Sylvia Plath, poetessa oracolare

Sylvia Plath non aveva paura della morte. Temeva la morte dell’immaginazione, questo è certo: «quando il cielo là fuori è semplicemente rosa e i tetti semplicemente neri», scrive in una pagina di diario del 1956. Ma la morte corporea non la spaventava. Leonetta Bentivoglio lo racconta in maniera esemplare nel suo Sylvia Plath. Il lamento della regina, uscito per Edizioni Clichy, nella collana Sorbonne.

La vita della poetessa è qui condensata in neanche un centinaio di pagine, rapida e intensa come fu vissuta: un percorso a ritroso che comincia dall’indomita teatralità del suicidio e tocca il rapporto passionale e furibondo con Ted Hughes, gli scontri accesi con la madre, l’eros «spellato e incontrollato». Tutto si ricongiunge ad Ariel, raccolta ultima e conclusiva, che sarà pubblicata postuma nel 1965. Buona parte delle poesie di Ariel risalgono invece al 1962, l’anno che precede la morte di Sylvia, periodo in cui, dice la Bentivoglio, la poetessa è come posseduta da un demone che le permette di entrare «a passi da gigante nel proprio maleficio». La Plath ha il viso scavato di occhiaie profonde e si leva presto al mattino: scrive nelle prime ore del giorno, puntuale dalle quattro alle sette, in tempo per accudire i bambini. Compone trentanove poesie in due mesi – molte delle quali sono oggi considerate tra i suoi versi migliori – ed «entra nella compiutezza della propria vocazione» agognando il gesto estremo, disperato e scenico, che avrà luogo in quell’undici febbraio di cinquantacinque anni fa.

Sylvia Plath sembra incarnare la Lady Lazarus di cui racconta, in grado di morire e resuscitare e poi darsi a morte certa e spettacolare. Scriveva che «Morire / è un’arte, come qualunque altra cosa. / Io lo faccio in modo magistrale». La poetessa sembra allora seguire alla lettera il copione che dovrà guidarla all’ultimo atto, un copione in cui è la sola protagonista. Si alza presto, prepara la colazione ai figli – mostrandosi madre premurosa e serena – e poi infila la testa nel forno: cala il sipario. «Sylvia ricatta i posteri con la propria teatralità», scrive la Bentivoglio, obbligando il lettore e il critico a cercare così un’interpretazione del gesto, una chiave di lettura che possa ricondurre il rituale della morte a un’unica ragione fondante. Ma non è mai stata trovata una risposta chiara ed esauriente; non si può certo pensare a un mero gesto di rivolta verso il marito, perché significherebbe ridurre la figura di Sylvia a quella di una moglie frustrata e umiliata, né si può gridare al messaggio politico, come più volte la critica ha tentato di fare, appigliandosi a quel «peso dei secoli» da cui la Plath si sentiva oppressa, schiacciata.

Sylvia Plath. Il lamento della regina ha il merito di mostrarci la giovane poetessa americana nelle sue fragilità, nelle ossessioni e le invidie, attraverso gli spettri che la guidavano quando componeva i suoi versi, sfatando così l’immagine di donna forte e sicura che è stata fatta emblema di un moto femminista che ha tentato di ingabbiare la sua arte in una categoria ideologica: «Sylvia è stata troppo  un vessillo delle donne, trasformandosi suo malgrado in uno schema». Queste cento pagine hanno dunque il pregio di mostrarci la poesia della Plath per quello che è stata, e che continua a essere, lontana dalle etichette della poesia confessionale, spesso in contrasto con la Sylvia dei Diari, quella più intima, posata e riflessiva, una poesia intessuta di simboli, che rompe la campana di vetro e arriva alla tragicità della specie, facendosi, infine, oracolare.

 

Sylvia Plath. Il lamento della regina, a cura di Leonetta Bentivoglio, Edizioni Clichy, 2017, 160 pp., € 7,90.
Poster italiano di La forma dell’acqua su Flanerí

Una storia che annega nell’amore a tutti i costi

Ha il potenziale per essere il film dell’anno, La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro, presentato come enorme successo alla Mostra del cinema di Venezia, dove si è aggiudicato il Leone d’oro, Golden Glober per la miglior regia e colonna sonora e candidato a tredici premi Oscar, tra cui quasi tutti i più importanti (film, regia, attrice protagonista e non, attore non protagonista, eccetera). Eppure c’è qualcosa in questa favola d’amore con il mostro che non riesce a definirsi, che non lo rende un capolavoro, anzi.

La stampa internazionale lo ha accolto elogiando gli aspetti tipici del miglior cinema di Del Toro. La sua passione per la storia e i mostri, che si incontrano in un passato di impossibile verosimiglianza da sempre, si declina in La forma dell’acqua in chiave romantica per la prima volta, mettendo in secondo piano l’horror o l’azione per concentrarsi sui sentimenti di estraneità, solitudine, attrazione, affetto.

Nella Baltimora del 1962, Elisa è una donna muta che lavora come addetta alle pulizie in un istituto governativo semi-segreto. La sua vita è scandita da una routine di uova bollite e affettuose amicizie con un vicino artista omosessuale e una collega brusca e bonaria. Un giorno nel laboratorio viene introdotta una strana creatura proveniente da qualche parte della foresta amazzonica. Elisa instaura un immediato legame con questo essere che appare come un ibrido tra uomo e pesce, e dall’unione impossibile di queste due solitudini nasce qualcosa di nuovo e potente.

Dopo la Spagna di Franco in La spina del diavolo Il labirinto del fauno, dopo gli Stati Uniti contemporanei di Hellboy, Del Toro si sposta in clima di  guerra fredda e corsa allo spazio con La forma dell’acqua. Negli Stati Uniti paranoici della minaccia sovietica ogni novità può trasformarsi in un’arma o in una minaccia, se non presa per tempo. La creatura che il funzionario militare Strickland porta nello stabilimento non merita attenzione scientifica, ma solo militare. Figuriamoci umana. Elisa, con il suo mutismo violento causato da una menomazione nell’infanzia, sente subito vicino quel mostro non mostruoso, immerso nel silenzio dell’acqua che lei tante volte sogna la notte e in cui si rifugia nei momenti più intimi. Sprovvista della parola, riesce ad andare oltre alla forma e a vedere cosa si nasconde dentro, in profondità.

Strutturato interamente come una favola per adulti, La forma dell’acqua sceglie un registro più leggero ed etereo rispetto ai precedenti lavori di Del Toro. È a tutti gli effetti una storia d’amore, con il fantastico chiamato a definire la distanza tra i buoni e i cattivi.

Leggendolo come apologo morale, come sicuramente Del Toro, anche sceneggiatore, ha voluto confezionarlo, La forma dell’acqua si regge sul messaggio che i diversi sono migliori degli apparenti normali. Elisa, il suo vicino omosessuale, la sua collega afroamericana, sono capaci di una sensibilità e di una dolcezza di cui invece è privo l’americano medio. Perché Strickland, cattivo fino al midollo, è l’unico tra loro ad avere una famiglia, una Cadillac, una villetta a schiera. Tutti gli elementi del sogno americano in mano all’unico vero mostro del film. In questa dicotomia così marcata, che rivendica la nobiltà di ogni espressione umana contro il pensiero medio dominante, si concentra il messaggio del film.

Del Toro fa un elogio degli emarginati, affidandosi a un cast di grandi interpreti, con Sally Hawkins credibilissima muta, Octavia Spencer che fa sempre lo stesso ruolo ma lo fa benissimo e Richard Jenkins che non viene mai elogiato abbastanza. Ma se il messaggio è alto e in perfetto stile della migliore Hollywood, è la struttura a lasciare non pochi dubbi.

Costruito come una favola nera, adulta ma leggera, La forma dell’acqua sacrifica ogni aspetto di credibilità nello sviluppo narrativo sull’altare del messaggio. Per intenderci, è uno di quei film in cui cattivi sono cattivi senza appello e ottusi al punto da non riuscire a collegare gli elementi sotto i loro occhi. È un film in cui la protagonista, normalissima donna delle pulizie, ha accesso illimitato e non sorvegliato a ogni livello di una struttura in cui sono custoditi segreti militari, al punto da poter passare la sua pausa pranzo in compagnia del mostro. È un film in cui doppiogiochisti di varia natura hanno rigurgiti di coscienza solo quando serve a svoltare un momento della trama.

Perso nel suo tentativo di trovare una nuova dimensione adulta al racconto favolistico, introducendo anche elementi sensuali in maniera forzata e quasi voyeuristica, Del Toro finisce per perdere di vista l’equilibrio generale del suo film. È chiaro: c’è la poesia, c’è una triste delicatezza unica, ci sono momenti di grande impatto visivo e anche emotivo, ma sono sprazzi in un film scollegato.

(La forma dell’acqua, Guillermo Del Toro, 2017, fantastico, 123’)

 

La poesia è la lingua di chi fugge

Secondo Winston Churchill, rimasticato di recente da Claudio Magris in un articolo su Ismail Kadarè, «i Balcani producono più storia di quanto possano digerire». Un sistema scollato dal suo assorbimento, che forgia e non sa smaltire. Prometeo ingrassato davanti allo specchio, dove gli eventi si addensano intorno all’addome, come un’assenza, come un segreto di sfumata salvezza.  È questa la pancia in cui nasce Manuale d’esilio di Velibor Čolić (Bompiani, 2017).

Una terra piccola e contrastata, in cui la guerra ha sfoltito le vite, innescato vendette, armato popoli e religioni da bravi destini votati alla lotta. C’è stato un tempo in cui il Medio Oriente svettava oltre l’Adriatico. Sarajevo, Belgrado, Zagabria ridotte alle briciole; una pentola esplosa nei suoi confini e frammenti feroci sbarcati per anni su queste sponde.

L’autore è un cronista radiofonico e uno scrittore di successo quando la sua patria decide di impazzire.  Si arruola suo malgrado nell’esercito croato-bosniaco e immola i suoi occhi all’orrore; le stragi intestine, la pulizia etnica, villaggi e città verniciati di sangue. Vede troppo, sente più di quanto veda, incassa lezioni indelebili: «Sono un soldato. So distinguere l’odore di un cadavere da qualunque altro, so che la peggior ferita è la ferita al ventre e che tutti i morti hanno il viso calmo e cereo di chi se ne va. (…) Tremo in continuazione, vomito di nascosto, scrivo epitaffi per il mio Paese e porto una bandiera bosniaca nella manica della camicia». Nel 1992 capisce che sopravvivere vuol dire disertare. La Francia diventa il suo approdo, il primo scenario del suo ruolo da esule: «Sono un cavalleggero, un viaggiatore col viso segnato da un freddo metafisico, l’ultimo grado della solitudine, della stanchezza e della tristezza».

Porta addosso ogni cosa, vestiti come fossero angosce e spettri al posto di giacche. È il suo armadio ambulante, non ha casa né bagagli se non quelli che riesce a indossare, sovrapponendo stoffe come strati di memoria. Per di più, quella lingua non gli appartiene. Le uniche parole francesi che possiede sono Jean, Paul e Sartre. A Rennes si muove da alieno, da fantasma addobbato. Non può essere pulito, non può essere adeguato, si spiaggia in qualche bar e trova nell’alcol la giusta narcosi, significati comprensibili, la sola possente sorsata di tregua. «A poco a poco mi rendo conto che sono il rifugiato, l’uomo senza documenti e senza volto, senza presente e senza avvenire. L’uomo dal passato pesante e dal corpo spezzato, il fiore del male, inconsistente e disperso come polline. Non ho più nome, non sono più grande e piccolo, non sono più figlio o fratello. Sono un cane fradicio d’oblio in una lunga notte senza alba…»

Non sono previste molte forme di conforto, tranne forse che nel dolore altrui. Annusare, rosicchiare poche fette di disperazione in chi incontra nel centro di accoglienza o nel suo continuo peregrinare. In chi come lui è scacciato dagli sguardi e resiste da insetto. Clochard, ladruncoli, ex soldati, nuove ombre aggrappate al bicchiere: «Poi ognuno se la vede con sua sbronza. I russi urlano nei corridoi e io piango in camera con la faccia affondata nel cuscino».

Ma Čolić non è solo un reietto, un oggetto scomodo e non catalogabile. È uno scrittore e non potendo leggere, si sfama scrivendo. Il suo Manuale d’esilio racchiude e protegge la sua condizione. La deride, la intacca e la nutre. «Il 13 maggio 1993 il mio diario di soldato diventa un libro: I bosniaci (uomini, città, filo spinato)». Non gli resta che questo, ciò che sa fare per non appassire. La parola-esorcismo, per sfuggire dalla marea dell’incompreso, che scroscia intorno e poi anche dentro.

Čolić eterno estraneo, come il Meursault di Camus, come Agota Kristof, espatriata tra lingue nemiche nel suo meraviglioso autobiografico L’analfabeta. Lontani, sospesi, pendenti in una bolla, come Hans Sahl, che dell’esilio ha fatto dimora, racconto e missione poetica in Mi rifiuto di scrivere un necrologio per l’uomo.

Manuale d’esilio di Velibor Čolić è un diario cocente e autoironico, prontuario ambizioso e semiserio per chi orbita ai margini. Ma soprattutto, rappresenta un’occasione. La voce letteraria per l’anonima massa di esseri in fuga, sputati dai propri Paesi e piombati nel baratro. Del viaggio infinito, del mare che inghiotte, del corpo innominato, che anche quando non muore staziona nel limbo. Finché non implode. O finché non deflagra.

Tutti qui, a ingombrarci le strade ma non la vera domanda. Perché loro e non io?

Qui, in Manuale d’esilio, ogni pagina ha il peso della bellezza che offre, da frutto ispido e necessario. Interroga e acceca, senza ovvietà. Tutto da leggere, tutto da bere. «Noi un Nulla fummo, siamo, resteremo fiorendo, la rosa del Nulla, la rosa di Nessuno».

 

(Velibor Čolić, Manuale d’esilio, Bompiani, 2017, 280 pp, € 16.00)

Vita da cane

Ho cinquantatré anni. Fumo almeno venti sigarette al giorno, non cammino quasi mai, ho una dieta pessima. Non seguo il calcio, non gioco a carte, leggo molto ma non ne parlo con nessuno. Ho un lavoro importante, poco tempo, bevo spesso. Mi addormento alle tre, a volte anche alle quattro di notte e mi sveglio presto. Ho tradito quasi sempre e non l’ho mai detto. Sono un bugiardo, sono un codardo. Mia moglie mi conosce bene, conosce ogni cosa e mi odia. Siamo sposati da ventisette anni.
In tutto questo tempo non abbiamo trovato il coraggio di mettere al mondo un figlio. Un giorno come tanti dei miei, proprio oggi, ho deciso di lasciarla. Non so perché proprio adesso e non ci ho pensato troppo ma è la decisione che ho preso quindi la rispetterò. Arriverò a casa stasera e le dirò che il nostro matrimonio è finito, discuteremo e avrò alcune risposte da dare ma nessuna spiegazione. Forse piangerà e io resterò in silenzio.
«Quando ha sentito per la prima volta il desiderio di abbandonare sua moglie?» mi ha chiesto l’analista.
«Stamattina» ho risposto.
L’analista me l’aveva suggerito B. tempo fa, quando provai a combattere l’insonnia con l’eroina. Feci lo sbaglio di confrontarmi con lui e mi trovai nel mezzo di un dramma sfiorato. B. mi disse che sarebbe stata una tragedia, un fatto devastante. Lo avrebbe detto ai miei genitori ma i miei genitori già a quei tempi mi parlavano raramente. Anche adesso ci sentiamo ogni tanto per conoscere il reciproco stato di salute, parliamo del clima e delle vicende di paese e loro non sanno che non riesco a dormire, non conoscono l’eroina oggi e non la conoscevano allora. Ma B. li avrebbe informati, diceva che lo avrebbe detto a chi mi voleva bene.
«Perché proprio adesso?» mi ha domandato quindi l’analista.
Tutto quello che mi viene in mente è una risposta sciocca, da quell’uomo stupido che temo proprio di essere diventato.
«Mi sono annoiato».
Mancano solo trenta minuti e presto sarò fuori da questo inferno sotto vuoto. Anna sarà a casa, domani è sabato e nessuno di noi due lavora, avremo tempo per discutere e dormire.
«Per oggi abbiamo terminato, le consiglio di parlare con sua moglie e di dormire almeno qualche ora prima di prendere qualsiasi decisione. È l’unica cosa che mi sento di suggerirle adesso. Può tornare da me lunedì pomeriggio e a quel punto discuteremo di ciò che è successo dopo la sua confessione. Non abbiamo abbastanza materiale per il momento».
Mi sento vuoto come la stanza nella quale mi trovo, che per altri sarebbe colma di ispirazione ed energia ma a me sembra una bolla d’aria priva di gravità. Non succede niente, non ci sono rumori, non sento nemmeno il mio respiro.
«La ringrazio molto e ci vediamo lunedì».
Esco di scena senza emettere alcun rumore. Pago alla segretaria i centoventi euro e non chiedo lo sconto che mi spetterebbe, visto che l’analista ha interrotto la seduta con almeno quindici minuti di anticipo. Me ne vado a casa dopo avere acquistato una bottiglia di rosso. Arrivo intorno alle diciotto e trenta. Anna mi raggiungerà tra poco. Siedo in cucina con la bottiglia di Brunello: una volta compravo vini costosi per lei, è il primo pensiero che mi passa per la testa. Penso a quando ci ubriacavamo ed eravamo felici di essere incoscienti. Per questo non abbiamo mai avuto figli, per essere felici per sempre.

Ci siamo conosciuti nei nostri vent’anni. Anna lavorava al bar in paese dove servivano vino e bruschette, nient’altro, nemmeno il caffè. Mi innamorai di lei dopo alcuni giorni che la vedevo dietro al bancone, aveva l’aria serena ma non troppo. Mi trasmetteva pace, ma non troppa. Aveva un bellissimo sedere, ma non troppo. Presto mi resi conto di desiderarla per le cose del quale era in difetto: quella pace incompleta, la serenità imperfetta e il sedere appena accennato. C’era qualcosa in lei che mi faceva sentire vulnerabile, sconfitto, debole e affranto. Mi faceva stare male e bene al tempo stesso, ne ero spaventato e ossessionato, come schiavo di una malattia. Le chiesi di bere con me una sera e finimmo a letto quella notte stessa. Mi sentii sollevato dopo la prima penetrazione, come avessi conquistato l’aria o la luce o qualcosa di vitale.
Non che andarci a letto mi rese più sicuro: nei giorni a seguire continuai a farle visita al bar e mi sembrava di essere sempre più sciocco e inopportuno. Il sesso ci tenne uniti per mesi senza mai costringerci a parlare di altro. Non avevamo nulla da dire sulla vita, su tutto ciò che esiste al di fuori di un bar o di un letto. Anna era molto bella e io molto stronzo. Avevo altre storie ma a lei non interessava, sapeva che mi avrebbe spezzato il cuore se si fosse allontanata da me e questo la faceva sentire speciale. Aveva ragione. L’amore per me fu quasi immediato, nonostante le altre donne e le altre distrazioni. Per me quel letto e quei silenzi significavano speranza, mi nutrivo di ogni sapore di donna e il suo era il più denso e potente. Provavo pena per me stesso ogni volta che la vedevo andare via, mi faceva sentire uno scemo. Lo specchio rifletteva un corpo di muscoli, grasso e testosterone utili a un bel niente quando lei usciva di scena. Come un cane senza padrone, una casa vuota, un dio onnipotente senza nulla da fare. Ma Anna non si pronunciava. Si lasciava amare e tradire, si spogliava e si rivestiva ogni volta come fosse l’ultimo incontro. A volte mancavano i baci e non mi accorsi davvero del suo amore fino al giorno in cui le chiesi di sposarmi. Lavoravo molto, uno di quei lavori sicuri che danno modo alle persone di sentirsi coraggiose malgrado non abbiano mai fatto nulla di esilarante. Dirigente aziendale, diceva il mio biglietto da visita e il mio orgoglio velato. Pensai di potermi permettere una moglie e dei figli e così le chiesi di stare con me per sempre. Le altre donne mi avrebbero stancato, prima o poi. Anna disse che quella era già una relazione vera, che un pezzo di carta e un anello al dito non l’avrebbe resa più mia di quanto già non lo fosse. La convinsi dicendole che avremmo avuto una serie di agevolazioni economiche, che non si trattava di un contratto sentimentale bensì di una mossa strategica per raggirare il sistema. Convinsi anche me stesso che quella vita sarebbe stata la cosa migliore: una scelta consapevole è sempre la scelta migliore, molto meglio di una svolta di fortuna che accade per sbaglio, molto meglio un dramma cosciente che una pace involontaria. Ci sposammo in inverno, poche persone che grazie al cielo portarono un leggero entusiasmo perché noi, per nostra natura, non ne avevamo. Eravamo un uomo e una donna che stringevano i nodi di un patto.
Ma io l’amavo da morire. Lei mi amava da morire. Le dicevo che era un miracolo, che l’universo l’aveva messa al mondo in maniera quasi divina. Non sapevo molto della sua famiglia e questo mi faceva credere che fosse piovuta dal cielo. Occhi vitrei belli da non essere veri, quasi di natura aliena, senza vita come le pupille bianche di una statua marmorea. E mi sentivo un cane. Lei era il mio padrone e io a guardarla uscire ed entrare dalla porta. Le altre donne sì, mi avrebbero stancato prima o poi. Tutti quei corpi bianchi e fradici di sesso bestiale. In fondo ero un cane, questo legittimava il degrado dell’anima e Anna lo sapeva, sapeva tutto. Un giorno, tornato tardi dal lavoro, finita la cena le dissi che sarei dovuto uscire di nuovo per parlare con un cliente importante, un tizio dalla Cina che poteva incontrarmi solo quella sera. Anna, sorridendo, disse che mi avrebbe aspettato a letto e che una volta tornato avremmo fatto l’amore per tutta la notte. Non un invito ma una sordida strategia, lo sapevamo entrambi. A volte funzionava, altre volte non pensavo a nulla e tutto quello che doveva accadere accadeva. Gli odori si mischiavano, le lunghe giornate e il sudore, quel denso sapore di una donna diversa, la cena calda e l’aria bagnata sui sedili della macchina. Siamo andati avanti così per anni. Anna è rimasta bella, silenziosa, affascinante e perfida nel suo tenermi prigioniero dei miei stessi vizi. Io sono diventato un cane vecchio, un corpo logorato. E stasera tutto finisce. È arrivata, sento la porta che sbatte e le chiavi che cadono nel mettitutto. Il cane che sono diventato resta immobile con la testa bassa, la coda tra le gambe e un lamento in gola.
«Cosa ci fai a casa così presto?»
Mi aspettavo la domanda, eppure la risposta non arriva. Anna mi raggiunge alle spalle e accarezzandomi la nuca infila la mano gelida sotto al maglione. Mi giro all’improvviso e guardo i suoi occhi fieri e muti: il giudizio universale ci dorme dentro, tutto il mondo, l’universo, il peccato e la salvezza sono raccolti in quei minuscoli puntini neri che mi osservano dall’alto. Penso al sesso, il suo corpo di giovane donna e quell’odore di madre che mai era sbocciato. Mi alzo dalla sedia e le prendo il viso tra le mani. Da molto tempo non le toccavo il volto, l’amore tra di noi è diventato un gesto muto che non prede forma se non nei pensieri, miseri e sporadici. La sua mano stasera mi tocca la schiena, le mie stasera l’afferrano. Mi ha preceduto, sconvolge il mio piano e mi sento un assassino in preda alle emozioni di umana compassione. Perché mi tocca? Perché stasera? Ho ancora il suo visto tra le mani.
«Anna, devo dirti una cosa».
Continua a fissarmi e perdo l’equilibrio, torno a sedermi trascinandomi addosso i suoi capelli, li stringo così forte da farle male.
«Ho deciso di lasciarti. Non riesco a prendere una decisione diversa da questa, mi conosci, sai che non sono bravo a parlare. Non sono bravo a fare niente. Non ho più nulla da dirti e vorrei solo che tu lo accettassi».

Sono passati più di ventisette anni dalla prima volta in cui l’ho vista. Che il tempo fosse solo un lungo inverno me l’ero immaginato, ma mai come adesso lo sento piovermi addosso con tutte le ore, i minuti, i giorni e le settimane fradice di baci e silenzi, lo sento scavarmi la faccia e torturarmi con devota cattiveria. Il tempo mi ha rubato il tempo. La vita mi ha tolto la vita. Anna ha ancora una smorfia di dolore sulla bocca ma i capelli adesso le sono tornati sulle spalle e li sistema dietro il collo.
«Non ho mai sperato di restarti accanto per tutto questo tempo, non sono sorpresa. Mi chiedo solo perché proprio adesso, siamo vecchi e stanchi di noi. Non vedi che non ci resta nient’altro da fare?»
Di nuovo la sua insolente, affascinante leggerezza. Resto seduto sperando di sciogliermi all’improvviso, o di vederla andare via, come quando eravamo giovani e spariva dietro la porta un attimo dopo avere chiuso le gambe.
«Anna io non ti amo più, e questo è tutto».
Mi vengono in mente B. e l’analista, e tutto ciò che mi aspetta d’ora in poi. Dovrò imparare a non vergognarmi della solitudine ma le altre donne mi faranno sentire ancora più solo. È finita ma Anna continua a fissarmi e adesso mi parla.
«Questa è la vita per te, un buco dove infilarti e godere a occhi chiusi, lo hai sempre fatto. Cosa è cambiato adesso? Resta a occhi chiusi, resta e basta. Ci possiamo odiare lo stesso, non lo sai com’è la solitudine?»
Mi confonde da sempre. Dove si nasconde il suo amore? Negli occhi di pietra macchiati da un minuscolo universo nero. Nel suo ventre intatto che io solo ho violato. Nel suo sonno che assomiglia alla morte, nella noncuranza che mi ha tenuto in vita. Il suo miracolo esiste anche in questo momento, adesso che mi ferisce e mi nutre di rabbia.
«Pensi che io ti ami? Non so nemmeno cosa voglia dire, sei uno sciocco. Mi fa persino schifo la tua faccia ormai, ma non voglio vederti andare via per nessun motivo al mondo. Cosa pensi di fare da qui in avanti, vecchio?»
Gli anni si fanno sempre più piccoli, ogni parola è un trito informe di tutto il nostro passato, e non riesco a riconoscere nulla. Cerco di aggrapparmi a un ricordo che mi renda cosciente di quello che sta accadendo ma non trovo nulla in quella matassa di giorni vomitati a terra. Siamo arrivati qua rapidamente o sono stato io a spingere sull’acceleratore? Siamo arrivati qua fin troppo presto e la solitudine ci spaventa entrambi. Ma perché Anna ha paura? Non ha mai avuto paura di avermi e nemmeno di perdermi.
«Non siamo pronti per la solitudine, Anna… ma non ha importanza».
I capelli che stringevo fino a poco fa si aprono in un ventaglio morbido e terrificante, Anna scuote la testa da una parte all’altra, resta in silenzio e si chiude il viso tra le mani. Vorrei vederla andare via adesso, come ha sempre fatto. Si volta ma immediatamente mi affronta di nuovo, la bottiglia di rosso vola in mezzo alla stanza e l’aria sembra sanguinare. Vedo il fondo verde avvicinarsi dritto in mezzo alla fronte e un colpo, freddo, mi raggiunge nel giro di pochi instanti.
Ora sono a terra, tra il vino e il sangue, la fronte è aperta, riesco a sentire l’aria dentro la ferita e il dolore che inizia a fare effetto. Anna è in piedi davanti a me e mi spaventa, magari mi ucciderà. In fondo me lo merito, e lei si merita una colpa più grande della mia. Comunque resto a terra mentre mi fissa: aspetto la mia fine, una qualsiasi. Il cane che sono diventato giace sul pavimento mentre una lieve pozza di sangue si forma in mezzo alle gambe aperte. Tiro fuori una sigaretta dalla tasca, mi chiedo se sarà l’ultima prima che il giudizio universale cali all’improvviso su di me. Anna non ha ancora fatto un passo. Poi, fissandomi dritto in faccia, alternando lo sguardo tra i miei occhi e lo squarcio in mezzo alla fronte, si avvicina e si accascia al mio fianco. Siamo due nemici solidali nella guerra più lunga del mondo. Un cane e il suo padrone.
Non so per quanto resterà ancora, e lentamente scompare il dolore, così come il disperato bisogno di vederla andare via. Ma resto aggrappato a questa speranza. Mentre mi stringe la mano rossa poggia la testa sulla mia spalla e finalmente sussurra qualcosa.
«Mi dispiace sai, adesso che non abbiamo più nulla da bere».

Illustrazione di NaMà.

“Vita da cane” di Benedetta Bendinelli è tratto dalla raccolta di racconti Odi. Quindici declinazioni di un sentimento, curata da Gabriele Merlini e pubblicata da Effequ.

Benedetta Bendinelli è nata a Lucca nel 1985. Ha pubblicato sulla rivista Streetbook Magazine e sul blog Vai A Quel Paese: Go Face Yourself, progetto dell’Associazione Cultural-Editoriale ThreeFaces che si dedica alla narrativa di viaggio. Nel 2016 è uscito L’uomo che Misura le Ombre per la rubrica Racconti d’Europa del Corriere Fiorentino – Corriere della Sera, mentre nel 2017 ha pubblicato L’Unico Posto al Mondo – The Only Place on Earth all’interno del testo The Ground Tour Project (Universität für angewandte Kunst).

Odi. Quindici declinazioni di un sentimento: Quanti modi ci sono di odiare? Con quanti nomi si chiama l’odio, quanto ci serve, quanto se ne vede e quanto se ne subisce? È ormai chiaro che il sentimento che più di tutti si affaccia nel nostro tempo è proprio questo, l’odio: negli sfoghi sui social, nei muri che si alzano o si vogliono alzare, nel rifiuto dello straniero, nella furia delle tifoserie, nelle difficoltà relazionali che degenerano e in innumerevoli altre forme, più sottili o più evidenti. È quindi il caso di raccontarlo, questo sentimento, e di farlo con la voce di coloro che si sforzano di tracciare al meglio quello che viene detto il contemporaneo. Ecco dunque quindici giovani autori che, ciascuno con percorsi differenti, si stanno affermando nel variopinto spazio narrativo italiano, chiamati a cimentarsi intorno al tema dell’odio, parlando di contrapposizioni, di crisi, di rancori e ancora oltre. Il tutto trattato con gli stili più disparati e più consoni ai singoli, dalla distopia al reportage, dal serioso al dissacratorio, dall’aulico alla farsa, e così via, per completare quindici storie, quindici facce di un sentimento che sembra proprio rappresentarci, ora, all’inizio di questo millennio.

copertina di always ascending su flaneri

Caro vecchio indie rock

La prima decade del nuovo millennio è stata segnata dalla ripresa e dalla reinterpretazione del garage rock e del punk, proiettati nel dopo millennium bug, nel pieno del post 11 settembre, in ciò che poi è stato sommariamente definito come indie-rock. Prima gli Strokes con Is This it, nel 2006 gli Artic Monkeys con Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not e, tra di loro, nel 2004, i Franz Ferdinand con Franz Ferdinand. Questi ultimi tornano oggi con un nuovo album, Always Ascending.

Sicuramente si potrebbero citare anche i The Libertines con Up the Bracket, ma la Storia li ha lasciati qualche passo indietro. I Kaiser Chiefs di Employment? Mediocri. Forse i Bloc Party e il loro Silent Alarm? No, non c’è mai stata in loro, a dispetto di un notevole talento, la personalità adatta. Sicuramente gli Interpol, ma con Turn on the Bright Light sembravano già troppo avanti rispetto a tutti questi, dando l’impressione di essere qualcos’altro. Per tracciare i caposaldi di questo genere, dunque, è impossibile non partire da Strokes, Franz Ferdinand e Artic Monkeys.

I Franz Fedinand incarnavano perfettamente questa nuova-vecchia estetica musicale. Vecchia in quanto era palese il riferimento estetico, più che ideologico, anche solo ai Ramones. Nuova perché dai Ramones avevano tirato fuori qualcosa di nuovo. Erano riusciti a prenderla e a ridisegnarla, modellandola per il presente. Se gli Strokes con “Someday” e “Last Nite” avevano dato il via al tutto, con un brano come “Take Me Out” i Franz Ferdinand inchiodavano definitivamente l’indie-rock nel tempo: lo spirito punk adagiato in un brano pop/rock, i riffetti distorti di chitarra – quei rifletti poi riproposti per anni – la voce anch’essa distorta.

Always Ascending, arrivato a quattro anni dal deludente Right Thoughts, Right Words, Right Action, non ha quasi più nulla da spartire con gli esordi. Ascoltando il suo predecessore, si aveva la sensazione di un gruppo in procinto di scrivere la propria caduta verso la banalità e il nulla. Sarebbe stata la fine naturale di un gruppo che probabilmente coincideva troppo con un genere? Nel momento in cui quel genere stava sparando i suoi ultimi colpi, quando l’acme era stato superato, cosa sarebbe successo ai Franz Ferdinand? Cosa sarebbero stati?

C’è stato, in questi anni, un cambio di formazione. Il chitarrista Nick McCarty è stato sostituito da Dino Bardot e dal polistrumentista Julian Corrie. In mezzo, è stata data vita ai FFS, il progetto Franz Ferdinand/Sparks con l’album FFS. In Always Ascending, i Franz Ferdinand sono, rispetto alle premesse, molto più ispirati (basti ricordare le banali “Evil Eye” o “Bullet”, dove venivano rifatti i Franz Ferdinand con il risultato di una triste auto presa in giro). Anche qui sono presenti degli sprazzi di quello che erano in origine, per esempio in “Lazy Boy”, ma in una forma palesemente più splendente. È chiaro che i Franz Ferdinand, oggi, non possano incidere sulla musica come hanno fatto nei primi anni del 2000. O quantomeno è chiaro che non lo stiano facendo.

La grande novità di quest’ultimo lavoro sono le tastiere e una importante contaminazione dance, un territorio mai esplorato dalla band di Alex Kapranos. E’ sufficiente ascoltare infatti “Lois Lane” oppure “Glimpse of Rock” per notare come i Franz Ferdinand abbiano provato a fare qualcosa che non è mai stato nelle loro corde. L’album inizia con “Always Ascending” che è, insieme a “The Academy Award”, la canzone migliore dell’album.  Si apre con un piano che spiazza, si evolve in qualcosa tra i Depeche Mode e la dance e si chiude con una coda che ricorda gli Air di “Sexy Boy”; l’altra è una ballata classica, elegante, scritta negli anni ’60 per i nostri giorni. Intorno a queste, la già citata “Lazy Boy”, dove riemergono i vecchi Franz Ferdinand; “Finally”, forse il brano meno interessante, in cui sembra aleggiare lo spettro di Right Thoughts, Right Words, Right Action; “Huck And Jim”, dove un rock con un sentore di stoner è intervallato da uno strambo rap; “Feel the Love Go”, un pezzo in tutto e per tutto dance-rock con un notevole finale di sax. A chiudere, “Slow Don’t Kill Me”, un brano che suona come uno strano mix Belle and Sebastien e Muse.

Always Ascending si inserisce nella discografia della band scozzese come un tassello necessario per capire il loro stato di salute, ma che non sposta l’idea di cosa sono stati in passato. Abbiamo fatto il nostro, forse non saremo più necessari, ma comunque siamo in grado di scrivere un buon album.

(Always Ascending, Franz Ferdinand, Pop-Rock-Dance)

Copertina di Keyla la Rossa

Lo scandalo di I.B. Singer

Keyla la Rossa è uscito lo scorso autunno per i tipi di Adelphi, a quarant’anni esatti dalla sua prima e unica pubblicazione. Ignoravo che all’epoca il suo autore, Isaac Bashevis Singer, avesse considerato “inopportuna” la pubblicazione di un romanzo “scandaloso” a ridosso del Premio Nobel per la Letteratura ricevuto nel 1978. Yarmy un Keyle, questo il titolo originale, apparve solo a puntate su Forverts, quotidiano yiddish di New York, tra il 9 dicembre 1976 e il 7 ottobre 1977. Una lacuna sanata.

Come c’era da attendersi, le sfumature immorali nel corso di quattro decadi si sono perse completamente, resta invece immutata la forza narrativa, di taglio sociologico e antropologico, che tratteggia le tinte chiaro-scure di quel microcosmo che è il quartiere ebraico di Varsavia nei primi anni del Novecento. Il ghetto è descritto con minuziosa scabrosità attraverso gli occhi degli ultimi, dei diseredati, delle puttane, dei papponi, dei ladri e degli alcolizzati; un piccolo universo di bassifondi – qui la carica “scandalosa” – che mostrando i lati foschi presenti all’interno della comunità ebraica, altro non ricalca che la società dell’epoca tutta, con le sue contraddizioni, in subbuglio, all’alba della Rivoluzione d’ottobre e della Grande Guerra.

Keyla è una prostituta di ventinove anni, passata per tre bordelli, che prova a cogliere l’opportunità, rara per una ragazza con il suo passato, di riscattarsi. Sposa Yarme Spino, un ladro e protettore già finito quattro volte in carcere, che medita, grazie all’amore per Keyla, di abbandonare il crimine. A scombinare i loro piani arriva Max lo Storpio, un uomo ambiguo e seducente, che proporrà loro un ultimo, grande colpo: un giro di prostituzione da realizzare in Sudamerica adescando giovani ragazze polacche. Il ritorno alla vita criminale di Yarme e gli atteggiamenti torbidi di Max faranno fuggire Keyla, la quale troverà riparo e nuova speranza di redenzione tra le braccia di un giovane, Bunem, un ragazzo istruito, destinato a seguire le orme del padre rabbino e a sposare Solcha, ragazza di buona famiglia dagli ideali anarchici.

Le trame del romanzo, che conducono le vite dei personaggi dalla malfamata via Krochmalna di Varsavia ai quartieri newyorkesi pullulanti d’immigrati, si sviluppano attorno alla figura schizofrenica di Keyla, da un lato pentita del passato e desiderosa di redimersi agli occhi di Dio, dall’altro ancora preda delle sue paure, dei suoi demoni, dell’alcol. E presa in questo turbinio di emozioni, di passioni, Keyla si affida all’amore come speranza di salvezza, brama una rettitudine che lei per prima crede di non meritare, vive ai margini del baratro sotto il peso costante di un’antica moralità – inculcatale dalla sua famiglia che ormai l’ha ripudiata –, che però non sa gestire, che la schiaccia, che la fa sentire sempre inadeguata.

La scelta dell’editore di cambiare il titolo da Yarme e Keyla a Keyla la Rossa pare dunque quanto mai azzeccata, quasi che Yarme il ladro, partito con un ruolo da protagonista, nelle pubblicazioni bisettimanali sul Forverts abbia via via perso di prestigio nella storia, o interesse, a favore del giovane Bunem. Questi due personaggi sono agli antipodi, e lo sono anche agli occhi di Keyla: il primo non potrà far altro che trascinarla nuovamente sul fondo, l’altro, istruito, puro per certi versi, forse riuscirà, una volta per tutte, a trarla via dal fango, a donarle un’esistenza dignitosa.

Keyla la Rossa è un romanzo sull’amore, non un romanzo d’amore. L’energia che muove i protagonisti è ambigua, a tratti diabolica e oscura, luminosa e ingenua in altri. Essi, nello spazio di poche pagine, si dichiarano amore eterno, poi si minacciano di morte, poi si ritengono indegni di tale sentimento, poi ancora si domandano cosa sia, in realtà, questa forza che li domina. L’amore che Singer descrive è, da un lato, un irraggiungibile archetipo, dall’altro l’unica salvezza possibile; un miscuglio di passione, paura, stereotipo, disperazione, fragilità, fede inamovibile, uno spettro che sfugge a una definizione definitiva. Le anime semplici di Keyla, Bunem, Yarme, Max ne sono attratte e ammaliate, spaventate e corrotte, in una tensione, dai toni decadenti, che non si risolve neanche alla fine del romanzo, dove pare insinuarsi definitivamente il dubbio: cos’è quella cosa che chiamiamo amore?

Neanche la fede riesce a venirci in soccorso. All’inizio del Novecento la religione, non soltanto l’Ebraismo, pare ammonire Singer, è già un contenitore secolarizzato gremito di convenzioni vacue e di pagana scaramanzia, più che di sincera devozione. Nei protagonisti permangono i rituali, i dogmi, ma scompaiono gli antichi valori, la semantica originale. Aleggia una sorta di sottomissione a qualcosa d’incomprensibile, lontano, oppure il rifiuto completo. E questo allontanamento è tanto più palpabile nelle fasce misere della società, nelle quali, a salvare la propria anima, a sfamare il bisogno umano di spiritualità, si antepone l’urgenza di sfamarsi per davvero.

Non a caso il Dio di Bunem, l’unico personaggio in confidenza con le sacre scritture, è un Dio aleatorio, intangibile, che non si interessa affatto ai problemi e alle sofferenze degli esseri umani, e l’uomo, dirà infatti il ragazzo, è stato davvero creato a sua immagine e somiglianza.

Alla fine, tra le forze misteriose, contrastanti, tra le passioni e le paure, a vincere sembra essere il disincanto. E tutto lo “scandalo” di Singer sta nel portare luce laddove non si vorrebbe vedere.

 

(I.B. Singer, Keyla la Rossa, trad. di Marina Morpurgo, Adelphi, 2017, pp. 280, euro 20)

 

Fragile immagine di famiglia

È tutta una questione di luce e oscurità, come ci hanno insegnato i fratelli Lumière, quando nel 1895 hanno svelato al mondo il potere e la magia del cinema. Il buio della sala, la luce del proiettore che illumina milioni di granelli di polvere (ma si può davvero contare la polvere?), l’odore persistente dei pop corn, le poltrone di velluto, la gente che ride, piange, parla a sproposito. Ed è proprio in un cinema che Ambra è stata concepita, in una sera del 1968, mentre sullo schermo davano Poor Cow, diretto da un giovane Ken Loach e interpretato da un magnetico Terence Stamp.

Ambra (nome intero Alhambra) dovrebbe essere di diritto la protagonista del romanzo di Ali Smith Voci fuori campo (Sur, 2017) e invece non lo è. Perché nel mondo letterario di questa scrittrice scozzese nulla è come sembra. E così l’inquadratura cambia e si sofferma sulla famiglia Smart, i cui membri sono figli di una borghesia culturale liberal che prendono in affitto una casa nella campagna del Norfolk per trascorrere le vacanze estive. Ma in realtà: Eve spera di riuscire a finire il suo ultimo romanzo; Michael, docente universitario, spera di nascondersi dalle studentesse con le quali intrattiene brevi relazioni; Magnus, ragazzo diciassettenne introverso, spera di dimenticare il suicidio di una compagna di classe di cui è in parte responsabile; Astrid, dodicenne scontrosa con la passione per la videocamera, spera di crescere in fretta. Sembrerebbero usciti da un romanzo di Coe o di Franzen, ma Ali Smith cambia prospettiva e, come in un classico film di Altman, decide di raccontare ciò che accade attraverso gli occhi di ognuno di loro. Lo stesso avvenimento, la stessa estate ma da visuali diverse.

In realtà non accade nulla di particolare in quell’estate, a parte l’arrivo di Ambra, nella vita degli Smart. Una donna che bussa alla loro porta per un guasto alla macchina: una donna particolare, incurante delle regole, dell’educazione, dei canoni estetici imperanti. Qualcuno la definirebbe una hippie, altri solo una donna fastidiosa. Eppure basta la sua presenza ad alterare gli equilibri, a spezzare la calma apparente e le frustrazioni ossessive. Una presenza di cui, però, non rimane traccia: la pellicola non conserva la sua immagine, è come un fantasma che ha fatto irruzione nelle loro vite, cambiandole radicalmente, poco importa se in bene o in peggio. Il finale, che è insieme un esercizio letterario e cinematografico, è degno di un film di Lawrence Kasdan, con il Grand Canyon creatore di senso e di futuro.

Ali Smith, Voci fuori campo, SUR, 2017, 327 pp, € 16.50
Poster Italiano di The Post su Flanerí

Quando la cronaca diventa storia

Steven Spielberg è entrato, negli ultimi anni, in un periodo di rinnovata prolificità. Dal 2015 con Il ponte delle spie esce al cinema con un film all’anno. L’anno scorso è toccato a Il GGG da Roald Dahl, l’anno prossimo toccherà a Ready Player One, tratto dal romanzo di Ernest Cline. Quest’anno è il turno di The Post. Un film anomalo nella produzione di Spielberg, che mai come in questo caso si è avvicinato alla contemporaneità.

Perché per la prima volta nella sua lunghissima carriera, il regista di Lo squalo Schindler’s List, tanto per dirne due nel mucchio, sembra parlare degli Stati Uniti d’oggi. Lo fa in maniera indiretta, ma esplicita. Nel 1971 un’inchiesta giornalistica lasciò gli Stati Uniti sotto shock. Grazie a un informatore interno vennero rivelate numerose pagine di un documento interno dei vertici militari statunitensi sul reale – disastroso – andamento della guerra in Vietnam. Contenevano le prove delle bugie delle varie amministrazioni. Il direttore del Washington Post Ben Bradlee cerca in tutti i modi di convincere la sua editrice Katharine Graham ad andare fino in fondo e pubblicare i documenti, nonostante la decisione della Corte Federale di bloccarne ogni divulgazione per evitare minacce alla sicurezza nazionale.

Partendo da un momento di importanza fondamentale nella storia degli Stati Uniti degli ultimi cinquant’anni, che porterà alla fine del conflitto vietnamita, Spielberg confeziona un film giornalistico dall’impianto classico e consolidato. Con la sceneggiatura affidata a Josh Singer, premio Oscar nel 2016 per Il caso Spotlight, The Post ha tutti gli elementi propri di un grande film sul giornalismo.

È un filone con una tradizione nobile e importante, quasi sempre apprezzato da critica e pubblico per la capacità di coniugare elementi di impegno sociale e politico con venature che si avvicinano al noir o al thriller. Negli ultimi anni, come già Spotlight aveva dimostrato, l’elogio del mestiere di giornalista tipico di questi film ha trovato un nuovo compagno nella celebrazione nostalgica della fisicità del mestiere. Giornali di carta, taccuini, rotative, caratteri a piombo. La notizia che diventa un elemento fisico, che si ottiene rovistando tra archivi e fogli di carta, che si corregge a mano, che si stampa e si diffonde. Nel 2009State of Play di Kevin Macdonald aveva introdotto per primo, partendo da una serie BBC, la celebrazione delle ormai antiche pratiche del giornalismo stampato. Nella dicotomia tra un giornalista vecchia maniera (Russel Crowe) e una giovane blogger (Rachel McAdams) c’era l’introduzione di un nuovo mondo e di un nuovo tema.

Spielberg, però, ha deciso di agganciarsi al filone per usarlo come spunto per un nuovo punto di vista per il suo cinema. In quegli Stati Uniti terrorizzati da una fuga di notizie, con un presidente Nixon mostrato sempre di spalle, da lontano nello studio ovale, mentre impartisce ordini al telefono con voce carica di rancore, non è possibile non vedere dei riferimenti all’America di oggi. La tendenza classica del cinema di Spielberg è quella di alternare storie e Storia. E.T. Il colore violaSalvate il soldato Ryan Minority Report e così via. Con The Post si sofferma sul contemporaneo come non aveva mai fatto.

La legittima resistenza al potere autoritario è un tema molto sentito a Hollywood, in cui con uno sforzo interpretativo si possono leggere la lezione del giusnaturalismo sull’uomo nella società civile. Senza arrivare all’estremo del tirannicidio, la storia del cinema americano è piena di film in cui i protagonisti decidono di forzare la legge, se non addirittura di violarla, per andare contro a un’istituzione ritenuta autoritaria e liberticida. Con The Post e la sua rappresentazione di un potere affamato di puro e semplice potere, Spielberg sembra richiamare sull’importanza del non sottovalutare il presente, di osservarlo per cogliere quel momento in cui la cronaca è destinata a diventare storia.

 

(The Post, di Steven Spielberg, 2017, biografico, 118’)

 

L’indelicatezza della generalizzazione

La trama di L’abbandonatrice di Stefano Bonazzi (Fernandel, 2017) si svolge principalmente intorno al primo dei protagonisti, Davide, uno studente universitario omosessuale che ha avuto un irrisolto coming out in famiglia. Bonazzi ci dice che i suoi genitori hanno scoperto la sua natura sessuale attraverso le fotografie che Davide scattava a un suo compagno di scuola. Sta al lettore capire come la visione di tali immagini sia in grado di trasformarsi in una rivelazione tanto significativa. Il risultato è l’allontanamento del ragazzo dalla sua casa e il trasferimento in un nuovo appartamento. Davide si trasforma così in un nella sua città, Bologna, uno dei tanti pretesti per arricchire la narrazione di uno stile di scrittura barocco e stucchevole.

Dato che uno dei focus del romanzo è l’omosessualità, ci si aspetta che l’argomento sia trattato o con accuratezza oppure nella maniera opposta, ignorandola per normalizzarla. Nelle prime pagine sembra che la seconda opzione sia quella scelta dall’autore, ma più si avanza nella lettura più la questione si fa confusa: Davide prova un’evidente attrazione fisica per Sofia, si parla di rapporti consensuali ed eterosessuali con persone che in principio erano state definite omo, ma non si fa nemmeno accenno a etero-curiosità o bisessualità.

Gli adulti non sono quasi mai presenti, se non per il breve scambio fra Davide e i suoi genitori, finalizzato non alla messa in scena di un conflitto funzionale, ma solo a dare un’opportunità al lettore per demonizzare dei genitori che non hanno rifiutato la natura sessuale del loro figlio e sono solo colpevoli di non essere in grado di affrontare una situazione che hanno imparato a evitare. Nel caso di Sofia, la madre ha un crollo mentale dopo l’abbandono da parte del marito e, in un capitolo surreale, due operai portano via tutti i mobili di casa. Sofia a quel punto si fa carico dei suoi fratelli, dall’età imprecisata. I rapporti fra giovani e adulti esistono quindi solo nella dimensione di uno strano conflitto generazionale che non approda però a nulla. Persino quando Sofia diventa madre, il rapporto col figlio, Diamante, non c’è: Sofia si toglie la vita all’inizio del romanzo e, quando Diamante entra in scena, la relazione con lei è semplificata tramite una giustificazione generica: il fatto che la donna non è mai stata una buona madre. Diamante non conosce il padre, odia la madre tanto da non piangerne il suicidio. In fin dei conti, una volta ritornati a Bologna da Londra, dove Sofia e Diamante vivevano, nessuno si cura più del fatto che una persona cara a tutti i protagonisti sia morta e nessuno si cura nemmeno delle pratiche legali che guidano l’affido di un minorenne a qualcuno che, come Davide, non ha nessun legame diretto con lui.

La realtà è che nessuno si cura neanche del fatto che il compagno di una vita di Davide, Oscar, dopo un esordio musicale fallito da giovanissimo, sia caduto nuovamente nel vortice della depressione e infine in quello della droga. Nella seconda parte di L’abbandonatrice Oscar è un tossicodipendente che vive “di alti e bassi”. Il narratore descrive in pochissime battute la sua nuova vita, ma ne parla anche come un uomo fisicamente decadente e mentalmente instabile, che ha evidente bisogno di aiuto. La padrona di casa è la sola a prendere in considerazione la riabilitazione, ma lo fa per ghettizzare, non per recuperare, Oscar.

L’abbandonatrice è quindi un romanzo che avanza per frasi fatte e fintamente poetiche, dialoghi e personaggi irrealistici. Ha alla base un potenziale che non può essere negato, che viene annullato dal fatto che Bonazzi non coglie l’occasione di operare una selezione degli argomenti su cui sensibilizzare il lettore per poterli gestire al meglio. Il risultato è un prodotto che somiglia molto di più a una bozza immatura che a un romanzo fatto e finito.

 

Stefano Bonazzi, “L’abbandonatrice” , Fernandel, 2017, 208 pp., € 15.00

Ristagni

Super è un album godibile e funzionale, con un focus ben preciso. Al terzo album, dopo Ergo sum e Ora e qui, Paletti ribadisce un certo talento per la composizione artistica. In Super c’è tutto per dare a questa nuova ondata di musica una nuova interpretazione, una nuova possibilità di essere. Ma, di pari passo a questa sensazione, ne scorre una sotterranea che rende il quadro non così chiaro.

Qui l’elettronica si mischia al pop in un elettropop muscolare, con soluzioni estetiche che denotano una certa cultura musicale che spesso è difficile trovare nelle ultime produzioni italiane.   Coadiuvato da una scrittura di testi superiore a quella della maggior parte dei suoi colleghi contemporanei (Calcutta in primis, ma  anche Tommaso Paradiso), Super è un lavoro che, pur facendo parte dello stesso mondo, si staglia sugli altri, facendosi nuova guida. Suona come una possibile  interpretazione di quella branca di nuovo cantautorato italiano, un modo di scrivere canzoni scevro di  quella inquietante sensazione di voler assolutamente strizzare l’occhio a un determinato pubblico, rimanendo comunque estremamente accessibile. Il tentativo è di fare quella cosa, ma a un livello più alto, per auto definirsi e ridefinire una corrente – perché, nonostante tutto, di una corrente stiamo parlando.

Ma, in definitiva, anche Paletti è parte di questo processo, e la sensazione è che non sia riuscito a  staccarsene completamente, a emanciparsi del tutto. Perché in Super c’è sì Paletti ma, in diversi frangenti, pare che per una mancanza di coraggio il cantautore di Manerbio si sia appigliato a certi nuovi topos del nuovo cantautorato italiano in maniera troppo smaccata. È il caso, per esempio, dei Thegiornalisti in “Nonostante tutto” – qui, Paletti, sembra che abbia provato a scrivere l’erede di “Riccione” per l’estate 2018 – o de I Cani in “La notte è giovane”, dove la strofa  sembra uscire direttamente da Il sorprendente album d’esordio dei cani.

Ma non è solo al nuovo che si rifà, in Super c’è anche uno sguardo a Max Gazzè  (“Capelli blu”, “Lui, lei, l’altro” – quest’ultimo pare scritto da Gazzè e i Tiromancino di La descrizione di un attimo). Andando più indietro si può intuire un vago sentore di Luca Carboni in “Eneide”. Ma si può tornare ancora più indietro nel tempo, fino a Lucio Battisti (“Pazzo”, che suona come se “Tempo di morire” fosse stata pubblicata in Hegel).

In Super, c’è quindi la ripresa degli anni Ottanta, ci sono gli anni Novanta. C’è, dunque, l’oggi. Il modo di interpretare il presente con il filtro di ciò che è stato, ma costruito in maniera impeccabile. Super è, per questo,  un lavoro che avrebbe potuto incidere maggiormente. Ma qualcosa – forse realmente il coraggio – lo ha reso un album scritto bene, piacevole e fruibile.

Ed è un gran peccato.

(Super, Paletti, Pop)

Copertina di Dimmi come va a finire di Valeria Luiselli

Quaranta domande universali

La Bestia. Il Coyote. La ghiacciaia. La Migra. Suonano come gli elementi di un libro di avventura per ragazzi e, in un certo senso, è quello che sono. Sono i personaggi e i luoghi di troppe storie vere, di sicuro avventurose e spesso senza lieto fine, che hanno come protagonisti bambini e ragazzi, pur non essendo adatti a loro. Sono le storie del confine tra il Messico e gli Stati Uniti, tra quello che c’era prima e, nella migliore delle ipotesi, quello che ci sarà dopo.

A seguito della crisi migratoria del 2014 e 2015 che ha comportato l’arrivo negli Usa di oltre centomila bambini e ragazzi centroamericani, Valeria Luiselli ha lavorato per circa un anno presso il Tribunale Federale dell’Immigrazione di New York come interprete volontaria per la Icare Coalition, un’organizzazione che fornisce assistenza legale ai minori migranti, bambini non accompagnati che compiono da soli un impensabile viaggio che spesso inizia all’interno di una famiglia o di un piccolo villaggio del Guatemala, del Salvador o dell’Honduras e che si conclude con l’arrivo in una terra sconosciuta oltre la frontiera.

Tra la partenza e l’arrivo i minori incontrano i personaggi della loro storia: il Coyote è l’uomo a cui vengono affidati, senza il quale anche l’inizio del viaggio sarebbe impossibile; la Bestia è il treno merci che varca la frontiera, simile al demonio o a un vuoto che risucchia i piccoli passeggeri clandestini nelle proprie viscere di metallo; la ghiacciaia, così chiamata dall’acronimo dell’Immigration and Custom Enforcement (ICE) che la gestisce, altro non è che il centro di detenzione in cui i minori vengono trasferiti una volta entrati negli Stati Uniti, simile a un enorme frigorifero in cui si rincorrono raffiche d’aria fredda, «quasi a voler evitare il rischio che la carne straniera possa andare a male troppo in fretta».

In Dimmi come va a finire (laNuovafrontiera, 2017) – tra i finalisti del National Book Critics Circle Award nella categoria Critica – Valeria Luiselli ha fatto convergere l’attività di traduzione in quella della scrittura, ha compiuto un lavoro di interprete che è andato ben oltre la lingua, arrivando a decifrare intere vite cercando di ricostruirne i pezzi attingendo dal linguaggio semplice e disordinato dei bambini, spesso non in grado di capire appieno il senso delle quaranta domande che vengono sottoposte loro una volta entrati nel nuovo paese. Si tratta di domande come: «Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?», per la quale le risposte riguardano semplicemente il volersi riunire con un genitore o un altro parente emigrato in precedenza oppure possono aprire uno squarcio sulle circostanze da cui si sta fuggendo, che vanno dalla violenza o dall’abbandono familiare all’essere sottoposti a minacce e persecuzioni, a maltrattamenti fisici e mentali. Uno dei motivi più ricorrenti che inducono i minori a lasciare il paese d’origine è l’essere presi di mira dalla Mara Salvatrucha o dal Barrio 18, bande criminali che arruolano i ragazzi sotto minaccia di stuprare, altrimenti, le loro sorelle o cugine; diversamente, le ragazze non vengono assoldate a forza ma reclutate come fidanzate dei membri della gang o semplicemente molestate e violentate.

«Non è nemmeno il Sogno Americano quello che inseguono, piuttosto l’aspirazione ben più modesta di svegliarsi dall’incubo in cui sono nati».

Alle quaranta domande del questionario fa eco, come in un circolo, la domanda che dà il titolo al libro e che Luiselli si sente ripetere dalla figlia piccola quando le racconta dei giovani migranti: «Come va a finire la storia di questi bambini?» Litania che potrebbe ripetersi all’infinito, perché non è possibile identificare l’inizio e la fine di una qualunque di queste storie, ma che fa da sottofondo alla riflessione che sottende l’intero lavoro e che riguarda tutti, da ogni lato del mondo, e che trova un principio di risposta solo nella Preghiera del Migrante che i ragazzi imparano durante il viaggio:

«Partir es morir un poco / Llegar nunca es llegar» (Partire è un po’ morire / Arrivare non è mai arrivare).

 

(Valeria Luiselli, Dimmi come va a finire, trad. Monica Pareschi, laNuovafrontiera, pp. 96, euro 13)

La voce dei libri

Fosse solo un ottimo manuale per orientarsi nel mondo della traduzione editoriale come Falsi d’autore che Daniele Petruccioli ha scritto per i tipi di Quodlibet nel 2014, la presentazione sarebbe molto semplice: chi desidera un’introduzione pratica perché traduce e vuole sapere cosa ne pensa un esperto, o perché vuole accostarsi alla traduzione editoriale, oppure perché legge libri tradotti – e i lettori ne leggono in buona percentuale, anche se a volte non ne sono consapevoli –, Falsi d’autore fa sicuramente per loro. Un libro che pone già molti quesiti, ma li lascia ancora sul piano del pragmatismo. In Le pagine nere. Appunti sulla traduzione bastano già queste poche parole per capire che il libro scaverà molto più in fondo: «Tradurre è quel che siamo, è quel che facciamo, dal momento in cui veniamo alla luce, fino a quello in cui la nostra vita viene tradotta in morte». Lo scrive Enrico Terrinoni nella sua brillante prefazione al secondo libro di Daniele Petruccioli, traduttore dal francese, dall’inglese e dal portoghese, docente di traduzione dal portoghese, scout ed editor freelance.

Sappiamo che i traduttori traducono libri, discorsi e documenti, ma in fondo siamo tutti traduttori: traduciamo in parole i nostri pensieri, traduciamo per noi le parole degli altri, ovvero le interpretiamo, perché tradurre è anche, a volte soprattutto, interpretare. Per semplificare potrei dire che Falsi d’autore è il corso introduttivo, Le pagine nere il corso avanzato. Il target di entrambi è lo stesso mondo ma le modalità con le quali nelle Pagine nere Petruccioli tratta i temi sollevati, ossia facendo perno sull’interazione di più discipline e sull’illustrazione dei meccanismi che agiscono sul testo, sul chi lo scrive e sul chi lo legge, riescono a parlare all’universo mondo dei lettori. Così come gli interessati alle opere d’arte cercano di apprendere almeno le basi delle tecniche architettoniche e pittoriche, credo che anche i lettori di libri dovrebbero gettare un’occhiata dietro le quinte nell’arco di una vita, e prendere in mano almeno un libro del genere. Le pagine nere risponde perfettamente alle curiosità e agli interrogativi al riguardo, e combatte efficacemente varie ottuse semplificazioni piuttosto comuni.

Va da sé che leggere Le pagine nere richiede un certo impegno. Occorre soffermarsi sulle pagine, a volte anche su singoli periodi, elucubrare sulle considerazioni dell’autore che non vuole mai essere categorico. Petruccioli non è assertivo, ci prende però per mano e con spiegazioni dettagliate cerca di portarci dalla parte delle sue ragioni. Le sue analisi equilibrate si estendono a tutti gli aspetti di valutazione del testo, e in un solo caso diventa categorico: quando parla di ritmo. «Chi non traduce (anche) il ritmo non traduce. Un traduttore che dice di non essere interessato al ritmo, per qualsiasi motivo lo dica, o mente o confessa di non saper tradurre». E tira fuori tutti gli strumenti a disposizione  dell’autore primo (il romanziere, nel nostro caso) e dell’autore secondo (il traduttore), che in realtà sono più che noti ma non sempre usati con consapevolezza e la giusta misura.

Sono tali e tanti gli argomenti sviscerati nel libro che in questa sede è possibile fare solo un cenno molto soggettivo e molto riduttivo ad alcuni: la (in)visibiltà del traduttore e le sue responsabilità, tutto quello che c’è da sapere sull’interpretazione e sull’aderenza al testo, i regionalismi, l’uso degli spazi e della punteggiatura, i rapporti nella produzione editoriale (con una serie di buone pratiche suggerite), il ruolo del significato e delle significanze, le scelte da operare. Le voci all’indice sono simpatiche testimonianze della gioiosa e appassionata creatività dell’autore, e una ricca bibliografia completa quest’opera molto curata di uno spirito originale capace di analisi e di sintesi.

 

Daniele Petruccioli, Le pagine nere. Appunti sulla traduzione dei romanzi, La Lepre Edizioni, 2017, 256 pp., € 18,00.