“L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon

Romanzo giovanile, L’incanto è già capolavoro, nel senso etimologico: a questo romanzo fanno capo tanto la pynchoniana produzione letteraria, la sua personalissima poetica della paranoia –  insieme kierkegaardiana angoscia delle possibilità e beckettiana impasse dell’azione –, quanto la nozione di letteratura postmoderna, con tutti i topoi che ne formano il canone.

Strutturato come un racconto, questo romanzo-culto, pietra miliare del genere, è insieme riflessione sulla comunicazione, sull’architettura narrativa e sulle molteplici e tautologiche narrazioni che costituiscono la vita umana, tanto che si è arrivati a chiedersi se davvero il giovane autore fosse artefice consapevole della mole di significati e simbolismi che i critici hanno poi scovato nell’oceano di riferimenti – che adornano e creano la vicenda narrativa – essendo essa stessa nient’altro che una congerie di cultura pop vestita con abito kafkiano.

È tuttavia proprio l’indecifrabilità il punto focale del romanzo, l’impossibilità di attribuire un (unico) significato al significante narrativo, impossibilità che Beckett realizzava con un palco vuoto e due attori, e che nella società postmoderna è invece il risultato di un’assordante cacofonia di storie, drammaticamente priva della catarsi che nell’ultima riga di Aspettando Godot sottolineava la sorte di Vladimiro ed Estragone, il monolitico «non si muovono» dopo il quale non poteva che esserci il buio.

Se lì si procedeva per scarnificazione, tanto da lasciare solo un possibile scambio dialettico, qui si va nel massimalismo: una molteplicità di scambi, dialoghi, personaggi, senza che tuttavia ci sia vera comunicazione, anzi, senza la possibilità, negata al lettore, di sapere se la comunicazione, di qualsiasi tipo, è effettivamente possibile oltre il fraintendimento, oltre la semplice chiacchiera autorappresentativa.

Questo massimalismo sarà poi peculiare della narrativa postmoderna. In Barth sul piano della retorica, che oltrepassa e investe il piano strutturale-formale; in Wallace anche semantico, che costituisce direttamente il piano strutturale-formale; in Barthelme solo immaginifico-grottesco.

Il tratto comune suggerisce filiazione: a guardare le epoche di questi autori sarebbe impossibile stabilire una gerarchia lachmanniana basata sulla testualità, e tuttavia non è sbagliato dire che c’è un retroterra comune: la postmodernità, e in questo caso – tralasciando le complesse descrizioni di questo altrettanto complesso periodo storico – in particolare: la comunicazione nella postmodernità.

È qui il nocciolo, qui il frammentismo pop barthelmiano, il manierismo barthiano, la caleidoscopia wallaciana. La comunicazione nella postmodernità è, indipendentemente dal modo in cui la si rappresenti, un’overdose di informazioni, una cacofonia priva di struttura, come lo è la ricerca di Oedipa Maas, incerta, falsata, come lo è il complotto che sembra esserci dietro.

Complotto che forse è paranoia e forse esiste: il tocco dell’artista è nel non concludere il finale, restituendo il romanzo alla nudità della forma, e il verdetto a un differimento infinito che tradisce il lettore: nell’era della post-verità i fatti non esistono più. Concorrono con le percezioni ad armi pari, creando una comunicazione che fa rasentare la cronaca ai picchi più surreali della narrazione pynchoniana.

A essere al centro del libro è proprio la possibilità che esista un altro tipo di comunicazione, un sistema di smistamento postale alternativo a quello governativo, un’alternativa a quella che è la narrazione ufficiale, da leggersi in vari modi: oltre al già citato metatestuale – la ricerca di una nuova forma di comunicazione come ricerca esistenziale – quello sessuale: si indaga sull’american mail, stessa pronuncia di male, maschio.

Ma la ricerca è epocale: cosa può il romanzo dopo gli estremi sconfinamenti del modernismo? È destinato a ripetere la pirotecnica esibizione di tecniche retoriche, sperando d’incantare qualcuno? Questo romanzo non prova a rispondere, ma si pone a fondamento di un’alternativa che, preso atto di ciò che c’era prima, possa interiorizzarla e costruire la forma narrativa dell’era digitale: un’infinita, insormontabile moltitudine di dati impossibili da vagliare e classificare, in cui tutto è storia, e niente lo è.

 

Thomas Pynchon, L’incanto del lotto 49, Edizione originale 1966, Prima edizione italiana  1968.
copertina di Il venditore di metafore di Salvatore Niffoi

Storie di una Sardegna arcaica, tra fantasia e realismo magico

Il venditore di metafore di Salvatore Niffoi (Giunti Editore, 2017) è uno di quei casi in cui la copertina – per non parlare del titolo – trae in inganno. Presentarlo, come viene fatto, come una grande metafora in salsa sarda del potere delle storie, contrapposte al potere dello storytelling, non permette di intuire la ricchezza del pensiero che sta alla base del testo.

«I monti, gli alberi, i fiumi e le fattucchiere lo sapevano da sempre che un giorno sarebbe arrivato il contacontos, l’uomo che avrebbe campato vendendo storie di paese in paese, di casa in casa». I racconti si intrecciano alla vita del cantastorie Agapitu Vasoleddu, detto Matoforu, figlio di nessuno, originario di Tilipirches, «paese attaccato al culo della montagna come una cavalletta e che per questo si chiamava così». Ma dietro alle diverse narrazioni che si alternano nel testo, c’è la ricerca di una forma letteraria per rendere un mondo che non esiste più, ma che continua a essere parte di noi.

Per questo se si è forestieri, se non si ha familiarità con la Sardegna e con la lingua sarda, ci vuole un po’ di tempo per adattarsi, e occorre affidarsi completamente alle mani dell’autore. Ma quando lo si fa, quando si segue Matoforu nel suo viaggio sull’isola e ci si abbandona alle sue storie come i paesani che si siedono ad ascoltarlo, si viene catturati in modo irresistibile come da una malia: qualcosa che ha radici lontane nella nostra cultura, che ci parla di quello che siamo davvero, in profondità.

Nei nomi, nei luoghi, nei personaggi che incontriamo c’è un che di affascinante e sinistro che si trova nei racconti popolari del Mediterraneo, così diversi dalle storie del Nord Europa che formano il nostro immaginario contemporaneo. Storie di nani e inventori, di grandi passioni e odio feroce, in cui a un realismo magico di sapore sudamericano si mescolano il fantastico e l’orrore, sullo sfondo di una terra che è matrigna – spazzata da venti gelidi, spaccata da un sole accecante – e al contempo l’unica madre possibile.

Il contacontos porta il lettore in un mondo premoderno, sospeso in un passato indefinito in cui povertà e ricchezza si misuravano con il numero di pecore e gli ettari di terra posseduti, in cui la vita e la morte dipendevano dalla natura e Dio guardava dall’alto le azioni dell’uomo – e lo stesso facevano i compaesani dalle loro finestre, punendo chi non seguiva le regole.

Un mondo non solo pre-globalizzato ma anche pre-coloniale, in cui gli italiani, «quelli del continente», sono visti come invasori, nelle figure antagoniste dei carabinieri e dei funzionari dello Stato, mentre l’unica vera autorità è quella del prete e della Chiesa.

Non è un caso che anche il rapporto con la lingua italiana risulti conflittuale. Salvatore Niffoi, esponente di quella che viene chiamata la Nuova letteratura sarda, trova una sintesi felice tra due opposte necessità: scrivere in una lingua sentita davvero come propria, una lingua dell’anima, per così dire – l’unica adatta a raccontare le storie dei paesi della Barbagia – e dall’altra comunicare e farsi comprendere anche da chi sardo non è.

Il venditore di metafore è così davvero una metafora, ma di un mondo scomparso che in molti forse stanno ancora cercando.

 

(Salvatore Niffoi, Il venditore di metafore, Giunti, 2017, p. 192, 18€)
copertina di musica per noi su flaneri

La mostra delle assurdità

Musica per noi di Pop X doveva essere un lavoro rassicurante, pieno di canzoni come il senso comune comanda. E in effetti in qualche modo lo è: c’è Jovanotti, Carl Brave x Franco 126, il neomelodico più o meno alternativo ( da D’Alessio a Liberato), le canzoni folk in dialetto spinto, il gusto per l’autotune, l’andamento dance, il saccheggio del vintage dal filtro nostalgico. L’effetto, però, è tutt’altro che rassicurante.
È una mostra delle atrocità. Pop X estrae i cliché dalle canzoni di cui ci sfamiamo quotidianamente e li monta in un collage tanto scriteriato quanto spietato. È una musica per tutti noi: non è vero, dice, che a Napoli si fa l’amore meglio che a Lugano? O che a tutti piace canticchiare il motivetto di Tiger Man?

Se Battiato negli anni ‘80 cantava «non sopporto i cori russi, la musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese, neanche la nera africana», Panizza scrive Musica per noi. Qui, come in Lesbianitj, c’è un codice linguistico che oscilla tra il puro scherno e la critica reale – un espediente che, a dire il vero, non è nuovo tra chi tenta di rompere con certi schematismi atavici. Eppure, Musica per noi non è il punk di Inascoltabile degli Skiantos, non è la demenzialità degli Elio e le Storie Tese, non è il comedy rock triviale alla Prophilax. L’album di Panizza ha un radicalismo tragicomico anni luce dai classici movimenti di opposizione. Rottura totale, sovversione pura. Forse nella sua espressione più compiuta, forse nel suo primo tentativo di formulazione. C’è chi parla di arte contro arte, qui nella forma dell’ironia piegata alla derisione assoluta e del talento tecnico-compositivo (che in Lesbianitj ancora faticava a mascherarsi) al servizio di un disordine selvaggio.

A novembre esce il singolo “La prima rondine venne ier sera”, un pezzo perfettamente in linea con il modo di fare di Pop X. Poi, però, esce l’album e il brano non c’è – fino a scoprire che si tratta in realtà della nona canzone dell’album e che il nome ufficiale è “Figli di Puttana”. Gli altri tredici pezzi sono un tripudio di riferimenti al popolo del sud (“Orci dentali”, “Litfiga”) e agli anziani del nord (“Teke Taki”), con qualche impennata voyeuristica (“Rabbit”) e vaneggiamenti del basso sociale (“Carablia” , “Chiamalo Negra”, “Morti Dietro”). A completare il tutto c’è il pezzo “Intro” messo come dodicesima traccia (appena dopo “Outro”), e la doppia versione di “Serafino”, parodia esasperata del machismo di certe love song.

Ascoltare Musica per noi è un’esperienza al limite tra la liberazione psichica e lo smarrimento identitario. La nevrotica deep house (decisamente dismorfica) dell’album è davvero, come ha detto Panizza stesso, al di fuori di qualsiasi logica promozionale. Eppure, nell’utilizzo capovolto della struttura-canzone, produce comunque qualcosa. Lesbianitj era meglio, era fatto meglio. Ma si ha la sensazione che Musica per noi sia quello che Lesbianitj voleva essere fin da subito, un rifiuto nella sua configurazione più estrema. Una drasticità, però, che sembra avere le carte in regola per poter aprire a qualcosa.

(Musica per noi, Pop X, Deep House, Elettro-Dance)

Locadina della mostra Centopagine

Calvino e le sue Centopagine

«Centopagine è una nuova collezione Einaudi di grandi narratori d’ogni tempo e d’ogni paese, presentati non nelle loro opere monumentali, non nei romanzi di vasto impianto, ma in testi che appartengono a un genere non meno illustre e nient’affatto minore: il “romanzo breve” o il “racconto lungo”». Così scrive Italo Calvino nell’introduzione alla collana da lui ideata e diretta tra il 1971 e il 1985.

Due tappe a Torino, tra ottobre e novembre nello spazio espositivo di via Baretti 31, poi una a Roma nella biblioteca Moby Dick il 9 dicembre scorso. È stato possibile vedere in queste città, solo per un giorno, “FN mostra Centopagine”, un’esposizione-evento dedicata alla collana di Einaudi. Il progetto legato alla mostra è nato all’interno dell’iniziativa di digitalizzazione di materiale editoriale portata avanti sul sito FN dove Federico Novaro, Marta Occhipinti e Andrea Vendetti stanno riunendo i 77 volumi della collana anche con l’intento di proporre una considerazione sul rapporto tra editoria e letteratura, e sul ruolo del Calvino editore.

Scrivono su FN: «Centopagine è una collana breve e rada, sta tutta in un borsone del supermercato; i suoi volumi si trovano abbastanza con facilità sul mercato dell’usato». Si tratta di oggetti non pregiati che, raccolti e mostrati insieme, delineano un percorso che si sviluppa intorno alla costruzione della narrazione visiva dell’involucro editoriale e del suo contenuto, diventando così un evento interessante a diversi livelli. E prima di tutto si tratta di una nuova riflessione su Calvino, un altro tassello che consente di definire meglio la figura professionale dell’autore all’interno di Einaudi. Il Calvino che, nel ruolo di direttore e progettista della collana, dipana la sua idea di letteratura attraverso i volumi, concentrandosi sull’Ottocento con qualche incursione nel Novecento e alcuni titoli tra il Cinquecento e il Settecento, affidando alle note introduttive e alle nuove traduzioni rimandi e allusioni alla letteratura contemporanea.

Riguardo l’aspetto estetico, cioè alla funzione espositiva dell’oggetto-libro, vediamo in mostra le copertine di Bruno Munari, che ne ha curato la grafica fino al 1976 (sostituito da Max Huber tra 1976 e il 1980) e che riprese in mano il progetto negli ultimi anni della collana. Ne viene fuori un’evidente relazione tra il progetto grafico e la visione di Calvino della letteratura, legata alla sua curiosità per le teorie scientifiche, per la geometria spaziale. La grafica di Munari si basa, infatti, sull’uso di forme geometriche sempre nuove realizzate come delle greche ininterrotte che, attraverso le forme intrecciate, guidano come in un labirinto il lettore.

Ho incontrato virtualmente i curatori della mostra e ideatori del progetto, che hanno risposto ad alcune mie curiosità. È diventata una lunga e piacevole conversazione sul passato e sul futuro dell’editoria, sui progetti del sito FN e sugli esiti delle loro iniziative, in bilico tra il recupero e la voglia di confrontarsi.

Ho letto che Calvino era molto entusiasta di questa collana. Su FN avete riportato un ricordo di Bollati: «Ricordo di averlo visto veramente appassionarsi una sola volta a un progetto editoriale che implicava direzione, organizzazione, serietà: quello della collana Centopagine». Perché Calvino era così preso da questo progetto, che apparentemente sembra meno ambizioso e complesso di altri?

MARTA Centopagine nasce e muore con Calvino. Ed è in questa collana in cui si ritrovano i richiami più chiari alla sua idea di letteratura: quella postmoderna e fantascientifica, che coincide con il periodo della sua ideazione. Fu come un esperimento di fiducia verso i suoi lettori, pensato nei minimi dettagli, dagli autori scelti alla cura di quarte e introduzioni. Fu l’unica collana che ideò e diresse personalmente, con una responsabilità pari a quella dei suoi maestri, Vittorini con I Gettoni e Pavese con I coralli. Si può, dunque, pensare che la collana sia stata un suo strumento editoriale per ragionare sulla letteratura, attraverso autori del passato, e strumento letterario per l’editoria. In particolare quella einaudiana, che negli anni Settanta iniziava a sperimentare in ritardo una “tascabilizzazione” con testi rivolti a lettori medio-alti.

Perché avete scelto, per la mostra, Centopagine e non un’altra delle collane analizzate su FN. L’avete definita un unicum in quel particolare momento storico. In che senso? Qual è la sua particolarità?

FEDERICO: Centopagine è la terza mostra di FN, dopo quella su Roland Barthes e Futureworld. Centopagine però offre più cose insieme. Da una parte è una collana ancora viva nella memoria di chi leggeva quei libri, dall’altra ha due nomi che da soli bastano a catalizzare l’attenzione: Calvino e Munari, e questa cosa rende tutto molto più semplice e più accattivante. Fare la stessa cosa con una collana come Prosa contemporanea di Guanda, che è stato un progetto precedente a cura di Mauro Maraschi, sarebbe stato molto più complicato, perché la casa editrice è poco conosciuta, il progetto grafico è un po’ anonimo e noioso nella sua ripetitività. Sarebbe bello farlo un giorno, ma magari affiancandola ad altre cose.

 

 

Il progetto di FN, non solo per questa collana, è orientato a fornire una descrizione del libro in ogni sua parte nella sua duplice essenza di oggetto e contenitore, con la mostra, però, avete in qualche modo superato la quarta parete. Pensate che internet da solo non basti, che sia ancora necessario uscire, toccare i libri e che funzione attribuisci a questo evento?

FEDERICO: No, non si può dire che internet non basti. FN cerca di trovare dei modi e uno statuto per portare in rete la materialità dei libri e questo, quindi, è un movimento che parte dal tangibile e arriva al virtuale, ma mi piace l’idea che poi esista un movimento contrario. La mostra, senza ciò che facciamo in rete, avrebbe un senso relativo, le due cose si completano. Poi c’è da dire anche che FN è in rete, ma non è un fenomeno puramente social, invece, è decisamente “social” la mostra. In definitiva, sono due cose differenti, che coesistono e si completano.

ANDREA: Federico ha ragione, c’è da considerare il fatto che FN ha una forte vocazione archivistica e l’archivio non ha una fruibilità immediata, ma bisogna avere qualcosa da cercare. La mostra è invece proprio un hic et nunc, è infatti un evento che dura solo un giorno. Potrà capitare in futuro che i libri saranno esposti più di qualche giorno, secondo le esigenze di chi chiederà la mostra, ma in generale è una cosa estemporanea.

MARTA: Sono pienamente d’accordo con Federico e Andrea. Su FN abbiamo iniziato un importante lavoro di ricostruzione storica ed editoriale dei testi a servizio di appassionati e soprattutto studiosi. Tuttavia, senza il reperimento materiale dei libri tutto ciò non sarebbe stato possibile. La rete ci permette di raggiungere un pubblico più vasto, ma il nostro obiettivo è quello di sfruttare internet per trasmettere un messaggio di ritorno alla cura e alla lettura degli elementi materiali dei libri.

La mostra ha anche una valenza educativa, non solo documentaria?

FEDERICO: Credo piuttosto che la mostra sia un evento mondano, nel senso migliore del termine, si parla di libri, si beve del vino e si creano relazioni. È più vero quindi il contrario, cioè è il lavoro che facciamo in rete che è pedagogico. Certo, il vantaggio della mostra è che è possibile vedere tutti i libri insieme in un solo colpo d’occhio, questo aggiunge molto e ne fa un’esperienza.

ANDREA: Con FN cerchiamo di restituire il più possibile la fisicità del libro in rete. Anche le foto che facciamo non hanno alcuna post-produzione e se su una copertina c’è un prezzo stampato su un’etichetta non la eliminiamo. Le imperfezioni rendono il libro più reale, concreto.

FEDERICO: è il motivo per cui le fotografie sono tutte datate.

MARTA: Come dicevo prima è un lavoro diretto soprattutto agli studiosi. Quando mi sono ritrovata a preparare la mia tesi di laurea, un anno fa, oltre al reperimento di letteratura sull’argomento “editoria”, è stato utile lavorare insieme a Federico su una collezione, sfogliandone i testi. Così si finisce per scoprire sempre qualcosa di nuovo. Confrontarsi su un’intera collezione credo sia importante non solo per un valore documentario, ma soprattutto per la ricerca.

 

 

A questo punto, però, ci dilunghiamo a discutere intorno al concetto di fisicità del libro nella sua dematerializzazione digitale. Io dico che il libro immateriale ha una sua materialità, Andrea dice che però su FN si trova l’immagine di un oggetto fisico, non il libro elettronico in sé e Federico dice che sul sito si fa una rappresentazione di un oggetto fisico, secondo delle regole che si sono dati per la sua rappresentazione, così che la rappresentazione non fisica di un oggetto è legata a regole e diventa segno, immagine. A questo punto ci accorgiamo che la discussione potrebbe spostarsi sul piano filosofico e poco prima di approdare al mito della caverna, viriamo verso terreni meno minati.

Certo, parlare di Munari per la grafica di una collana diretta da Calvino è una cosa che risulta decisamente altisonante. Ciononostante non siamo di fronte a un progetto ambizioso, grandioso, ma a qualcosa di semplice, creato con ricercata modestia. Quanto della visione di Munari grafico editoriale c’è in questo lavoro?

ANDREA: C’è tanto Munari, ma soprattutto tanto del Calvino grafico. È evidente che ci sono state molte discussioni e confronti tra i due. Penso, ad esempio, che il fatto di cambiare sempre altezze del testo, i colori, i caratteri e gli elementi grafici, venga in gran parte dalle idee letterarie di Calvino e si sposi perfettamente con i libri presentati nella collana. Detto questo, credo che Munari si sia molto divertito a disegnare questa collana e il Munari che si diverte è proprio quello che ho in testa, è quello che preferisco, immagino il Munari del cucchiaio sull’occhio che lavora a questi libri.

FEDERICO: E aggiungerei che oltre ad essere frutto del confronto tra Calvino e Munari è il risultato del loro dialogo con Giulio Einaudi. L’interesse di questa collana viene anche dal fatto che è una sintesi perfetta dell’Einaudi di quegli anni, sia graficamente che editorialmente. A partire dal fatto che Calvino scrive nell’introduzione che è una collana pensata per i pendolari. Si tratta evidentemente dell’Einaudi pedagogica al massimo suo fulgore.

MARTA: C’è un dialogo fascinoso tra l’idea letteraria di Calvino, da sempre incuriosito da quella macchina matematica che è il linguaggio, e la grafica munariana, che gioca negli spazi e con le ripetizioni degli elementi grafici in copertina. Collane come questa sono la dimostrazione di come in un progetto editoriale l’intera progettazione di un libro parta dalla scelta dei suoi elementi materiali: il primo ingresso alla lettura, oltrepassato il quale ci si addentra in quel godimento più sostanzioso che è la lettura del testo.

 

Andrea, pensi che questo sia un progetto grafico che a oggi avrebbe senso o credi che, avulso dal contesto storico e letterario in cui è nato, non sarebbe adatto a rappresentare un prodotto editoriale di questo tipo?

ANDREA: Partiamo dal presupposto che pur essendo fuori di trent’anni, sarebbe meglio di gran parte di quello che viene prodotto oggi. Ha i suoi anni e, anche se si vedono, li porta dignitosamente. Ma è soprattutto la progettualità con cui è stato costruito a renderlo fortemente contemporaneo. Il fatto – ripeto – di cambiare sempre altezze del testo, i colori, i caratteri, gli elementi grafici e nonostante questo riuscire a realizzare un qualcosa che risulta sempre familiare, non è semplice. Adesso sarebbe difficile pensare a un editore che cambi il font in ogni volume della stessa collana.

 

 

Editorialmente, invece, sarebbe possibile oggi riproporre una collana di questo tipo?

FEDERICO: Sarebbe interessante ripubblicare tale e quale questa collana per vedere cosa accadrebbe. Ma è un esercizio fine a se stesso. Ogni progetto editoriale è un progetto economico, si analizza il mercato e s’identifica il destinatario del bene e si propone qualcosa che s’immagina possa piacere. L’Einaudi di allora immaginava un mercato fatto da un certo tipo di persone disposte ad accogliere un messaggio che aveva una forte componente educativa, pedagogica. Oggi il mercato è regolato da altre istanze e non si capisce bene quale siano, perché i ragionamenti economici sono troppo labili per giustificare le scelte editoriali. Non so se oggi esiste e dove il tipo di ragionamento che troviamo in Calvino, cioè non so quanto effettivamente si cerchi di fotografare delle realtà, di immaginare cosa chiedano i lettori e provare a offrirlo. Allora, se Calvino diceva pendolare, si capiva perfettamente a chi si stava riferendo, oggi non si capisce quali siano i lettori cui si riferiscono molti editori. Il lettore è identificato con il mercato e non c’è più quel processo di autorappresentazione di un desiderio o di proiezione di desideri, che mi sembra estremamente interessante anche come scelta per regolare il mercato.

Quali saranno le nuove tappe della mostra e quando sono previste?

FEDERICO e ANDREA: Non abbiamo ancora date sicure, ma abbiamo delle sedi: Rimini, Milano, Parma e Palermo (durante il festival Una marina di libri, nel secondo week end di giugno). La cosa di cui siamo contenti è che soggetti diversi tra loro, da librerie, ad associazioni e anche i festival, si stanno interessando all’evento.

Pensate che questo progetto si evolverà, si trasformerà ancora, potrà diventare altro?

FEDERICO: Certo, le mostre possono essere più ricche, ma non so verso quale direzione potremo muoverci.

ANDREA: Al momento, oltre la mostra abbiamo anche un catalogo formato poster.

FEDERICO: L’ha realizzato Christel Martinod che si occupa di tutta la grafica di FN, dal sito al cartaceo. Ha già realizzato il catalogo della mostra su Roland Barthes e quella di Futureworld.

ANDREA: Sarebbe bello se questo catalogo, una volta concluse le schede bibliografiche, insieme al materiale che stiamo raccogliendo durante le mostre, comprese le storie che molte persone ci stanno raccontando sull’Einaudi di quegli anni, potesse diventare un catalogo-libro, magari proprio del formato di centopagine. Si creerebbe un bel cortocircuito: partire dai libri per tornare al libro.

MARTA: Perché no, l’idea del catalogo-libro non mi dispiace. Sarebbe anche un modo per far dialogare le due anime della mostra: quella letteraria e quella grafico-editoriale.

 

 

Alla fine, andiamo avanti per un po’ a parlare della responsabilità degli intellettuali nel dopoguerra, fino all’onda lunga degli anni Sessanta e Settanta. Abbiamo moti di nostalgia per un’editoria che non esiste più, ridiamo a una battuta di Federico sull’assenza di pluralità in quella che ormai è una diarchia editoriale e concludiamo tra saluti e speranze.

 

 

Copertina di Esperimento americano di Benjamin Markovits

I peccati originali dell’America

Si fa un esperimento quando si intende dimostrare, confermare o brevettare la bontà di una determinata operazione o fenomeno, per osservarne e scoprirne le leggi che lo governano. Se però i reagenti impiegati nel fatto empirico sono degli esseri umani, soprattutto se diversi fra loro per estrazione sociale, etnia e livello di istruzione, il successo è tutt’altro che scontato, anzi sfiora quasi la velleità dell’utopia.

Esperimento americano di Benjamin Markovits (66thand2nd, 2017), scrittore americano-anglo-tedesco noto per una trilogia di romanzi su George Byron e per il memoir Un gioco da grandi (66thand2nd, 2012), è il racconto dell’ideazione prima e della realizzazione poi di un sogno politico, urbanistico ed economico. È anche un ritratto generazionale, un’indagine sul campo ma anche un romanzo sull’Io.

Il titolo in italiano, diverso dall’originale You Don’t Have to Live Like This, deriva da un discorso che Obama fa nel romanzo. Il libro narra infatti la storia di ex studenti di Yale, adottando il punto di vista di uno di essi, Greg Marnier detto Marny, lacerato tra ambizione personale, paure e insicurezze, impegnati in un’opera di gentrificazione, ossia di riqualificazione di aree urbane depresse e degradate della città di Detroit. Già prima di arrivare a Detroit, il protagonista descrive la desolazione che scorre davanti ai finestrini della sua auto: «Camminando vedevo come il quartiere cambiava da strada a strada. Le case bruciate lasciavano il posto a case sprangate, a loro volta rimpiazzate da case vuote con il cartello IN VENDITA affisso alle finestre».

Marny è come se passasse in rassegna la situazione drammatica che, con la questione del conflitto razziale irrisolto e il perdurare delle diseguaglianze, attraversa l’America, di cui Detroit è la cartina di tornasole, per poi riflettere sulla particolare condizione dei giovani laureati, talvolta usciti da prestigiose università come Yale, che si trovano a svolgere funzioni molto meno retribuite o qualificate e comunque perennemente precarie, di quanto avessero immaginato e si rendono conto che il loro futuro non sarà migliore di quello toccato in sorte ai loro padri. Nulla gli è garantito se non la sconfitta.

L’idea però di potersi trasferire lì e acquistare case a prezzi vantaggiosi, vere e proprie occasioni in stile Groupon, conteneva la speranza di un nuovo inizio o quantomeno di un possibile cambiamento.

È sotto questa spinta che Marny decide di accettare la sfida del suo ex collega di università Robert James e di andare a vivere nella start-up community da lui ideata. Ben presto però emergono le difficoltà di convivenza con i vecchi abitanti, soprattutto afroamericani e l’operazione si rivela per quello che è: una mera operazione speculativa e il tentativo di cambiare il volto di intere aree di Detroit.

Lo scontro che vede opporsi Nolan e Tony, due personaggi che rappresentano rispettivamente i vecchi residenti neri, spesso appartenenti ai ceti popolari, e i nuovi arrivati che sono per lo più bianchi della classe media, è la dimostrazione di come sia impossibile superare gli atavici ostacoli, diffidenza e reciproci sospetti.

L’annuncio di un futuro migliore prende così le sembianze di uno scontro di classe fra culture diverse con tanto di risse, rapimenti e processi.

Marny rappresenta molto bene questo tipo di contraddizione americana: è un intellettuale, un Democratico convinto (all’inizio partecipa anche alla campagna di Hillary per le primarie del 2008), ma la prima cosa che fa, appena partito per Detroit, è comprare un fucile e poi una pistola, perché è molto difficile separare il senso del pericolo, in una città, dagli altri pregiudizi. È un giovane incerto e quasi trascinato nelle sue convinzioni e scelte, prigioniero delle ossessioni della società odierna.

In tutto Esperimento americano c’è una grande attenzione ai dettagli, alle descrizioni, ai personaggi: effetti e processi sembrano osservati da un microscopio. Tutti sembrano condividere una certa precarietà emotiva, abitativa e lavorativa. Al centro del romanzo c’è il concetto di casa e di conseguenza la sua mancanza è il simbolo dello spaesamento ma anche del fallimento patito dalla generazione che il romanzo racconta. L’autore costruisce le storie sul contrasto tra la banalità del quotidiano e i fattori di instabilità che continuamente lo scuotono.

Il romanzo inoltre dice tanto sulle radici sia europee che americane dell’autore. Marny, come l’autore, ha vissuto a lungo in Inghilterra. Quando vivi all’estero e torni, sei ossessionato dal pensiero rivolto alla vita che avresti potuto condurre se non fossi andato via; alla vita che i tuoi vecchi amici stanno conducendo. Ma è anche vero che alla fine non cambia nulla e si torna al punto di partenza: «Il problema dell’essere pionieri è questo. Vuoi una vita nuova. Ti trovi un avamposto e nel giro di poco tempo è proprio identico alla vita che hai lasciato».

 

(Benjamin Markovits, Esperimento americano, trad. di Gabriella Tonoli, 66thand2nd, 2017, pp. 376, euro 18)
Poster di chiamami col tuo nome su Flanerí

La crescita attraverso il desiderio e il dolore

Arriva finalmente nelle sale italiane Chiamami col tuo nome, quinto film del regista italiano Luca Guadagnino, in giro per i festival di tutto il mondo dal gennaio dello scorso anno. In principio è stato Il Sundance Film Festival, poi sono arrivati Berlino, Toronto e una serie di altre manifestazioni. Dopo essere uscito nei cinema europei e nord americani, dopo essere stato inserito nelle classifiche dei migliori film del 2017, dopo le nomination ai Golden Globes (3) ai Bafta (4) e agli Oscar come miglior film, miglior sceneggiatura adattata,  miglior attore protagonista e miglior canzone originale, finalmente il film di Guadagnino viene distribuito anche da noi.

Prima di parlare del film, vale la pena soffermarsi brevemente sul rapporto quanto meno ambivalente del regista con il cinema italiano. Da Io sono l’amore del 2009, Guadagnino è diventato un regista di culto all’estero e un quasi totale sconosciuto in Italia. O meglio, è ancora il regista di Melissa P., trasposizione cinematografica del romanzo pruriginoso 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire. Non è solo un discorso di fortuna, o ricezione. I film di Guadagnino sono stati accolti con qualcosa di diverso dalla freddezza dalla stampa italiana, più concentrata a notarne i difetti che a sottolinearne i pregi. È andata così con Io sono l’amore. Nel 2015, con A Bigger Splash, la situazione si è replicata quasi uguale. Ottima accoglienza all’estero, quasi ignorato in Italia, con la stampa che si è soffermata soprattutto a denigrare l’ultima parte del film e l’interpretazione di Corrado Guzzanti. Così, l’evidente affermazione di un autore dotato di uno stile e di una voce ben definita è passata sotto traccia. Oggi, Luca Guadagnino è il regista italiano di maggior successo negli Stati Uniti (con buona pace di Gabriele Muccino). Anzi, è il regista italiano a cui dagli Stati Uniti guardano di più per capire il cinema del nostro paese (con buona pace di Paolo Sorrentino)

È quasi un bene che i distributori italiani abbiano atteso così tanto prima di far uscire Chiamami col tuo nome in Italia, almeno si è creato un minimo di attesa, di curiosità intorno a un film che avrebbe rischiato di scivolare nel dimenticatoio di un’etichettatura approssimativa e ingombrante.

Perché Chiamami col tuo nome, al netto dello strano rapporto tra il regista e la distribuzione nazionale, è un film che parla di amore. Di un amore omosessuale, nello specifico. Da qualche parte nell’Italia del Nord, nel 1983, il giovane Elio conosce Olivier, dottorando di architettura ospite della villa di famiglia per approfondire gli studi con il padre docente.  La presenza dello studente in casa attirerà Elio in un modo per lui nuovo, nell’estate in cui scopre per la prima volta il sesso.

Guadagnino ha definito Chiamami col tuo nome il terzo film di una sua personale trilogia sul desiderio, cominciata con Io sono l’amore e proseguita con A Bigger Splash. Lo ha anche definito il suo ultimo film sui ricchi (il prossimo sarà il remake di Suspiria di Dario Argento, e già ci sono molte polemiche). In verità, il cinema del regista siciliano è sempre stato un cinema carnale. Melissa P. rifletteva, pur con tutti i limiti di un film non riuscito, sulla potenza dell’essere desiderati, mentre nei film successivi lo sguardo si è spostato sul desiderio attivo, complicato dalla distanza sociale, dal passato, dal genere sessuale.

Etichettare Chiamami col tuo nome come un film omosessuale sarebbe estremamente limitante. Come La vita di Adele, e molto meglio di La vita di Adele, riesce a mostrare tutte le fasi dell’infatuazione adolescenziale. La curiosità, la confusione, il desiderio, la passione, il dolore, il sollievo.

La sceneggiatura, scritta da James Ivory dal romanzo di André Aciman, ha l’intelligenza e la sensibilità di non problematizzare l’attrazione tra Elio e Olivier per la sua dinamica omoerotica, concentrandosi invece sulla crescita di Elio, sulla sua crescita sentimentale. Così, interagendo con gli spazi della casa e della natura, delle piazze lombarde restituite agli anni Ottanta, i corpi di Elio e Olivier si muovono in una danza di avvicinamento, cauti e liberi, silenziosi e curiosi. Ogni tentazione scandalistica è tenuta lontana. Chiamami col tuo nome è un racconto di formazione delicato e sensibile. E se Armie Hammer interpreta Olivier soprattutto con la sua fisicità dirompente, il giovane Thimotée Chalamet si impone come centro assoluto del film per la sua capacità straordinaria di rendere con ogni gesto i tormenti di Elio.

La storia d’Italia scorre sullo sfondo, con il primo governo Craxi e il pentapartito, e tutte le perplessità del caso. Gli anni Ottanta emergono da ogni dettaglio, dalle Converse alle Lacoste, dai pantaloncini troppo corti ai walkman, fino alla regia di Guadagnino, che riesce a restituire una luce e un’estetica diversa. Il debito nei confronti di Bernardo Bertolucci è qui più evidente che mai, diventa quasi un omaggio dichiarato al suo cinema, e allo stesso tempo la personalità d’autore del regista si consolida ulteriormente su quei pilastri di cinema fisico, di corpi che ballano e si uniscono.

 

(Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino, 2017, drammatico, 132’)

Nelle vite d’altri

Esiste un confine oltre il quale non è dato spingersi per dare voce al ricordo di una storia che non è la propria? Non è semplice restituire attraverso le parole un’esistenza votata all’arte, tanto più se si tratta di quella di un compositore come Goffredo Petrassi che ha segnato nel profondo il Novecento musicale italiano ed europeo. Ma se a trasferirla sulla pagina è la penna finissima di Carla Vasio, quello che emerge è un ritratto che somiglia alla vita, pur procedendo al ritmo di un romanzo.

Non a caso Autoritratto di Goffredo Petrassi inaugura la collana “Diorami”, pregevole operazione dell’editore modenese Mucchi che attinge alle quinte della letteratura per riportare alla luce “Testi su artifici, mondi nuovi e altre invenzioni” – come recita il sottotitolo – a metà tra il rigore del saggio e l’invenzione letteraria. Apparso per la prima volta nel 1991 per Laterza – in un’edizione la cui paternità era attribuita allo stesso Petrassi «perché l’editore riteneva che così si sarebbe venduto meglio» – l’Autoritratto è ora tornato in libreria in questa nuova veste che restituisce il merito alla sua vera autrice e si apre con una prefazione a firma di Claudio Morandini, illuminante sul legame di affetto e sincera ammirazione che ha unito la scrittrice al compositore per una vita.

Dalla trasposizione sulla pagina dei frammenti di una lunga conversazione tra amici scaturisce questo Autoritratto appassionante, e a leggerlo sembra di stare seduti accanto al Maestro e di vederlo, ormai anziano, dietro i suoi occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, mentre racconta la storia di una lunga vita che è stata così piena da non dargli rammarico per quello che non può più leggere né per aver dovuto smettere di comporre. Petrassi appare sincero quando dice di non essere un uomo più speciale di altri, seppure riconosca di aver vissuto un’esistenza straordinaria.

«Se dovessi dire come tutto è cominciato, racconterei di un ragazzino di dieci anni arrampicatosi su un albero di mele cotogne a cantare il Rigoletto»: un incontro con la musica che passa attraverso il canto, non soltanto delle arie d’opera più celebri, ma soprattutto grazie alla vivace tradizione di canti popolari assimilata dalla madre. Poi, a Roma, dove la famiglia si trasferisce da Zagarolo per sfuggire alla povertà, l’occasione del tutto casuale di trovare la propria strada, con l’impiego per un negozio di dischi in via della Stelletta: «È un lavoro molto particolare quello del commesso, perché mette a contatto con le più varie categorie sociali e con i più diversi tipi umani: stai dall’altra parte del bancone, li osservi e fai delle considerazioni che non è il caso di esprimere. Si imparano molte cose: ad ascoltare gli altri, a rispettare le opinioni altrui, a essere prudente nel parlare». La Roma degli anni Venti è una città che poco somiglia all’asfissiante agglomerato umano dei nostri giorni, e diventa il centro nevralgico da cui Petrassi ha l’opportunità di portare a frutto le proprie inclinazioni artistiche, lavorando sodo fino a conoscere la fortuna.

«Ascoltare la musica, pensare alla musica, essere imbevuto di musica, questo è il senso della vita»: un credo esistenziale che trova il suo alimento nella curiosità che lo ha spinto a ricercare la bellezza in ogni campo della cultura, con la vivacità di chi ha costruito da sé le proprie basi: «Ho trovato una grande ricchezza nel mio tirocinio di autodidatta, perché mi ha permesso di curiosare nei campi più diversi, più disparati, senza guida, senza programmi: un andare alla ricerca di quello che mi era veramente necessario. Sembra di perdere tempo, ma [quello] che ti rimane lo hai scoperto da solo senza che nessuno ti abbia non dico imposto ma neppure suggerito niente: è una tua conquista, è diventato tuo».

È un racconto che procede per divagazioni e scarti, tipici di un flusso di memoria, tra i quali Carla Vasio riesce a fare ordine e infondere grazia, senza che l’autenticità del ricordo personale risulti offuscata. Incontriamo Goffredo Petrassi in compagnia di tutti gli amici artisti – non solo musicisti, ma anche letterati e pittori – e ripercorriamo la genesi delle sue opere, tanto di quelle compiute quanto dei progetti mancati; lo vediamo tra le aule affollate del Conservatorio a esercitare la sua professione di insegnante con dedizione e in maniera non convenzionale, ribadendo con il suo metodo l’idea che il più alto affinamento tecnico non possa prescindere dall’attenzione all’«elemento umano su cui fondare la vita e il sapere». Lo seguiamo alla ricerca di una propria voce, pur appartenendo alla sensibilità della sua epoca, sempre interessato all’ascolto e alla composizione di «opere uniche, che non fanno scuola»; ripercorriamo i suoi successi senza dimenticare i momenti più bui, tra cui la condanna da parte del regime nazista che considerava la sua arte come degenerata.

Autoritratto di Goffredo Petrassi è un’opera che si fa apprezzare per il suo interesse storico, ma che si legge con lo stesso godimento di un viaggio sentimentale nella musica del Novecento. È la testimonianza preziosa di un fermento artistico che appare lontano, da cui trarranno molto stimolo e conforto tutti quei lettori che credono ancora che la cultura sia «un rifugio, forse l’unico rifugio per le persone sensibili».

 

(Carla Vasio, Autoritratto di Goffredo Petrassi, Mucchi Editore, 2017, pp. 179, euro 15,00)
Copertina di Gli animali che amiamo di Antoine Volodine

Nella giungla post-esotica
di Antoine Volodine

Gli animali amati e sognati da Antoine Volodine sono quelli che si incontrano al limitare della storia, quando ormai pare sia calato il sipario sull’umana dominazione; sono coloro che mantengono in essere un mondo che si rigenera e langue sulle rovine del post-umano, in un apparente inversione di rotta del presupposto progressista. Di recente pubblicazione in Italia (ottobre 2017), Gli animali che amiamo è uscito per Seuil nel 2006 e si inserisce nel catalogo di 66thand2nd edizioni come ideale prosecuzione della precedente pubblicazione, Il post-esotismo in dieci lezioni, undicesima lezione (febbraio 2017):

«Con il suo insistere sull’aspetto tra l’umano e l’ittico, dei protagonisti, il testo s’apparenta a un’invenzione xenostorica, con in più qualcosa che potrebbe far pensare a una farsa di argomento animalier; anche se, in realtà, alla base di queste sequenze v’è l’espressione di un grande smarrimento piuttosto che un tono prettamente favolistico».

Il post-esotismo di Antonie Volodine in Gli animali che amiamo si declina in allegoria etologica: vi è una traslitterazione della dialettica rivoluzionaria dall’uomo all’animale. La consapevolezza e la rivendicazione politica appartengono qui a un orizzonte differente: non più i ribelli detenuti e martiri che innalzano il loro canto di guerra sulle macerie del turbocapitalismo; i protagonisti di questa raccolta sono animali, appartenenti al mondo animale poco meno dell’uomo, o dell’ombra che dell’umano resta. Sono un elefante, un granchio, delle sirene, gli eredi designati alla supremazia, superstiti assoluti di una surrealtà fatta di lotte arcane e primordiali.

Nasce così il personalissimo bestiario fantapocalittico dell’autore che, unico e molteplice, con i nomi di Lutz Bassmann e Manuela Draeger, si è fatto portavoce del post-esotismo, corrente letteraria, ma soprattutto baluardo di un’idea totalizzante di letteratura. Nel post-esotismo la letteratura è vita, morte e resurrezione: l’oralità e la coralità sono le colonne portanti di una narrazione che si proclama testamento collettivo e globale, una narrazione in cui il lettore viene reso protagonista centrale in quanto testimone e complice della divulgazione del messaggio. Il post-esotismo è una letteratura della responsabilità del lettore di fronte alla pagina: attraverso la narrazione sopravvive all’incubo l’autore, e solo attraverso la narrazione il lettore mantiene vivo il messaggio, con il quale diviene tutt’uno. Le voci plurali che compongono l’universo post-esotico sono quelle di chi c’era o ci sarà, in un passato che è presente e futuro e di nuovo passato, trascendendo e rendendo superflua qualsiasi scansione temporale: ciò che fa Volodine con il post-esotismo è di operare un superamento delle dinamiche erranti dell’universo fantascientifico, ponendo l’oltre come unico territorio cronotopico reale. Non vi sono barriere nel post-esotismo perché autore, personaggi e lettore sono i medesimi nella realtà del testo, fittizia o meno che sia, poiché accomunati tutti da un impegno concreto: la prosecuzione della lotta e la preservazione della memoria.

La narrazione trova, in questo testo, vita e linfa nello sguardo di un’animalità fantastica e terrena: spazzato l’antropocentrismo, restano loro, gli animali, i prosecutori ideali e fattuali delle sovversioni politiche ed esistenziali. La rivoluzione si immerge tra la fitta vegetazione della giungla e negli abissi ultramarini, e mette in scena l’infinita sequela di lotte ed eroismi dei popoli oppressi, ne celebra le gesta, infondendo ai protagonisti della narrazione un senso epico che sconfina nel mito, come nei testi che compongono la Shaggå delle sette regine sirene:

«Alla superficie del fango, la sua sorte ne aveva disgustato più di uno; gli scontenti si avvolgevano il ventre di dinamite per volatilizzarsi poi in questa o in quella sala del Palazzo. Molti nobili figli perirono nella campagna e l’élite fu decimata: la nostra regina, purtuttavia, non ricomparve».

L’animalità che popola il mondo desolato si pone vittoriosa nell’interstizio tra l’uomo e il bestiale: l’animale si fa dunque epigono della rivolta esistenziale, detentore unico di una memoria storica che trasmette mosso da un imperativo morale. La narrazione come esigenza etico-politica si conferma anche in quest’opera il fulcro programmatico della poetica di Volodine; il campo d’azione letterario resta il medesimo di Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, di Angeli minori, di Scrittori, e di Terminus radioso, ma muta lo scenario in cui si insedia: il racconto acquisisce nel regno animale un senso del tragico minuzioso e cangiante, sfumato e al contempo farsesco. Il racconto delle prodezze del sovrano Balbuziar, soggetto ai corsi e ricorsi marini, colloca il dramma sotto il livello del mare, in un contesto da cui non è avulsa la deriva violenta della lotta per il potere.

L’elemento favolistico, apparentemente centrale, è usato come cassa di risonanza, quale inedito supporto, delle categorie ideologiche del post-esotismo; esso è funzionale alla proclamazione diffusa e interspecista del manifesto letterario che compone l’opera di Volodine nella sua prospettiva di totalità: vi sottende un’idea di letteratura d’assalto, militante, che si propone come l’ultimo baluardo di una cultura che si fa urlo di fronte all’aberrante, che marcia imperitura sulle macerie dell’esistente, poiché «il post-esotismo è una letteratura che proviene dall’altrove e incede verso l’altrove».

Il cammino di Wong l’elefante appare partecipare della stessa sorte, incarnando in pieno il senso stesso del post-esotismo, col suo progredire costante e indifferente, diretto verso un logos inesplorato e misterioso; con Wong è la letteratura a inoltrarsi nella foresta:

«Quale che sia la direzione verso cui ci si inoltra, che essa conduca fuori dei muri o, all’inverso, all’interno della voce poetica stessa, ci si scontra con un’assenza di luminosità, il sogno non è altro che subsogno, la barca dell’evasione è inaccessibile e circondata dal fango. Modificare il passato grazie a interventi dell’immaginario non dà accesso a nient’altro che un brancolio senza costrutto; l’avvenire è scomparso, il presente è ormai senza spessore. La parola altro non è che un vago scarto che accompagna un sogno grigio. La parola è morta e non promette di rinascere».

Le cinque intrarcane e le due Shaggås che compongono la raccolta sono pervase da un linguaggio che potrebbe sembrare a prima vista sarcastico: vi è invece una nota ironica che volge a tratti nel tragicomico, nella beffa esplicita dell’eloquio dei potenti, nella rappresentazione linguisticamente pomposa delle microbiche grandiosità. La lingua con cui ci narrano le loro storie Wong e Balbuziar è la lingua della recita, della declamazione, della divulgazione orale: Antoine Volodine fa sorgere e insorgere le sue dichiarazioni d’intenti dai meandri e dagli abissi. Nella ribellione trova l’incanto, e il fantastico si pone come complemento necessario alle esigenze filosofiche della letteratura post-esotica, con la sua carica d’insolente trasmutazione del reale e dell’onirico in un discorso politico letterario complesso e coerente con la riflessione sull’estetica del cataclisma diffuso.

«Le braci delle rivoluzioni hanno smesso di rosseggiare, una sterile fanghiglia ricopre la terra, nessuno ascolta, la barbarie ha trionfato sin nei recessi più profondi della mente: questo è ciò che le sette sequenze della Shaggå immaginano regni all’esterno dei muri».

 

(Antoine Volodine, Gli animali che amiamo, trad. di Anna D’Elia, 66thand2nd, 2017, pp. 177, euro 15)
copertina di cosmotronic su flaneri

Cosmogonia

Cosmo è tornato. Il successore di L’ultima festa, Cosmotronic, era necessario per capire cosa fosse Marco Jacopo Bianchi. Cosmo è un’anomalia in un periodo in cui la questione attorno l’indie/mainstream – dove i nuovi interpreti la stanno delineando, fino quasi a deformarla – sta mettendo in discussione le macro categorie indie/mainstream. Ancora oggi è impossibile tratteggiare un discorso che possa rendere giustizia a cosa stia accadendo alla produzione musicale, in Italia, e alla sua fruizione. Ci siamo dentro in tutto e per tutto, abbiamo bisogno di uscirne fuori per narrarla totalmente. Si capisce sicuramente, invece, che Cosmo sia un’anomalia.

Un’anomalia quasi prevedibile, una necessità. Perché non lo si può pensare completamente fuori dalla querelle indie/mainstream, ital-pop: “Sei la mia città” o “L’ultima festa” sono lì a testimoniarlo. Ma non lo si può neanche immergere completamente – come invece, ad esempio, si è immerso Coez. “Ivrea Bangkok” o “Barbara” non hanno nulla a che vedere con nessuno, da Calcutta a Cremonini a Michelin.

Cosmo è una reazione alla questione indie-mainstream, è in contrasto con tutto, ma allo stesso tempo è dentro a tutto. È un fenomeno intrigante proprio perché sta accadendo oggi come fenomeno Cosmo. In un altro periodo – in un mondo che non ha visto l’avvento di Calcutta – Cosmo non avrebbe avuto l’accezione che ha Cosmo oggi. Vero, probabilmente non avrebbe suonato così. È chiaro e scontato, ma è fondamentale ribadire quanto, a oggi, sia fondamentale il filtro Calcutta. Perché dentro Cosmo c’è Calcutta – come una certa tendenza nel mix scrittura interpretazione, da un punto prettamente vocale è più facile trovare delle analogie con Luca Carboni – ma, soprattutto in Cosmotronic, c’è la contrapposizione a Calcutta. C’è il suo opposto. C’è la complicazione. Dove in Calcutta c’è semplificazione, in Cosmotronic c’è e contemporaneamente non c’è. Ci sono i ritornelli, ma non ci sono. Ci sono le frasi che si fissano in testa come un tormentone («Pizzeria, Pizzeria, Polizia, Polizia», da “Tristan Zarra”, a passaggi simil Vangelis, “Barbara”).

La commistione pop/elettronica non è nuova nel mondo, ma neanche in Italia. Lui, comunque, soprattutto con Cosmotronic, si è spinto sicuramente in là – molto in là – con la techno e la dance (“Attraverso lo specchio”), molto di più rispetto a L’ultima festa, dove la forma canzone riamaneva, nonostante un dose importante di elettronica alla Moderat, un caposaldo. Ciò rende quest’ultimo album molto più duro da metabolizzare. Perché se la prima parte ha degli appigli (anche solo banalmente delle melodie), la seconda parte risulta complessa sia per com’è sia perché suona in quel modo proprio dopo la prima parte. Il paradosso è che, nonostante ci sia una frattura, scorre in maniera sinistramente naturale.

Cosmo è un mistero, ma allo stesso tempo non lo è.  È sicuramente trasversale, camaleontico: può essere assimilabile da un pubblico che apprezza il nuovo ital-pop (“Sei la mia città”), amanti dell’elettro pop di stampo internazionale alla Apparat (“Tutto bene”) e i fan dell’elettro-dance alla Jamie XX (“Ivrea Bangkok”).

Cosmotronic gioca su un equilibrio per cui basterebbe nulla per collassare su sé stesso, risultando un’accozzaglia di idee messe alla rinfusa. Un lavoro infelice. Il rischio c’era: al contrario, viaggia con grande coerenza e coscienza di sé – forse addirittura con troppa, perdendo ogni tanto un po’ di umanità -, stagliandosi sulle produzioni attuali (anche su quelle molto buone come Colapesce).

Unicum nel panorama attuale italiano, Cosmotronic supera globalmente, a livello di intenti e di mire – come Opera – L’ultima festa, ma forse, e qui sta il grande rammarico, gli rimane un po’ dietro se decidiamo di approcciarci di pancia.

(Cosmotronic, Cosmo, Elettro-pop-dance)

Copertina di La ballata di Woody Guthrie

Le ballate della ciotola di polvere

«This machine kills the fascists» era la scritta che campeggiava sulla chitarra di Woody Guthrie, mentre cantava «ho visto la mia gente. Mentre stavano là affamati, io mi domandavo se questo paese fosse fatto per te e per me».

È da poco uscita in Italia per minimum fax la graphic novel La ballata di Woody Guthrie, tradotta da Luigi “Grechi” De Gregori, con prefazione di Francesco De Gregori. L’autore è Nick Hayes, scrittore e illustratore inglese che lavora per The Guardian. Appassionato della musica di Woody Guthrie e autore di tavole politiche per il noto giornale inglese, in questo lavoro mette insieme entrambe le sue passioni. Hayes descrive, infatti, attraverso la vita del cantastorie, la grande depressione del ’29, i mutamenti sociali dell’America di quegli anni e i rivolgimenti climatici che si verificarono negli Stati Uniti in una continua metafora con un presente, colpito nuovamente dalle piaghe della povertà, dell’ingiustizia sociale e dai tragici cambiamenti climatici.

Hayes disegna un mondo dai toni seppia dove il colore diventa ambientazione e contribuisce a raccontare una pervadente desolazione. È un colore che invade tutto, delinea i paesaggi, i visi dei personaggi e le loro sensazioni, come una polvere sottile alla John Fante che si deposita su ogni cosa. Con un tratto marcato e spigoloso l’autore costruisce un universo di persone dai volti fortemente caratterizzati, dai lineamenti decisi e spesso simili tra loro, come facessero parte tutti della stessa famiglia, solcati e incisi in quella stessa polvere che crea il mondo in cui si muovono.

In questo universo si svolge la parte di vita di Woody raccontata da Hayes, che inizia dai ricordi della triste infanzia segnata dalla malattia della madre, la Corea di Huntington, a cui lo stesso Woody è condannato e a causa della quale morirà a soli 55 anni. Vengono, poi, rappresentati i primi passi mossi in un gruppo folk, un matrimonio infelice, un periodo di vagabondaggio e il successo che piano piano ne fece un personaggio conosciuto ma osteggiato per le sue adesioni al partito socialista e comunista.

Quella di Guthrie è una figura mitica dell’America delle protests songs, dei talking blues, della presa di coscienza delle classi lavoratrici e della fine dell’epoca d’oro. Vasta eco ha avuto nella cultura americana contemporanea l’impegno di Guthrie, a partire dalla poetica di Bob Dylan, ma anche di Joan Baez, Bruce Springsteen, Pete Seeger. Woody Guthrie ha indagato quell’americanità che si aggrappava a un passato recente in cui il legame con la terra era ancora viscerale, quando comunità d’immigrati cercavano le proprie radici adattando le loro vite a un continente nuovo e sconfinato. La poetica di Guthrie era prepotentemente segnata da un profondo senso di lotta contro l’ingiustizia sociale, alla quale si opponeva recuperando vecchi suoni popolari su cui costruiva nuovi testi, così che la gente li sentisse più vicini alle proprie radici, alle proprie sensazioni ancestrali.

L’aspetto biografico, in questa graphic novel, diventa secondario, e molti disegni, soprattutto nelle tavole a doppia pagina, sono onirici, poetici e non illustrano passaggi della vita di Woody, piuttosto evocano sensazioni. Hayes è concentrato nella descrizione dell’inadeguatezza di Woody Guthrie che inseguendo un paese che continua a mutare, non riesce ad adattarsi a nessun tipo di vita: né a quella degli hobo (i vagabondi che montavano sui treni merci), né a quella del cantante che gode di un po’ di fama.

Dal punto di vista editoriale, la scelta di Luigi Grechi come traduttore e di Francesco De Gregori come prefatore è ineccepibile. Entrambi, infatti, sono stati influenzati nel loro lavoro dalla poetica di Guthrie e il loro intervento impreziosisce il testo. D’altronde questo non è il libro giusto per leggere una biografia di Guthrie, ma come suggerisce il titolo, è piuttosto una lunga ballata immaginifica sulla vita del cantautore.

La parte poetica è importante, a volte a scapito della linearità del racconto, inoltre, anche nella traduzione c’è una qualche invadenza, a cominciare dal titolo, che nella versione originale è Woody Guthrie and the Dust Bowl Ballads (Woody Guthrie e le ballate della ciotola di polvere) che riprende il titolo del primo album di successo del cantautore. Un’altra pecca della versione italiana è la sovrabbondanza di a capo che interrompono spesso la lettura creando anche visivamente un contrasto con la delicatezza delle immagini. La ballata di Woody Guthrie è, in definitiva, un bel racconto dei primi anni di vita di uno dei più grandi interpreti delle canzoni di protesta, molto ben disegnato, con alcuni picchi di lirismo e alcune tavole splendidamente composte.

 

(Nick Hayes, La ballata di Woody Guthrie, trad. di Luigi De Gregori, minimum fax, 2017, pp. 273, euro 25)

Quando la Francia abbandonò chi credeva in lei

A volte le personalità degli autori, l’abbondante dose di narcisismo, la voglia di autoassoluzione e resa dei conti che affiorano negli scritti autobiografici li rendono poco affidabili, ancora di più se si tratta di autobiografia incastonata in un periodo storico particolarmente tumultuoso. La trilogia storica autobiografica dall’errabondo ungherese di origine ebrea Arthur Koestler (1905-1983), divenuto scrittore di fama internazionale pubblicando in inglese, composta da Freccia nell’azzurro, Schiuma della terra e La scrittura invisibile, scantona queste insidie. Forse proprio la discontinuità delle posizioni ideologiche assunte da Koestler – sionista e comunista, poi anticomunista ma sempre e ovunque inflessibile antifascista – fa di lui un testimone obiettivo nei limiti del possibile, di determinanti fasi della storia europea del secolo scorso, senza concentrare l’attenzione su di sé ma apportando piuttosto riflessioni storico-filosofiche tuttora di grande interesse.

Koestler era un intellettuale molto versatile: professionista della rivoluzione che però confrontava le sue fedi con le loro realizzazioni e sapeva correggersi; scrittore di parole vere, divulgatore scientifico e infine apostolo della parapsicologia, dotato di incredibile tenacia e voglia di vivere che lo hanno soccorso nel capitolo più drammatico della sua sempre avventurosa esistenza, quello raccontato nella Schiuma della terra. Schiuma, ovvero i rifiuti della terra sono considerati nella Francia del 1940 non ancora occupata dalla Wehrmacht e dalla Gestapo gli esuli politici, gli antifascisti, i sopravvissuti che avevano combattuto contro Franco nella Guerra civile spagnola, gli ebrei perseguitati, tutti alla ricerca di riparo nel paese dei Lumi, dietro la linea Maginot creduta invalicabile. Koestler sta lavorando nella quiete della campagna francese a Buio a mezzogiorno, il libro che lo fa antesignano di Orwell e Solženicyn, quando iniziano i rastrellamenti dei profughi di sinistra. «Gli antifascisti erano indubbiamente un gran fastidio in una guerra contro il fascismo. Non avevano bisogno di noi» scrive incredulo e amareggiato. A tappe forzate sarà internato nel campo di concentramento di Vernet dove i prigionieri sono trattati non meglio che nei campi nazisti e sarà liberato mesi dopo solo grazie all’aiuto inglese. Al campo di Vernet fa conoscenza di un certo Mario, l’alias di Leo Valiani, al quale in Schiuma della terra Koestler dedica parole di grande stima e profonda ammirazione, e Valiani sarà il primo a leggere il manoscritto in tedesco di Buio a mezzogiorno. Sono invece strazianti le pagine sui centocinquanta internati delle Brigate internazionali, detenuti in condizioni disumane a Vernet. Koestler viene liberato poco prima dell’invasione tedesca, ma altri duemila – «cinquantamila kg di carne democratica, tutta catalogata, viva, e solo appena danneggiata» – saranno consegnati a Himmler.

La seconda parte del libro è un documentario dettagliato delle condizioni drammatiche e caotiche in cui versava la Francia nell’estate e nell’autunno del 1940, ed è la storia della fuga rocambolesca dello scrittore dalla Francia in Inghilterra, costretto persino ad arruolarsi nella Legione straniera perché non riesce a procurarsi i documenti necessari per poter lasciare il paese.

Il libro è dedicato alla memoria degli amici scrittori di Koestler che si tolsero la vita quando cadde la Francia, fra i quali Walter Benjamin che all’autore regalò metà delle sue sessantadue compresse di sedativo per ogni evenienza, e ingollò le sue quando a Port Bou lo arrestò la Guardia Civil. La premessa al libro testimonia l’integrità di storico dell’autore: «Questo libro fu scritto nel gennaio-marzo del 1941, prima dell’attacco tedesco alla Russia, tuttavia l’autore non vede ragione alcuna di modificare le sue osservazioni sugli effetti psicologici del patto russo-tedesco dell’agosto 1939, o la sua opinione sull’atteggiamento del Partito Comunista in Francia. Approfittare di notizie posteriori per descrivere l’itinerario mentale degli uomini in un determinato periodo è una tentazione comune agli scrittori, alla quale si deve resistere».

Schiuma della terra è una lettura scorrevole, interessante e necessaria per chi ha la voglia e il coraggio di affrontare la Storia che produce episodi drammaticamente controversi.

 

Titolo originale: Scum of the Earth 
Prima edizione italiana: Firenze, Edizioni U, 1941, traduzione di Nadia Conenna.
Edizione attualmente in commercio: Bologna, Il Mulino, 2005, traduzione di Nadia Conenna.
Poster italiano di Tre manifesti a Ebbing Missouri su Flanerí

Un viaggio di dolore nella terra delle promesse mancate

Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un film drammatico (suddiviso in tre atti) che strizza l’occhio, soprattuto nella seconda parte, alla commedia nera, dove i momenti tragicomici sembrano dare respiro, per quanto possibile, a un’atmosfera pregna di angoscia e contraddizioni.

Mildred Hayes (Frances McDormand) è una madre che non riesce a trovare pace. Come potrebbe, d’altronde? Solo sette mesi prima, sua figlia Angela è stata violentata e uccisa e le indagini, fino a questo momento, non hanno portato a niente. Accecata da una rabbia che il tempo non è riuscito in alcun modo a diluire, eppure lucidamente convinta delle proprie ragioni, Mildred decide, una volta raccolti i fondi necessari, di commissionare tre manifesti da affiggere su una strada poco trafficata, a poche miglia dal paese. Tre manifesti che ricalcano delle frasi accusatorie (per la controparte: ‘diffamatorie’) nei confronti delle forze dell’ordine, e nello specifico dello sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelsson), reo, secondo Mildred, di non aver fatto abbastanza per trovare il colpevole.

È da questo spunto, da questi tre manifesti, da questa equivoca sovrapposizione tra vendetta e senso di giustizia, che si snoda una storia che fa capo al passato ma che si allunga, come un’ombra, nel presente.

In un’America provinciale, brutta, sporca, razzista e cattiva (facile il richiamo alle pellicole di Clint Eastwood), si snodano le vicende dei protagonisti, gente comune, disperata e spaesata che potrebbe tranquillamente passeggiare tra le pagine di un racconto di Raymond Carver.

Mildred e la sua furia cieca. Lo sceriffo Willoughby e la malattia che lo sta consumando. L’agente Dixon (uno strepitoso Sam Rockwell, ignorante, violento e xenofobo) e la sua inadeguatezza esistenziale. Sembra che il regista Martin McDonagh abbia voluto fossilizzare, nella sua opera, l’esatto istante in cui ognuno di loro dovrà necessariamente fare i conti con i propri demoni. Sottrarsi al destino, adesso, è impossibile.

Ed è proprio la fatalità un altro tema centrale di Tre manifesti a Ebbing, Missouri: ciò che è successo, ciò che succede, e ciò che succederà, ha il retrogusto dell’inevitabile. In questo senso è curioso il fatto che l’unico personaggio che si fa artefice del proprio destino sia lo sceriffo Willoughby che, anticipando l’ineluttabilità della sorte che gli è stata assegnata, decide di togliersi la vita, non prima, però, di aver scritto tre lettere: una destinata alla moglie (probabilmente il momento più emozionalmente ‘alto’ del film), una destinata a Mildred (nella quale spiega che lui è il primo a dispiacersi del fatto che non sia riuscito nel compito che gli è stato assegnato), e una destinata a Dixon, per il quale spende parole di miele nonostante sottolinei il fatto di quanto sia necessario per il suo sottoposto cambiare atteggiamento, per ritrovare la pace con se stesso.

La morte di Wiloughby, tuttavia, non ha la funzione, filmicamente parlando, di spartiacque. Mildred non arretra di un passo e sembra diventare, anzi, ancora più ingovernabile; Dixon reagisce alla notizia della morte dello sceriffo (probabilmente l’unica persona al mondo per cui prova stima, se non addirittura affetto) picchiando selvaggiamente un ragazzo innocente e venendo sollevato dall’incarico e le indagini, nonostante gli sforzi profusi, non subiscono nessuna svolta decisiva. Tutto rimane immutato, a testimonianza del fatto che la volontà umana non può nulla contro qualcosa di enormemente più grande di lei.

Dopo In Bruges (2008) e 7 psicopatici (2012), il regista e drammaturgo irlandese Martin McDonagh sembra aver fatto un deciso passo in avanti per raggiungere quell’asciuttezza stilistica e quella ricerca di veridicità solo accennata nelle pellicole precedenti. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è innanzitutto un film di scrittura (premio per la miglior sceneggiatura originale alla Mostra del Cinema di Venezia e Golden Globe, fino a questo momento): una scrittura carica, rintracciabile ma mai ridondante; una scrittura che vive sul filo, così come vivono sul filo, in precario equilibrio, i personaggi del film, combattuti tra la voglia di dare un senso alla proprie esistenza e l’incapacità di dare seguito a tale gravoso incarico.

Lo sguardo di McDonagh non condanna, né giudica, ma si limita a osservare. Una regia ‘pulita’, a tratti invisibile, quasi documentaristica, tesa ad accrescere il realismo di ogni sequenza e capace di sbatterci in faccia una quotidianità grigia e incolore, dove violenze e sopraffazioni sono all’ordine del giorno.

(Tre manifesti a Ebbing, Missouri, di Martin McDonagh, 2017, thriller, 115’)