Declinazione con foglie

Persino la libreria di quartiere, ormai, ha una sezione dedicata: inventari, raccolte, albi illustrati, manuali per cercatori d’alberi. Isolati, a meno di un passo dalla manualistica sul giardinaggio, pare costituiscano un’oasi; eppure il fatto stesso che una libreria abbia pensato una zona apposita è sintomo di una tendenza in crescita. Quando si parla di tendenza è sempre difficile stabilire da cosa sia scaturita, e ancora più duro è decretare quale sia l’esatto momento in cui una tendenza muta in fenomeno. Certo è, almeno in questo caso, che le librerie hanno prontamente risposto a un fenomeno che parte da alcune precise scelte editoriali, scelte “di mercato”, verrebbe da dire.

Altrettanto innegabile è poi che le pubblicazioni a tema alberi siano in crescita, almeno a partire dal 2016, anno in cui in Italia è stato dato alle stampe Norwegian Wood (UTET, traduzione di Alessandro Storti), il best seller del narratore e giornalista norvegese Lars Mytting. Mytting ha riacceso l’attenzione sul tema pur scrivendo, apparentemente, un libro che va in direzione contraria: un vero e proprio manuale sul metodo scandinavo per tagliare e accatastare la legna. Eppure, come ha sottolineato Belpoliti recensendolo “la Repubblica”, Mytting offre qualcosa di più profondo di un metodo: parla cioè di gesti esistenziali, quotidiani e rituali in cui è facile riconoscersi anche senza averli mai compiuti. Se Mytting ha segnato l’inizio di un filone, o meglio, se è stato in grado di riportare alla luce e nelle vetrine anche una serie di pubblicazioni precedenti che non avevano avuto sufficiente spazio o visibilità – e che al contrario erano considerate di nicchia, e non pop come adesso – viene  però anche spontaneo chiedersi cosa abbia spinto il lettore a procedere in questo senso, cosa abbia provocato cioè tanta e improvvisa curiosità verso il tema.

Mi viene spontaneo credere che, a guidare il lettore, sia una leggera forma di consapevole illusione e altresì una necessità di controllo. Da un lato quindi la ferma volontà di credere al mito che vede l’uomo in comunione con gli alberi, ancora convinto che sia possibile ritornare a uno stato di natura, al culto animista, all’isolamento dal contesto urbano. E poi, non in forma minore, la volontà di avere ogni cosa a portata di mano, sotto il proprio controllo, come modernità impone: e da qui gli inventari, le catalogazioni, il chiamare ogni cosa per nome così da renderla riconoscibile a un primo sguardo. Di fatto le pubblicazioni sugli alberi hanno permesso che si riaffermasse una poetica del guardare, e che si prestasse nuovamente attenzione allo spazio abitato, alle cose a cui da sempre passiamo accanto con vaga noncuranza. Inoltre l’albero è indissolubilmente legato a un’idea di memoria – quella che si deposita nelle venature dei tronchi a scandire gli anni e il passaggio di un tempo tiranno – e al concetto di radici e di legame profondo con la terra, col suolo, tutto quello che è andato perso quando abbiamo scelto la città. Questo ha a sua volta consentito che venisse forgiato un lessico ad hoc, subito sfruttato nella scelta dei titoli cosicché il lettore fosse in grado di riconoscersi in un preciso vocabolario, a mo’ di bait, e allora la parola albero compare anche sulle copertine di romanzi che nulla hanno a che fare con gli alberi, o che ne trattano ma in maniera solo marginale, forse nella speranza che il lettore decida comunque di abboccare, di lasciarsi ugualmente attrarre da una parola con cui ha oramai tanta familiarità.

Poi ci sono le pubblicazioni che di alberi parlano davvero; non bastano due mani per tenere il conto. Sarà sufficiente dare un’occhiata ai siti di vendita online per farsi un’idea: inserendo alberi come chiave di ricerca i risultati sono 2477. Tra i primi titoli spicca Sedici alberi, romanzo del già citato Lars Mytting, e poi di seguito La vita segreta degli alberi, La saggezza degli alberi, Abbracciare gli alberi, La terapia segreta degli alberi e si potrebbe andare avanti ancora a lungo.

Tra i tanti libri o manuali, tra le formule che invogliano, le promesse di guarigione per mezzo del legno di corteccia, c’è un nome che sembra spiccare e distinguersi: quello di Tiziano Fratus, autore di I giganti silenziosi. Gli alberi monumento delle città d’Italia (Bompiani, 2017),  ma anche del Manuale del perfetto cercatore d’alberi e di Il sussurro degli alberi, che mi colpiscono più degli altri, perché pubblicati rispettivamente da Kowalski e da Ediciclo nel 2013, quindi almeno tre anni prima del boom. Lo contatto poche settimane dopo e ci accordiamo per un’intervista telefonica. Sono di ritorno da una passeggiata in un’area verde di San Giovanni, è una mattina di dicembre e a Roma c’è stranamente un’aria sottile che rende piacevole solo camminare nelle porzioni assolate di marciapiede. Quando alzo la testa, sono in grado di riconoscere soltanto i pini, su quelli non ho dubbi. Al telefono Tiziano Fratus mi racconta come è cominciata, «avevo trent’anni e mi trovavo in California, nel Big Sur – negli stessi luoghi di Kerouac e di Miller – quando ho incontrato le prime sequoie millenarie». Al ritorno da questo viaggio Fratus comprenderà l’importanza di una meditazione a contatto con la natura e, rifacendosi al “minimalismo mistico”, inizia  a condurre una pratica meditativa quotidiana e conia il concetto di Homo Radix, cioè  l’uomo radice, «che vive una stretta connessione con la terra e presta attenzione soprattutto alle radici locali. Ma è anche l’uomo, o la donna, in grado di stringere un rapporto col territorio che si trova ad attraversare quando è in viaggio».

L’Homo Radix non è il solo neologismo coniato da Fratus, l’autore parla anche di dendrosofia, cioè la pratica che unisce storia, botanica e conoscenza degli alberi a una forma di meditazione immersiva, a contatto con l’ambiente naturale, e poi ancora di alberografia, cioè la mappatura e individuazione delle specie presenti in un dato territorio. Quello di Fratus non è quindi un adeguamento al trend editoriale “degli alberi” che ha invaso le librerie – e che oltretutto è stato da lui in qualche modo e involontariamente anticipato – ma è piuttosto un’autentica devozione e dedizione a una pratica che, sebbene trovi la sua forma più manifesta e pubblica nelle proposte editoriali, nelle passeggiate collettive organizzate nei parchi alla scoperta delle specie arboree, conserva ancora il suo seme in una pratica introspettiva e personale, quella che ha permesso all’autore di mettere «radice in un continente compreso tra la carta e la corteccia».

 

(L’immagine è tratta da Pia Valentinis – Mauro Evangelista, Raccontare gli alberi, Rizzoli, 2012, 44 pp., € 24.00)

Copertina di La coscienza di Zeno

Il racconto di una vita

«La vita non è né brutta né bella, ma è originale!» Una chiave di lettura insolita del nostro percorso terreno quella del protagonista di La coscienza di Zeno, dietro la quale si cela un modo di stare al mondo che è la bellezza moderna e la crisi dell’uomo che è in essa, combattuto tra coscienza e fuga dalla complessità che ne deriva nello stare al mondo e che scioglie il dubbio del giudizio nella svolta di un punto di vista che salva tutto e tutti in un’idea che oltrepassa le griglie mentali, l’originalità appunto.

Cosa sia bene e cosa sia male è certamente riduttivo di fronte alla coscienza che, complice Freud e il principio della psicoanalisi, si afferma storicamente, in una dilatazione che è segno di rivoluzione, nei primi del ’900, in quell’arco temporale in cui il romanzo è ambientato, poco prima dello scoppio del primo conflitto mondiale, e in quello in cui l’autore materialmente lo scrive, tra il 1919 e il 1922.

L’incapienza del bene e del male di fronte alla rivoluzione psicoanalitica che amplia il terreno di manifestazione dell’individuo fino a ricomprendere l’inconscio che parla di sé o del Sé, oltre la struttura più o meno portante dell’Io, non è tale da indurci ad assolvere Zeno Cosini dalle continue giustificazioni che lui fornisce alle sue azioni, ma è certamente la chiave di accesso ironica al suo pensiero in molti dei passaggi cruciali del romanzo.

Nella prefazione è racchiuso il senso della sua pubblicazione o, meglio, di quella del suo diario in cui si traduce il romanzo medesimo: una ripicca del suo analista alla decisione del nostro Zeno di abbandonare il percorso con lui intrapreso.

Il resto, a parte il finale, che è un tentativo di ripresa e, poi, conclusione di quella via, è il racconto di una vita, è la storia di chi si impone all’attenzione del lettore per l’incapacità cosciente di essere – e, dunque, per la volontà di non essere – parte attiva degli eventi che lo coinvolgono, è il desiderio frustrato e il piacere di rincorrere ciò che manca, è l’adulazione, la manipolazione dell’altro in funzione del bisogno di compiacimento e di identità che nasce dall’accoglimento, seppure fallace, perché fondato su una bugia, da parte dell’altro che ci giudica e rende parte di sé allontanandoci dalla solitudine e dalla paura che l’uomo moderno vive più drammaticamente che in passato, in una fragilità che è anche dei giorni nostri.

Il preambolo è l’incipit del diario, laddove viene tracciato il senso stesso della vita, un’origine ingenua e pulita destinata a sporcarsi e perire nell’esito inevitabile dell’esistenza concepita come una malattia mortale, laddove nel finale l’autore profetizza, e quasi si augura, un’esplosione enorme che, nel generare una catastrofe dalle dimensioni sproporzionate, si fa unica possibile catarsi del mondo moderno.

Oltre il preambolo, i capitoli che suggellano gli eventi fondamentali di un’esistenza, in ciascuno dei quali tornano l’incapacità di scegliere, l’accomodamento al pensiero e giudizio altrui, la distorsione del reale in funzione di un sogno che deve animare il percorso terreno per non incorrere nell’unica verità che è celata dietro i capitoli e i loro eventi, che la vita ha un suo senso oltre l’azione che segue lo stato di coscienza, nello sbrogliarsi di una matassa che coinvolge l’umanità intera e che, senza la sincerità degli affetti, diviene puro esercizio mentale, ma anche nell’evidenza dei vuoti con cui facciamo i conti, a patto di scegliere di non raccontarcela come fa Zeno Cosini.

La vicenda del fumo e dell’ultima sigaretta è certamente la più nota, in quello spazio in cui il protagonista racconta dei vani tentativi di uscire da una dipendenza che si fa cronica fino ad accompagnarlo per tutta l’esistenza, in una negazione del piacere che si fa piacere proprio perché negato, proibito, sancito come male dall’autorità, che sia paterna o medica poco importa se non per la complicità, nel primo caso, di una madre che, concedendo il sorriso di condivisione, al furto di sigari compiuto dal figlio a danno del marito, al piccolo Zeno, lo rende parte di sé in una dimensione che lo vedrà cercare nelle donne quel sorriso e la prosecuzione confortante del materno perduto irrimediabilmente con la fine del candore dell’infanzia.

A ben guardare, la vicenda del fumo introduce due passaggi fondamentali della storia del protagonista: non solo la paura della malattia che si spegne solo a fine romanzo con la traduzione della paura nella realtà che si produce sul fisico, diventando malattia fisica, con il merito di avere un suo percorso incontrollabile dalla mente e da quel flusso ininterrotto dei pensieri che è il suo diario.

Attenzione, però: non paura che impedisce l’azione che realizza il rischio che la paura diventi realtà, ma paura che amplifica il piacere in quel rischio e nella produzione di un meccanismo che è schiavitù in apparenza, ma è scelta in verità, scelta di stare nel limbo fino al prossimo segnale.

E il limbo è anche il codice in cui narrare il rapporto con le donne, l’altro passaggio, già nell’episodio del fumo, in cui a esse si accenna, come parti, in un’incompletezza affermata da Zeno che è giustificazione del suo ricercare oltre, oltre la donna amata sin dal primo incontro, Ada, bella in una fisicità che è nei riccioli e nello sguardo, nella severità e nella fuga, oltre quella sposata, Augusta, sorella di Ada, madre dei figli che Zeno avrà con lei e donna dai modi materni e accoglienti in quella prosecuzione di cui abbiamo già detto, oltre Alberta, l’altra sorella, con cui condividere una complicità intellettuale che è un altro approccio possibile al femminile, oltre Carla, la ragazza che incontrerà per merito di un amico in fin di vita e rispetto a cui sarà fraterno amico, poi figura paterna e, infine, amante combattuto tra il rimorso verso la moglie e le giustificazioni, fondate su necessità e bisogni, suoi e di lei, per la sua malefatta, quasi un’irrimediabile conclusione.

E l’Io cede alle fughe, ai bisogni, a tutte le storie che costruiscono una realtà parallela in cui raccontarsi la possibile via di arricchimento con la costituzione di un’associazione commerciale con il cognato, il marito di Ada, destinata a fallire, non solo per un’incompetenza che diventa posizione vacillante di fronte al sogno di soldi che induce in tentazione in strade incerte, ma anche per inesperienza, assenza di calcolo, perché cosa conta il calcolo se la vita vera è quella raccontata?

Cosa conta l’odio verso il cognato se la farsa è quella che lo vede amico e custode dei suoi segreti, incluso quello che gli consentirà di capire che il suo suicidio non era voluto?

Cosa contano il bisogno di essere, pur nell’assenza di un’identità cui segua il taglio delle posizioni in cui si articola l’Io nelle scelte quotidiane, se il limbo produce benessere, seppure raccontato, accettazione, posto sicuro nel mondo dei presunti affetti che ci costruiamo?

Questo libro lo lessi negli anni del liceo e ne sorrisi molto. Oggi, ne colgo i tratti disperati, camuffati da un’ironica e, per certi versi, salvifica intelligenza celata nell’uso illuminante di un lessico equilibrato e ricco, che copre la tempesta emotiva persino nella tragedia della morte del padre, che nello schiaffo rivolto al figlio che precede la fine lo suggella inetto, incapace di vivere nella normalità, in una diversità di adattamento alla vita che si fa alterigia e superbia e che non cede neanche alla fine alla rassegnazione dell’inutilità di tutto.

 

(Italo Svevo, La coscienza di Zeno, 1923)
copertina di "Mio padre la rivoluzione" di Davide Orecchio

E se invece

Diciamolo subito, Mio padre la rivoluzione di Davide Orecchio (minimum fax, 2017) è un libro eterogeneo in cui si affiancano storie impossibili a fatti reali, citazioni accademiche a brani di canzoni. Un caleidoscopio di suggestioni con un filo che le lega tutte: l’ottobre russo, le sue idee, i suoi protagonisti, i suoi sogni e le sue distorsioni.

Si parla di Rivoluzione, e magari si pensa di cominciare dal 1917: primo errore, è il ’56 l’anno di apertura del libro, quel ’56 in cui Budapest veniva invasa dai carri armati sovietici.

Orecchio è un abile dissimulatore, capace di instradarti in una via per poi sorprenderti facendoti scoprire che la strada per Mosca non è tracciata lungo una vasta pianura, ma attraverso uno scollinamento continuo. E allora, per trovare risposta a quelle domande che leggendo mi si formavano in mente, è stato necessario incontrare l’autore, e di porgliele, quelle domande.

 

Mi piacerebbe cominciare con qualcosa di immediatamente percepibile: perché la rivoluzione che dà il titolo al tuo libro è declinata al maschile ed è persino padre?

Perché c’è senz’altro un gioco sui generi, uno spunto per mischiare anche quel tipo di carte, come le molte che si mescolano in Mio padre la rivoluzione. Ma c’è anche una ragione più profonda, che riguarda mio padre: se devo identificare il comunismo, e l’evento che lo innesca in tutto il mondo, con una figura genitoriale, devo farlo con quella paterna. È una figura che racconto nel capitolo Il mondo è un’arancia coi vermi dentro, in cui si parla di un reportage siciliano di mio padre del 1945. Ho scelto di inserirlo nel libro anche in virtù di sorta di istinto conoscitivo presente già in Città distrutte (Gaffi, 2012), tramite l’alter ego di mio padre: Pietro Migliorisi. Io sono nel bel mezzo di uno studio su di lui, nel senso che voglio sviluppare ancora il racconto su Migliorisi. Vedi, il percorso biografico di mio padre si incolla quasi perfettamente al secolo scorso: nasce nel 1915, l’anno in cui l’Italia entra in guerra, e aderisce al comunismo soltanto dopo aver fatto la resistenza, ossia dopo il passaggio nel fascismo nel quale lui nasce e cresce. Stavo lavorando su questo quando è cominciato il progetto di Mio padre la rivoluzione, che potremmo quasi definire collaterale, svolto contemporaneamente, ma che nasce successivamente al lavoro su Migliorisi. Perciò doveva esserci dentro per forza. Non poteva essere mia madre la rivoluzione perché tutta questa parte della mia archeologia familiare la riconduco a lui.

 

Il suo è un percorso che accomuna molti italiani. In tanti infatti hanno aderito in gioventù al fascismo, magari anche perché affascinati dal suo vigorismo, e se ne sono allontanati quando ha mostrato il suo vero volto. Non è allora un caso che gli eventi italiani raccontati nel libro siano più vicini agli anni della Seconda guerra mondiale che non a quelli della Rivoluzione russa.

Sì, per quanto riguarda il comunismo italiano sono più interessato alla generazione successiva a quella dei fondatori; alla generazione che non è soltanto quella di mio padre, ma che è quella che effettivamente si libera dal fascismo. Quelle generazioni furono fasciste nel senso che ci nacquero, furono cresciute e allevate nel fascismo. Secondo me la grande forza di quella generazione è stata quella di rinunciare a quel padre, il regime, e seguire un percorso di orfanezza e orfanità, rinunciando a quel padre e trovandone un altro attraverso la Resistenza e poi il Partito comunista. La generazione che effettua questa transizione, magari aderisce alla lotta partigiana anche in nome di Stalin e non di valori democratici liberali, ma ha consentito la transizione verso la democrazia. Mi interessava tra l’altro moltissimo trovare un modo, in questo libro, di avere capitoli diversi rispetto al 1917, per vedere come il comunismo sia arrivato fino a noi, riguardando tre se non quattro generazioni.

 

Mio padre la rivoluzione è però innanzitutto una controstoria: usi la fonte, quindi l’aderenza storica, ma la affianchi all’invenzione narrativa. Quali scelte hai fatto e quanto è stato difficile gestire tutto ciò sapendo di dovere da una parte non tradire il racconto storico e d’altra parte non ingannare più di tanto il lettore? Qual è stata la tua bussola?

Innanzitutto devo dire che in chiusura di tutti i capitoli è presente una nota finale. Non è un atto di pedanteria né di vanteria delle conoscenze, ma è proprio un atto dovuto nei confronti di chi legge e nei confronti delle fonti che ho usato, travisato o narrativizzato. Quella nota serve per spiegare quali sono i documenti; le testimonianze storiche grazie alle quali si può ricostruire, se non la verità storica, almeno la versione storiografica degli eventi. Quello è il primo puntello e lo avevo ben chiaro quando mi sono seduto per scrivere la prima riga. Lì emerge completamente il piano saggistico. Naturalmente ognuno dei capitoli ha avuto delle difficoltà specifiche e ci sono stati quelli più estremi, controfattuali e di immaginazione, come per esempio quello su Trockij vivo nel 1956, oppure quello in cui Stalin e Hitler sono congiunti in una sola persona.

 

Parliamo di Trockij nel ’56. Quello è un anno periodizzante nella storia del comunismo, i carri armati sovietici invadono l’Ungheria.

Infatti l’idea era proprio quella di immaginare cosa avrebbe detto e fatto Trockij in un anno in cui, se vuoi, il comunismo perde la sua ultima possibilità di autoriforma in tutta l’area del controllo sovietico. A ben vedere, però, l’esito del racconto è una controfattualità che conferma la storia, quindi non un’invenzione rispetto all’accaduto, perché se pure il rivoluzionario è vivo, dal racconto emerge comunque un fallimento. Trockij va addirittura in cortocircuito e racconta il ’56 come se fosse il ’17. Una controfattualità al servizio della storia e al servizio di un giudizio sulla storia. In questo senso, la fantasia fa come un passo indietro e diviene uno strumento per comprendere meglio gli avvenimenti: attraverso l’invenzione puoi formarti un’idea del 1956.

 

Avevi fatto un cenno a Hitler e Stalin uniti in un personaggio unico: Iosif Adolf Vissarionovič. Con lui corri un rischio ancora più grande, quello di accomunare due dittature che però avevano origini e ascendenze molto diverse: il nazismo non ha mai manifestato uno slancio di liberazione dei popoli come quello, poi tradito, del comunismo.

Non è che consideri comunismo e nazismo sullo stesso piano storico, morale o etico; peraltro io faccio anche un passo al lato e parlo non del comunismo in generale ma dello stalinismo. È però vero che i due regimi, se osservati nel decennio degli anni Trenta, hanno moltissimi aspetti in comune, e non li scopro io. Posto quindi che le intenzioni di partenza del comunismo non fossero quelle (e anzi, c’è la mortificazione di un progetto di riscatto dell’umanità) nel regime staliniano troviamo aspetti in comune con quello nazista. Quello che da un lato erano gli ebrei dall’altro lato erano i kulaki o il nemico di classe. Poi ci sono certamente grandissime differenze, e quelle le conosciamo.

 

Gestire un personaggio del genere sarebbe potuta però essere un’esperienza fallimentare, non sentivi addosso una forte pressione?

La sentivo, di timore ne avevo, ma volevo vedere come sarebbe venuto. E poi mi sono sempre confrontato con l’editor, Alessandro Gazoia, chiedendogli esplicitamente di dirmi se quel capitolo non fosse andato nella direzione giusta. Mi era difficile scrivere un libro sulla Rivoluzione non affrontando questo tema dello stalinismo, e la cosa migliore che mi è venuta di fare, per descrivere delle analogie fra i due regimi, è stata quella di creare un personaggio che fosse uno e due. Poi non arriviamo agli estremismi di Ernst Nolte o della Historikerstreit degli anni Ottanta per la quale il nazismo era una reazione al comunismo: queste cose non mi interessano e infatti non ne ho neanche parlato; ma è innegabile che ci sono molti aspetti comuni, specialmente nella articolazione della repressione. E anche qui occorre fare un distinguo per quanto riguarda la soluzione finale e quello che è accaduto nei campi di concentramento nazisti, ma l’approccio alla repressione e alla pulizia etnica è molto simile, e questo è sorprendente. Da un lato si eliminano prima i comunisti, poi gli omosessuali, poi gli zingari, poi con l’eutanasia i disabili e si crea una macchina statale che pensa e progetta tutto ciò sin dalla metà degli anni Trenta; in Unione sovietica – in un impero che eredita la multiculturalità e la multietnicità dell’impero zarista – va avanti un simile progetto di pulizia etnica, se non di sterminio, delle minoranze. Centinaia di migliaia se non milioni di persone vengono uccise. E le vittime non sono soltanto i così detti contadini ricchi, i kulaki, ma sono anche le minoranze etniche dell’impero sovietico. Questo accade in quel decennio lì tra Mosca e Berlino.

 

Ed è quello che tu hai utilizzato come miccia per creare un personaggio unico.

Sì, e c’era anche una tensione morale: uno dei motivi principali di questo lavoro è il dimostrare che anche attraverso la controfattualità, o con l’ipotesi su quello che non è accaduto, si può ragionare su come le cose sarebbero potute andare diversamente. La Russia di Stalin, per esempio: l’Unione sovietica di Stalin è esattamente ciò che non doveva accadere. Quindi non puoi non parlare dello stalinismo se parli del ’17.

 

Non solo storia politica o grandi eventi mondiali, ma anche una piccola controstoria della musica: mi riferisco all’incontro tra (di nuovo lui) Trockij e un musicista di nome Zimmerman.

Quello è il capitolo dedicato a Bob Dylan che non diventa Bon Dylan. Tutto nasce da un racconto già apparso in Dylan Skyline (Nutrimenti, 2015), una raccolta a cui hanno partecipato diversi autori, ma in quel racconto non c’era la parte trockista.

 

I due – nella realtà – condividono una ascendenza familiare simile.

Esatto, c’è una radice comune, quella dell’ebraismo dell’impero zarista: Trockij (Bronštein è il vero nome) era figlio di quello che oggi chiameremmo un manager agrario. La famiglia viveva in Ucraina e gestiva una grande fattoria agricola; anche gli Zimmerman venivano dall’Ucraina. Partendo da questa slacciata radice dell’ebraismo ucraino ho giocato su un incontro tra di loro. È storia nota che il giovane Dylan – attratto più dal blues e dal nascente rock and roll – si imbatte nella musica di Woody Guthrie e diventa un cantante folk. Tutto succede anche grazie a un viaggio iniziatico che Dylan compie per andare a trovare un Woody Guthrie già malato: la leggenda narra che gli entra nella stanza dell’ospedale, tira fuori la chitarra, suona per lui e lo conquista. Da lì parte la strada che porta Dylan fino al Nobel. Io ho invece immaginato che quell’episodio, che è un momento fondamentale nella vita di Bob Dylan, non si risolva come si è risolto, perché Guthrie è molto malato e la scintilla non scatta. Zimmerman se ne torna a casa senza l’approvazione del suo idolo musicale, ma gli offro una seconda occasione: sarebbe stato destinato a continuare a suonare da solo nella sua stanza, come dal suo nome è intuibile, e invece l’incontro con Trockij rappresenta un secondo punto di svolta che gli consente di diventare un folksinger famoso e di vincere, anche nella fantasia, il premio Nobel.

 

Non sfuggirà, a chi maneggia il libro, che sulla copertina c’è scritto “storie”, non “racconti” o altro, solo storie: perché?

È una cosa che ricordo bene. Da un lato c’è un problema intrinseco alle cose che scrivo io: se guardi i miei testi è difficile definirli. Certo c’è la forma breve, ma è sufficiente la forma breve per avere dei racconti? No, la misura non è soltanto nella quantità, perciò ho una ritrosia a definirli racconti. Ne parlavo con Giorgio Gianotto, allora direttore editoriale di minimum fax, e ci chiedevamo: come definirli? Mi ponevo un problema di onestà nei confronti del lettore: dargli la definizione più esatta possibile di quello che sta per prendere in mano. E quindi abbiamo pensato che storie fosse la cosa più onesta da dire. Altrimenti sarebbero stati dei racconti, che pure in parte sono, ma sono fatti con un metodo diverso, perché basati su fonti storiografiche. Storie è davvero forse il modo più corretto per indicare tutto, anche perché se uno legge sulla copertina “racconti”, poi si aspetta un racconto vero e proprio.

 

Ma a metà libro sono presenti quaranta pagine di citazioni riguardanti la Rivoluzione, e sono tutte vere. Sembra quasi una chiave di volta, come se tu disegnassi un arco di storia e fantasia con al centro questa cosa che le tiene insieme.

Sono le mura perimetrali della casa. Non a tutti è piaciuta questa parte centrale; alcuni l’hanno sì molto apprezzata, ma altri hanno detto che si interrompe la favola narrativa, la finzione, con questo blocco. Però è una scelta che rivendico, e con essa un po’ continuo a rispondere alla domanda iniziale sul come unire invenzione e rispetto della storia: questo capitolo di citazioni è stato uno degli strumenti fondamentali per non perdere l’orientamento mentre me ne andavo a fare le follie immaginarie e controfattuali. Un’àncora che non mi facesse levitare. Inoltre ci tenevo a fornire al lettore, in qualche luogo del libro, senza nessuna finzione se non quella del collage cronologico, la voce dei protagonisti e degli storici.

 

Il Breve corso di storia del Partito comunista è stato il libro ufficiale di storia del comunismo dato alle stampe in Unione sovietica nel 1938, ne conosciamo una sola edizione, ma tu ne presenti molte altre: è un esempio di utilizzo di una fonte e di invenzione su una fonte.

Quell’unica edizione del Breve corso ebbe infatti una vita travagliata. L’avvio del progetto nei primi anni Trenta sancisce la perdita di libertà e autonomia degli studi storici in Unione sovietica. Stalin chiede che si inizi a lavorare su un manuale che racconti la versione ufficiale della storia del comunismo. Il libro impiega molti anni per essere pubblicato, perché tutti i protagonisti che sarebbero dovuti esservi dentro ogni tanto cadono in disgrazia, perciò questo breve corso di storia viene scritto e riscritto infinite volte da una commissione di storici chiamata a redigerlo. Quindi del libro, anche se noi ne conosciamo una sola edizione, sono esistite revisioni infinite. Io ho immaginato molte edizioni successive anche perché mi interessava soprattutto far percepire al lettore l’aspetto mitologico e automitizzante dell’oligarchia comunista sulla storia stessa del comunismo. Le edizioni successive che ho inventato sono utili per presentare varie letture degli eventi e delle idee possibili di comunismo, che corrispondono anche alla percezione che molti di noi hanno avuto del comunismo stesso, perché noi lo vediamo e giudichiamo diversamente a seconda della fase storica che si vive. Utilizzare il breve corso mi serviva per trasmettere questo cambiamento. Tutto concorreva a sottolineare che nessuno come i militanti comunisti ha conosciuto male la storia del comunismo, e questa è una responsabilità propria delle oligarchie, a causa delle quali non avevi soltanto Trockij fuori dai manuali, ma tutta una serie di tendenze, di comunismi altri possibili e mai realizzati, di personaggi, leader e movimenti, sistematicamente espunti nella versione ortodossa del comunismo del 1938. Il Breve corso racconta non una storia, ma una leggenda, che è quanto di più lontano dalla storia come realmente è stata. Anzi, racconta qualcosa che è più di una semplice leggenda, perché diventa mito, e il mito si muove tra verità e menzogna. Questo è stato, per tanti militanti, il comunismo: un mito.

 

 

Ringrazio Davide Orecchio di questa lunga chiacchierata e, indossando il giaccone, mi viene da chiedergli quanta nostalgia ci sia di quel mito nel suo libro. Mi risponde che no, il suo non è un libro nostalgico, ma un libro in cui c’è l’interesse a riscattare qualcosa successa cento anni fa, trovando dei punti di contatto e di dialogo senza mai rimuovere quello che è accaduto allora e negli anni successivi.

 

(Davide Orecchio, Mio padre la rivoluzione, minimum fax, 2017, pp. 313, euro 18)

Sulla cannibalizzazione della musica contemporanea

Il paradosso dell’esperienza è che essa viene pienamente percepita soltanto a debita distanza. Quanto più è tangibile, quanto più è immersiva, tanto più è condannata alla cristallizzata rarefazione di un presente continuo, in cui i cambiamenti avvengono sotto gli occhi di tutti e proprio per questo non vengono intesi e razionalizzati.
Non è diverso per la musica attuale, che genera un diffuso scetticismo, nel migliore dei casi una languida simpatia. I nostalgici piangono la disfatta della grande-musica-di-una-volta, che ad ogni mito che muore prefigura l’incombente prospettiva in cui non ci sarà più nessuno a testimoniare che quel glorioso passato sia effettivamente esistito. Ma mentre contemplano inorriditi il parricidio compiuto, mentre si abbandonano al solipsistico lamento per una vagheggiata età dell’oro, dimenticano che, sì, era il 1980 e i Buggles cantavano “Video Killed the Radiostar”.

L’ossessiva ridondanza sonora nei negozi, nei mezzi di trasporto, nelle sale d’attesa, nei luoghi pubblici è un dato apparentemente inerte che segnala tendenze più vaste e poco rassicuranti. La repentina evoluzione musicale degli ultimi cinquant’anni si contraddistingue per la pressione esercitata non tanto da nuove esigenze artistiche, quanto da trasformazioni extra-artistiche che hanno avuto nel mondo musicale una risonanza senza precedenti. Se parlare di distanza qualitativa tra ieri e oggi è in parte opinabile, inquadrando questo scarto in un’ottica non estetica ma strutturale, si deve prendere atto dell’odierno uso degradante della musica, che finisce per intaccarne anche lo spessore artistico.
Negli anni Sessanta la musica era l’emblema della controcultura hippy e delle contestazioni giovanili contro la società capitalistica. Lo strumento privilegiato di un insopito dionisiaco che voleva reimporsi su un apollineo ridotto a vacuo scheletro.
Oggi l’emblema è soltanto un prodotto in serie, surrogato irriconoscibile che pervade la quotidianità come la frastornante colonna sonora di un film scadente.

I talent show – le cui conseguenze artistiche ne annullano tutti gli eventuali benefici – sono la declinazione paradigmatica del sensazionalismo mediatico. L’attuale mercato musicale è perlopiù fondato su modelli costruiti a tavolino, a cui molti aspiranti si adeguano nella promessa di un facile successo. In Italia i musicisti di professione si distribuiscono in tre fasce: i musicisti tutelati dipendenti a tempo indeterminato (1-2%, fondazioni, orchestra Rai); i musicisti autonomi con grande potere contrattuale (3-4%, i cosiddetti big) e la fetta più consistente (95%) di musicisti professionisti intermittenti, senza versamenti di contributi previdenziali e privi di tutele di sorta, con un potere contrattuale pressoché nullo – dati tratti da Musica indipendente in Italia di Chiara Caporicci (Zona). In queste statistiche non sono poi compresi tutti coloro implicati nel vero e proprio lavoro in nero, ai quali è imposto di agire nella piena irregolarità. La precarietà di questi ultimi settori è il sintomo di una collettiva disaffezione all’Arte, che in ambito musicale si traduce in feticismo per una produzione industriale e in miope investimento del tutto asservito al profitto e dunque orientato soltanto verso ciò che dà ritorni immediati.

Dai locali di live music alle case discografiche, dal piccolo gestore di un music club all’affermato produttore di una major, a tutti i livelli una scarsa lungimiranza ha azionato un meccanismo in moto perpetuo in cui l’instabile condizione dei musicisti e la squalificazione dell’offerta musicale si alimentano a vicenda. L’involuzione della musica a merce come tante ha innescato un processo di selezione naturale che favorisce chi, sedotto da una rapida ascesa, si conforma a modelli preconfezionati, elevandosi per poco, e presto ricadendo nell’oblio. È il frenetico avvicendarsi di esordienti meteorici ad attestare il tirannico funzionamento di uno schema la cui efficacia si misura in termini meramente economici.

La trasformazione strutturale del sistema-musica, complicando le dinamiche di produzione, ha frantumato l’organica fisionomia del musicista in una gamma di profili professionali con specifiche abilità e anche specifici compromessi. Concertisti, orchestrali, tournisti, compositori. Ma non solo. Gli insegnanti, che spesso scelgono questa via più come ripiego che per autentica vocazione, col conseguente abbassamento degli standard di insegnamento e l’assenza di una vera e propria educazione alla Musica. E ancora, chi si esibisce ai matrimoni e ad eventi privati, a cui di solito non è richiesta particolare bravura ma la capacità sufficiente ad accompagnare il rituale sociale – e a volte neanche quella (come testimonia l’uso del playback).

Nel cinema si assiste ultimamente al moltiplicarsi di lungometraggi classificabili come reboot, remake, prequel e sequel. Tale fenomeno non è solo un trend commerciale, ma piuttosto la spia di una più estesa tendenza culturale. Allo stesso modo nella musica, come negli altri campi artistici, il continuo richiamo al passato è figlio della crisi, testimonia l’assenza di stimoli che invece di estinguersi alla radice preferisce avvalersi di strumenti di facile presa.
D’altra parte lo stesso pubblico è assuefatto al tal punto a questa malnutrizione intellettuale da avere un gusto sempre meno sensibile alla vivacità di sapori che pure talvolta cerca di emergere dall’insipienza. E così il sistema-musica, come uno stomaco sfinito da un prolungato digiuno, comincia a scorticare le pareti gastriche e a fagocitare sé stesso.
Senza contare che forse – per autodifesa – conviene non chiedersi in questa sede se questa stagnante inerzia mentale sia l’effetto o la causa delle più recenti proposte culturali.

Ma in questo scenario desolante c’è un settore che la logica consumistico-produttiva non ha ancora raggiunto. Accanto alla musica di vetrina e alle grosse cifre, una voce diversa cerca di farsi sentire. È una voce dal basso, è una voce rabbiosa, un coro struggente che inneggia alla Musica.
Il cambiamento delle modalità di fruizione, le accresciute possibilità di autopromozione e di produzione alternativa – cui il Web ha contribuito in modo rilevante, basti pensare al crowdfunding – permettono di giungere direttamente agli utenti senza intermediari e dunque di non appoggiarsi necessariamente ai circuiti della grande distribuzione, per sfuggire così alle esigenze di mercato.

Una rapsodica porzione di artisti cerca faticosamente di liberarsi dalla soffocante eredità del passato, senza insofferenze futuristiche ma ancorandovisi nella misura in cui essa può fungere da punto di partenza per direzioni originali. Questa lenta reinvenzione tende a sperimentare combinazioni inedite, affrancandosi da rigide suddivisioni in generi, senza mirare a una loro sparizione ma piuttosto a una loro evoluzione. Il proliferare di sottogeneri e di riletture intrageneriche rivela una filiazione col passato che in certi casi si configura non come inflazionata imitazione ma come vera imitatio-aemulatio.
Tuttavia il settore tende talora ad assomigliare a una successione di microcosmi che comunicano poco fra loro, e non si dimostra ancora del tutto capace di guidare un’autentica rinascita musicale.

Secondo la definizione classica, la musica indipendente comprende tutto ciò che non rientra nella produzione delle major. Ma uscendo da letture rigide e insidiosamente binarie, la vera Indipendenza riguarda la proprietà intellettuale sul proprio lavoro, la capacità di conservare autonomia di scelta su cosa fare e su come farlo. In questo senso, rientrano nella categoria anche coloro che dovrebbero rimanerne canonicamente esclusi. Più che una cifra stilistica dunque, o una modalità di produzione, il termine indipendente designa un orientamento, un aperto rifiuto da parte di chi non intende piegarsi alle logiche di massa.
In che misura la musica indipendente si identifica con l’indie?

I nuovi mezzi della contemporaneità, in particolare il Web, sono intrinsecamente ossimorici. L’iperdemocraticità che li caratterizza è sì un espediente per aggirare il modello culturale della società postmoderna – disciplinare, globalizzata e livellatrice. Ma è anche una delle vie più brevi per essere riassorbiti nelle suddette dinamiche. Il passaggio da un’arte auratica a un’arte democratica ha reso pericolosamente labile il confine tra promozione e viralità, tra il genio e il ridicolo.
In questa zona grigia, l’indie è tra i sintomi più evidenti dell’attuale cortocircuito artistico. Per sua natura genere di frontiera, in bilico tra la repulsione per ciò che lo circonda e il desiderio di diffondersi per modificare lo status quo, l’indie si sta oggi trasformando nel nuovo mainstream. Fa il verso al pop fin quasi a confondersi con esso (si dovrebbe riflettere adeguatamente sulla presenza di Levante o di Manuel Agnelli nella giuria di X- Factor). Ammaliato dalla spettacolarizzazione, si diluisce in un alternative rock e in un cantautorato giovanile ai limiti del già sentito, del trito e ritrito.
E intanto sembra essere stata consacrata definitivamente una nuova trinità anche in ambito musicale: standardizzazione dei prodotti, ricezioni distratte, asservimento al commercio.

Al momento il panorama musicale è alla ricerca di una propria stabilità, teso tra il peso di ciò che è stato e l’ansia di una stagnazione irreversibile. A fronte di tutto il discorso finora sostenuto, verrebbe da chiudere con l’epitaffica affermazione di Adorno:
«La musica leggera e tutta la musica destinata al consumo […] sembra che sia direttamente complementare all’ammutolirsi dell’uomo, all’estinguersi del linguaggio inteso come espressione, all’incapacità di comunicazione. Essa alberga nelle brecce del silenzio che si aprono tra gli uomini deformati dall’ansia, dalla routine e dalla cieca obbedienza […] Questa musica viene percepita solo come uno sfondo sonoro: se nessuno più è in grado di parlare realmente, nessuno è nemmeno più in grado di ascoltare […]. La potenza del banale si è estesa sulla società nel suo insieme.»
Ma qualcosa – di imprecisata natura e consistenza – lo impedisce.

Infinito numero di ostacoli

«La critica deplora che nei tre romanzi di Kafka manchino molti capitoli intermedi, ma riconosce che cotesti capitoli non sono imprescindibili. Dal canto mio, io penso che quella deplorazione sta a indicare una disconoscenza essenziale dell’arte di Kafka». Lo dice Borges, e Borges, come si sa, ha sempre ragione. Non c’è autore che più di Kafka abbia fatto dell’incompiutezza un proprio tratto distintivo. I tre romanzi di cui parla Borges sono Il Processo e Il Castello, tutti sostanzialmente incompleti. America è il primo della serie, e in questo caso anche decidere il titolo è un atto arbitrario: l’autore chiamava il romanzo Il Fuochista, come il primo capitolo, l’unico pubblicato prima della sua morte, o Der Verschollene, lo scomparso, ma secondo Max Brod si riferiva ad esso anche definendolo «il mio romanzo americano».

Prima di morire Kafka chiese a Brod di distruggere la sua opera omnia. È evidente che questo genere di richieste vengono fatte solo ad amici intimi, talmente intimi da capire che per rispettare la reale volontà del moribondo sarà necessario eludere la sua richiesta esplicita. Nel 1927 Brod pubblica, tra gli altri, Amerika, con quella k che è stata recuperata in una recente e fortunata traduzione statunitense.

Ho già buttato giù decine di righe e non ho ancora risposta alla domanda fondamentale: perché America è incompiuto? Torniamo a Borges: «il pathos di quei romanzi “incompleti” nasce precisamente dal numero infinito di ostacoli che fermano e tornano a fermare i loro identici eroi. Kafka non li completò perché era fondamentale che fossero interminabili. Ricordate il primo e il più evidente dei paradossi di Zenone? Il movimento è impossibile giacché prima di arrivare al punto B dovremo attraversare il punto intermedio C, ma prima di arrivare a C sarà necessario attraversare il punto intermedio D, ma prima di arrivare a D… Il greco non enumera tutti i punti. Franz Kafka non ha motivo di enumerare tutte le vicissitudini. Ci basti capire che esse sono infinite come l’Inferno». Il tema di fondo di America è il tempo, e in particolare la sua manifestazione più agghiacciante: l’infinito. Questo al di là delle intenzioni dell’autore. Nei progetti dello scrittore praghese, infatti, America doveva essere un romanzo lieto: secondo Max Brod «Kafka si rendeva conto, e discorrendo lo faceva notare spesso, che questo romanzo è più gioioso e più “luminoso” di tutte le altre sue opere».

Effettivamente, soprattutto nella parte iniziale, si nota un tono baldanzoso e vivace, unico nella produzione kafkiana, nonostante il sorprendente Questo è Kafka? di Reiner Stach ci abbia fatto conoscere un Franz addirittura burlone. America narra le vicissitudini di Karl Rossmann, un giovane studente di ingegneria che, dopo aver messo incinta una cuoca di qualche anno più grande, viene costretto dai genitori all’esilio negli Stati Uniti: a questo punto il romanzo diventa rocambolesco, come quei libri di avventure che Kafka amava tanto. Sebbene ciò che accade sia piuttosto prosaico, ci rendiamo conto che quella in cui Karl sprofonda come un esploratore destinato a perdersi (il disperso, Der Verschollene) è una giungla fatta di dettagli: a pensarci bene, siamo tornati ai punti infiniti di Zenone. L’America, da questo punto di vista, è lo scenario perfetto. Non tanto quella reale, quanto quella immaginata da Kafka, che non l’aveva mai visitata; caotica e multicolore, febbrile e incapace di fermarsi, spietata, sotto certi aspetti, e kafkiana ante litteram. A rendere lieve la narrazione è l’ingenua positività con cui Karl affronta questa giungla. Non possiamo non fare il tifo per lui, il suo ottimismo è contagioso. Viene vessato e degradato, ma accoglie tutto senza perdere l’entusiasmo. «Passa di asservimento in asservimento» scrive Roberto Calasso «di umiliazione in umiliazione, si perde e si disperde sempre più nel mondo, ma portando con sé […] una capacità illesa di percepire ciò che gli accade con quella nettezza da decalcomania che è già un preannuncio di felicità». L’ottimismo di Karl – la sua «ingenuità epica», come dice Calasso – è indistruttibile, e indistruttibile non è una parola di poco conto nel vocabolario kafkiano. I personaggi di Kafka sono irrimediabilmente soli. L’unica cosa che può unire gli uomini tra loro è il profondo senso di indistruttibilità che li accomuna, di cui il dio delle religioni tradizionali è una riuscita metafora. Non illudetevi che questo possa rendere Kafka più speranzoso.

Harold Bloom è molto chiaro: «non è affatto speranzoso; come disse una volta a Max Brod, vi è molta speranza per Dio, ma non per noi». Eppure quel qualcosa di intoccabile che resiste intonso alle mareggiate dell’animo deve essere sembrato esaltante anche a Kafka: «un giorno un colpo mi raggiungerà, un colpo veramente distruttivo, e allora tutto, tutte queste confusioni, questa nostalgia, questa ignoranza, questo tutto… questo credere di sapere e questo mai sapere finiranno. Eppure io desidero vivere, non mi importa come». È un passaggio dei diari, ma con un pizzico di bonomia in più potrebbero diventare parole di Karl Rossmann. Il desiderio di vivere, la volontà di andare avanti, o di illudersi di farlo, nell’incubo concreto di un infinito tempo presente: questo è l’indistruttibile.


È singolare che il moderno maestro dei paradossi fosse convinto di vivere nella versione tangibile del paradosso più antico, quello di Zenone. America declina quel paradosso in innumerevoli versioni. Il traffico newyorchese è un’eloquente metafora del tempo, «il frammento di un grande cerchio che non sarebbe stato possibile arrestare senza conoscere tutte le forze che lo tenevano in movimento». E conoscerle è impossibile, anche se Karl ci prova. Inciampando negli eventi, Rossmann finisce prigioniero in casa di Brunelda, obesa ex cantante che sembra la personificazione dell’inedia. L’appartamento è quello di un’accumulatrice seriale: oggetti, abiti, stoffe, cibo e polvere ovunque. Impossibile raccapezzarsi. Quando Brunelda, flemmatica e imperiosa, ordina a Karl di cercarle il profumo, l’impresa appare proibitiva: «nei suoi cassetti trovò soltanto vecchi romanzi inglesi, riviste e spartiti, ed erano tutti così stracolmi di roba, che una volta aperti non si riusciva più a chiuderli». La vischiosità delle cose diventa un impaccio cronologico.

La lotta disperata di Rossmann con la realtà e con il tempo (che forse sono la stessa cosa) sembra avere una felice soluzione in quello che Kafka avrebbe concepito come l’ultimo capitolo del romanzo, «il teatro di Oklahoma» (il che farebbe di America un racconto compiuto ma incompleto, perché mancante della parte centrale). «Per alcuni», scrive Calasso «è l’unica apparizione della felicità in Kafka». A rischio di sembrare arrogante, non sono d’accordo con questi esegeti. Le pagine finali di America suscitano una rara inquietudine. Il teatro naturale di Oklahoma è un baraccone circense dall’estensione sconfinata, in cui tutti sono benvenuti, ma solo se rispettano scadenze perentorie e irragionevoli, superando prove dall’aspetto ordalico: «“Non potrebbe entrare lei nell’ippodromo e chiedere dove si viene assunti?”. “Sì”, disse Karl, “ma dovrei attraversare il podio passando fra gli angeli”».

Nel teatro di Oklahoma sono tutti felici di una felicità un po’ ottusa, trascinati come bestie verso un luogo imprecisato, assunti per svolgere un lavoro poco chiaro in un’impresa dalle finalità oscure. Il teatro recluta per reclutare, come certe sette i cui membri hanno l’unico scopo di farne parte. L’allegria dei neoassunti è artificiale e pericolante. Chissà che Kafka, nello sforzo di concludere il suo romanzo lieto, non si sia reso conto di saper scrivere solo romanzi kafkiani: il suo stile è talmente netto che neppure lui sarebbe mai stato in grado di tradirlo. Volevate un finale allegro? Eccovi un epilogo sospeso sul baratro, è tutto ciò che possiamo offrirvi.

Dev’essere stata una sconfitta, per Franz, e allo stesso tempo un’illuminazione. La sfibrante battaglia tra lo scrittore e la realtà che gli sfugge: scrivere è sempre un atto disperato. Palesemente inferiore al proprio compito, lo scrittore lavora l’avversario ai fianchi, sfrutta le finte, le allusioni e i paradossi, invece di mirare al bersaglio grosso. Le parole sono un’arma spuntata. Quando Rossmann, pianista mediocre, accetta di suonare un pezzo per la bella Klara il suo calvario somiglia a quella dell’autore: «si sentiva nascere dentro un tormento che si prolungava oltre la fine della canzone, cercava un’altra fine e non riusciva a trovarla. “Non so proprio suonare”, disse Karl quando ebbe terminato, e guardò Klara con le lacrime agli occhi».

Cercare una fine e non trovarla, non trovarla affatto. In una delle sue celebri missive Kafka si chiede: «Come sarà mai nata l’idea che gli uomini possono mettersi in contatto tra loro attraverso le lettere? A una creatura umana distante si può pensare e si può afferrare una creatura umana vicina, tutto il resto sorpassa le forze umane. Scrivere lettere significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione, ma vengono bevuti dai fantasmi durante il tragitto». Il concetto è lo stesso. Volete sapere come va a finire America? Chiedete ai fantasmi.

Poster del film l’ora più buia su Flanerí

Gli eroi si vedono anche al buio

È un Gary Oldman straordinario a rendere L’ora più buia un film memorabile. Tra gli attori più versatili e talentuosi del cinema degli ultimi trent’anni, capace di alternarsi soprattutto in ruoli da comprimario e antagonista, Oldman ha trovato nei larghi panni di Winston Churchill il costume migliore per contenere tutto il suo incredibile eclettismo.

È il 1940, la Francia sta capitolando sotto l’avanzata nazista e il Regno Unito sembra sempre più l’ultimo baluardo contro l’assoluto dominio tedesco. Dopo che il primo ministro Neville Chamberlain viene costretto alle dimissioni per la cattiva gestione dei rapporti con la Germania (atteggiamento troppo morbido), il re Giorgio VI decide di affidare la guida del paese a Winston Churchill. Nei primi giorni del suo mandato, il nuovo capo del governo si troverà a dover decidere come contrastare la minaccia nazista, se al tavolo della diplomazia o sul campo di battaglia.

Il regista britannico Joe Wright è un grande narratore di storie. Nella sua carriera è andato da Jane Austen (Orgoglio e pregiudizio, 2005) a Lev Tolstoij (Anna Karenina, 2012), passando per le origini di Peter Pan (Pan) e un classico contemporaneo come Espiazione di Ian McEwan. Il suo sguardo rivolto alla letteratura ha sempre riservato un posto speciale per la storia, in particolare per quella inglese.

Con Espiazione aveva girato una scena memorabile per complessità tecnica sulla spiaggia di Dunkerque, prima che diventasse Dunkirk in tutto il mondo con il film di Christopher Nolan. Sette anni dopo ritorna a quel momento storico con un film che può essere definito, per il contesto narrativo, il gemello del capolavoro di Nolan. Tanto Dunkirk era concentrato sulla spiaggia francese e la sua evacuazione, tanto L’ora più buia si sofferma sulle stanze in cui viene decisa l’operazione Dynamo.

L’ora più buia  si alimenta della grandezza incontenibile di Gary Oldman, eccessivo e intemperante come il Winston Churchill che interpreta. L’approccio teatrale al cinema di Wright, che aveva trovato in Anna Karenina la sua espressione più evidente, lascia campo libero alla recitazione di Oldman, alla magniloquenza dei discorsi, alla durezza dei confronti. La sceneggiatura di Anthony McCarten (La teoria del tutto) pesca dai documenti d’epoca, dai discorsi parlamentari, dalle frasi memorabili di Churchill. Fedele al titolo del film, la fotografia di Bruno Delbonnel (che ha lavorato con Tim Burton, Alexander Sokurov e i fratelli Coen), scolpisce il buio con i corpi degli attori che lo attraversano in cerca di luce.

Su tutti, nel film come nella storia, si staglia Winston Churchill, gigante dormiente chiamato a proteggere il regno e il mondo, antipatico a tutti, lontano da tutti, eppure l’unico che si assume la responsabilità di capire cosa sia giusto fare.

Le figure storiche sono sempre affascinanti e ambigue, a seconda di come si decida di rappresentarle. L’ora più buia non si fa problemi a mostrare Churchill come un personaggio sgradevole, tendente all’alcolismo, responsabile di una serie di fallimenti politici e militari non trascurabili nella storia britannica fino al 1940. Non è il classico salvatore della patria senza macchia e senza paura. È un aristocratico lontano dal popolo, trincerato nelle sue convinzioni e chiuso a ogni forma di confronto. Ma nel buio ogni luce è una speranza e alcune sono una salvezza.

Tenendo a bada i rischi della retorica, Wright si affida a Gary Oldman per far spiccare il volo al suo film. Come il Churchill che interpreta, Oldman si impossessa del film sin dal suo ingresso in scena. Lo divora con un’ingordigia recitativa che lascia al resto del cast poche briciole. È un’interpretazione totale.

 

(L’ora più buia, di Joe Wright, 2017, drammatico, 114’)

Copertina di "Teoria della classe disagiata" di Raffaele Alberto Ventura

Teoria della prosa disagiata

Mi ero inizialmente tenuto lontano da Teoria della classe disagiata (minimum fax, 2017) di Raffaele Alberto Ventura perché, a una rapida ricognizione, avevo notato la totale assenza di note e bibliografia, elementi che per un saggio a sfondo economico-esistenziale dovrebbero essere invece o un requisito minimo, o all’opposto una scelta di rottura. Ma nel secondo caso, questa scelta andrebbe motivata nel testo stesso, persino esibita con sfrontatezza – a fronte soprattutto dell’ipercitazionismo.

In ogni caso, incuriosito dalla sequela di elogi, non ultimo quello autorevole di Tiziano Scarpa su Primo Amore, sono andato a vedere se oltre la mia ortodossia metodologica brillasse una stella in grado di orientare un’intera generazione, mostrando nel disagiato cielo una qualche stella polare.

Ho trovato un testo più estetizzante che teorico, più divulgativo che didascalico, più poetico che argomentativo. Dove per “poetico” intendo il motivare le scelte linguistiche dall’interno, modellandole su sensazioni raffinate nell’eloquio. Altrimenti avremmo dei dati contestualizzati, avremmo la delimitazione chiara e netta di un campo di osservazione, una metodologia dichiarata; avremmo delle tesi enunciate poi passate al vaglio, e lo stile cercherebbe di aderire a un’impalcatura di pensiero per farle emergere il più nitide possibile al lettore. Insomma, avremmo ampie tracce di realtà empirica.

Invece già nella premessa si notano tratti stilistici ricorrenti che, per l’appunto, connotano il testo come poetico. Diventa dunque interessante evidenziarli, muovendo così dalle periferie delle scelte stilistiche al cuore dell’opera.

Il primo tratto è la dissimulazione degli enunciati, ottenuta di solito col ricorso a interrogative, a costrutti ipotetici e dubitativi, con il condizionale e il congiuntivo al posto dell’indicativo. Quando accade, l’effetto è quello di far muovere il lettore in una parvenza di concetti, che affascinano ancor prima di provare a convincere. Prendiamo la premessa (p. 7), vera e propria captatio benevolentiae:

«Questo libro inizia da me, come dire che inizia da noi. Inizia con un lamento che è forse il lamento di tutta una generazione, o forse di una singola classe in seno a questa generazione: noi non siamo stati preparati per questa vita agra, ma per un’altra meravigliosa. Il problema è che quella vita non esiste. Non è tragico, non è comico? Qualcuno dice che siamo stati educati a trasgredire i limiti, qualcun altro che i limiti bisogna conoscerli e rispettarli. La nostra tragedia, dico io, è che entro quei limiti non ci stiamo più. È come la storia di Auguste Langlois, avete presente?» [Corsivi miei, anche nelle successive citazioni, ndr.]

C’è un io che si presenta a un pubblico indefinito, con cui è accomunato da una stessa sorte; il tono è empatico e allocutorio – la prima persona plurale è ricorrente nel testo. Chi parla non sembra un saggista, o uno studioso, che di solito delimita con spirito geometrico ciò di cui andrà a trattare, tanto più che alla fine della premessa chi parla si pone addirittura in contrapposizione con queste categorie:

«Chiedo comprensione agli specialisti – di sociologia, di economia, di storia, di critica letteraria, di flosofa… – che vorranno rimproverarmi l’invasione del loro territorio protetto: le risposte alle mie domande nei loro libri non le ho trovate, e ho dovuto andarle a cercare da solo».

Abbiamo una maschera linguistica che sembra dunque quella del poeta. Un poeta ispirato dalle molte letture, e che si rivolge a una platea – come il pubblico di un teatro. Come ogni poeta predilige l’indeterminatezza, che suona più piacevole e non richiede approcci analitici o razionali; il poeta inoltre predilige la possibilità di tradurre i concetti astratti in immagini e suggestioni. Sempre nella premessa i sei capitoli sono per esempio chiamati “movimenti” – termine che rimanda alle parti di una sinfonia.

Un altro tratto stilistico è la generalizzazione dei concetti, o la loro riproposizione variata. L’effetto è di occultare le differenze particolari degli elementi trattati o le eventuali contraddizioni di pensiero. Una prima spia linguistica è l’ambivalente riferirsi a più riprese a uno scenario ora “tragico”, ora “comico” ora “tragicomico”: ovvio che un medesimo scenario non può essere acriticamente definito in tre modi diversi. La stessa “classe disagiata” che dà il titolo al libro, è chiamata con diverse espressioni – tra cui “classe media”, “classi subalterne”, “ceto medio”, ed è così definita (pp. 16-17):

«Il concetto di classe disagiata che propongo include un ampio spettro di casi umani, tutti caratterizzati dall’esperienza disforica della mobilità discendente […] In tutti si produce quello sfasamento tra l’identità sociale percepita e le risorse disponibili che caratterizza la classe disagiata».

Dalla lunga elencazione, presentata stavolta con clinico tono denigratorio («ampio spettro di casi umani») si individua una fascia sociale di nazionalità imprecisata in cui, di base, può rientrare chiunque, tranne un Lapo Elkann o un mendicante. Addirittura a pag. 205 si cita, come figura che “incarna” la «rabbia feroce di chi non trova il posto che gli è stato promesso nella società», John Rambo, paragonando la sua storia di reduce al «destino di un ricercatore in fisica che torna a vivere in Italia».

Il nostro poeta parla poi nel libro di globalizzazione, sistema capitalistico e mondo occidentale, e in molti casi desumiamo che lo scenario di riferimento è quello italiano; tuttavia non mancano menzioni al mondo arabo o alla Cina e a del conflitto economico con gli Usa. Talvolta si parla della generazione tra il 1978 e il 1999 – i Millenials o la Generazione Y. Quanto a ciò di cui il libro parla, troviamo più dichiarazioni:

«Lo scopo di questo libro è appunto ritrovare questa dimensione rimossa per capire la crisi che stiamo vivendo. […] Questo scritto vorrebbe essere un’autocritica impietosa ma si lascia volentieri consumare da una vena di malinconia. […] Nasce come atto di accusa ma suona spesso come un’arringa difensiva. Sulla sua strada prova a decostruire il ruolo delle istituzioni laiche che continuiamo a venerare. (p. 9)

[…] voglio descrivere la condizione di quella larga parte del ceto medio che nell’arco di una generazione è passata da classe agiata, secondo la definizione di Thorstein Veblen, a classe disagiata: ovvero troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare». (p. 11)

«Questo libro vuole essere, come minimo, un archivio di fonti e riferimenti da esplorare. […] L’argomento di questo libro consiste proprio nell’esaminare le disfunzioni di una società quasi interamente popolata da emulatori di Lucien de Rubempré». (p. 29)

Il terzo tratto stilistico è l’ipercitazionismo, che in Teoria della classe disagiata vede un alternarsi di opere letterarie, economiche e sociologiche, con una continua serie di scambi e rimandi, talvolta con lunghe digressioni – seppure interessanti, come nel caso del teatro di Goldoni. Questa difformità di generi, assorbita all’interno del testo, così come il vasto ed eterogeneo eloquio che scandiscono, fa apparire autorevole l’emittente, e quindi affidabile. Ciò impressiona nella misura in cui non si hanno strumenti di decodifica – i letterati hanno minori strumenti per decodificare i testi economici, gli economisti hanno minori strumenti per decodificare i testi letterari. Funzionali a questo effetto risultano dunque l’assenza di note, bibliografia e dati contestualizzati, che avrebbero offerto uno sguardo esterno all’esperienza di lettura del testo vero e proprio, interrompendo la suggestività dell’esperienza estetica offerta dalla lettura.

Ma saltare da un ambito di sapere a un altro significa anche cambiare ordine epistemologico, abituando il lettore a questo continuum: la letteratura, benché non aliena dalla realtà empirica, si muove in un patrimonio codificato di simboli e topoi. Detto più banalmente: il lupo delle favole non è il lupo degli incubi ricorrenti di cui magari parliamo a un terapista, e certo non è utile a comprendere sul piano etologico il lupo comune. Non che siano mondi separati e incompatibili, altrimenti non esisterebbero approcci interdisciplinari, ma è qui che la metodologia fa la differenza, e «leggendo l’economia come fosse letteratura, la letteratura come fosse economia», a ben guardare, è un chiasmo.

In Teoria della classe disagiata questa dissimulazione di metodo contribuisce a plasmare una doppia cornice. La prima, storica ed economica, delinea uno scenario apocalittico, riassumibile in Keynes è morto, siamo fottuti, noi della classe disagiata siamo destinati a una fine rovinosa. Siamo dunque in uno spazio esterno totalizzante, oppressivo e senza via di scampo. Entro questa cornice si trova la seconda, che tematizza la condizione dell’individuo – disagiato – sul piano psichico, con rilevante ricorso a termini clinici, talvolta metaforizzati (la «disforia di classe»), talvolta accompagnate da toni consolatori o assolutori («Non è colpa nostra: ci hanno programmati così, ci hanno cresciuti come signori».). Siamo dunque in uno spazio più interno, dove il poeta ci ha lungamente spiegato che i nostri eventuali strumenti di decodifica critica, acquisiti attraverso l’istruzione, non sono altro che «beni posizionali»: niente più di uno status symbol o di un errore d’investimento.

Attraverso questi tratti stilistici dissimulanti, notiamo che la maschera linguistica prima individuata – il suggestivo e afflitto poeta – ne nasconde un’altra, che entra in azione con più efficacia proprio grazie all’abbassamento di una soglia razionale o critica. Lo vediamo in alcuni passaggi dove troviamo la versione elegante e in punta di piedi di stereotipi o retoriche violente.

Abbiamo zingari che non si vogliono integrare:

«Pare che i rom siano i discendenti di un’antica casta di artisti che lavoravano per i sovrani dell’India. E sebbene siano passati secoli dalla loro epoca gloriosa molti di loro continuano a impuntarsi, rifiutando l’assimilazione per restare fedeli alla loro aristocrazia dello spirito. Piuttosto di accettare le conseguenze del declassamento e piegarsi alla ragione economica dei popoli che li ospitano, loro preferiscono starsene nelle loro baracche a vivere come signori decaduti. E questa è forse un’immagine del nostro destino». (p. 122)

Abbiamo giovani fannulloni che non hanno voglia di sporcarsi le mani:

«Periodicamente un politico incauto lancia una sparata sui giovani fannulloni, così scatenando il subbuglio di mille code di paglia che manifestano il proprio attaccamento allo status acquisito per mezzo degli investimenti formativi: «Ho sette lauree, vacci tu a raccogliere i pomodori!» Non ci si può non porre, allora, la questione della disoccupazione volontaria: non è forse la classe disagiata stessa a rifiutare certi lavori, troppo umili e faticosi per lei?» (p. 181)

Abbiamo la colpevolizzazione allusiva di un ceto intellettuale:

«Fa sempre un certo effetto quando si elencano i nomi dei grandi austriaci e tedeschi della prima metà del secolo passato e si misura la prosperità culturale di quel mondo che avrebbe prodotto – talvolta collaborando, più spesso subendo – l’orrore nazista. Un esercito di registi, pittori, scrittori, drammaturghi, poeti, giuristi, filosofi, storici, sociologi, teologi, musicisti, economisti e scienziati; una concentrazione di eccellenze forse mai vista nell’intera storia dell’umanità, da Fritz Lang a Ernst Lubitsch, da Kurt Schwitters a Otto Dix, da Thomas Mann a Robert Musil, da Bertolt Brecht a Gottfried Benn, da Ludwig Wittgenstein a Theodor Adorno, da Hans Kelsen ad Hannah Arendt, da Erich Auerbach a Martin Buber, da Gershom Scholem a Karl Barth, da Richard Strauss a Schönberg, da Wernher von Braun ad Albert Einstein, da Joseph Schumpeter a Friedrich von Hayek eccetera. Tra questi contiamo qualche suicida ma soprattutto diversi emigrati che trovarono negli Stati Uniti d’America (ma anche in Israele o nel Regno Unito) una terra d’adozione. Invece di chiedersi come sia stato possibile che una civiltà così raffinata abbia prodotto il nazismo, dovremmo chiederci se una simile abbondanza di capitale culturale non sia il sintomo di quello stesso squilibrio che ha messo in moto il meccanismo infernale del Terzo Reich». (pp. 216-217)

Questo passo presenta varie omissioni e riduzionismi. L’espatrio o la fuga per evitare carcere, torture, internamento diventa «trovare una terra d’adozione»; chi si salva è definito «emigrato». La persecuzione, se va male, diventa «qualche suicidio»; è citato un «esercito» di nomi, di cui, curiosamente, non fanno parte quegli intellettuali che finirono in un campo di concentramento, e lì morirono – o forse ci sono, ma sotto un tappeto linguistico («più spesso subendo – l’orrore nazista», «eccetera»). Scompare qualunque cornice legata alle concause che portarono al Terzo Reich. Solo per citarne alcune: la debolezza delle istituzioni democratiche, il disastroso dopoguerra con la Germania economicamente in ginocchio, il terrore anticomunista, gli interessi degli industriali che progressivamente trovarono conveniente sostenere l’ascesa del fascismo, l’antisemitismo e il clima ostile che creava attorno a idee e persone. Come se la vita politica di un paese fosse un tavolo dove gli intellettuali (il «capitale culturale») si siedono con altri esponenti, e se la giocano ad armi pari. Anzi, con mani migliori e più potere, visto che la Germania dell’epoca era una «civiltà così raffinata». E, ancora una volta, il concetto portante è alluso, passa nella comoda e in apparente inoffensiva veste di dubbio.

Infine, per tornare ai giorni nostri, abbiamo i giovani che si lamentano a pancia piena, quando c’è chi sta peggio di loro:

«Ci vediamo nella parte degli oppressi, ma forse non siamo altro che degli oppressori falliti. Rivendichiamo dei diritti, ma non ci accorgiamo che sono dei privilegi. Militiamo a sinistra, ma il nostro partito è quello dello status quo». (p. 38)

Quest’ultimo caso è interessante proprio prendendo in esame come vero e certo il suo enunciato. Se vale il principio, sul piano sociale, del tu forse sei oppressore (fallito) di chi sta peggio di te allora sotto la classe disagiata esiste per l’appunto un’altra classe – chiamiamola classe disperata, che sta peggio. E quindi i disagiati sono oppressori anche sul piano psichico, non dovrebbero nemmeno lamentarsi del loro essere disagiati; diamine, i disperati almeno non rimuovono la loro condizione, non si possono permettere il lusso dell’autoinganno. Ma siamo sicuri che nella piramide della società dei consumi capitalista non esista una classe ancora più oppressa di quella disperata, talmente oppressa che nemmeno il vocabolario riesce a esprimere efficacemente la sua condizione, ma che di sicuro lungo questa catena è oppressa dai disperati e dai disagiati? Certo avrebbero più diritto di tutti a ribellarsi, ma di che mezzi potrebbero disporre?

La stessa distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo che fonda buona parte del discorso di tipo economico, al di là delle argomentazioni ad verecundiam, all’atto pratico pone delle problematiche tutt’altro che neutre o “disagiate”. Se i medici sono un lavoro improduttivo (ossia uno spreco di risorse), come dobbiamo considerare i malati? Coerenza vorrebbe in base al loro lavoro, e allora il malato che svolge un lavoro produttivo ha più diritto a essere curato. Ma a prendere in blocco questo schema, dovremmo sterminare tutti i pazienti incurabili – ossia i malati terminali, che non potranno più svolgere nessun tipo di lavoro. Si poteva andare fino in fondo, se non altro per il gusto della provocazione, del paradosso, lungo il canone della satira, no?

Ma se a parlare nel testo è una sola voce – l’autore stesso – allora duplicità e dissimulazione sono i veri tratti della maschera linguistica, e quella del poeta è solo un travestimento. Come potremmo definire allora l’ambigua maschera che caratterizza questa prosa disagiata? La prima ipotesi è che si tratti di una maschera comica: l’unico attore in scena adotta quegli strumenti e quei saperi che bolla come inutili, superflui, e lo fa perché vuole curare il pubblico, che è simile a lui, farne emergere “il rimosso”. Una specie di pazzo talentuoso che recita il ruolo dello psicoterapeuta, e che naturalmente ha atteggiamenti dissociati e contraddittori – da una parte è comprensivo, dall’altra offende e denigra; da una parte è dotto, dall’altra è approssimativo o grossolano. La seconda è che si tratti di un imbonitore che ha bisogno di occultare il suo scopo, e di sembrare qualcos’altro rispetto a ciò che è, per raggiungerlo.

A conti fatti, nell’impossibilità di sciogliere il dubbio, buon senso suggerisce di diffidare di entrambe le maschere – un po’ come se avessimo a che fare con un trollatore sofisticatissimo.

Suona come difesa a posteriori traballante parlare di Teoria della classe disagiata in termini di pamphlet, come a giustificare quelle che, altrimenti, potrebbero essere additate come debolezze: casualmente, sul sito dell’editore non è usata la parola “pamphlet” nella scheda dedicata a Teoria della classe disagiata. Senza contare che nel libro sono elaborati scritti disseminati nel corso degli anni, tra cui una prima versione dello stesso; non sorge dalla contingenza esterna, o da un impeto frontale. Ma, a parte ciò, come dire, sul piano testuale è del pamphlet la veemenza, la brevità della sferragliata semantica, l’entrata a gamba tesa; i caricatori al posto dei “movimenti”, l’oltraggio esplicito che non chiede alcun permesso, la falsificazione senza ritegno. Chi parla in un pamphlet fa vibrare i vetri della stanza di chi legge; tra l’utile e il dilettevole sceglie l’incendiare; se scaglia il sasso rivendica la mano, serrando le dita attorno al medio slanciato; pure i libri scaglia, invece di citarli; e quando ha vicino il bersaglio gli salta addosso e lo massacra dileggiandolo.

In Teoria della classe disagiata troviamo invece dell’arguzia, battute di spirito piazzate là dove è sicuro l’effetto. E troviamo quella modica quantità di ironia che, unita ai tratti dissimulanti, garantisce di fronte alle critiche un comodo campionario di exit strategy – “è ironico, è una provocazione! Non sta a pag. x, ma si desume dalla citazione indiretta in fondo a pag. x! È metametametasatira, possibile che non si capisca? Hai mai letto Tizio, Caio, Sempronio? Il fatto che si critichi questa cosa dimostra la sua fondatezza” eccetera. Senza dunque fornire chiavi di decifratura tra “commedia” e “tragedia”, e palleggiando con la nostra attenzione fra entrambe, l’autore ci infila nel bel mezzo di un carnevale cui non eravamo stati esplicitamente invitati, e alle nostre domande sul perché non abbia avvertito sul tema della festa, ci risponde: “Che sia forse uno scherzo?”, magari ridacchiando soddisfatto tra sé.

 

(Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, minimum fax, 2017, pp. 262, euro 16)

Copertina di “Libro dei fulmini”

NEI SOTTERRANEI DI ROMA ALLA RICERCA DI SE STESSI

Il giovane Matteo Trevisani (classe 1986) esordisce con un’opera spiazzante intitolata Libro dei fulmini e pubblicata per i tipi di Atlantide, casa editrice romana raffinatissima sia per la scelta del catalogo che per l’estrema ricercatezza nel confezionamento dell’oggetto-libro – basta dare un’occhiata ai prezzi sulle quarte di copertina per rendersene conto. Eppure – segno che la qualità paga ancora – il libro di Trevisani si vende molto bene – «andiamo verso la terza ristampa», mi confida – e non era scontato. In uno stile che alterna il registro colloquiale a quello poetico – spesso nella stessa frase –, il realismo e l’onirismo, vi si racconta – in prima persona – la storia di Matteo, della sua “morte” e della sua risalita dal regno dell’Averno, che si sostanzia nel viaggio di questo antieroe nei sotterranei invisibili di una Roma magica, misteriosa e simbolista alla ricerca di se stesso e del senso della vita.

 

Un po’ auto-fiction, un po’ romanzo di formazione, un po’ fiaba epica, un po’ guida turistica (sotterranea) alla Augias, un po’ romanzo storico-esoterico: Libro dei fulmini è un oggetto non identificato. Come lo definiresti?

Qualcuno lo ha definito un romanzo “iniziatico” e credo che questa sia la definizione migliore, in almeno due sensi: da una parte è il racconto di un uomo che cerca il significato delle cose che gli succedono attraverso l’accesso a livelli di consapevolezza sempre più alti, e dall’altra è un esordio, dunque esso stesso un’iniziazione: la mia. Poi certo, è anche tutte le altre cose: è un libro che si può usare anche come guida, quasi tutti i posti che descrivo sono tuttora visitabili, e un piccolo manuale di storia dell’esoterismo (benché ovviamente incompleto).

 

Perché hai scelto proprio Roma – e i suoi sotterranei – come simbolo della città che unisce l’ancestrale e il terreno? Il mondo dei vivi e quello dei morti? Pensi che ne rappresenti l’esempio migliore? Se sì, perché?

Non sono stato io a sceglierla, ma il contrario, che poi è esattamente quello che succede a Matteo, il protagonista del libro. Vivo a Roma da dodici anni, ma mi sono accorto fino a qualche tempo fa di non averla mai amata. Era casa, quello sì. A Roma c’è una sensazione di familiarità con le cose che scoppia subito e che ti accoglie e ti fagocita. Poi per caso ho iniziato ad abbassare lo sguardo, a chiedermi cosa ci fosse sotto quei palazzi del centro, agli scantinati obliati di certe chiese intorno al Circo Massimo e da lì è stata una scoperta esponenziale: ogni posto ne sottintendeva un altro, ogni epigrafe un mito, ogni museo una collezione che non si poteva più visitare. Così, dopo aver visto la lastra del fulmine ai Capitolini ho pensato che dietro l’esercizio di quel rito ci fosse la chiave del passaggio tra quello che sta sopra e quello che sta sotto, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. In questo senso Roma, con tutto quello che nasconde, è il posto perfetto per fare in modo che questo possa accadere.

 

Come nel tuo caso – sei nato a San Benedetto –, Roma è stata meravigliosamente evocata da artisti non romani. Pensi che sia importante avere un occhio vergine per stupirsi di fronte alle sue bellezze e ai suoi misteri? Pensi che troppi romani non l’apprezzino come dovrebbero?

È davvero solo una questione di attenzione. Molte persone che conosco hanno avuto la fortuna e dunque il peccato di abituarsi alla meraviglia, non realizzando quanto importante sia quello che si vede passandoci davanti per caso ogni giorno. Per anni è successo anche a me, e sulle altre cose della vita mi succede ancora. Questo ovviamente non vale solo per i luoghi, ma anche per i fatti che ci succedono attorno: accorgersi delle cose, riconoscerle, diventa il gioco più importante a cui puoi partecipare. Perché all’attenzione corrisponde sempre una responsabilità.

 

È la tua passione per Roma che ti ha portato ad approfondire le tematiche storico-esoteriche o il contrario?

Direi piuttosto il contrario. Studio la storia dell’esoterismo e della magia da quando ero molto giovane, mi affascina tutto quello che l’uomo ha potuto produrre sull’inconoscibile, su Dio, sulla magia e sulla morte. Che cosa vuol dire che due cose hanno la stessa natura? Quali erano i presupposti logico-filosofici della magia? Come sono nate le rappresentazioni dell’aldilà (su questo c’è un bellissimo libro illustrato di Duprat)? Sono entrato alla facoltà di Filosofia discretamente agnostico ed ero pronto a uscirne, come succede di solito, del tutto ateo. Ma ho percorso quel tratto di strada a ritroso: Giordano Bruno, la filosofia del Rinascimento e le sue radici ermetiche, il platonismo, mi hanno instillato molti più dubbi che certezze e soprattutto mi hanno insegnato le due parole più magiche di tutta la filosofia: non so. È anche vero che ho sprecato molto tempo a vergognarmi della passione per le cose occulte, e non avrei mai pensato di scriverne. La letteratura aveva a quel tempo una sorta di intoccabilità che scambiavo per purezza. Non sapevo si potesse scrivere un libro del genere. Probabilmente, dopo qualche delusione legittima, era la mia ultima chance come scrittore. Roma è stata una liberazione, da questo punto di vista, dandomi il coraggio e la forza di riuscire a scrivere il Libro dei fulmini che era necessario che scrivessi e a mettere insieme le due cose.

 

Leggendoti, ho pensato alla Parigi magica, alchemica dei surrealisti, da Nadja di André Breton al Paesano di Parigi di Louis Aragon. I surrealisti sono tra le tue fonti di ispirazione? Se no, quali sono?

Ho riletto recentemente Il paesano di Parigi. Aragon è stata una delle mie prime letture adolescenziali. Diciamo però che devo ai surrealisti una certa libertà nella forma che mi è stata d’aiuto i primi anni che avevo pensato che scrivere fosse una strada praticabile. Poi no. Sono stato molto pigro, fatico a trovare la disciplina necessaria. Più che altro mi sono dovuto liberare di tutte le letture che avevo fatto negli ultimi anni. Non cercare l’effetto nelle frasi, considerare la necessità di una storia che supportasse la voce, evitare qualsiasi tipo di autocompiacimento. Spero di avercela fatta. Poi, per scrivere il libro, riletture narrative necessarie sono state: Vigolo, Landolfi, De Santillana e naturalmente la visione di Il segno del comando, uno sceneggiato degli anni ’70 in cui Roma diventa la vera protagonista di una ricerca nel segno di un diario perduto di Byron.

 

Ci spieghi in che modo, nel tuo libro, lo scavo psicologico del protagonista diventa scavo archeologico? Potrebbe essere una teoria letteraria, la tua?

Non arriverei a definirla una teoria letteraria. La somiglianza tra scendere nei sotterranei di una città e dentro sé stessi è fin troppo ovvia. La letteratura psicanalitica offre migliaia di pagine bellissime sul tema. Ricordo un documentario di Žižek sul cinema, molto divulgativo ma divertente e sulla cui accuratezza sorvolo, dove si attribuiscono ai diversi piani del Bates Motel i tre livelli della psiche di Norman (l’assassino del capolavoro di Alfred Hitchcock Psycho, ndr). Nel Libro dei fulmini succede una cosa del genere: più si scende più si arriva vicino alla conoscenza, anche se questa non arriva mai del tutto. Piuttosto mi soffermerei su quello che si riesce a trovare dopo una discesa del genere. Scendendo sotto il magazzino del teatro dell’Opera si trova uno dei più bei mitrei di Roma, ma quando si scende dentro sé stessi la conclusione è meno scontata e più spaventosa. C’è senza dubbio la terribile (eppure preziosa) idea che, come per una città sedimentata su sé stessa come Roma, le sole cose importanti da conoscere di noi stessi siano quelle che ci sono più oscure. È solo in quella discesa che si consuma il viaggio.

 

In un’epoca in cui la sessualità e l’erotismo sono sempre più espliciti e tangibili, nel tuo libro il sesso ha un forte valore spirituale, onirico, visionario. Puoi spiegarci come hai lavorato su questo tema e perché?

L’idea che attraverso l’unione sessuale si sprigioni un’energia potentissima, e che questa energia si possa usare per altri scopi che il mero piacere è antichissima, non ho inventato nulla. Senza scomodare Crowley e la magia sexualis, basta pensare alle nozze mistiche, all’unione cosmica di Shiva e Shakti, e agli scritti del buddhismo tantrico dove, più che il sesso a essere ritualizzato, è il rituale che subisce una certa erotizzazione della forma. L’unione sessuale/spirituale tra Matteo e Silvia è un catalizzatore che li spinge ogni volta più giù nel proprio inferno personale, a cercare quello che di sé hanno dimenticato. È l’unico modo che hanno, per quello alla fine si ritrovano a utilizzarlo solo per quello scopo.

 

Per me Libro dei fulmini è anche un’ode alla flânerie, alla deriva psicogeografica o addirittura, semplicemente, all’ozio. È un invito ad approfittare maggiormente del tempo che abbiamo a disposizione? Un invito a sottrarci al tran tran di cui siamo schiavi e a guardarci intorno?

A guardare in basso. A prenderci il tempo che occorre per arrivare al fondo delle cose, sapendo che non è mai raggiungibile. Quando si capisce che non si arriva mai da nessuna parte allora sì, il flâneur può divertirsi a scoprire le cose che non conosce. Sapere le cose è divertente, perché così le si impara a riconoscere. «Riconoscere è un Dio», diceva il titolo di un meraviglioso saggio di Boitani uscito per Einaudi. Questo per me è stato il primo motore. Vedere un’ape incastonata in un fregio e sapere che lì sono passati i Barberini, attraversare ponte Palatino e abbassare lo sguardo verso lo sbocco nel Tevere della Cloaca Maxima o guardare Mitra e riconoscere il suo cappello frigio, e nel granchio e nel cane i reali significati astrologici. È divertente.

(Matteo Trevisani, Libro dei fulmini, Atlantide Edizioni, 2017, pp. 176, euro 20)

Campionamento del non finito

«La sua vita sdegnosa cala giù tra le ombre». Così finisce, o non finisce, l’Eneide: «fugit indignata sub umbras». Pare che prima di morire Virgilio abbia chiesto ai propri amici di distruggere il manoscritto incompiuto del suo poema epico. Questi autori che ordinano la distruzione post mortem della propria opera sono degli insopportabili imbelli: volete dare alle fiamme quello che avete scritto? Fatelo. Invece no. La verità è che, insicuri come chiunque abbia il vizio di scrivere, cercano di salvare la dignità senza perdere la speranza. A soccorrerli c’è sempre un amico più intelligente di loro, sebbene meno geniale: Virgilio ebbe Vario Rufo; Kafka, Max Brod. Oggi sembrerebbe folle privarsi dell’Eneide solo perché il suo autore non ha avuto il tempo di limarla a dovere. Eppure l’idea di leggere un’opera incompiuta infastidisce la maggior parte dei lettori contemporanei. Se qualcuno ci racconta una storia, vogliamo sapere come va a finire. È umano e comprensibile, ma significa anche cedere a una finzione. La realtà somiglia piuttosto a certe saghe millenarie in cui ogni mito si intreccia e sovrappone agli altri, così che ciascuna storia è insieme ellittica e definitiva, e si completa solo nel quadro d’insieme. Non c’è romanzo più realista, ammesso che questo termine abbia ancora un senso, di quello che non giunge a compimento. Affrontare il non finito è una dimostrazione di maturità: le nostre giornate sfilacciate e inconcludenti ci fanno venire voglia di uno zuccherino, di una storia che giunga al termine e possa dirsi conclusa, ma se vogliamo considerarci degli esploratori, e i buoni lettori lo sono, dovremmo avere il coraggio di affrontare racconti destinati a sfociare nel nulla, di specchiarci nel doppione inquietante delle nostre vite illogiche. Un esercizio tutt’altro che inutile: si può leggere un intero libro anche solo per leggere un’unica parola, e un’unica parola può salvarci.

L’incompiuto ci pone di fronte al dilemma essenziale del nostro essere lettori: cosa cerchiamo in un romanzo? Un buon epilogo? Non credo sia una valida risposta. Non c’è nulla di più sexy di una ragazza che legge da sola al tavolino di un bar, ma se legge un romanzo incompiuto è ancora meglio. Perché? Perché probabilmente è pronta a tutto.

L’elenco degli incompiuti è variegato e, almeno all’apparenza, senza fine, così come infinite sono le ragioni che possono impedire a un autore di terminare la propria opera. La più evidente è la morte, che infischiandosene dei progetti narrativi dell’autore recide il filo a prescindere da ciò che è concluso e da ciò che non lo è. Anche solo questo basterebbe a gelare le nostre smanie teleologiche. La morte dell’autore è la disarmante conferma del fatto che la natura non ha alcun rispetto per i progetti artistici dell’uomo. Quando un romanziere muore prima di scrivere la parola fine lascia dietro di sé un mucchio di domande, sulle quali potrebbero essere destinate ad arrovellarsi intere generazioni di critici e lettori. Questo basterebbe a rendere la narrativa un’attività degna di considerazione, dato che il massimo che possiamo concederci in questa vita è di indispettirci a vicenda. C’è ovviamente chi non ha voluto assaporare l’estremo piacere di lasciare i posteri a bocca asciutta: Proust, tanto per dire, ci ha fornito una prova di eccezionale stoicismo e dedizione all’arte scrivendo praticamente in agonia le ultime righe della Recherche. Non poté revisionarle, ma poco importa.

C’è poi chi fa dell’incompiuto la propria cifra stilistica, come Kafka, o chi, con le manette ai polsi, ha dovuto rinunciare a scrivere (il Dostoevski di Netocka Nezvanova, nel caso ve lo steste chiedendo). La Seconda Guerra Mondiale, tra le altre sciagure, impedì a Gadda di terminare La Cognizione del Dolore. Autori celebri o sconosciuti potrebbero aver abdicato di fronte a capolavori talmente colossali da risultare intollerabile anche solo pensare di metterli su carta. Di queste opere ancor più che incompiute, ma solo immaginate o immaginarie, non sapremo mai nulla: parlarne non è lecito. Parleremo invece, nei prossimi mesi, di Kafka, di Dickens, di Hemingway, di Fitzgerald… L’elenco è provvisorio e incompiuto, e il perché è persino ovvio.

 

Federico Leoni è nato a Roma nel 1977. Giornalista, è caporedattore a Sky Tg24. Nel 2013 è uscito il suo primo romanzo, Starry Night (Edizioni Ensemble).

il 2018 in musica

Il 2017 è stato un anno ricco di lavori importanti. Dai The National ai The War on Drugs, dal mistero Liberato alla santificazione di Kendrick Lamar, passando per i Baustelle,  questi ultimi dodici mesi ci hanno regalato ottimi momenti di musica. Il 2018 è iniziato e si preannunciano graditi ritorni, su tutti Artic Monkeys e Interpol. Attenzione a quello che potrebbe succedere in Italia.

Artic Monkeys: Come suonaneranno gli Artic Monkeys, padroni indiscussi dell’indie rock inglese tra la fine degli anni ’00 e l’inizio degli anni ’10, oggi, dopo l’esplosione dell’hip hop su larghissima scala e con l’avvicinamento sempre più netto di questo al pop? Ci si aspetta molto dalla band di Alex Turner (Senza titolo. Data da definire).

Interpol: Nel 2017 hanno festeggiato i 15 anni di Turn on the Bright Lights con un tour auto celebrativo. Nel 2018 torneranno con un nuovo album a quattro anni dall’ultimo non riuscitissimo El Pintor. Ce la farà Paul Banks ha trainare il gruppo verso i fasti del debutto? (Senza titolo. Data da definire).

Franz Ferdinand: Per la band capitanata da Alex Kapranos gli anni passati dall’ultimo album sono cinque. L’ultimo lavoro in studio, escludendo il super gruppo FFS insieme agli Sparks con cui è stato prodotto FFS nel 2015, è Right Thoughs, Right Words, Right Action, del 2013. Riuscirà la nu new wave degli scozzesi a stare al passo con i tempi? (Always Ascending. 9 febbraio).

Belle And Sebastien: Da questi giganti del pop si spera e ci si aspetta sempre qualcosa che possa assomigliare al loro capolavoro If You’re Feeling Sinistre, nonostante gli ultimi anni siano stati scritti album piuttosto anonimi (Write About Love, Girls in Peacetime Want to Dance). Vediamo se la loro prossima fatica potrà farci ricredere (How to Solve Our Human Problems. 19 gennaio).

Tool: Sarà questo l’anno buono? Dalle parole di Danny Carey pare di sì, ma dallo scherzo del chitarrista Adam Jones, in cui diceva che il nuovo album era pronto al 100% e che sarebbe uscito nel 2014, risulta difficile fidarsi. Oramai sono passati 12 anni da 10,000  Days. Vedremo (Senza titolo. Da definire).

Joan As Police Woman: Joan Wasser ha incasellato tre album (To Survive, The Deep Field, The Classic) che l’hanno posta tra le cantautrici più interessanti dell’ultimo decennio. Sarà curioso vedere come verrà declinato il suo soul nel prossimo album (Damned Devotion. 9 febbraio).

Cosmo: Nel 2016 ha fatto il salto verso un pubblico più ampio grazie a L’ultima festa, dove si evidenziava una scrittura più matura rispetto ad alcuni colleghi e a un pop che aveva un certo fare alla Apparat. Anticipato da due singoli (“Tu non sei tu”, “Quando ho incontrato te”), il nuovo album di Marco Bianchi ci indicherà molto sulla sua tenuta. (Cosmotronic. 12 gennaio).

Calcutta: Eccoci qui. Calcutta, lo sappiamo tutti, ha attuato una rivoluzione, più o meno cosciente, nella musica italiana con Mainstream. Del senso di indie e mainstrem, della loro sovrapposizione, del loro ribaltamento, in questi due anni se ne è discusso moltissimo. Cosa sia Calcutta, forse, non lo abbiamo ancora capito. Il nuovo album, anticipato dal singolo “Orgasmo” ci farà capire qualcosa in più. (Senza titolo. Data da definire)

Pop X: Se c’è un’anomalia nella musica italiana, quella è sicuramente Pop X. I testi che sembrano dei non testi, il surrogato di cut-up, filastrocche forzatamente disturbanti, combinati con un base strumentale esaltante e incredibilmente ben fatta, fanno sì che il prossimo lavoro di una delle punte di Bomba Dischi sia tra i più attesi dell’anno. Nel prossimo Musica per noi capiremo se il disimpegno di Lesbianitj sia funzionale oppure una cosa buttata là a caso. (Musica per noi. 26 gennaio).

I Cani: Inseriamo anche il progetto di Niccolò Contessa, nonostante non si abbia nulla di certo tra le mani. Dalla cancellazione della pagina de I Cani in poi si è parlato di un suo ipotetico ritorno, a due anni da Aurora. Non è bastato il comunicato dello stesso Contessa, in cui diceva che la cancellazione della pagina non voleva dire assolutamente nulla, per fugare tutti i dubbi su una possibile uscita. Conoscendo le sua qualità nel saper creare aspettativa, mettiamo un grosso punto interrogativo (Senza titolo. Data da definire).

Copertina di Tabù romanzo di Giordano Tedoldi

I residui morali
di Giordano Tedoldi

Giordano Tedoldi è un autore complesso. Difficilmente incasellabile, oggi, nel panorama italiano: si porta appresso certi strascichi della Gioventù Cannibale senza averne mai fatto parte. È riscontrabile nei suoi lavori, soprattutto nella raccolta di racconti Io odio John Updike (minimum fax, 2016), un certo sguardo sul mondo che spazia da quello di Aldo Nove di Woobinda a quello di Niccolò Ammaniti di Fango.

Nel 2012, autopubblica su Amazon Deep Lipsia, che narra le vicende di un gruppo di neonazisti. L’anno successivo, supera la prova del romanzo con I segnalati (Fazi, 2013), un lavoro a-commerciale, pieno di digressioni, una sorta di incubo thriller-fantasy-horror in una Roma marcia e satura.

Lo scorso maggio è uscito il suo secondo romanzo, Tabù, edito da Tunué nella collana diretta da Vanni Santoni.

Tutto ruota attorno al significato – e al suo rovesciamento, alla sua messa in discussione – del tabù, che paradossalmente arriva ad avere la funzione di collante sociale. Il vedere l’effetto che fa superarlo trovandosi dall’altra parte, spinge Piero Origo, protagonista e dunque pietra angolare della storia, a scardinare tutto l’inviolabile che gli si presenti davanti. Anche in un’epoca – e in una società, quella occidentale – dove lo scandalo morale non ha più la portata epica di secoli passati, si ha ancora bisogno di qualcuno che, attraverso l’espediente della narrativa, ce lo ricordi e ci metta in condizione di riflettere sul rapporto tra morale e società.

Tedoldi, quindi, scrive una storia che somiglia più un trattato antropologico sotto forma di romanzo che a un romanzo in senso stretto.

Un romanzo, Tabù, diviso in cinque parti, con fabula e intreccio che fanno da padrone e che sono il terreno in cui si muove una borghesia sconfitta e triste. Una borghesia che trova nel proibito la chiave per evadere dalla realtà. Una borghesia che può ricordare quella di Moravia, ma non cosciente di sé. I dialoghi, che spesso risultano piatti e privi di tensione drammatica, hanno in quest’ottica una funzione importante: rendono l’ambiente in cui si muovono i personaggi ancora più vacuo e perdente.

Pur essendo la narrazione non lineare e quindi potenzialmente zoppicante, il libro ha un ritmo serrato, pieno di avvenimenti che si susseguono e che si incastrano tra di loro. Qui sta la bravura di Tedoldi. Riesce, in una storia dall’architettura non semplice e massimalista, a farci vedere la regressione dell’uomo da sociale a uomo che si auto esclude dalla società, un’antropogenesi invertita.

Piero è innamorato (crede di essere innamorato) di Emilia, moglie del suo migliore amico, Domenico. Approfittando dell’assenza di quest’ultimo, Piero seduce Emilia. Da questo momento in poi, sarà un susseguirsi di tabù infranti e atteggiamenti in contrasto con tutto e con tutti. Ci sarà un’altra donna, Dolly, una delle amanti di Piero, la quale ha contemporaneamente una storia con Marco, un ragazzo con cui Piero finirà per dividere l’appartamento. E Dolly sarà l’oggetto del contendere, al pari di Emilia. Ci sarà poi una comunità basata sulla promiscuità sessuale su cui una una ragazza, Barbara, vorrebbe fare uno studio sociologico. Nella quarta parte, la storia di Piero verrà raccontata da un prete, Eusebio, a cui il comportamento libertino del protagonista farà mettere in discussione le proprie convinzioni religiose.

Tabù, ma Tedoldi in generale, merita di avere più spazio. Il coraggio di minimum fax di ritirare fuori e ripubblicare Io odio John Updike, dopo esser stato dimenticato per una decina d’anni, dargli nuova visibilità, ha senso profondo per quella che è la letteratura italiana contemporanea. Perché Tedoldi, come scrittore di racconti, non ha nulla a invidiare, per esempio, a Luca Ricci e, come romanziere, dà l’impressione di essere a un passo dal lavoro che potrà consacrarlo definitivamente.

 

(Giordano Tedoldi, Tabù, Tunué, 2017, pp. 360, euro 14,90)

[Best 2017]I film

Diciamoci la verità_ non è stata una grande stagione cinematografica. La flessione ormai costante degli incassi dei botteghini, italiani e internazionali, si è accompagnata nel 2017 a un calo netto della qualità. I film di maggiore successo commerciale, tipo La bella e la bestia, il live action Disney diretto da Bill Condon, hanno deluso le aspettative della critica, mentre film armati dalla stampa hanno deluso gli spettatori, tipo Blade Runner 2049.

Il panorama del cinema italiano, in particolare, ha assunto in questa stagione connotati sconfortanti. Dopo i segnali positivi di rinascita e nuove idee lanciati  negli anni passati, la produzione nazionale nel 2017 si è fermata a quel desolante livello di mediocrità che da troppo tempo ormai si è imposto come uno standard. Registi che sembravano destinati a un nuovo tipo di gloria, non solo commerciale, come Paolo Genovese del post Perfetti sconosciuti con The Place, hanno sbagliato mira. Vecchi beniamini del pubblico e della critica, come Sergio Castellitto, Alessandro Siani, Christian De Sica o Francesca Archibugi, si sono dovuti accontentare di risultati modesti come i loro film. La conclusione della prima vera saga cinematografica moderna italiana con Smetto quando voglio – Ad Honorem manda segnali ancora più inquietanti per il futuro di un cinema incapace di lasciare il giusto spazio alle idee nuove.

In attesa di un 2018 che porterà nelle nostre sale alcuni dei film internazionali più attesi e apprezzati all’estero fino a questo momento, tipo Chiamami col tuo nome di Luca Guadagnino, Ladybird di Greta Gerwig – il film col più alto punteggio di sempre su Rotten Tomatoes –, The Shape of Water di Guillermo Del Toro, già premiato a Venezia, o gli italiani Ella & John di Paolo Virzì e Loro, il film su Berlusconi di Paolo Sorrentino, ecco i nostri migliori film usciti nei cinema italiani nel 2017. Non c’è ordine. E non ci sono film italiani.

BEST 2017 – I film

 

• Dunkirk di Christopher Nolan. Dalla nostra recensione: «Un capolavoro tecnico, un capolavoro visivo, un capolavoro e basta»

• Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve. Dalla nostra recensione: «Andando oltre ai – tanti – meriti del film, Denis Villeneuve con Blade Runner 2049 riesce a trovare la giusta strada per il cinema d’oggi nel confronto con il cinema del passato, titolare di un immaginario ormai consolidato e insuperabile».

• 120 battiti al minuto di Robin Campillo. Dalla nostra recensione: «Un film essenziale e crudo, feroce e delicato, capace di scuotere le anime attraverso una narrazione lineare e priva di fronzoli».

• Scappa – Get Out di Jordan Peele. Dalla nostra recensione: «Una delle sorprese cinematografiche della stagione. L’esordiente Jordan Peele fonde generi per creare un horror intelligente e spontaneo, in grado di far ridere delle contraddizioni degli Stati Uniti d’oggi».

• Personal Shopper di Olivier Assayas. Dalla nostra recensione: «Affidandosi a Kristen Stewart, sempre più distante dai ruoli pop della giovinezza, Olivier Assayas confeziona un saggio di cinema che unisce generi senza mai definirsi e che tenta l’impresa di rappresentare l’immateriale, che siano i fantasmi o le sensazioni».

• Jackie di Pablo Larraín. Dalla nostra recensione: «L’arrivo a Hollywood di Pablo Larrín è all’insegna della rivoluzione di un genere, il biopic, abusato negli ultimi anni. Coerente a una visione della storia come elemento mutevole a seconda di come la si guardi, Jackie racconta la costruzione privata di un mito attraverso una figura fragile, ambigua e determinata».

• La La Land di Damien Chazelle. Dalla nostra recensione: «Omaggio al cinema classico e allo stesso tempo nuovo punto di partenza per il musical moderno, La La Land lancia Chazelle nel regno dei grandi di Hollywood e prenota il suo posto nella storia del cinema».

• The Big Sick di Michael Showalter. Partendo da un’esperienza biografica, l’attore pakistano naturalizzato statunitense Kumail Nanjiani ha scritto un film capace di mantenere un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, tra sentimenti e tematiche sociali e razziali. Un piccolo, perfetto, capolavoro.

• Logan di James Mangold. L’ultimo capitolo cinematografico del Wolverine di Hugh Jackman è un western decadente in cui si sente l’eco di Cormac McCarthy più che dei fumetti Marvel. Nel bombardamento annuale di cinecomic, il film di Mangold è l’unico ad aver davvero centrato il bersaglio.

• Elle di Paul Verhoeven. Dalla nostra recensione: «Poteva siglare la fine della carriera di Verhoeven e invece Elle si dimostra essere la messa in scena della cattiveria dell’uomo (o della donna) in tutte le sue sfumature che sfociano anche nel quotidiano. Un film potente e leggero, sicuramente nulla di già visto».