’Altro, al punto che anche dei Tetti Rossi possono destabilizzarlo:

«Ma dall’altra parte della strada si ergeva un muro lunghissimo e impenetrabile sulla cui sommità traboccavano, miracolosamente scure e fitte, le fronde di un giardino. Pareva un baluardo, un’isola, un pezzo di paesaggio straniero che la città avesse dimenticato o che dalla città vivesse orgogliosamente avulso».

Copertina di La vita involontaria di Carafa

 

Quell’osservare sempre più insistente si sovrappone a una curiosità sul passato e sulle possibilità che gli riserva il futuro: si lascia allora persuadere dalla promessa insita nelle parole dell’amico Gabriele, i cui racconti su Vallona e sulla sua università sono diabolicamente convincenti e fanno a tal punto breccia da spingerlo al trasferimento. È l’occasione per una nuova vita.

Di riscatti personali o presunti tali è piena la letteratura, perlomeno quella che elegge a protagonisti giovani in procinto di diventare uomini. Se La vita involontaria si fermasse a questo degno ma ordinario evolversi non avrebbe nulla di diverso da altri romanzi. Con Pintus e ciò che gli accadrà – la scoperta di una verità sconcertante sul significato dell’esistenza, il tentativo a tratti disperato di legittimare sé stesso in contrapposizione al prossimo, la lotta all’alienazione e alla pazzia – Carafa riesce a dare testimonianza, in poche pagine, dell’intero senso di inettitudine dell’uomo, delle costruzioni menzognere della mente, ma anche a mettere in piedi una critica alla manipolazione dell’altro per mano di chi dovrebbe averne a cura la sanità mentale.

«La mia infelicità non faceva che crescere: mi pareva che il corpo e, con esso la mia persona, fossero isolati dal mondo, come se nessuno li avesse mai toccati».

Introduce, quindi, una figura a lei cara, quella dello psicanalista: figura nel romanzo determinante, per certi versi, nell’operazione di districare (ma anche sradicare) Pintus, il quale si lascia plasmare nella speranza di emanciparsi assecondando dei meccanismi disfunzionali di cui diventerà inevitabilmente vittima. In questo suo essere, almeno all’inizio, incapace e quasi mai padrone, rivela un’ingenuità e una tenerezza che altro non sono che la manifestazione dell’ostinazione, tipica della giovinezza (come un Giovanni Drogo più dissoluto che attende l’arrivo dei Tartari). Lo scarto però sta appunto nella componente psichica: Pintus rifiuta la realtà in maniera consapevole, in favore di un’opzione accettabile per il proprio ego; sceglie deliberatamente di dare spago all’irrazionalità attraverso forme di disambiguazione, attraverso l’alcol, la depersonalizzazione, finanche attraverso manie di persecuzione.

La componente psicanalitica, che pure trovò il suo sbocco in Brianna Carafa (dopo studi di architettura e psicologia diventerà infatti psicanalista), emerge dunque fortissima nella sua opera, non soltanto nelle tematiche trattate – introducendo il «Guaritore di anime» sulla strada di Pintus, appunto – ma anche e soprattutto per una intenzione indagatrice e rivelatrice che si cela dietro la descrizione di episodi apparentemente superflui, come è il caso dei racconti. E in effetti, nella raccolta, i ritratti non sono mai un resoconto nostalgico di quel che fu ma celano sempre immagini universalmente valide, sorrette dalla parola.

«[…] è questo che io pretendo ora da lui, a tutti i costi, quasi che egli sia il portatore, per me e per gli altri, di una invulnerabilità suprema, rendendosi personalmente garante di una vita sia pur ridotta al minimo, di una vita vegetativa, senza alcuna fede, aggrappata alla sola realtà dell’automatismo consueto. Ma che si opporrà sempre, tenacemente, alla dissoluzione in agguato. Insomma, voglio che Manlio sia la forsennata marionetta di cappa e spada che resti sola, invitta e abbarbicata alla sua bandiera fra un mucchio di morti sul palcoscenico, indifferente agli applausi del pubblico».

Gli otto racconti di Gli angeli personali sono un regno riemerso, una ricerca del tempo perduto in cui il vuoto e la mancanza sono bilanciati da un’urgenza discreta di tralasciare ogni eroismo in favore della realtà, qualunque essa sia. Per questo, nel tratteggiare ad esempio l’importante figura di sua nonna in “Ritratto di straniera”, Carafa non risparmia la lunga serie di fallimenti – se così possono essere intesi – che la donna specie nella sua vecchiaia accumulò. Ciò che importa è rivelarne la natura intima, di donna imperfetta e stravagante ma soprattutto fedele a sé stessa. Anche nell’alternarsi di scene a tratti esilaranti, che rendono Marianna Frankestein Soderini simile alla zia dello Swann proustiano, lo sguardo della scrittrice si affina e svela, anche solo per inciso, come se fosse un dettaglio irrilevante, qualcosa di più profondo (alle parentesi relega, come cosa di poco conto, che sua nonna «dimostrava, a tratti, un’affettuosa e malinconica nostalgia per una pace che non sapeva o non voleva trovare»).

Dall’operazione di riemersione del passato nel presente non viene risparmiato nessuno, neppure la sua Governante, cui è dedicato uno degli scritti indimenticabili di questo volume. Una Brianna bambina viene qui affidata alle cure di Fräulein Hilda; la sua versione adulta ne riporterà poi i fatti traumatici e decisivi:

«Ma io non la consideravo una donna, bensì un’entità misteriosa, provvida e potente, come Dio. O una sua emanazione, senza sesso e senza una personalità definita. In parte, forse, una macchina».

Ne verrà fuori un racconto audace e ambiguo, in cui l’infanzia viene compromessa in favore della lotta per la supremazia: il gioco delle parti – pur in apparenza diseguali – va di pari passo alla presa di coscienza dell’insensatezza della vita in un’alternanza di manifestazioni tra esercizio del potere e sottomissione.

Anche nei racconti più brevi, cui vengono dedicate poche pagine, non manca quella lucidità che attraversa l’intera opera di Carafa, sempre accompagnata da una distanza oculata dalla materia raccontata. È il caso, ad esempio, di “La porta di carta” o “Il sordo”, che svelano aspetti anche meno lusinghieri degli individui, dunque vivissimi. Ciononostante, non si può non pensare, leggendoli, di trovarsi di fronte alla porta cui ogni giorno il mendicante si presenta per il suo pane quotidiano, o di essere seduti a chiacchierare e domandarsi se la persona sorda che respira la nostra stessa aria sia veramente sorda o sia solo una finzione.

Ciò che forse più ammalia e sorprende di Gli angeli personali è quell’unione di grande e piccolo, considerazioni a tratti spietate dell’esistenza mischiate a minuscoli episodi quotidiani. Congedandosi dagli scritti di Carafa, ci si sente più consapevoli e più insicuri, come dopo un colloquio con una persona che rispettiamo che ci ha appena svelato ciò che sapevamo ma non avevamo mai ammesso a noi stessi.

 

(Brianna Carafa, La vita involontaria, Cliquot, 2020, 144 pp., euro 16; Brianna Carafa, Gli angeli personali, Cliquot, 2021, 176 pp., euro 16. Articolo di Giovanna Nappi)

Skinty Fia dei Fontaines D.C.

Cosa rimarrà degli anni ’20? Sicuramente i Fontaines D.C.  Gli irlandesi sono una pietra miliare di quello che dovrà accadere, incarnano nella maniera più pura possibile l’inclinazione rock di questi anni. Lo sono stati gli Strokes a inizio 2000, i Nirvana con il grunge, i Joy Division con il post punk.

Non è troppo presto per affermarlo.

Tre album, uno dietro l’altro, di livello altissimo, puntuali con il tempo che li accoglie, capaci di raccontare come la musica oggi deve raccontarsi, dando una linea, una guida.  Dogrel, A Hero’s Death, ora Skinty Fia.

A Hero’s Death, ancora più più del già destabilizzante esordio, uscito in piena pandemia e arrivato come una sorta di alieno in mondo in cui per la prima volta intravedevamo una fine possibile, era colonna sonora per qualcosa di non più reversibile.  Serio candidato a essere album del decennio, si articolava con intelligenza lungo le undici tracce e scendeva giù con violenza toccante e inaspettata, paradossalmente accogliente.

Skinty Fia non sarà così in alto per una questione cronologia: viene semplicemente dopo A Hero’s Death. Non lo supera, non riesce ad andare oltre, non ha uno sguardo che possa ulteriormente spostare l’asticella, ma lo completa, viaggia su una dimensione già conosciuta: complesso e immediato, oscuro ma pieno di tagli di luce, monotono ma sinistramente variopinto.

Un suono che affonda così tanto in un passato ideale, in un calderone, in un post punk mitologico, quasi astratto, a cui aggiungere l’indie dei primi 2000 e qualcosa di Britpop, ma allo stesso esce fuori qualcosa di mai ascoltato prima.  Ci sono momenti in cui pare necessario dirsi “ma in quale tipo di presente mi trovo?”.

Dalla prima traccia, che crea  continuità di intenti e di prospettive con il suo predecessore – passando per un’ode a Dublino attraverso Joyce (“Bloomsday“), la ballata sghemba “The Couple Across the Way“), la più intellegibile “Roman Holiday” -, l’album gira sulla voce sgraziata e bellissima, ripetitiva e complessa e disperata di Grian Catthen, il groviglio oscuro dei riff di chitarra e del basso e batteria, Bernard Summer che jamma con Carlos DenglerLo fa senza intoppi, manifestandosi nella sua completezza.

Skinty Fia ha il respiro dei grandi album, delle grandi opere. Uscirne con le ossa rotte dopo A Hero’s Death sarebbe stato possibile, addirittura comprensibile. Era forse un dovere, per noi mortali. Superarlo sarebbe stata un’impresa, quasi come rimanere su questo livello.

 

Copertina di London voodoo di Orso Tosco

I mostri di Londra

La fisionomia di Londra – i suoi ponti, le strade ampie, le folle, il grigio del Tamigi – evoca nel viandante il conforto della maestosità, di un certo grado di ordine, e insieme il caos e la mostruosità della metropoli contemporanea. A Londra si trova almeno un metaforico accesso all’inferno (e uno analogo al paradiso): è la città più e meno europea del continente, quella dove si possono intravedere tutte le possibili versioni del futuro dell’Occidente. In una famosa scena di un classico degli zombie movie, 28 giorni dopo di Danny Boyle, il protagonista – interpretato da Cillian Murphy – si risveglia dal coma e si trova a camminare in una Londra totalmente svuotata di esseri umani: la città è in preda a un’apocalisse che il personaggio ancora non sospetta, al contrario dello spettatore, in un rovesciamento cognitivo che diventa estetico. La visione di questa sequenza, a vent’anni dall’uscita del film, è ancora impressionante, nella sua perfezione ma anche nella sua irragionevolezza: Londra è la città dove la fine del mondo assume i caratteri dello splendore, e al contempo della morte assoluta.

L’ultimo romanzo di Orso Tosco, London voodoo (minimum fax, 2022), si muove seguendo queste tracce, con una Londra distopica come palcoscenico e matrice narrativa. La cornice è quella di un Regno Unito dai confini chiusi, diviso dal resto d’Europa dove invece imperversa un’epidemia: profughi, violenza e povertà dilagante sono all’ordine del giorno. Immagini disturbanti, certo, ma anche familiari. London voodoo ci avverte da subito sulla strada che il racconto distopico sta prendendo negli ultimi tempi: anche quando il meccanismo narrativo della distopia è chiaro, le storie non ci appaiono più tanto lontane, inverosimili, al massimo profetiche – cosa che accadeva nelle distopie classiche come 1984 o anche Il racconto dell’ancella. Anzi. È come se con l’avvento della pandemia il nostro immaginario fosse stato destabilizzato, ferito, e di conseguenza le nostre paure si stiano avvicinando sempre più all’idea che abbiamo del mondo reale. Quella che si sta concretizzando è una frontiera – tra realtà e immaginazione, esperienza e preoccupazione – mobile, ambigua, pericolosa ma anche esteticamente eccitante, su cui si colloca la distopia contemporanea.

I protagonisti di London voodoo sono tre: il Porco, Dennis Tabbot, Eva B, rispettivamente i membri e il capo della Sezione, una squadra speciale della polizia inglese che ha il compito di risolvere i crimini più spinosi, e sanguinari, della nazione. Alla Sezione è concessa la libertà di fare qualsiasi cosa pur di raggiungere i propri obiettivi, anche torturare – anche uccidere. Non c’è alcuna morale nella Sezione, se non quella del mantenimento dell’ordine. Orso Tosco insomma mischia le carte tra bene e male, giustizia e cattiveria. È una scelta coraggiosa per uno scrittore, una sfida: non è facile infatti empatizzare col Porco o con Dennis, omoni sadici, perversi, spesso del tutto privi di umanità. L’intento dell’autore non è quello, più classico, di raccontare una storia dal punto di vista del cattivo, ma di descrivere un male imperante in tutti i luoghi del romanzo, una totale assenza del bene. In questa Londra, infatti, l’unica etica possibile è quella di chi cerca in qualche modo di limitare il caos.

All’inizio di London voodoo però la Sezione si trova a combattere con un mostro peggiore degli altri, qualcosa di indecifrabile e dall’aspetto mutevole: a Londra iniziano a verificarsi una serie di assassinii e attentati di violenza inaudita, compiuti da persone in teoria normali – un’anziana cieca, una tossicodipendente all’apparenza innocua, un membro della stessa polizia –, che sembrano spinte da un’energia irrefrenabile e che poi non ricordano niente dell’accaduto. È quasi come se fossero possedute. Ma da chi? E per quale motivo? Gli assassini, oltretutto, quando posseduti, raggiungono una potenza fisica e mentale disumana: sono forti, veloci, precisi. È proprio questa furia all’apparenza cieca ma in realtà controllata, questa chiarezza della violenza, a inquietare. Un’agentività esiste anche nel caos, ma è ermetica. Chi è il colpevole, quindi? O meglio: esiste una colpa? Oppure in un mondo del genere non ci sono persone più colpevoli di altre?

Quello sulla colpa (l’assenza della colpa) è il quesito alla base di London vodoo, che col prosieguo delle pagine si delinea sempre più come un romanzo-resoconto sulle forme della barbarie contemporanea. Sulla crudeltà dei due poliziotti d’altronde si è già detto; ma è tutto ciò che li circonda ad apparire decadente, intriso di ferocia – appunto, barbaro –, anche gli aspetti della storia che sembrerebbero onirici, addirittura magici, slegati quindi dalla crudezza del reale. Il Porco per esempio ha il controllo su una creatura, Sessantanove, una donna antichissima, un oracolo: la tiene incatenata in una casa fatiscente e la premia con dosi di eroina; lei in cambio lo aiuta a risolvere i crimini. È una pizia tossicomane, disagiata – e disagiante –, in cui lo scrittore riprende alcune immagini tradizionali della figura dell’oracolo ma poi le rende squallide, le sporca. Qualcosa di simile è anche il “voodoo urbano”, una sorta di magia nera utilizzata dai due poliziotti, che si basa totalmente sulla violenza inflitta e autoinflitta. La loro è una telepatia del sangue; la magia, nella metropoli oscura, è solo veicolo di violenza.

Quando la Sezione si mette a indagare sugli omicidi – e più che indagini classiche, da giallo, si tratta di una guerra –, quello che ne ricava è un aumento esponenziale del caos. A capo della squadra, Eva B – fredda, calcolatrice, intelligentissima, con chiari tratti di psicopatia –, prova una dolorosa frustrazione di fronte a tutto questo. È il personaggio migliore del romanzo, quello che assomiglia di più alla sua città: alterna anche lei violenza a raziocinio, l’ordine alla confusione, ma ciò che prova è soprattutto sgomento. Eva B osserva le cose per come sono, e quello che vede con sempre maggior chiarezza è un paese – e un genere umano – corrotto a tutti i livelli, cieco, spinto da una perversa tendenza autodistruttiva. Vengono in mente alcune immagini di Dylan Dog – per esempio quelle di Golconda! o di Dopo mezzanotte –, in cui l’inferno si apre letteralmente dentro Londra e la città viene invasa da un male incomprensibile all’uomo, ma in qualche modo logico. È la meccanica dell’inferno; la presenza-assenza dell’agentività. In questo, è ovvio, gioca un ruolo importante anche la prosa di Orso Tosco: visionaria e insieme rapida, influenzata dalla poesia quanto dal cinema; l’uso combinato di seconda e terza persona rende il punto di vista ancora più mutevole, massima la costruzione del disordine.

London voodoo è una cupa riflessione politica sul presente dell’Europa. Sul presente apocalittico dell’Europa, secondo quel cortocircuito tra realtà e distopia di cui si è parlato in precedenza. Di apocalisse d’altronde Orso Tosco si era già occupato nel suo romanzo precedente, Aspettando i Naufraghi (minimum fax, 2018). Qui apocalisse e scenario politico però si camuffano l’una con l’altro: il discorso sulla Brexit, per esempio, rimane sottinteso ma è lampante, così come quello sul Covid e sui mali del capitalismo. Sono emblematiche le figure del Primo Ministro – che riassume tutte le contraddizioni di un certo modo di fare politica – e dei suoi scagnozzi nei servizi segreti, ma anche quelle di personaggi minori, tristi topoi della contemporaneità: lo chef clandestino che cucina pietanze illegali, e da cui vanno a cenare i potenti del paese, i tossicomani disprezzati e lasciati in balia di sé stessi, i poliziotti fascisti, gli innocenti che pagano per colpe che non hanno commesso. Quello di Orso Tosco è un quadro scioccante, catartico, e che la metropoli finisca infine per scoppiare sembra solo una conseguenza logica, piuttosto che il sogno di autodistruzione di un pazzo, o il desiderio di qualche uomo senza scrupoli.

 

(Orso Tosco, London voodoo, minimum fax, 2022, 205 pp., euro 16, articolo di Claudio Bello)
locandina di Strangers on a Train

Perché Raymond Chandler detestava Alfred Hitchcock

Nel dicembre 1950, Alfred Hitchcock riceve una lettera dal contenuto feroce e spietato, firmata in calce da Raymond Chandler. Pochi mesi prima, i due avevano collaborato alla produzione del film Strangers on a Train (L’altro uomo), tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith. Hitchcock aveva ingaggiato lo scrittore per redigere la sceneggiatura del film. Tuttavia, i primi incontri degenerarono nella contesa fra le rispettive prerogative artistiche, e non passò molto prima che l’insofferenza reciproca provocasse insulti e risentimenti personali. Pare che un giorno Chandler abbia detto di Hitchcock: «Guarda quel ciccione bastardo che cerca di uscire dalla macchina».

Non essendoci più alcun margine di intesa, il regista congedò Chandler, che rimase comunque accreditato come sceneggiatore. Strangers on a Train conobbe poi un notevole successo di critica, che vi rintracciò tutti gli archetipi del cinema hitchcockiano: il mistero, l’ambiguità, la manipolazione del tempo, le carrellate. D’altronde, come lo stesso Hitchcock confessò a Truffaut nel corso delle conversazioni intrattenute nell’agosto 1962, aveva scelto il romanzo della Highsmith in quanto «era materiale che faceva per me». Il successo del film spianò oltretutto la strada alla carriera della scrittrice, fino a quel momento sconosciuta.

Indagando la biografia della madre di Mr Ripley, emergono gli elementi che non solo hanno ispirato i suoi racconti, ma che hanno perfino aperto una breccia nel misterioso e inquietante universo di Hitchcock. Nel maggio 1948, all’età di 27 anni, Patricia Highsmith venne ammessa alla colonia di artisti Yaddo”. Qui vi trovò una comunità di uomini e donne dediti a eccessi di ogni tipo, e non fece alcuna fatica a integrarsi.

L’aspirante scrittrice aveva alle spalle una gioventù tormentata dall’abuso di alcol, dall’irrequietezza sessuale che aveva compromesso decine di rapporti con altre donne, e soprattutto dall’ambiguo rapporto con la madre. Verso di lei era capace di un amore morboso, ma anche di un feroce odio fomentato dall’invidia. Dalla sua corrispondenza privata sappiamo dei molti episodi di violenza e di altri aneddoti oscuri. Un giorno, la madre scherzò sul fatto che Patricia apprezzasse l’odore della trementina, di cui aveva abusato quando era incinta allo scopo di abortire.

Più tardi, la Highsmith scrisse un racconto in cui la protagonista uccide compiaciuta la madre pugnalandola con un paio di forbici. Un aspetto questo che ci concede l’impropria suggestione di accostarla a Norman Bates in Psyco, specie se si considerano anche gli eccessi architettonici della residenza Yaddo, costruita in stile Regina Anna e sovraccaricata in seguito di elementi gotici che ricordano proprio la casa dei Bates. Se Yaddo era il luogo ideale per stimolare la creatività degli ospiti, ciò che accadde nell’estate del ’48 non poté che provocare in lei una più feroce espressione artistica dei suoi tormenti.

Lì intrattenne una relazione eterosessuale che le procurò la spiacevole sensazione di «avere come della lana d’acciaio in faccia. Un movimento intestinale provocato dall’essere violentati nel posto sbagliato». Pensò così di andare in analisi dalla dottoressa Lipshutz, fiduciosa di poter risolvere le inclinazioni devianti per salvaguardare gli ideali di legge, ordine, patriottismo, religione e famiglia sicura. La Lipshutz disse che la scelta della scrittrice di sottoporsi alla terapia era dovuta al bisogno di legarsi in una relazione convenzionale con un uomo.

E ancora, che ella fosse incapace di instaurare un rapporto a lungo termine con le donne perché, in fondo, le odiava tutte. Tuttavia, dall’ingente mole di lettere e diari passati in rassegna dagli studiosi – alcuni dei quali ripubblicati di recente – non emerge affatto l’intenzione di volersi “curare” dall’omosessualità. Piuttosto, sembrava divertita all’idea di potersi prendere gioco della psicoterapeuta, come quando accettò di unirsi a un gruppo di altre tre pazienti omosessuali, salvo poi confidare a un’amica: «Mi divertirò a sedurre un paio di loro». Insomma, le sedute di analisi erano forse l’occasione per sbirciare fra gli standard di normalità condivisi nella società americana. Gli stessi che stava usando come contraltare nella bozza di Strangers on a Train scritta proprio nel corso quell’estate.

La Highsmith aveva concepito l’opera sulla scorta delle esperienze che l’hanno indotta a manovrare la doppia identità tanto nella vita quanto nei suoi romanzi. L’intero romanzo si impernia sul tema del doppio tanto caro a Hitchcock, che ha fatto dell’ambiguità un veicolo di ironia e inquietudine. I due protagonisti convergono infatti in un’unità psicopatologica generatasi al momento dello scambio delle vittime.

 

 

Era chiaro che l’opera non si prestasse facilmente all’adattamento cinematografico. Convertirla in sceneggiatura era un’operazione delicata che richiedeva una sola mente, una sola prerogativa, che non era però quella di Chandler. Come avrebbe ammesso lo stesso Truffaut: «Se avessi letto la sceneggiatura, non mi sarebbe piaciuta. Bisogna veramente vedere il film. Credo che se qualcun altro avesse filmato la stessa sceneggiatura non ne sarebbe uscito niente di buono».

Quando Hitchcock ingaggiò lo scrittore, era consapevole di «non riuscire a lavorare bene quando collaboro con uno scrittore specializzato come me nel mistero, nel thriller o nella suspense». Il regista ricorda così i loro incontri: «Ero seduto accanto a lui, cercavo di trovare un’idea e gli dicevo “Perché non fare così?” Rispondeva “Ebbene, se lei trova le soluzioni perché ha bisogno di me?”». Nella lettera recapitata a Hitchcock, il padre di Philip Marlowe insiste nell’offensiva contro Hollywood lanciata nel 1945 con l’articolo Writers in Hollywood apparso sull’Atlantic Magazine.

Così scrive a Hitchcock: «Il tuo comportamento sembra far parte dello standard di disonestà di Hollywood. Non riesco a capire perché hai permesso che una sceneggiatura con una certa vitalità e un certo brio, venisse ridotta a una tale flaccida massa di cliché. Un gruppo di personaggi anonimi e dialoghi appartenenti al genere che a ogni sceneggiatore è stato insegnato di non scrivere». Così aveva scritto cinque anni prima: «A Hollywood, ai pochi scrittori di talento viene impedito di esprimersi. Prevale il principio per cui essendo loro scrittori non possono caprine nulla di immagini, e perciò occorre un produttore che dica loro come fare».

Al tempo della lite, Hitchcock non godeva ancora dello status di canone cinematografico. La sua reputazione aveva un ingombro internazionale notevole, resisteva all’onda d’urto delle critiche e si accresceva ogni qualvolta si esibiva in prodezze tecniche e stilistiche. Tuttavia, non aveva ancora iniziato a far scuola: doveva ancora arrivare il tempo in cui Truffaut si impuntava a patrocinarne l’opera omnia. Di contro, Chandler poteva invece avvalersi del potere conferito a chi è riuscito nell’intento di reinventare un genere letterario. O in altre parole, a imporsi come canone.

Non sarebbe improprio collocare nel 1939, data di pubblicazione de Il grande sonno, l’anno zero della narrativa poliziesca. Prima di lui, per quanto «lucide e solide» fossero le trame, restavano comunque sprovviste di «personaggi vivaci, di un dialogo brillante, del senso del ritmo o della profondità psicologica». Per quanto «vivace e colorita» fosse la prosa, «mai una volta che si addossasse la massacrante fatica di smontare un alibi a prova di bomba». Lo strapotere di Chandler deriva non tanto dal suo stile, ma dalla consapevolezza di averne dato uno a un genere che non l’aveva mai avuto.

Curioso come la dinamica di questo scontro fra Maestri sveli un maggior numero di aspetti tra loro in comune rispetto alle differenze che vorrebbero spiegarne l’idiosincrasia. Come Hitchcock, Chandler aveva il feticcio delle regole. Solo che lui non si limitava a rispettarle, piuttosto sentiva il bisogno di enunciarle per educare i suoi colleghi al solo modo di rispettare un genere spesso snobbato. Lo ha fatto sulle pagine dell’Atlantic nel 1944, nell’articolo intitolato La semplice arte del delitto, poi ampliato nel 1950 con la raccomandazione per cui «la storia ideale è quella che leggereste anche se mancasse la fine».

Gli va poi riconosciuto il merito di aver sposato una causa senza tempo, quella dell’evasività. La critica di oggi come quella di ieri insiste sul voler distinguere la letteratura d’evasione offerta dai generi d’intrattenimento, da quella d’espressione, di competenza esclusiva delle sublimi vette della letteratura derivate da Shakespeare e Dante. Ecco cosa pensava Chandler a questo proposito: «Quanto a letteratura d’espressione e a letteratura d’evasione, si tratta di terminologia critica, un usare parole astratte come se avessero un valore concreto. Se una cosa è scritta con vitalità esprime vitalità; non esistono argomenti poco fecondi, esistono purtroppo, cervelli poco fertili».

Questa terminologia critica ha contaminato anche il cinema fin dalla sua nascita. Hitchcock è divenuto un canone dell’immagine-movimento e intere generazioni di registi si sono misurati con l’espressività dei suoi oggetti e delle sue ambientazioni. Chandler ha però dovuto compiere uno sforzo che la tradizione ancora oggi fatica a comprendere, in quanto dedita a misurare a mezzo di indici sociologici l’autorialità e la finalità morale dell’offerta artistica. Il rischio è però quello di perdere l’occasione di esporsi allo stile unico e sbalorditivo che ha reso canonici romanzi come Il lungo addio, Addio mia amata o Il grande sonno.

Chandler e Hitchcock non sono che due sconosciuti sul treno della tradizione, ma che differentemente dagli “stranger” della Highsmith, non potrebbero mai fondersi in un unico genio. In fondo, parole e immagini generano una realtà solo se lavorate da una mente ispirata, e la realtà che ne deriva è tanto più seducente quanto più grande è il genio che la ispira. Ma si tratta pur sempre di materie prime molto diverse, che richiedono diverse conoscenze e metodi di lavorazione. Non c’è da stupirsi dunque, se fin dal principio, il cinema sia divenuto un caldo terreno di scontro fra i poeti dell’immagine e gli artigiani della parola.

Non possiamo chiedere di più ai Placebo

Era da un po’ che non usciva nulla di nuovo da parte dei Placebo, nove anni, dal non memorabile Loud Like Love. Non una cattiva notizia, visto cosa stavano iniziando a combinare. Parabola discendente. Brian Molko, la sua voce nasale, il glam. Un più che diffuso nichilismo di fondo.  Il tempo dei duetti con David Bowie era storia. Bene così. Nel 2022, comunque, esce un nuovo album, Never Let Me Go.

Nel 2006, con Meds (che, paradossalmente, pare invecchiato piuttosto bene) era abbastanza evidente che la fiamma che li aveva resi uno dei gruppi di culto a metà anni novanta iniziava a cedere. Ma c’erano brani tipo “Song to Say Goodbay” e “Infra-Red” che facevano stare un po’ cauti.  Poi però Il già citato Loud Like Love, ma prima Battle For The Sun. Eravamo in piena zona U2.  Un destino che accomuna molti gruppi. Appiattimento, poi una discesa verso l’oblio. A essere ottimisti un plateau, una fine dignitosa. Il tanto bistrattato Sleeping With Ghosts pareva Sgt.Peppers.

Arriviamo a oggi, nove anni dopo. Never Let Me Go pare avere sicuramente qualcosa in più rispetto alle ultime cose, un’ispirazione, non a tal punto da gridare al miracolo o all’espressione sono tornati i Placebo, ma quantomeno abbiamo da ascoltare qualcosa che non ti fa pentire di aver sprecato  un’ora della tua vita. Viste le premesse, non è poco.

Ma la questione centrale è proprio il format Placebo, tutta la semiotica che si porta appresso, che quasi naturalmente si manifesta come qualcosa che appartiene a un altro momento storico. La voce di Molko non ha avuto particolari sviluppi, non si è evoluta, la scrittura dei pezzi tra queste sferzate con le chitarrine – proprio queste qui –  e le ballatone (“This is What You Wanted“, forse il prezzo riuscito meglio dell’album);  i riff non riescono ad avere quella presa come in passato (sì, banalmente tipo “Special K“), le melodie stesse che non hanno la forza di fare quel passo in avanti. Per quanto possa suonare paradossale, è un problema generale dei Placebo, non dell’album nello specifico.

Ci sono degli aspetti interessanti (più una scopiazzatura piuttosto imbarazzante di “How to Disappear Completely” dei Radiohead, “Fix Yourself“), roba che non si distacca dall’estetica (appesantita, ed è questo il punto focale: forse è proprio la voce in sé di Molko che ha fatto il suo tempo) del prodotto Placebo, dell’idea Placebo, ma che sicuramente girano bene: una chitarra simil post rock in “Twin Demons“, lo spoken e la coda di “Went Missing” che sembra uscita da Sleeping With Ghosts, l’inaspettata orchestrazione di “The Prodigal“. Poi ci sono i classici topoi: le droghe, la morte, i compleanni, for what it’s worth, le anime gemelle.

Per essere un album dei Placebo, per come sembrava si stessero mettendo le cose, Never Let Me Go è una boccata d’aria pulita. Viste le premesse, il risultato sarebbe potuto essere peggiore. Decisamente peggiore. Ai Placebo non possiamo chiedere più di questo.