Italo Calvino nella veranda della sua abitazione romana

Cosa leggeva Italo Calvino: l’immaginario dello scrittore

C’è qualcosa di emozionante nel ripercorrere la biblioteca di un lettore alla luce del suo essere diventato una delle penne più importanti del nostro Novecento. Tanto più che, a leggere i racconti e i romanzi di Italo Calvino, nulla sembra trasparire del suo scrivere «con molta fatica» – come dirà a Costanzo Costantini in un’intervista del 1982 – perché le sue opere sembrano essere scaturite in maniera spontanea da uno squisito esercizio di lettura.

I libri di Italo Calvino rappresentano un’eccezione tra le biblioteche d’autore da un punto di vista materiale e geografico, dal momento che gli oltre settemila volumi conservati nella sua abitazione romana si presentano ancora come lui li ha lasciati: ordinati in doppie file tra scaffali di legno e di vetro in quasi tutte le stanze della casa e persino sulle scale, secondo un criterio di collocazione in cui era il solo a orientarsi. Una mole di libri che lo scrittore ha costantemente sottoposto a selezione per via dei suoi spostamenti tra le città che ha abitato, ma in cui è difficile distinguere nettamente le letture per diletto, per studio e per mestiere. Una biblioteca che oggi non è aperta al pubblico – a meno che non si trovi il coraggio di citofonare all’interno 6 di piazza Campo Marzio 5, dove il secondo campanello dall’alto a sinistra riporta ancora i nomi Calvino e Singer – ma che si può ricostruire tra le lettere, le interviste, gli scritti in cui l’autore l’ha raccontata.

Per come appare oggi, la biblioteca di Italo Calvino è il frutto dell’accorpamento e della selezione di titoli provenienti dalle sue librerie di Sanremo, Torino e Parigi, approdati a Roma a partire dal 1980. Vi troviamo tracce delle letture dei genitori, Evelina Mameli e Mario Calvino, che comprendono dizionari, testi di botanica, di esoterismo, di magia e rarità scientifiche, nonché romanzi di autori italiani come Deledda, Pirandello, D’Annunzio e Fogazzaro. Lo scaffale di famiglia accoglie anche i libri degli zii materni, Anna e Efisio Mameli, e in particolare la collana Biblioteca Romantica Mondadori, a cui lo zio era abbonato, che sarà per il giovane Italo una fonte preziosa per i suoi primi innamoramenti letterari. Come l’autore ricorderà in uno scritto oggi contenuto nel Meridiano dedicato ai saggi: «Il Gordon Pym di Poe della “Romantica” è stata una delle prime letture impegnative, totali, della mia fanciullezza. Un mio zio era abbonato ai volumi verdi, aveva anzi sottoscritto uno dei primi abbonamenti che davano diritto a ricevere ogni volume con un ex-libris personale; tra i titoli dorati dei dorsi allineati nello scaffale scelsi Gordon Pym e fu un’esperienza tra le più emozionanti della mia vita: emozione fisica, perché certe pagine mi fecero letteralmente paura, ed emozione poetica, come richiamo d’un destino».

 

Italo Calvino con la madre Evelina Mameli a Sanremo

 

È sempre Calvino a indicarci – in due interviste del 1985 con Maria Corti e Sandra Petrignani – il punto di partenza per «tentare la ricostruzione d’una biblioteca “genetica”»: «Ogni elenco credo deva cominciare da Pinocchio che ho sempre considerato un modello di narrazione. […] Se una continuità può essere ravvisata nella mia prima formazione – diciamo tra i sei e i ventitré anni – è quella che va da Pinocchio ad America di Kafka, altro libro decisivo della mia vita, che ho sempre considerato “il romanzo” per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in quella». Volendo procedere ancora all’indietro, si può risalire alle prime suggestioni visive dei giornalini d’infanzia: «Da bambino leggevo molto il “Corriere dei piccoli” e prima ancora di leggere lo sfogliavo e attraverso le figure mi raccontavo da me stesso delle storie. Facevo variazioni di storie possibili. Credo che quella sia stata una scuola di immaginazione e di logica delle immagini».

La curiosità di Italo trova alimento nella biblioteca scolastica, soprattutto tra i testi di avventura cui sarà legato per tutta la vita, come si legge in Album Calvino: «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. […] Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling». E se il personaggio alter ego dell’autore nel suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, si chiamerà proprio Kim, non è un caso.

Agli anni di scuola risale l’abitudine di apporre la firma e la data di acquisizione sul frontespizio del libro per indicarne il possesso. Calvino leggeva con la matita in mano, eppure non era solito postillare i suoi libri: si limitava ad annotare sul primo foglio di guardia i numeri delle pagine su cui tornare. Fanno eccezione alcuni testi di studio degli anni Quaranta, in cui le annotazioni sono significative e testimoniano una capacità critica e di analisi già spiccata in un lettore appena ventenne. Sulla sua copia di studio dell’Antologia di Spoon River (un’edizione Einaudi del 1943) Calvino annota così una pagina dedicata a Walter Simmons: «Ecco un vinto. Ma noi non crediamo, come lui in fondo non ci crede, di non aver genio. […] Non bisogna mai credere ai personaggi, in Lee Masters, se si vuol capire l’autore».

 

Italo Calvino

 

Tra i riferimenti dell’adolescenza che diverranno suoi modelli letterari, si incontrano anche molti nomi italiani. Come si legge nelle interviste raccolte in Sono nato in America: «Dovrei indicare qualche libro letto nell’adolescenza e che in seguito abbia fatto sentire il suo influsso sulle cose che ho scritto. Dirò subito: Le confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo, l’unico romanzo italiano dell’Ottocento dotato d’un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con tanta abbondanza nelle letterature straniere». Ancora: «I miei primi rovelli letterari – la mia preistoria – si svolsero sotto la boreale stella di Montale, le pagine di Conversazione in Sicilia, mi diedero la prima urgente sollecitazione a scrivere, a Pavese mi legò una sostanziosa, decisiva discepolanza».

Seguendo l’insegnamento di Pavese e Vittorini, Italo Calvino si avvicinerà negli anni Quaranta alla narrativa americana, «che in quell’epoca rappresentava una grossa apertura per l’orizzonte italiano. Per questo, quando ero giovane, la letteratura americana era molto importante e, naturalmente, ho letto tutti i romanzi che allora arrivavano in Italia».
Hemingway, Faulkner, Fitzgerald, ma soprattutto Poe che, già amato da bambino, sarà un modello di scrittura per i suoi racconti: «Oggi, se dovessi dire qual è l’autore che mi ha influenzato di più, non solo in ambito americano, ma in senso assoluto, direi che è Edgar Allan Poe, perché è uno scrittore che, nei limiti del racconto, sa fare di tutto. All’interno del racconto è un autore di possibilità illimitate; e poi mi pare come una figura mitica di eroe della letteratura, di eroe culturale, fondatore di tutti i generi di narrativa che saranno poi sviluppati in seguito. Per questo si possono tracciare delle linee che collegano Poe, per esempio, a Borges, o a Kafka: si possono tracciare delle linee straordinarie che non finiscono mai».

È il 1943. La Resistenza è alle porte, c’è una guerra da vincere, una tesi di laurea in Lettere a cui pensare e una collaborazione con la casa editrice Einaudi da intraprendere. E molti di quegli straordinari intrecci tra le pagine da leggere e quelle da scrivere, nella vita di Italo Calvino si devono ancora dipanare.

 

 

La delazione che mi ha nutrito

Da giorni provo a scrivere di Gli atti di mia madre di András Forgách (Neri Pozza, 2018) ma non riesco a ricacciare i terribili ricordi che mi hanno travolto durante la lettura: quelli della delazione, del diffuso spionaggio privato, forzato o volontario, che era stato elemento onnipresente prima del regime dello stalinista ungherese Mátyás Rákosi, e dopo il 1956, fino alla caduta del Muro, del regime meno violento di János Kádár.

La protagonista del romanzo documentario di Forgách, sua madre, era una spia (non si sa fino a che punto costretta dalle circostanze, o in che misura per sua scelta libera ideologica e opportunista). Io e i miei genitori, in un episodio che sarebbe potuto diventare fatale, eravamo invece le vittime, non direttamente della signora Pápai, come viene chiamata la signora Forgách negli atti riservati dei servizi segreti, ma di quella rete di spionaggio che aveva inoculato potenti veleni nella società ungherese per decenni. Per una vittima e figlia di vittime è difficile valutare con oggettività, guardare alla signora Forgách/Pápai con occhio benevolo, provare l’empatia suggerita dal figlio, ma da recensore devo tentare.

Mi vengono in soccorso queste righe dell’autore su sua madre. quasi a metà del libro: «Era sensibile alle arti, disponibile con chiunque le si rivolgesse per una qualche lamentela, aveva aiutato tantissima gente, anche chi non lo avrebbe meritato, parlava diverse lingue, comprendeva i disagi fisici e psicologici della gente, come interprete praticante aveva a che fare con persone delle più diverse classi sociali, stranieri e ungheresi, e incantava sistematicamente i suoi interlocutori».

András Forgách, classe 1952, drammaturgo, sceneggiatore, romanziere, docente universitario, illustratore e traduttore, scopre nel 2014 che sua madre, la bellissima Bruria Avi-Shaul, nata e cresciuta in Palestina, per una decina di anni prima della sua morte avvenuta nel 1985, era un’agente dei servizi segreti magiari. Era stata assoldata per sostituire suo marito, il giornalista Marcell Forgács nato Friedman, signor Pápai per i servizi segreti, che era ricoverato, inguaribile, in una clinica psichiatrica. I coniugi Forgács si erano stabiliti in Ungheria subito dopo la Seconda guerra mondiale e avevano quattro figli, Gli atti di mia madre è una creatura del figlio maschio più piccolo, András, fortemente sostenuto dal fratello maggiore.

Non è la prima volta che un’opera letteraria ungherese abbia per tema l’insospettabile storia di spia del proprio genitore. Un esempio su tutti: dopo il romanzo familiare Harmonia caelestis (Feltrinelli, 2003, traduzione di Antonio Sciacovelli, a cura di Giorgio Pressburger), l’autore, Péter Esterházy, entra in possesso di documenti che testimoniano l’attività di informatore di suo padre con i servizi segreti fra il 1957 e il 1980 e ne nasce la dolorosa L’edizione corretta di Harmonia caelestis (Feltrinelli, 2005, traduzione di Marinella D’Alessandro).

Gli atti di mia madre è una ricostruzione complessa, riordinata in tre parti suddivise in capitoli stilisticamente e tematicamente molto diversi fra loro, delle vite non comuni di due ebrei divenuti ungheresi per una scelta ideologica fatta alla fine degli anni Quaranta, senza più farsi influenzare dalla naturale evoluzione della Storia, o quasi. Un’opera discontinua che narra l’emozionante e allo stesso tempo indisponente storia di un’ebrea antisionista legata indissolubilmente a Israele che arriva a tradire persino un amico del figlio, il compianto poeta György Petri. Forgách accusa, spiega e assolve, e non fa parola degli effetti provocati dall’attività dei genitori: non sappiamo chi e in che misura ha subìto, se ha subìto, per mano loro.

Il capitolo degli informatori dei servizi segreti è un nervo scoperto in Ungheria, e questo libro ne è testimone. E malgrado gli sforzi della traduttrice, in collaborazione con l’autore, è probabile che il lettore italiano faccia molta fatica a farsene un’idea non superficiale, per via dell’approccio narrativo rivolto a lettori ungheresi già al corrente di fatti e circostanze che in Italia non sono noti. Ma resta una lettura utile per avvicinarsi a un certo periodo storico di un paese e ad alcune sfaccettature dell’animo umano.

(András Forgách, Gli atti di mia madre, Neri Pozza, 2018, Trad. di Mariarosaria Sciglitano, 320 pp., € 18,00)
Trompe l’oeil che rappresenta le ante di una libreria appartenuta a Padre Giambattista Martini. Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna

Biblioteche d’autore: cosa leggevano gli scrittori

Quand’è che una collezione privata di libri diventa una biblioteca? Per provare a tracciare una soglia, occorrerebbe tener conto di una certa consistenza numerica e scomodare parametri di qualità, ma forse sarebbe utile ricorrere anche a trovate più fantasiose. Prendere a misura gli spazi, per esempio, e cercare di risalire al momento in cui, dalla libreria vera e propria, sia avvenuto lo sconfinamento verso altri luoghi del vivere domestico, o stabilire da che punto in avanti, dentro e fuori le pagine, si sia iniziata a tessere una rete di rimandi da farne un sistema.

Le prime a rientrare a pieno titolo in questa definizione sarebbero le biblioteche degli autori, in cui i libri letti, scritti, ricevuti e consultati si intrecciano insieme con gli appunti, le sottolineature, i ritagli di giornale per dare vita a sentieri di esplorazione inediti. E proprio immaginando di trascorrere qualche tempo di fronte a quegli scaffali, passando in rassegna i dorsi e inclinando la testa ora da un lato ora dall’altro per decifrarne i titoli, quello che faremo nelle prossime settimane sarà attraversare le stanze di grandi scrittori che sono stati prima di ogni altra cosa formidabili lettori.

Punto di partenza imprescindibile per un’esplorazione di questo tipo è la collezione di Italo Calvino, così inestricabilmente intessuta di legami tra i propri libri e quelli degli altri da richiedere che ci si soffermi a osservarla lungo tre fasi della sua vita: le letture della formazione, gli anni del lavoro editoriale, la riflessione nell’opera a partire dai personaggi lettori fino alla formulazione teorica di una biblioteca ideale.

 

Veronica Giuffré è grafico editoriale e social media editor. Scrive di libri su Il cassetto dei calzini spaiati e su Flanerí. Su Instagram è @icalzinispaiati.
Copertina di American Vertigo su Flaneri

L’America attraversata da Bernard-Henri Lévy

«Questa vecchia Europa mi annoia», disse Napoleone. E Bernard-Henri Lévy ne cita distrattamente le parole nel prologo del suo American Vertigo (Rizzoli, 2007): in fondo, anche il filosofo francese appare annoiato dal Vecchio Continente. O perlomeno lo è da quell’idea di Europa che da anni ormai si è impadronita di ogni spazio, economico, politico o culturale. Ma Lévy è un uomo annoiato anche dall’America e dalle sue visioni europeiste, viziate dalla distanza e dagli eventi. Lui, da buon francese, non può, né vuole, sottrarsi al confronto con gli Stati Uniti: anzi ne esplicita la necessità, ripercorrendo il viaggio del suo predecessore Tocqueville, che duecento anni prima sbarcò a Newport, a sud di Boston, in cerca dell’alchimia democratica.

È un esercizio complesso e paziente: il viaggio di Lévy deve fare i conti con Kerouac, con Hitchcock, con Steinbeck, con le strade infinite che sembrano non portare da nessuna parte, per poi addentrarsi nella realtà della provincia, nella desolazione della periferia, ben lontane da ciò che si osserva dalla piccola Europa. Il sogno di Lévy è già infranto da tempo: è il 2007 e l’America ha la parte della cattiva. Il presidente è George W. Bush, e nell’aria c’è già l’odore della crisi finanziaria che, come sempre, sarebbe partita da lì, da quel Paese colpevole di ogni cosa. Ma la strada forse, può restituirci la giusta misura delle cose: ecco perché, in molti l’hanno scelta per esplorare l’America.

Le linee che la attraversano ci riportano l’esatta distanza dei luoghi e dei fatti: gli spazi non sono contaminati dalla manipolazione del tempo. Le città americane sono lì, ad aspettare l’arrivo dei viaggiatori. Ma non rimangono immobili: lungo le strade tutto è in movimento e i luoghi nascono e muoiono continuamente. Una lezione difficile da imparare per un europeo, abituato a vedere le città sopravvivere a guerre e rivoluzioni, conservando intatti fascino e identità. In America invece la crisi spoglia le metropoli, le rende involucri pericolosi e abbandonati in fretta. Detroit, Cleveland, Buffalo: rovine dimenticate di un’America ferita, in cui i giornali chiudono, le fabbriche smettono di lavorare, la gente va via. Le città americane vivono grazie alle persone, e non viceversa come accade in Europa. Parigi, Roma, Berlino, possiedono una loro anima, estranea a qualunque presenza umana. Il pragmatismo americano ci ricorda che l’anima ce l’hanno solo le persone, e se queste soffrono non c’è luogo che possa esistere. E così se le metropoli possono morire, l’altra America, fatta di campagne, Amish e rifiuto della modernità può sopravvivere egregiamente. Anzi è proprio da lì che il Nuovo Continente trae la sua forza.

Gli eredi del Mayflower ci ricordano ancora una volta che sono gli uomini e il loro spirito a fare i luoghi e non il contrario. Ce lo ricorda anche Lévy, quando segue le tracce di Hemingway, o fa una chiacchierata con il promettente Obama, che sarà il primo presidente di colore della storia degli Stati Uniti. C’è spazio anche per una donna? Si chiede Lévy, che si concede, da buon francese, una riflessione sull’affaire Clinton. L’umanesimo americano, macchiato di narcisismo, sembra perdersi e ritrovarsi molte volte durante questo viaggio: ma è proprio questo in fondo, a rendere unico questo Paese. La capacità tutta americana di sapersi mostrare e rialzare nonostante le sue mille contraddizioni.

(Bernard-Henri Lévy, American Vertigo, trad. di C. Latini, Rizzoli, 2007, pp. 405, euro 19)

 

 

 

Copertina di Bagliori a San Pietroburgo

A San Pietroburgo
con Jan Brokken

«In questa città mi lascio ininterrottamente distrarre; a ogni passo mi viene in mente il titolo di un libro o mi risuona in testa una musica. È una scoperta continua, c’è quasi da impazzire, vorrei fare cinque cose contemporaneamente. […] Tutto qui predispone a riflettere, osservare, ricordare; tutto spinge quasi impercettibilmente a una sconsolata malinconia. Se San Pietroburgo non fosse esistita, avrei inventato io questa città che sonnecchia sul fiume, come uno stato d’animo che mi corrisponde per sempre».

Esistono i luoghi dell’anima in cui è possibile ricostruire un po’ di sé stessi perché quei personaggi dal respiro mitico che l’hanno abitati sono in realtà deboli vittime dei propri demoni esattamente come noi.

Per lo scrittore olandese Jan Brokken, il sangue e la carne di cui è fatta San Pietroburgo sono diversi da qualsiasi altra parte del mondo. Ce lo spiega bene nel suo ultimo lavoro, Bagliori a San Pietroburgo (Iperborea, 2017) dove proprio come un qualsiasi turista si lascia travolgere da un indimenticabile sentimento di amore per questa città.

Ogni tappa diventa un luogo della memoria culturale e personale, in cui i nomi delle vie, dei fiumi, dei monumenti e degli edifici richiamano letture, simboli, testimonianze. Quello che ci viene presentato è un itinerario attraverso artisti molto diversi: «Tutto è letteratura in questa città, tutto è musica. Anzi, sono la letteratura, la musica, l’arte figurativa, il balletto, il teatro a sprigionare il bagliore che emana questa città».

Si tratta di una serie di “stazioni” che inizia con Anna Achmatova fino a Iosif Brodskij, dal poeta Sergej Esenin allo scrittore di Una giornata di Ivan Denisovič Aleksandr Solženicyn, dal musicista Sergej Rachmaninov passando per Puškin, Dostoevskij, Turgenev, Čajkovskij e Gogol’. Insomma una scelta molto ampia che ogni volta impegna l’autore in una sorta di dialogo serrato tra il sé stesso di oggi, alla ricerca di informazioni per il suo libro di allora prossima pubblicazione Il giardino dei cosacchi, e il sé stesso che visitò San Pietroburgo nel 1975, quasi sempre alla ricerca di quello che davvero conta, di ciò che sta dietro l’opera di ciascuno, che anche se passata può sempre dirci qualcosa.

Il libro è anche un affresco a campo lungo di un paese che, sia prima che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, si arroventa intorno alla questione della libertà di espressione.

Oltre a un ritratto austero che mostra la sua inscalfibile fierezza e una statua che la raffigura in dolente attesa di notizie del figlio incarcerato sulle rive della Neva, esiste anche un museo dedicato alla Achmatova, che è «una finestra sulla sua vita e sulle condizioni in cui vivevano gli artisti in Unione Sovietica: intimoriti, ma non necessariamente poveri o costretti a nascondersi».

Quasi tutti gli intellettuali che Brokken ricorda nel suo tour educativo erano intellettuali non allineati al regime accusati di insubordinazione o allontanati proprio come il pianista Youri Egorov di Nella casa del pianista (Iperborea, 2011) o addirittura costretti ai lavori forzati.

E se poi si è cercato di riparare al maltolto, non sempre si è riusciti nell’intento: «Se c’è uno che merita un monumento a San Pietroburgo, è Dostoevskij. La statua, comunque, a un centinaio di metri dalla sua ultima abitazione, è piuttosto recente: un testone di dimensioni ridicole, declinato, che non esprime altro che sconforto. È un ritratto di una bruttezza vergognosa, che ignora totalmente il carattere combattivo dello scrittore».

E solo a San Pietroburgo può succedere, percorrendo la Malaja Morskaja, di percepire magici abbagli, pensando che su questa stessa via aveva residenza un esordiente Dostoevskij e «viveva Turgenev, nei rari momenti in cui non era all’estero, e Gogol’ quando cominciò Memorie di un pazzo: tutti nella stessa strada, che non era nemmeno molto lunga».

 

(Jan Brokken, Bagliori a San Pietroburgo, trad. di Claudia Cozzi e Claudia Di Palermo, Iperborea, 2017, pp. 224, euro 17)

Come diventare sé stessi

Joan Wasser, in arte Joan As Police Woman, è in Etiopia con Damon Albarn per il progetto “Africa Express”. Un modo per il leader dei Blur e dei Gorillaz di far suonare insieme musicisti occidentali e africani. Un’esperienza che segna molto l’ex cantante dei Dambuilders. Di ritorno dall’Africa decide di metabolizzare il tutto insieme a Benjamin Lazar Davis ed ecco che nel 2016 nasce Let it Be You, dove l’elettronica si mischia a una sorta di propria interpretazione delle ritmiche di matrice africana. Un album che non faceva altro che confermare l’ecletticità della musicista americana, se pur con risultati alterni. Da To Survive (forse ancora leggermente acerbo) a The Classic, passando per The Deep Field, Joan As  Police Woman si è sempre comunque distinta nel panorama alternativo internazione. Damned Devotion è il suo ultimo lavoro ed è il punto più alto della sua carriera.

Nel 2011, con The Deep Field, si intravedeva quello che poi sarebbe stato Damned Devotion. Negli anni in cui l’alternative pop produceva Teen Dream dei Beach House o Suburbs degli Arcade Fire, ma soprattutto veniva impreziosito da quella perla che è Queen of Denmark di John Grant, Joan As Police Woman riusciva a ritagliarsi uno spazio importante. Lì, con il suo soul al servizio di brani pop – che però a volte sembravano peccare di un’eccessiva vanità -, Joan As Police Woman sembrava essere diventata Joan As  Police Woman. Anche tre anni dopo, The Classic pareva la promessa di qualcosa di eccezionale. Un pezzo come “Get Direct”, infatti,  non faceva che confermarlo. Entrambe queste due esperienze, bloccate in qualche modo da Let it Be You, nascevano per fare da apripista di Damned Devotion. Probabilmente, allora, Joan As A Police Woman non era ancora  Joan As  Police Woman. Non era ancora mai riuscita a comporre un album bilanciato, coeso e intenso come Damned Devotion. Finalmente, oggi, ce la fa.

Quest’ultimo lavoro ha un’enorme caratteristica: quella di non essere trainato da nessun brano in particolare. È l’intero album a essere a traino da sé stesso. Damned Devotion alimenta interamente Damned Devotion. Questo aspetto non deve essere letto per forza in maniera positiva o negativa. Data per assodata la qualità che straborda tra queste dodici tracce, il fatto di non dipendere esclusivamente da un pezzo rende la questione semplicemente più complessa e che solo il tempo saprà sciogliere. Ma, prendendo uno dei punti di riferimento più smaccati di quest’ultima fatica, i Portishead, e in particolare il loro Dummy, possiamo dire una cosa: che per quanto l’album fosse una cosa sola e di una bellezza disarmante, l’eternità gli fu regalata da un paio di brani: “Glory Box” e, soprattutto, “Roads”.

Ci sono brani che sono semplicemente incastonati nella Storia e lo si capisce fin da subito. Ecco, probabilmente in questo lavoro, che ha la potenzialità per essere un grande lavoro – che è un gran lavoro -, si ha la sensazione che possa mancare quella scintilla.

Perché dall’inizio alla fine, dal pop che si mischia al trip-pop di “Wanderlful”, di “Tell Me”, “I Don’t Mind” di “What Was it Like” (dove Dido sembra essere andata a scuola di interpretazione di Beth Gibbons), alla camaleontica “The Silence”, al synth-funk di Rely On – il tutto sempre sotto l’occhio vigile dei Portishead -, si sa di essere di fronte a qualcosa di grande: allo stesso tempo, però, si ha la sensazione costante di vivere l’assenza di qualcosa di ancora più grande.

Nonostante questo, ora, Joan As Police Woman è Joan As  Police Woman.

(Damned Devotion, Joan As Police Woman, Soul/Trip-Hop)

Copertina di Nelle terre di nessuno di Chris Offutt

La brutalità della vita in un Kentucky dimenticato

I racconti di Nelle terre di nessuno (Minimum Fax, 2017), raccolta dello scrittore americano Chris Offutt, sono ambientati in un Kentucky abbandonato, estrema periferia del mondo nel Paese delle opportunità, in un tempo indefinito che solo gli oggetti della vita quotidiana – i pick-up, la corrente elettrica, il biliardo – permettono di collocare in una qualche modernità. Essa non rappresenta però un miglioramento nella vita degli abitanti di questi villaggi sulle colline, sia perché si tratta solo di apparenza – i bagni fuori casa, le notti buie e le lunghissime camminate nella neve sono memoria viva anche per i più giovani –, sia perché la modernità sembra aver sancito il definitivo abbandono di quella terra a se stessa; la sua, si potrebbe dire, cancellazione dalle mappe del mondo.

Non a caso, abbandonati sono anche i protagonisti dei racconti di Offutt, adulti e bambini presi dalla lotta alla sopravvivenza quotidiana sulle colline, in una terra piena di pericoli antichi – il freddo, l’asprezza della natura, la ferocia degli animali – e nuovi – il lavoro nelle miniere, il degrado, l’alienazione della povertà senza via d’uscita.

Sullo sfondo c’è il mondo esterno: Rocksalt, la città che quasi per nessuno è un’opportunità di riscatto, e lo Stato, aperto ad accogliere e offrire assistenza a chi ha il coraggio di cercarla, ma incapace di fare quel passo in più per arrivare a un vero cambiamento, e perciò, in definitiva, inutile e rifiutato dagli stessi protagonisti.

Per loro, non c’è altro se non il contare su se stessi, sul proprio istinto, sulla propria capacità di sentire il pericolo; c’è il vivere sempre sull’orlo del precipizio, come tutti, lì, hanno sempre fatto. A difenderli, ci sono abitazioni e famiglie mai stabili, che scivolano nel terreno carico di pioggia come in Tirar su case; che scompaiono sulle cime delle colline come nel racconto del vecchio Tar Cutler in Luna calante. C’è l’alcool, a scaldare gli animi e annebbiare la sensazione di impotenza davanti a una vita di cui non si è padroni.

Ci sono le armi: pistole, fucili da caccia, con cui vender cara la pelle o vendicarsi dei torti subiti, anche a costo di provocare altre tragedie.

E proprio qui, forse, sta ciò che rende in alcuni passaggi la lettura di Nelle terre di nessuno faticosa. La morte è sempre in agguato, per i personaggi di Offutt: la crudeltà della vita che conducono la rende sempre una possibilità reale, pronta a prenderli al prossimo passo.

Offutt sembra indulgere fin troppo su questo tema, in un modo a tratti immotivato: la morte coglie in ogni momento gli uomini e gli animali – i puma, gli orsi che abitano le colline, come anche i fedeli cani da caccia, uccisi a sangue freddo per aver sbagliato una pista –, e la violenza che si abbatte su tutti appare a volte più un modo come un altro per disturbare il lettore con il sangue, per ribadire una sofferenza già abbastanza esplicita. In alcuni casi, si ha persino la sensazione che la morte di qualcuno, imprevista e non preparata adeguatamente nel corso della narrazione, sia l’unico modo per far funzionare il racconto, per portarlo a una conclusione. E poiché il gioco è chiaro abbastanza presto, i racconti – per il resto ben congegnati, con personaggi tutti simili eppure tutti diversi, membri disgregati di un’unica comunità – perdono rapidamente l’attrattiva che potrebbero avere.

Qua e là, però, tra una persona schiacciata da un albero caduto e un orso scuoiato, si intravede una luce: nell’amore semplice ma indissolubile tra un uomo e una donna, ostacolato da uno spirito antico delle colline; nella rivalsa di un giovane che decide finalmente di cercare altrove una vita migliore; nelle piccole cose che rendono gli uomini straordinari emerge la vera forza espressiva dello scrittore americano, una sensibilità umana che sarebbe bello poter trovare di più, anche nel buio delle colline tra Lick Fort Creek e Blue Lick River.

Nelle terre di nessuno racconta senza sconti la brutalità della vita in un’America dimenticata, dove un tempo migliore non c’è mai stato ma sembra non esserci mai fine al peggio, e dove un’umanità spezzata conduce esistenze ridotte alla mera vita, senza speranza di vero cambiamento, ma non per questo prive di amore, di sofferenza e di rari barlumi di redenzione.

 

(Chris Offutt, Nelle terre di nessuno, trad. di Roberto Serrai, minimum fax, euro 17, pp. 156)
Copertina di Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati

La favola nera
di Andreas Moster

Sorprende Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati, romanzo d’esordio del tedesco Andreas Moster – traduttore e redattore in quel di Amburgo – perché in esso vi si ritrovano gli echi della miglior letteratura germanofona, dagli afflati romantici di Buchner e Hofmannsthal, alla precisione stilistica di Bernhard. Non sorprende invece che a portare in Italia una narrazione così estrema e irregolare sia il Saggiatore, da tempo impegnato nella ridefinizione dei confini del romanzo, basti pensare agli esordi di Morstabilini e Sibilla, o al recente caso di Voragine di Andrea Esposito. Sono tutte narrazioni accomunate dalla volontà di attraversare la normale percezione della realtà, ricercando nelle possibilità della lingua gli strumenti espressivi per rappresentare il reale al di là della mera forma fenomenica. Lo sconfinamento metafisico è uno dei punti di forza di Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati, perché la descrizione ossessiva di un mondo fatto di materia permette all’autore di inscenare una ricerca gnostica e rituale, in modo da capovolgere l’immanenza in trascendenza.

La storia prende le mosse dalla venuta di uno straniero in un paesino rurale della Germania più tradizionalista, un luogo chiuso e sospeso in cui si eternano usanze secolari. Lo scopo dello straniero è verificare la produttività della cava che sostenta l’economia del luogo. Lo straniero sa che la cava è esaurita, e che il posto è sull’orlo della decadenza, una situazione che presentono anche gli abitanti allarmati, e che li spinge a comportarsi con il nuovo venuto in maniera ostile. La storia potrebbe dirsi un’avventura gotica che riassorbe sul piano romantico lo spettro della crisi economica, ma la scrittura di Moster va oltre, muta sfociando nell’onirico. Perché nel paesino avviene l’omicidio di una ragazza e lo straniero risulta essere immediatamente il sospettato numero uno. Che sia la venuta del portatore della modernità a scombinare i secolari equilibri locali? Che sia invece una complicata rappresaglia nei confronti dello straniero? Il giallo di Moster assume i contorni di una parabola rituale, immersa in un ordine di cose in cui la sacralità della violenza è una presenza atavica quanto viva, al pari della legge degli uomini.

Nello spazio della prosa Moster si adopera per ricreare un universo di oggetti, una natura materica, immutabile, talmente idilliaca da essere sull’orlo del tracollo, come nei versi di Georg Trakl. Questa immutabilità è il palcoscenico su cui si muovono le vicende di generazioni indeterminate e crudeli: i padri che lavorano nella cava, le madri sottomesse e chiuse in casa, le figlie sfaccendate, vogliose di trasgressione e incuriosite dallo straniero.

Riprendendo la lezione di Bernhard, Moster fa della ripetizione il punto focale del suo stile: «Un uomo viene da noi in paese a voltare le pietre e le teste delle ragazze. Le pietre sono un muro bianco. che ripara il paese dalla parete della montagna. Le ragazze sono sedute in piazza e osservano l’uomo rivoltare le pietre». Pietre, ragazze, rivoltare: in queste frasi si evince la bravura dell’autore nel creare un periodare che modula gli stessi temi in molteplici variazioni, dando così l’impressione della dialettica fra differenza e ripetizione. Il ritmo della prosa si presenta come una sinfonia minimalista, una litania che incanta come una preghiera sussurrata. Proprio l’incanto è un altro effetto di questo stile, mentre il lettore si addentra nel cosmo del paese la narrazione si addensa di significati simbolici, e la moltiplicazione allegorica sfuma nel fiabesco. Lo scarto fra la violenza descritta e la dimensione rituale rimanda alla catarsi della tragedia, una catarsi sempre suggerita, che forse avrà il suo compimento nel finale.

Narrazioni come quella di Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati esulano dal normale psicologismo del romanzo borghese, e si pongono come parabole accessorie, vie laterali dell’immaginazione che portano a significati sepolti nell’inconscio. La realtà viene rappresentata attraverso la dimensione del sogno e dell’allegoria, un’atmosfera nera che in Italia ritroviamo soprattutto in un romanzo molto chiacchierato  come Dalle rovine di Luciano Funetta. Forse occorrerebbe fare più attenzione a questo tipo di letteratura, perché ci ricorda quanto di irrazionale ci sia nel presunto ordine razionale della nostra civile quotidianità.

 

(Andreas Moster, Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati, trad. di S. Albesano, ilSaggiatore, 2018, pp. 200, euro 21)

Il rapporto di Fitzgerald con il racconto breve

Sebbene in ritardo di quasi mezzo secolo, alla fine anche gli italiani hanno riscoperto l’opera dello scrittore americano F. Scott Fitzgerald. Quando nel 1936 viene tradotto per la prima volta da C. Giardini Gatsby il magnifico per la collana della Mondadori, I romanzi della palma, la pubblicazione è a tutti gli effetti un fiasco. La situazione non migliora dopo che uno dei racconti di Fitzgerald, The Rich Boy, viene inserito da Elio Vittorini all’interno dell’antologia Americana (Bompiani, 1941) con una traduzione di Eugenio Montale: il curatore infatti oltre alla selezione del materiale, aveva accompagnato con una nota critica ciascuna suddivisione operata verso quei testi trasformando il libro in un manuale teorico sulla letteratura americana.  Se Hemingway era stato considerato la luce di quella letteratura, a Fitzgerald invece non era andata bene. Assieme ai dimenticati Kay Boyle, Evelyn Scott e Morley Callaghan, veniva proposto infatti nella sezione Eccentrici, una parentesi come uno scrittore minore e di poco conto.

Sarà Cesare Pavese a proporre di nuovo lo scrittore, quando nel 1949 chiede a Fernanda Pivano di tradurre per Einaudi il romanzo Tenera è la notte: «Non ho voluto tradurre io i libri di questo scrittore […] perché mi piacevano troppo», scrive all’amico Davide Lajolo. Mondadori poi acquisterà i diritti per gli altri romanzi, che verranno tutti tradotti da Pivano, eccetto quello postumo Gli ultimi fuochi (trad. di B. Oddera). E attraverso le introduzioni, la critica italiana sullo scrittore fa un passo avanti: Pivano cioè insiste fortemente sulla componente poetica dei romanzi di Fitzgerald – che si contrappone alla tendenza realistica degli autori a lui contemporanei – e sulla necessità di leggere quei testi in un rapporto diretto con la biografia dell’autore.

Da quel momento, il dibattito si sposterà sulle riviste: se Carlo Izzo tenta ancora di screditare Fitzgerald scrivendo che con il tempo la sua figura sarebbe stata ridotta «a proporzioni più modeste di quelle che oggi si tende ad assegnargli» (1958), Luigi Berti su “La Fiera Letteraria” (1953) sostiene con una precisa analisi testuale che Fitzgerald non è inferiore a Hemingway – così da contrastare il pesante (pre)giudizio di Vittorini. Nemi D’Agostino invece su “Studi Americani” (1957) definisce lo stile dello scrittore statunitense come «realismo magico»: così il cerchio teorico di Pivano veniva finalmente legittimato.

Potremmo concludere questa breve storia della critica italiana su F. Scott Fitzgerald con il principale riconoscimento accademico (nel 1958 Sergio Perosa pubblica la prima monografia sull’operato dell’autore), o ancora con il più importante riconoscimento editoriale dell’epoca: l’edizione cumulativa dei Romanzi curata da Fernanda Pivano (Mondadori, 1972). Eppure anche se negli anni successivi l’interesse per lo scrittore è andato via via scemando, improvvisamente qualcosa è cambiato di nuovo a partire dagli anni Novanta. Basta dare un’occhiata alla bibliografia che viene proposta sul sito di minimum fax alla pagina dedicata a Fitzgerald per farsene un’idea. E forse proprio minimum fax meriterebbe una medaglia d’onore: non solo ha ripubblicato i romanzi e I racconti dell’età del Jazz con delle nuove traduzioni, ma ha permesso ai lettori e alla critica italiana di entrare a fondo dentro l’uomo e il suo modus operandi con Nuotare sott’acqua e trattenere il fiato. Consigli a scrittori, lettori, editori (trad. di L. Carra, 2000) e Sarà un capolavoro: Lettere all’agente, all’editor e agli amici scrittori (trad. di Vincenzo Perna, a cura di Leonardo G. Luccone, 2017).

A questi si aggiunge la raccolta di portata internazionale Per te morirei e altri racconti perduti, pubblicata da Rizzoli (trad. di Vincenzo Latronico, 2017) dall’originale statunitense I’d Die For You: And Other Lost Stories (a cura di Anne Margaret Daniel, Simon and Schuster, 2017). Benché l’appellativo di «perduti» susciti una grande fascinazione, bisognerebbe spiegare bene che cosa si intende: anzitutto siamo di fronte a una serie di racconti, perlopiù scritti intorno agli anni Trenta, pensati da Fitzgerald e dal suo agente Harold Ober per le riviste e da queste rifiutati.

Il rapporto con il racconto breve nella produzione dello scrittore è bivalente: da una parte esiste quella destinata esclusivamente alle riviste popular, dove lo stile, l’ambientazione e il tono si adeguano e anzi soddisfano il gusto e l’aspettativa del pubblico, pure mantenendo il tocco personale dell’autore. Si può addirittura affermare che Fitzgerald vivesse di questi racconti, che gli fruttavano alcune migliaia di dollari ciascuno – e parliamo dell’America del primo novecento. Era capace di scriverne quasi uno al giorno e per gran parte degli anni Venti lui e Zelda Sayre vissero di quel lusso diventando per errore una maschera del loro tempo.

La capacità di sapersi adeguare al mercato fu uno dei motivi che portò alla rottura dell’amicizia con Ernest Hemingway, che in Festa Mobile racconta: «Scott Fitzgerald ci invitò a pranzo con sua moglie Zelda e la sua bambina nell’appartamento ammobiliato che avevano preso in affitto al numero 14 di rue de Tilsitt. […] Scott ci fece anche vedere un grosso registro con tutti i racconti che aveva pubblicato ordinati per anno con i compensi che aveva ricevuto per ciascuno e anche gli importi ricevuti per ogni cessione dei diritti cinematografici, e le vendite e i diritti d’autore dei suoi libri. Erano tutti accuratamente annotati come su un giornale di bordo e Scott li mostrò a noi due con orgoglio impersonale come se fosse il curatore di un museo. Scott era nervoso e ospitale e ci fece vedere la contabilità dei suoi guadagni come fosse stato il panorama. Non c’era nessun panorama». (da I falchi non dividono, in Festa Mobile, Mondadori, 2016, cit. p. 119).

Tuttavia, Fitzgerald sapeva che era proprio la tranquillità economica a permettergli invece di lavorare con calma alla produzione romanzesca – poteva osare sapendo che se la pubblicazione fosse andata male, avrebbe avuto le spalle coperte – e al tempo stesso di pagare le cure psichiatriche di Zelda e la scuola privata della figlia Scottie. Ma anche in questo caso, non si trattava mai di un lancio nel buio. Esisteva infatti una (seconda) produzione di racconti, che potremmo definire alta: tra un romanzo e l’altro infatti Fitzgerald ha sempre pubblicato una raccolta, attraverso la quale non solo sperimentava lo stile che poi avrebbe utilizzato nel libro successivo, ma in cui giocava con quegli stessi episodi che dalla forma breve sarebbero poi passati nella forma finale, capovolgendoli, mischiandoli, selezionando e tagliando – e grazie a questo lavorio riusciva poi a studiare la reazione del suo pubblico prima ancora dell’uscita di un romanzo.

Per te morirei e altri racconti perduti propone quei testi che appartengono alla prima delle due tipologie descritte fino a ora, cercando di restituirgli il proprio valore letterario come una conseguenza diretta del rifiuto delle riviste: ci doveva cioè essere una motivazione intrinseca ai testi che ne giustificasse il rifiuto, che più delle volte arrivava perché questi eccedevano o si scontravano con il gusto del pubblico. È il caso per esempio del racconto Il «pagherò» che apre la raccolta e che non è altro che una ferocia parodia del mercato editoriale coevo a Fitzgerald – e quindi impubblicabile su una rivista popular. O ancora di Incubo (Fantasia in nero), che ragiona sulla definizione di «pazzia» e insieme racconta la storia d’amore tra un (improbabile) paziente e una giovane psichiatra e che viene rifiutato perché, come scrive la curatrice: «La vita reale era già abbastanza difficile per sé, e la gente leggeva Fitzgerald proprio per evadere in un mondo di notti di luna e ricchezza». A guardare bene poi sembra che il tema sia molto simile a quello del romanzo che seguirà appena due anni dopo, Tenera è la notte (1934) – anche se capovolto. 

Tutto questo a ogni modo è vero in parte. C’era infatti un’altra e forse più importante motivazione di quei rifiuti: una motivazione cioè estrinseca ai testi. Se è vero che Fitzgerald poco più che ventenne aveva trovato l’enorme successo con il primo romanzo Di qua dal Paradiso (1924), questo era andato perdendosi sempre di più fino a fare precipitare l’autore in un paradosso: i racconti brevi vendevano perché Fitzgerald era famoso grazie ai suoi romanzi e come abbiamo detto Fitzgerald vendeva racconti brevi così da potersi dedicare con più accuratezza ai romanzi. Di qua dal Paradiso era esploso perché, sebbene raccontasse con innocenza gli albori della propria relazione con Zelda, si era ritrovato a descrivere anche quella generazione a loro contemporanea suscitando l’acclamazione dei giovani e lo scalpore di tutti gli altri, come scrive Fernanda Pivano: «Nella buona società i genitori se ne resero conto tardissimo, quando ormai i petting parties, le feste per pomiciare (e mi si perdoni questa parola orrenda), erano un uso quasi normale: quando era normale che una ragazza assolutamente perbene avesse baciato ventine di coetanei prima di sposare un coetaneo persuaso di essere il primo ad averla baciata o almeno a essere veramente riamato. I genitori se ne resero conto tardissimo: se ne resero conto soltanto quando un ragazzo di quella generazione, uno dei pomicioni frequentatori di quelle feste, pubblicò uno strano libro che le descriveva, e descriveva gli inauditi discorsi che quelle ragazze assolutamente perbene tenevano ai loro coetanei. Quando uscì il suo Di qua dal Paradiso, i giovani gli balzarono incontro ad acclamarlo, i genitori si rifiutarono di credergli e lo accusarono di impostura. Ma Fitzgerald non era un impostore; e pagò con la tragedia della sua vita la verità delle sue rivelazioni» (da Fernanda Pivano, Pagine Americane (Narrativa e Poesia 1943-2005), Milano, Frassinelli, 2005, cit., p. 138).

Il mondo a quel punto chiedeva alla coppia di mostrarsi come i rappresentanti più sinceri dell’«Età del Jazz»: ma se il successo aveva portato Scott e Zelda a vivere quel primo decennio dalla cima di una montagna artificiale, e quindi a coincidere con esso (o se vogliamo a rappresentarlo), è pure vero che il resto della loro esistenza prosegue all’interno di un confine spirituale personale e appartato: la patologia psichiatrica della donna. E così quando Fitzgerald si allontanò da quella situazione storica e sociale, il mondo decise di allontanarsi da lui. La verità è che a Fitzgerald non importava proprio niente di essere uno scrittore di costume: le sue opere, se lette nell’ordine cronologico di composizione, raccontano sempre e soltanto del rapporto con Zelda – nascono anzi dal dialogo con la donna e con la pazzia. E negli anni Trenta dopo il ricovero della moglie, la scrittura romanzesca era diventata per lui qualcosa da subordinare alla realtà, come racconta Piero Citati: «Fitzgerald non si allontanò dalla clinica di Nyon, sebbene potesse vedere Zelda soltanto ogni quindici giorni. Passò l’estate del 1930 negli alberghi di Glion, Vevey, Caux, Losanna e Ginevra. Mandava a Zelda un mazzo di fiori ogni due giorni, poiché lei adorava il futile e colorato paradiso dei fiori. I costi della clinica – “enormi” scrisse Zelda dopo la morte del marito – si aggiungevano alle spese per la casa di Parigi, dove era rimasta la figlia. Fitzgerald scriveva molti racconti e non si lagnò mai, come ripeté orgogliosamente Zelda. Il suo dolore era grandissimo. […] Nei suoi pensieri, Zelda era sempre avvolta da un’ondata di amore: per averne soltanto l’imitazione o l’eco, Fitzgerald sarebbe stato pronto a tradire la parte migliore di sé» (da Piero Citati, La morte della farfalla, Milano, Adelphi, 2016, cit., p. 49).

Così dopo Il grande Gatsby (1925) e una raccolta di racconti, Fitzgerald non scrisse nulla (per lui) di importante fino alla pubblicazione di Tenera è la notte (1934), che mise fine alla sua carriera di scrittore: tutti lo avevano dimenticato. Per te morirei dimostra allora la disperazione dell’uomo, che in quegli anni scrive soltanto per cercare un ritorno economico che garantisca le cure alla moglie. E quando persino i racconti popolari smettono di essere accettati dalle riviste, Fitzgerald si reca a Hollywood in cerca di un impiego diverso: Zelda veniva prima di ogni cosa. Nel mondo del cinema tuttavia nessuno pareva ricordarsi di lui e tanto meno apprezzare il tentativo di applicare il proprio stile narrativo alle sceneggiature. Così tutto era perduto: per cercare Zelda nel sogno, si chiuse in casa a scrivere di nuovo, ostinatamente, fino all’infarto quello splendido romanzo incompiuto che è Gli ultimi fuochi: la storia di un magnate di Hollywood che comincia una relazione con una giovane donna nella quale si illude di trovare i tratti della moglie scomparsa – e a questo proposito è tremendo ricordare la relazione che Fitzgerald ebbe in quel periodo con Sheilah Graham.

Solo allora l’America tornò a occuparsi di lui inneggiando al capolavoro, ma di tutto questo purtroppo Fitzgerald non seppe mai nulla: «In quei mesi di disperazione scrisse a Perkins [il suo editor per Scibner & Sons]: “Vorrei che i miei libri non fossero esauriti. Si potrebbe fare un’edizione popolarissima [cioè a basso costo o tascabile] del Gatsby o il libro non è abbastanza popolare? Morire in modo così totale e ingiusto dopo aver dato tanto…”. E infatti quando morì tutti i suoi libri erano completamente esauriti ed è noto l’episodio di Budd Schulberg che disse: “Credevo fosse morto” quando gli offrirono di scrivere una sceneggiatura con lui» (da Fernanda Pivano, Fitzgerald, Faulkner, Hemingway a Hollywood, in ID., Viaggio Americano, Bompiani, Milano, 1997, cit., p. 74).

 

(Francis Scott Fitzgerald, Per te morirei e altri racconti perduti, trad. di Vincenzo Latronico, Rizzoli, 2017, 455 pp, € 22.00)
Poster di Il filo nascosto su Flanerí

Un filo teso, inquietante e oscuro

Ogni film di Paul Thomas Anderson è un evento e un monumento . Autore tra i più raffinati e intelligenti del panorama mondiale, Anderson è in grado di rivoluzionare sé stesso a ogni ritorno al cinema, senza lasciare riferimenti agli spettatori se non nei sottotesti e nelle sfumature. Dopo il geniale e caotico adattamento di Thomas Pynchon con Vizio di forma, il regista di Magnolia si allontana per la prima volta dagli Stati Uniti (a parte il documentario Junun), per cambiare ancora una volta tono e registro con Il filo nascosto.

Nella Londra degli anni Cinquanta, Reynolds Woodcock è il più grande sarto del Regno Unito, forse del mondo. Le sue creazioni sono richieste dalle famiglie reali, dalle stelle del cinema, dall’alta società. Metodico e silenzioso, Woodcock vive in un’elegante casa-bottega insieme alla sorella e al personale di servizio, tutto composto da donne. Al termine di un lavoro che lo ha esaurito si concede una vacanza in campagna e conosce Alma, cameriera di cui lo colpisce la particolare bellezza, perfettamente rispondente ai suoi canoni estetici e creativi. Tra i due nasce una relazione di simbiosi intermittente, con Alma costretta a inseguire i rari sprazzi di umanità di Reynolds.

Candidato a sei premi Oscar, tra cui miglior film e regia, e destinato a passare alla storia come ultima interpretazione di Daniel Day Lewis (ovviamente candidato, per la sesta volta, e ovviamente perfetto), che ha annunciato che questo sarà il suo ultimo film, Il filo nascosto è un’opera di densa e affascinante complessità, imperniata sulle dinamiche dell’attrazione e dell’amore come potenza distruttiva e rigenerante.

C’è molto di Anderson e di Day Lewis nell’ossessivo Woodcock. Perseguitato, come loro, dalla perfezione come ideale e come unico risultato possibile, questo sarto è un artista che trascende il concetto di mania di onnipotenza in un’idea di creazione che assume connotati divini. Il mondo di stoffe e tessuti in cui vive è il suo mondo, che lui costruisce e popola con le sue creazioni. Poche persone, pochissime, forse solo la sorella, sono degne di entrarvi. Anche le donne che gli commissionano i vestiti si rivelano indegne, incapaci di incarnare a fondo il complemento perfetto per i suoi vestiti.

L’apparizione di Alma nella sua vita rivela con il tempo la potenza devastante della rivoluzione che porta con sé. Senza cognome, senza passato, senza storia, con un nome che vuol dire Anima in spagnolo e che richiama la alma mater latina, la madre che nutre, la cameriera diventa musa, compagna, nemica, ostacolo e soluzione per Woodcock, l’unica in grado di modificare l’organizzazione incessante della sua vita. Ancora incapace di elaborare la scomparsa della madre, Woodcock si rifugia in lei per sconfiggere i suoi stessi fantasmi.

È la presenza della madre il filo nascosto che tiene unito il film, il messaggio cucito all’interno della trama. Con la colonna di Jonny Greenwood che accompagna quasi ogni momento, dando anche al silenzio un valore unico, il film accumula una tensione che attende di essere sfogata, in un crescendo che richiama l’Hitchcock di Rebecca la prima moglie.

È dai tempi di Ubriaco d’amore che Anderson non parla esclusivamente di sentimenti. Le donne hanno sempre un ruolo di guida e possibile salvezza nei suoi film, si pensi a Amy Adams in The Master, o a Katherine Waterston in Vizio di forma, ma l’amore non è mai centrale. In Il filo nascosto l’Alma di Vickie Krieps è il centro verso cui tutto converge. È sua la voce che racconta cosa è successo, è lei che cambia il destino di tutti i protagonisti.

Anderson e Day Lewis si sono ritrovati a dieci anni di distanza da Il petroliere per costruire insieme un nuovo personaggio indelebile. Daniel Plainview incarnava lo spirito più violento di una nazione, gli Stati Uniti d’America, all’alba della sua grandezza. Reynolds Woodcock è l’incarnazione del lavoro come malattia, come unica direzione dell’agire umano.

Nel suo essere rivolto solo a sé stesso, Woodcock è incapace di aprirsi al mondo se non quando si sente debole e inerme. È lì che Alma trova il terreno su cui avvicinarlo. È però proprio su questo campo di battaglia sentimentale che Il filo nascosto conosce le sue debolezze. Come il sarto si mostra debole quando è più umano, così Anderson appare più insicuro nel raccontare la vulnerabilità, finendo per scivolare in un finale che sembra consolatorio. In un modo distruttivo e inquietante, ma consolatorio.

 

(Il filo nascosto, di Paul Thomas Anderson, 2017, drammatico, 130’)

 

copertina di little dark age su flaneri

Management dell’espiazione

Nel 2008, con Oracular Spectacular, gli MGMT si mostravano al mondo come ennesima promessa indie. Un indie che aveva come padre putativo i Flaming Lips. Gli Arcade Fire erano usciti l’anno precedente con Neon Bible, gli Animal Colective sarebbero usciti l’anno successivo con Merriweather Post Pavillion. Il duo americano era stato in grado, in un colpo solo a mischiare synth pop, psichedelica, pop e disco. “Electric Feel”, “Kids”, ma soprattutto “Time to Pretend”, erano colpi da fuoriclasse. C’era – e continua a esserci oggi – quella capacità nel poter essere prodotto iper spendibile sul mercato esclusivamente come prodotto (“Kids”, ad esempio, venne inserita nella colonna sonora di Fifa ’09) e nel poter essere un punto nevralgico dello sviluppo della musica contemporanea (e non che le due cose non possano andare di pari passo). Gli MGMT sono sempre stati, nonostante delle produzioni meno brillanti – molto meno, come MGMT – un fenomeno da seguire: quest’anno sono tornati con Little Dark Age.

L’attenzione attorno agli MGMT, dopo il picco di Oracular Spectacular, subì un tracollo importante, se non da Congratulations – che si distaccava dall’estetica e dalle intenzioni del suo predecessore (nessuna “Time to Pretend” all’orizzonte, ma un opera più complessa e meno immediata, cosa che probabilmente allontanò i primi fan), quantomeno da MGMT. Lì, il duo del Connecticut, scrisse un album insipido e confuso, contro il divismo che inevitabilmente aleggiava intorno a loro e con cui non volevano avere nulla a che fare.

Da allora sono passati cinque anni. In mezzo, il lavoro di remix Late Night Tales. Nient’altro. Cinque anni che non hanno reso spasmodica l’attesa del nuovo album: aspetto significativo in un’epoca in cui spesso si confonde il risultato con l’hype.

Little Dark Age, arriva dunque quasi senza aspettative. E in questo clima, che li voleva quasi all’ultimo banco di prova, ma paradossalmente senza banco, gli MGMT riemergono dalle proprie ceneri e danno vita a un album che ha lo smalto dei vecchi lavori. Questi anni, dunque, sembrano esser serviti a Benjamin Goldwasser e Andrew VanWyngarder a capire cosa voler fare e come volerlo fare.

Si sono scrollati di dosso tutta l’avversione avuta nei propri confronti dopo il successo enorme di Oracular Spectacular, riuscendo a tirare fuori qualcosa privo di auto condizionamenti forzati. Erano finite le pene da scontare.

Little Dark Age è in equilibrio tra Oracular Spectacular e Congratulations, immerso quasi completamente negli anni ’80 e pieno di giri travolgenti di basso.

In quest’album gli MGMT riescono a far emergere la psichedelica nel synth pop lungo tutte le canzoni, con un risultato notevole, di grande impatto e forte coerenza, se non in “When You’re Small” che, nonostante sia un gran pezzo, risulta completamente fuori contesto – e in più, forse, lascia troppo pensare a Something dei Beatles.

Oggi gli MGMT sono a una nuova svolta. Hanno ripreso a viaggiare rendendosi conto che negli ultimi dieci anni la musica è cambiata: con quest’ultimo album sembra di ascoltare qualcosa dei Tame Impala scritto in una discoteca anni ’80: c’è la psichedelica, lo space rock, ma anche una certa propensione al ricordo nostalgico e patinato di quel decennio. Quelle di Little Dark Age sono canzoni scritte per estati lunari che non torneranno mai più.

(Dark Little Age, MGMT, Synt-pop, Elettro-pop)

Antieroi e microcosmi

Autrice finora di tre volumi di racconti, l’ungherese Edina Szvoren ha vinto il Premio dell’Unione Europea per la letteratura nel 2015 con la sua seconda raccolta intitolata Non c’è, e non deve esserci (Mimesis, 2017). Il lettore italiano può leggerla nella traduzione di Claudia Tatasciore, grazie alla casa editrice che l’ha pubblicata nella collana eLit predisposta nell’ambito del progetto Europa creativa.

Edina Szvoren è una scrittrice atipica fin dalla sua biografia: nata nel 1974, nel 1998 si diploma al Conservatorio Ferenc Liszt di Budapest come direttrice d’orchestra. Vive tuttora di musica, in quanto insegna teoria della musica e solfeggio al liceo musicale Béla Bartók sempre nella capitale ungherese. Per anni la scrittura per lei è stata fine a se stessa, ha faticato a trovare una propria voce, le è stato persino difficile guardare in faccia quello che aveva da dire, e difatti soltanto nel 2005 inizia a pubblicare regolarmente racconti su riviste letterarie. Farsi strada esclusivamente con la forma del racconto è molto difficile: la scrittura breve è considerata spesso arte minore. Edina Szvoren la coltiva invece con una tale capacità di cristallizzazione di tutti gli elementi da far sentire i suoi brevi racconti opere complete a tutto tondo.

La pubblicazione della prima raccolta di prose brevi Pertu (Diamoci del tu) risale al 2010, viene seguita da Nincs, és ne is legyen (Non c’è, e non deve esserci) nel 2012, e nel 2015 esce Az ország legjobb hóhéra (Il miglior boia del paese). Il volume Pertu è salutato con entusiasmo dalla critica, riscuote anche un buon successo di pubblico, e giungono i primi riconoscimenti ufficiali.

I racconti della raccolta Non c’è, e non deve esserci si muovono sempre nella sfera intima, l’azione è sottostante seppure determinante, ma conta molto di più il modo di viverla. Sipari sollevati su famiglie scomposte pervase da profondi sensi di sconfitta, da relazioni svuotate. In queste novelle le minuziose descrizioni di bugie e tradimenti, che notiamo e viviamo tutti noi in varia misura, acquisiscono consapevolezza e ineluttabilità. Malattie fisiche e psichiche popolano i mondi dei racconti e i protagonisti imparano a conviverci, soccombono senza ribellione, sfiorano e vivono la solitudine e la morte. Sono asfissianti storie di miseria umana, deprimenti e misteriose, tendenti a dimostrare quanto sia invivibile la vita. Eppure a conti fatti la vita vince sempre, anche grazie al ruolo preponderante assunto dalla fisicità, dal sesso, mezzo e fine, costruttivo e non, come d’altronde avviene nel vissuto. La scrittura cesellata lascia senza fiato, tutto ha un suo perché e una sua collocazione in queste novelle, e a volte anche i silenzi, il non detto, il sottinteso, hanno lo stesso peso dell’esplicito.

Qualcuno dei racconti è di facile, immediata comprensione, altri richiedono una lettura attenta, magari anche due, come può succedere con la musica: la cacofonia del primo ascolto si trasforma in melodia, in un componimento afferrabile e apprezzabile. Un ulteriore pregio di queste novelle è la facoltà di libera interpretazione: Edina Szvoren non suggerisce opinioni o finali di storia, lascia che ognuno tragga le proprie conclusioni. Lei non giudica, non condanna e non tesse lodi; i valori li stabilisce il lettore.

Come accennato nella presentazione dell’autrice da parte della casa editrice Mimesis, alcuni critici paragonano lo stile ironico delle novelle alla prosa analitica di Péter Nádas. Si potrebbe allargare il campo delle similitudini all’ungherese Attila Bartis, per il confronto senza esclusione di colpi tra il vissuto e la sua percezione naturalista, pessimista, e alla ben più nota Lucia Berlin per i temi, la sfera sociale coinvolta, e non per ultimo per la lingua asciutta, precisa, capace di tratteggiare con poco quadri complessi e completi e profondamente toccanti.

Nella selezione della prestigiosa rivista letteraria ungherese Jelenkor stilata in base ai voti dei critici, fra i trenta migliori volumi di prosa breve degli ultimi trent’anni Pertu si colloca al secondo posto, Non c’è, e non deve esserci al dodicesimo, e l’ultima opera di Edina Szvoren, Az ország legjobb hóhérja, al tredicesimo.

 

(Edina Szvoren, Non c’è, e non deve esserci, traduzione di Claudia Tatasciore, Mimesis, 2017, 268 pp, € 18.00)