[Best 2017] Gli album

Anno dei grandi ritorni e delle piccole rivoluzioni, il 2017 si è giocato tra attese e aspettative. La redazione di Musica di Flanerí ha selezionato  gli album che più hanno incarnato le riconferme e i surplus artistici durante i dodici mesi appena trascorsi, ripercorrendo le eccellenze del mondo indipendente (e non) che meritano un posto d’onore nella memoria collettiva.

 

A Deeper Understanding dei  The War on Drugs

Parlando di eccellenze, il primo lavoro che salta alla mente è senza dubbio A Deeper Understanding dei The War on Drugs. Guidati dal genio della narrazione esperienziale, Adam Granduciel, la band non solo si riconferma tra i fenomeni purissimi, ma scala le gerarchie musicali degli ultimi 20 anni di produzione rock indipendente. Tra i richiami a Bruce Springsteen, Bob Dylan, Richard Manuel e a Neil Young, il talento dei The War on Drugs esplode puro, irrevocabile, potente all’interno della macchina melodica polistrumentale e dei testi d’autore.

Sleep Well Beast dei The National

Li avevamo lasciati nel 2012 con Trouble Will Find Me e ne abbiamo desiderato ossessivamente il ritorno durante tutti i cinque anni che lo hanno separato dall’uscita di Sleep Well Beast questo autunno. Le capacità poetiche di Matt Berninger dai richiami carveriani (unite a quelle della moglie Carin Besser, scrittrice di fiction anche per il Newyorker) e l’eleganza insostenibile della batteria di Bryan Devendorf, mettono ancora una volta la firma sul modus operandi della band, segnando ulteriormente lo scarto con le altre formazioni contemporanee. Sleep Well Beast non è una svolta elettronica, non è un album di declino: è una contaminazione perfetta di chi cavalca con estrema maestria le parabole della vita e della morte.

L’amore e la violenza dei Baustelle

Impossibile non citare quel trio toscano che, da solo, porta sulle spalle l’attività produttiva di un’ upper class italiana. Bianconi, Bastreghi e Brasini interpretano con una rispolverata energia anni ‘80 una tematica che avevano tralasciato nell’ultimo lavoro in studio (Fantasma): la mimetica passionale e il suo controllo – totalmente nelle mani della cultura popolare. D’altronde, chi altro decide se di fronte al mondo e alla sua manifestazione bisogna provare amore o odio, pietà o rabbia, se non la tv, la musica pop e la politica dei bar? Come al solito, i Baustelle si riconfermano i narratori più efficaci e sinceri della società come la conosciamo.

Pure Comedy di  Father John Misty

Sembra di essere ritornati nel movimento postmoderno degli anni Novanta. Father John Misty, fu Josh Tillman, abbraccia un neonato interesse per le influenze mediatiche all’interno delle vite singolari. Pure Comedy è un po’ l’equivalente tematico dei nostrani Baustelle, fatta eccezione per la scelta delle architetture musicali. Le ballate dell’album sono in pieno stile USA, costellate da chitarre acustiche, pianoforti e talento vocale non indifferente. Ma, anche stavolta, lo strumento patriottico è usato in chiave sarcastica: nel caso di Misty diventa il veicolo della più pungente delle ironie politically correct, condotto attraverso le strade delle dipendenze odierne — come lo zapping compulsivo tra i social dello smartphone o l’ incapacità di annoiarsi nell’era dell’intrattenimento.

Crack-up dei Fleet Foxes

Non solo Father John Misty, anzi. Anche la sua ex band guidata dal nostro intellettuale di fiducia Robin Pecknold è tornata sulle scene con un album a dir poco complesso. Con il titolo che è una citazione di una raccolta di racconti di Fitzgerald, le Volpi di Phoenix si ripresentano dopo sei anni di silenzio in una veste ancora più intelligente e creativa. Con Crack-up portano agli estremi il loro tipico onirismo, spalancando le porte di ciascuna traccia e dilatando le tempistiche dei brani; sullo sfondo, però, a tradire la loro anima folk c’è sempre un sentore di Crosby, Stills & Nash. E va più che bene così.

This Old Dog di Mac DeMarco

Gli atteggiamenti sopra le righe di Demarco hanno distorto la percezione reale della musica di Demarco, nel bene o nel male. Perché il cantautore canadese è sì un provocatore, ma è certamente un artista. This Old Dog conferma le sue doti e conferma la sensazione che un certo pop del futuro possa suonare in questo modo.

Masseduction  di St.Vincent

Discorso analogo per Annie Clark: con Masseduction siamo nell’anticamera del pop del futuro. Come Mac DeMarco deve fare i conti con il personaggio Mac Demarco, così St.Vincent deve fare i conti con il personaggio St.Vincent. Alla fine, però, quelle che sembrerebbero due storie raccontate (quella dell’artista e quella del personaggio), non sono altro che la stessa storia.

American Dream di Lcd Soundsystem

Altro grande e gradito ritorno quello della band di James Murphy, a sette anni dall’ultimo This is Happening. American Dream si muove tra l’influenza di David Bowie e i rimandi ai Talking Heads. American Dream è un album scuro, è una metafora dei paradossi dell’America. È un album che pone Lcd Soundsystem come band pilastro di questo secolo.

Canzoni Perse di Cesare Malfatti

In qualche punto del panorama italiano, da Tiziano Ferro a Calcutta, da Gabbani a The Giornalisti, c’è Cesare Malfatti, ex La Crus. C’è Canzoni Perse, lavoro passato in sordina in un anno che ha visto l’esplosione definitiva del pop Calcuttaforme da una parte e della trap dall’altra. C’è un lavoro di cui oggi abbiamo bisogno in Italia.

[Best 2017] I Libri

Chissà perché questo bisogno non sfiorisce… Anzi, si converte, si raffina, ma ci resta tra le mani.

Ordinare un po’, cavalcare un’illusione così tenera che ci allinei per un attimo le scelte, come un plotone di bimbi ammaestrati. Con calma, dispiegando le forze in successione decrescente, per detonare l’attesa del numero minore, del merito vincente.

Quindi, ossessivi rei confessi, maniaci blasonati, dipendenti efferati dal gioco del podio, siamo qui a sgranare queste ultime briciole d’anno (editoriale) per proporvi cosa del 2017 rimarrà sullo scaffale.

Un 2017 sempre gremito di titoli, tanto che inizialmente sembra proprio di sbracciarsi in un circo di mangrovie, ma aguzzando appena un minimo l’intuito, non ci è voluto molto a reputarlo spesso gonfio solo d’aria.

Innumerati i tentativi di riesumare fasti di passati successi, con seguiti decisamente più fragili (anche se ancora ottimamente venduti), tra cui Origin di Dan Brown, La colonna di fuoco di Ken Follett e Il ministero della suprema felicità di Arundhati Roy. Diciamo che archiviare il 2016 è stato sicuramente più difficile.

Ma comunque, al di là dei (meritevolmente) pluripremiati Pulitzer e Strega, eccola qui la nostra classifica dei libri di quest’anno finora non recensiti e che vi consigliamo:

 

10) Qualcosa sui Lehman di Stefano Massini (Mondadori).
Folgorante esempio di testo incatalogabile. Ibridato da contaminazioni continue. Un’eccellente insalata di linguaggi e rimandi, tra il fumetto, il cinema, il teatro, la letteratura e un mondo altro che li contempla e li prescinde. La storia di una famiglia e del suo ingegno, che dalla Germania deborda oltre l’oceano. Fino al trionfo, fino allo schianto. Tre generazioni di rischi, dal bestiame al cotone all’azzardo finanziario. Testo totale, straordinario anche nella sua versione teatrale, per la regia di Luca Ronconi.

 

9) Il libro del padre di Urs Widmer (Keller).
Un libro di pagine bianche, che sarà la vita a popolare di parole. Un libro che il piccolo Karl riceve per i suoi dodici anni e che finisce così, masticato dal buio. Sarà suo figlio a colmarlo per lui, restituendo occhi e memoria al ritratto di quel padre temuto, sofferto e amato senza sosta. Un gioiello di luci sottili.

 

8) Tutto quello che non ricordo di Jonas Hassen Khemiri (Iperborea).
Chi siamo davvero a sipario disteso? Sciolti nella notte, resistiamo soltanto in ciò che gli altri trattengono e raccontano di noi. Il giovane Samuel muore senza una causa accertata e uno scrittore cerca di ricomporne i pezzi attraverso le voci di chi lo ha afferrato per qualche attimo di sé. Ma quello che emerge è un volto di fiume, tremulo e incostante, dove niente si scrive con certezza. Finalista al Premio Strega Europeo.

 

7) Iron Towns di Anthony Cartwright (66thand2nd).
Un microcosmo di sogni violati, tra acciaierie incolte e idolatrie calcistiche. Gli eroi dello sport tatuati sul corpo come spettri di un successo impossibile, nello stomaco di una società operaia ormai dismessa. Una grandiosa prova narrativa.

 

6) Un complicato atto d’amore di Miriam Toews (marcos y marcos).
Ripubblicato dopo dodici anni, il romanzo sprofonda nel cuore mennonita canadese, dove Nomi, adolescente avvizzita d’inquietudine, aspetta grandi incontri e impossibili ritorni. Uno scorcio emotivo di strazio e d’incanto.

 

5) L’ordine del tempo di Carlo Rovelli (Adelphi).
Lontani miglia e dimensioni dal registro di fiction, questa è un’escursione nel mistero più insondabile che si possa accarezzare: il tempo, come architettura immaginifica o labile illusione; invenzione, condanna, salvezza. Con la maestria di un affabulatore e virate poetiche di inattesa bellezza, Rovelli illustra e decostruisce principi scientifici considerati intangibili. Per chiunque abbia sete di lezioni illuminanti.

 

4) Il tuffo di Jonathan Lee (SUR).
Nella Brighton del 1984, il Grand Hotel brilla di un’esplosione solitaria. Qualcuno ha piazzato una bomba durante il Congresso del Partito Conservatore e il risultato sono cinque morti. Ma nei giorni dell’intanto, nel dirupo temporale tra la sistemazione dell’ordigno e la sua deflagrazione, si smatassa una vicenda umana ricca e irresistibile. Chi pecca, chi ripara, ritrovandosi a sbagliare.

 

3) Il prodigio di Emma Donogue (Neri Pozza).
Una bambina inspiegabile, digiuna da quattro mesi eppure perfettamente sana; una comunità spaesata, che si avvinghia a timori profetici laddove la scienza è costretta a raggelarsi. Affresco d’Irlanda di tardo Ottocento, una trama brillante, una prosa che intrappola.

 

2) È giusto obbedire alla notte di Matteo Nucci (Ponte alle Grazie).
Ai confini estremi della città di Roma, là dove il Tevere sfocia nel mare, vivono individui reietti, in un ecosistema difficile da immaginare, ma in cui è possibile sparire, come cerca di fare il Dottore, il personaggio principale della storia, arrivato lì in seguito a un dramma personale che gli ha stravolto la vita.  Una discesa agli Inferi, un romanzo la cui lingua merita una profonda attenzione.

 

1) L’arminuta di Donatella Di Pietrantonio (Einaudi).
Il Premio Campiello di quest’anno è una storia di radici. Tranciate e poi riannodate a forza. Una bimba povera viene spedita da parenti più agiati fino ai suoi tredici anni e all’improvviso viene riconsegnata al mittente. E così diventa appunto l’Arminuta, la ritornata, impegnata a capire il perché di un nuovo rifiuto. Una scrittura lirica, carnosa, vibrante, per il libro migliore dell’anno. Fame placata, ma sempre per poco.

 

larte-di-rinascere

Un viaggio nel passato per non tradire sè stessi

Sullo sfondo di L’arte di rinascere, l’ultimo romanzo di Martin Page pubblicato in Italia (Edizioni Clichy, 2017) c’è una Parigi che ha cambiato aspetto: è una metropoli piegata dagli attentati terroristici, dopo i quali le persone non sono più soltanto volti indefiniti nella folla, ma, con loro, a sfilare lungo i boulevard c’è anche la loro biografia, la musica che ascoltano, le storie dei loro cari. È una Parigi lontana dai cliché, dalle cartoline che la rappresentano come la città degli innamorati e delle luci dei bistrot alla moda. Se si guarda bene è possibile vedere le ferite ancora aperte e impossibili da rimarginare.

Martin ha da poco compiuto quarantuno anni, ha una moglie e un figlio. Ha avuto la soddisfazione di vedere pubblicati alcuni suoi libri, ma la sua situazione economica resta precaria, il costo della vita è molto alto, il tetto e la caldaia sono da riparare. Mentre la sua famiglia va a trascorrere le vacanze in Svezia, Martin si reca nella capitale francese, dove viene ospitato nella casa dell’amico artista Joachim per lavorare al riadattamento di un suo romanzo in chiave cinematografica, un’occasione che potrebbe dare una svolta alla sua vita.

Mentre di giorno il lavoro si rivela ben diverso da ciò che si era aspettato, di sera – tornato a casa – si addormenta all’interno di una «macchina per rimontare il tempo», grazie alla quale può tornare indietro di ventinove anni. L’incontro fortuito con il Martin dodicenne diventa un appuntamento fisso, quasi una necessità, l’unico colore nel grigiore di rapporti di circostanza che prevedono falsità e inganni, perché è impossibile mentire a sé stessi.

Martin riconosce in quel bambino la stessa diffidenza verso gli adulti che lui stesso nutriva. Nel dialogo con lui, capisce che forse da bambino era più sicuro di sé e che forse, dei due, chi ha maggior bisogno di conforto è lui. Il Martin adulto può così ricordare i sogni e le ambizioni d’infanzia e capire di avere in parte tradito il bambino che è stato.

Dodici anni è l’età perfetta per non essere ancora stati intaccati dalle brutture del mondo. A dodici anni puoi vestirti male senza curarti dell’opinione altrui; puoi fare tutte le domande che vuoi senza timore di essere indiscreto; puoi mangiare e dormire senza regole, sei entusiasta all’idea della vita: un enorme mistero, un milione di possibilità e di porte aperte. Il mondo sta aspettando solo te, è ai tuoi piedi. Inoltre a dodici anni puoi essere ridicolo, straordinariamente ridicolo.

La voce del bambino è incalzante, scuote e rimprovera senza peli sulla lingua, mette in discussione ogni cosa e fa dubitare di tutto. Eppure, proprio per questo è in grado di infondere grande energia e voglia di cambiare le cose, c’è sempre tempo per farlo.

Cosa abbiamo fatto in tutti questi anni di vita? Abbiamo realizzato i nostri sogni d’infanzia? Siamo scesi a compromessi importanti? Siamo la persona che il nostro doppio dodicenne avrebbe desiderato che diventassimo? Ne abbiamo passate tante, siamo stati vittima di bullismo, siamo stati feriti, abbiamo visto fallire alcune ambizioni. Ma dopotutto siamo ancora qui, siamo sopravvissuti – anche piuttosto dignitosamente –, le difficoltà ci hanno scalfito ma mai abbattuto. Ce l’abbiamo fatta.

Ben lontano da un pessimismo dilagante, il Martin adulto potrà fare tesoro dei nuovi insegnamenti e portare nel presente una nuova visione della vita più serena ma soprattutto più libera. Con la consapevolezza di non essere solo nell’atto di scrivere – la creazione diventa un’arma esistenziale – e in quello di vivere, egli può rendere omaggio al giovane sé stesso lasciandosi il dolore alle spalle, non perseguendo a ogni costo la corrosiva idea di successo che spesso rende prigionieri della propria vita, imparando piuttosto a non tradire la propria natura.

«L’attaccamento alla sfortuna, il ricordo delle sofferenze, non significano fedeltà, ma protrarre le vessazioni. Tuttavia stavolta è la nostra mano a colpire. Dobbiamo rifiutare che il dolore risuoni, rifiutare che sia un’onda, circoscriverlo perché sia un punto. Essere tristi è una forma di tradimento. La gioia è un atto di coraggio politico.»

L’arte di rinascere racconta con leggerezza una realtà che i giovani adulti hanno costantemente sotto gli occhi, quella di una società che richiede sempre di rendere al massimo e non ammette debolezze. Il doppio dodicenne rivendica a gran voce il diritto di poter sbagliare, di volersi bene nonostante gli errori, anzi, proprio per non essersi fatto abbattere da questi. Questo romanzo, che combina abilmente autobiografia, finzione e fantascienza, è un inno alla semplicità, ad accogliere tutto quello che la vita offre, fallimenti compresi, ad accettare l’essere umano per quello che è – un funambolo in bilico sul fragile filo della vita, ma anche un eroe delle piccole cose.

È un romanzo semplice e molto tenero, che riporta al passato per capire il presente e orientare il futuro; diverte anche, non in modo artefatto ma di un sorriso sincero e sano.

 

(Martin Page, L’arte di rinascere, trad. di Tania Spagnoli, Edizioni Clichy, 2017, pp. 152, euro 15)
Margaret Atwood - Il racconto dell’ancella - Recensione | Flanerí

Il diario distopico di Difred l’ancella

Il successo della pluripremiata serie televisiva The Handmaid’s Tale ideata da Bruce Miller è spiegabile in parte per la sconcertante attualità dei temi trattati. Ne sono la dimostrazione le manifestazioni scoppiate in America contro Trump in cui dimostranti delle organizzazioni pro-aborto e in difesa dei diritti delle donne si sono vestite come le Ancelle della serie per protestare contro i provvedimenti conservatori del Presidente degli Usa.

E pensare che la serie è tratta da un libro, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (Ponte alle Grazie, 2017), scritto più di trent’anni fa. Il romanzo è stato pubblicato per la prima volta nel 1985, ma in realtà l’autrice, che a quel tempo viveva nella Germania ovest, ci stava lavorando già da un paio di anni.

A far nascere una prima idea per la trama del libro contribuirono anche gli avvenimenti di quegli anni in America. Oggi come allora, il presidente degli Stati Uniti aveva varato una politica di tagli all’assistenza sanitaria statale, andando a colpire le fasce sociali più deboli (donne, bambini e anziani) e povere. In quegli anni si registra anche un aumento dei casi di violenza domestica e soprattutto negli anni ottanta dilaga l’Aids. Inoltre si comincia a parlare di riscaldamento globale e scoppia la polemica sulla sicurezza degli impianti nucleari.

Tutto questo contribuisce ad alimentare l’immaginario creativo della Atwood. Per questo la scrittrice ha sempre sostenuto di fare letteratura speculativa, basata su fatti realmente accaduti in qualche periodo storico e in qualche parte del mondo, e non fantascienza, pur collocandosi Il racconto nel solco del genere distopico.

Sappiamo che la distopia si fonda, amplificandoli, su aspetti sociali e politici negativi di un certo periodo storico e mostra come la loro sottovalutazione o, peggio, l’accettazione passiva consentano l’instaurazione di regimi aberranti e disumani.

Il racconto dell’ancella è ambientato in una fantomatica Repubblica di Galaad, una cittadina del Nord America che non viene mai nominata ma probabilmente si tratta di Cambridge nello stato del Massachusetts, sede anche dell’università della Atwood, quasi a voler dimostrare come anche da una culla della cultura e della scienza possa comunque nascere l’orrore illogico di regimi totalitari come si rivelerà essere la Repubblica di Galaad.

L’instaurazione di tale regime avviene in modo subdolo e graduale. La verità si occulta e le relazioni sono complicate da nuove modalità di contatto. La violenza organizzata disumanizza le proprie vittime. Non importa più chi sei ma di chi sei.

Nessun paesaggio apocalittico come poteva essere in La strada denuncia l’orrore che si insinua sotto una apparente normalità: le case sono le dimore alto borghesi dell’America pre-galaadiana, con mobili d’epoca, tappeti preziosi e giardini perfettamente curati che si affacciano su strade lastricate e pulite.

Tutta la società è capillarmente sottoposta a un severo controllo. I Servizi Segreti sono gli Occhi che vigilano su tutto. E poi c’è il Muro, probabilmente un tempo sede dell’università, piantonato da sentinelle, protetto da allarmi elettronici, sovrastato dai riflettori, cintato di filo spinato e costellato alla sommità da cocci di vetro. È il teatro delle periodiche Rigenerazioni, in seguito alle quali vengono esposti i cadaveri penzolanti dei dissidenti, o di coloro che prima del regime hanno permesso e attuato pratiche poi divenute proibite, come l’aborto: i crimini, a Galaad, sono retroattivi.

Le donne sono come lobotomizzate e si fa leva su un tema tipicamente femminista come la sorellanza che però non ha altra funzione se non metterle le une contro le altre. Come nella Germania nazista infatti ci sono le Spie per il bene comune. Le donne sono tutt’altro che unite.

Il racconto dell’ancella è anche una risposta alla polemica che l’autrice aveva intrapreso nei confronti della seconda ondata del movimento femminista degli anni ottanta, in particolari verso le correnti più radicali che addirittura auspicavano una netta separazione fra donne e uomini con l’avvento di aziende, scuole e banche solo femminili e che erano contro la pornografia. Per questo la Atwood crea un romanzo totalmente incentrato sul controllo del corpo femminile.

La società è diventata una società teocratica, non c’è cioè più alcuna divisione fra Stato e Chiesa e tutto l’ordine sociale è suddiviso con una nomenclatura che si rifà alla Bibbia: i Comandanti della Fede sono i governanti; i Guardiani della Fede la polizia. Molti sono i riferimenti nel romanzo a fatti biblici. Anche le donne hanno nomi che si rifanno alla Bibbia che sottolineano la loro subalternità. Difred, la protagonista, è una Ancella. Il concetto di Ancella rimanda alla Genesi e in particolare all’episodio di Giacobbe che giace con la sua ancella per volere della moglie sterile.

Le Ancelle sono le uniche donne rimaste in età fertile a Galaad. Ognuna viene assegnata a un Comandante la cui moglie non può avere figli e viene mandata a casa di questo Comandante per sottoporsi in presenza della moglie ad accoppiamenti forzati fino a che non rimane incinta. Le Ancelle possono uscire solo in coppia ma non possono parlarsi tranne che per frasi fatte e bisbigli tratti dalla Bibbia, né guardarsi in faccia. Infatti indossano dei copricapi muniti di alette che ne impediscono la visuale ai lati.
Le anziane sono le Zie che hanno il compito di indottrinare le Ancelle su quello che dovrà essere il loro ruolo.
Le Marta sono le domestiche mentre le Non Donne sono tutte coloro che non rientrano in nessuna delle funzioni di cui sopra e sono lesbiche, femministe e altre donne il cui destino è quello di essere mandate nelle colonie a smaltire rifiuti tossici fino alla morte.

Ciascun ruolo è anche distinto da un colore di vestiario diverso: le vesti delle Ancelle sono rosse in quanto colore simbolo del sangue mestruale e del peccato; le mogli sono vestite di blu, colore della verginità immacolata, etc.

Inoltre tutta la struttura sociale di Galaad si rifà alla struttura del puritanesimo americano del XVII secolo.

In questo senso la dedica a Mary Webster è significativa di come la Repubblica di Galaad fosse tutt’altro che inverosimile visto il precedente storico del XVII secolo, come anche della Germania nazista.

Tutto quello che è avvenuto prima della presa del potere dei Comandanti veniamo a saperlo nel corso della narrazione attraverso frequenti flashback.

Il racconto dell’ancella è infatti una sorta di diario che si apre in medias res, costruendo pagina dopo pagina la visione della società nata in seguito alla presa di potere della destra teocratica, una società fondata sul ritorno ai “valori tradizionali” avallati da una rigida interpretazione della Bibbia, nella quale le donne hanno perso ogni tipo di diritto e dove il controllo del corpo femminile ha un ruolo centrale per la sopravvivenza della società stessa.

Difred è un personaggio scomodo, non è un personaggio con cui è facile identificarsi. È complessa e conflittuale, tormentata da un passato che ritorna con un’eco di eventi che ancora riecheggiano nella mente e nel corpo della ragazza. Non può neanche considerarsi un modello di femminismo visto che prima del cambiamento epocale era una normalissima donna, amante di un uomo sposato. Non ha alcuna reazione di ribellione nel momento in cui perde lavoro e conto in banca senza spiegazione. Il nome non è quello autentico della donna, anzi non è neanche un nome. Indica l’appartenenza della donna al Comandante cui è sottomessa, appunto Fred, in accordo con un processo di totale spossessamento dell’identità.

Differente da Difred è l’amica universitaria Moira, che rincontrerà nel centro di indottrinamento, la quale è sempre stata una attiva femminista, lesbica, ribelle e anticonformista. Moira non ha alcuna intenzione di farsi sottomettere dal regime ed è l’unica a tentare la fuga. In questo somiglia alla madre di Difred che invece era una femminista radicale e disapprovò molte scelte di vita della figlia.

Un personaggio chiave è poi Serena Joy, la classica donna che sostiene di non aver bisogno del femminismo e lotta per ripristinare i valori tradizionali della famiglia.

Il romanzo si presenta inoltre anche come un romanzo di testimonianza come poteva esserlo per esempio il diario di Anne Frank: Difred infatti registra questo suo racconto nella speranza che qualcuno in futuro possa raccogliere questa sua testimonianza e investigare su quanto successo.

L’epilogo è ambientato duecento anni dopo, nel 2195, in una conferenza dove si parla delle registrazioni dell’Ancella a cui tutti i professori danno poco credito.

Il racconto dell’ancella è una storia dai risvolti inquietanti che lascia senza fiato e con un senso di vuoto, come se anche noi l’avessimo vissuta.

 

(Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, trad. di C. Pennati, Ponte alle Grazie, 2017, pp. 400, euro 15)

Copertina di songs of experience su flaneri

Usalo o perdilo: il talento degli U2 oggi

Il lento declino di una band importante, la sensazione di trovarsi di fronte a un tradimento, una certa tendenza nel piegare il suono verso quello rassicurante del circuito mainstream/showbiz, l’idea di base di essersi venduti completamente alle leggi del mercato. Tutto questo ha trovato, negli ultimi anni, un termine che pare possa definirlo: coldplayzzazione. Due gruppi, oltre chiaramente ai Coldplay – che sono i primi a essersi coldplayzzati prima che questa parola si riempisse di questo significato più o meno preciso – sembrano aver subito questo processo in un passato recente: i Muse e gli U2. Per i primi, coevi dei Coldplay, è più facile fare un paragone non solo qualitativo, ma anche temporale: se la band di Chris Martin ha iniziato la discesa verso la corruzione artistica con Milo Xyloto (2008), quella di Bellamy l’ha intrapresa a partire da Black Holes and Revelations (2006). Entrambi i gruppi avevano degli album più che pregevoli alle spalle. Poi la caduta. Per gli U2 il discorso è più complesso, perché la storia della band di Bono, che oggi torna con Songs of Experience, è chiaramente più importante e più longeva.

Per gli U2 il discorso sembra, infatti, legato a una questione di naturale declino artistico: magari piuttosto precoce, se si pensa che il loro ultimo grande album è Achtung Baby, 1993. Gli U2, bene o male, hanno dato l’impressione quantomeno di provarci. Spesso con scarsi risultati, a volte con cadute bassissime. Ma quelle cadute provenivano sempre da loro errori. Gli U2, negli anni, sono semplicemente diventati degli U2 peggiori. Coldplay e Muse, no. Loro hanno cambiato muta, hanno fatto posto a un altro gruppo, adeguandosi in maniera furba a come si stava muovendo il mercato e auto calandosi in quell’altra dimensione con altri vestiti. Sono stati artisticamente meschini. Questo discorso di coldplayzzazione non è completamente attinente alla band irlandese. Gli U2 hanno continuato il proprio discorso artistico, scegliendo la strada sbagliata. Hanno perso il fuoco, pensando di averlo ancora in sé.

Songs of Experience è, nonostante tutto, un passo avanti rispetto al precedente Songs of Innocence, dove attorno al singolo “The Miracle (of Joey Ramone)” si sviluppava un lavoro pigro e ruffiano. Quest’ultimo lavoro, invece, si apre inaspettatamente bene, e lo fa in un modo avulso dalle logiche U2: i quasi tre minuti di “Love is All We Have Left” ci presentano un gruppo che da l’idea di essere fortemente ispirato. Una post-ballata alla Bon Iver di 22, a Million, l’espediente del vocoder usato proprio alla Justine Vernon in maniera attuale. Nonostante non dica nulla di nuovo, una bella boccata d’aria. Il riff di chitarra alla “Loser” di Beck fa da cornice al bel pop di “Lights of Home”, anticipando il singolo “ You are the Best Thing About me”, un pezzo costruito bene e che adempie a tutte le mansioni del singolo: immediato, senza essere stucchevole, e da traino per l’album – c’è da dire che gli U2, nel loro declino, sono sempre riusciti a tirare fuori singoli o singole canzoni (per esempio “Ordinary Love”, inserito successivamente in quest’album in versione remix, estratto dalla colonna sonora del film Mandela: Long Walk of Freedom) quantomeno funzionali.

I problemi iniziano dalla fine di “You are the Best Thing About me”. Dal pop punk adolescenziale di matrice Offspring di “Get Out of Your Own Way”, agli ammiccamenti a Ed Sheeran di “Summer of Love”, passando per i cori nauseanti di “The Red Flag”, fino alla scialba “The Blackout”.

Songs of Experience si perde in detti e ridetti, ed è un peccato perché sono presenti dei momenti che non ci si aspetta più dagli U2, dei momenti che valgono a prescindere dalla questione su cosa siano oggi gli U2: in “The Little Things That Give You Away”, infatti, sembrano quasi risbucare fuori gli U2 di War in un tipico pezzo alla U2 e in “13 (There is a Light)”, che viaggia verso gli stessi territori di “Love is All We Have Left”e con cui forma un bel trittico insieme a “Book of Your Heart”, c’è la classe che ha reso Bono quello che è Bono.

Songs of Experience è confuso e fragile. Probabilmente gli U2 non torneranno più quelli degli anni Ottanta e sarebbe anche ingiusto aspettarselo. Nonostante tutto, in quest’ultimo lavoro ci sono spiragli di luce dove è possibile rimirare un passato glorioso che la band di Bono non ha mai saputo trasformare, dalla seconda metà degli anni Novanta in poi, in presente.

 (Songs of Experience, U2, Pop)

L’epitaffio letterario per Charlie “Bird” Parker

«E non è colpa tua se non hai potuto scrivere quello che nemmeno io sono capace di suonare».

Pozze nere di china inseguono le parole di Cortázar fissando le suggestioni scomposte in illustrazioni tenaci. Edizioni SUR non si accontenta di una nuova traduzione di L’inseguitore (2016), uno dei più noti racconti dello scrittore argentino, ma lo trasforma in un’incredibile esperienza visiva accostandovi le tavole del famoso fumettista José Muñoz.

Un racconto sul tempo e sul jazz del sassofonista Johnny Carter – alter ego letterario di Charlie “Bird” Parker – narrato attraverso lo sguardo di Bruno, critico musicale alle prese con la stesura della biografia dello stesso Johnny. Cortázar antepone l’uomo al jazzista: il lettore, infatti, incontra Johnny in una stanza d’albergo da pochi soldi, lo trova seduto su una poltrona con le ginocchia al petto, febbricitante e avvolto in una coperta. Il sax perso da qualche parte nella Parigi inquieta degli anni cinquanta e al suo fianco Dédée, la donna che non ama più.

Bruno è lì, Bruno è sempre lì quando le cose vanno male, quando Johnny esagera con l’alcol e la droga e le allucinazioni prendono il sopravvento sulla realtà. Bruno annota tutto, conosce ogni debolezza di Johnny ma non ne scrive nel libro, d’altronde è una biografia che celebra la genialità di Johnny, quella sua capacità sorprendente di anticipare ciò che verrà. E in effetti è tutta una questione di tempo «Johnny sta sempre suonando domani e il resto rimane indietro, in questo oggi che lui salta senza fatica con le prime note della sua musica». Una forza visionaria autodistruttiva che lo condanna a vivere a margine della società, senza alcuna possibilità di salvezza.

L’inseguitore, dunque, altro non è che un epitaffio letterario, l’ultimo omaggio a uno dei più grandi jazzisti del Novecento, morto nel 1955 a soli 34 anni.

In poco più di cento pagine Cortázar ripercorre gli ultimi avvenimenti della vita di Johnny-Charlie, ne immagina i discorsi sconclusionati dovuti alle crisi di astinenza e ne fa emergere una malinconia straziante che incanta e al tempo stesso commuove. Cortázar non pretende di azzeccarci, vuole solo restituire al lettore la complessità di un uomo tanto geniale quanto fragile senza ignorare l’impossibilità di afferrare fino in fondo cosa lo abbia divorato.

 

(Julio Cortázar, L’inseguitore, trad. di Ilide Carmignani, Edizioni SUR, 2016, pp. 110, euro 15)
laldila-horacio-quiroga

Racconti di amore, morte e follia

L’uruguayano Horacio Quiroga è uno di quegli scrittori la cui stessa vita assomiglia a un romanzo: diplomatico in Argentina oltre che scrittore affermato, visse anche per diversi anni nella giungla, di cui amò intensamente la natura indomabile. Ma fu anche toccato per tutto il corso della sua vita dalla morte delle persone più care – tra cui il suo migliore amico, ucciso per sbaglio dall’autore stesso, che gli sparò mentre gli preparava il fucile per un duello. Anche come riflesso di questa vita straordinaria vanno forse letti i racconti di L’aldilà (Edizioni Arcoiris, 2016), originariamente pubblicati nel 1935.

Fervido lettore di Edgar Allan Poe, che considera un maestro, Quiroga tesse trame in cui la follia, l’amore e la morte si intrecciano in narrazioni sperimentali, di stampo modernista.

In L’aldilà, elementi soprannaturali – apparizioni di fantasmi, preveggenze e amnesie – irrompono nella vita quotidiana dei protagonisti, provocando collassi nella loro percezione del mondo e portandoli alla follia, quando non alla morte. Come tipico di quel grande universo narrativo sudamericano che va sotto l’etichetta di «realismo magico», l’evento soprannaturale non è mai spiegato ma solo lasciato intuire al lettore. Allo stesso modo, esso non viene mai messo in discussione dal protagonista, che si limita a viverlo e a pagarne fino in fondo le conseguenze.

Calati appieno nel loro tempo, i racconti di Horacio Quiroga affascinano per la malinconia che emerge dalle loro ambientazioni, in particolar modo quelle cittadine – quasi che, nelle strade di Buenos Aires così come negli studi di Hollywood, aleggiasse la percezione di una felicità perduta per sempre e di una catastrofe imminente.

Proprio il cinema rappresenta un terreno di particolare interesse per Quiroga, che vi dedica ben due racconti, Il vampiro e Il puritano. In entrambi, una parte dell’anima degli attori rimane impressa sulla pellicola dei film in cui recitano: accade così che in determinate circostanze essi rimangano a vagare sulla terra dopo la morte sotto forma di fantasmi.

Un’idea che richiama alla memoria la Teoria degli spettri di Balzac sulla fotografia: quella secondo cui ogni corpo è costituito da strati di spettri, ognuno dei quali viene distaccato a ogni operazione daguerriana, portando alla perdita di una sua parte fondamentale.

Tuttavia, i racconti di L’aldilà risultano un po’ invecchiati a un lettore di oggi, per diverse ragioni.

La prima è propriamente narrativa. Abituati come siamo a una certa coerenza narrativa, e più smaliziati nei confronti delle storie, percepiamo come non del tutto riusciti racconti come quelli di Quiroga, di certo sperimentali ma tutti con un ritmo piuttosto simile: a fronte di premesse dal fascino indiscutibile, tendono a declinare nel corso dello svolgimento fino ad arrivare a epiloghi quasi inconsistenti – o quantomeno non preparati dagli avvenimenti che li precedono.

La seconda sta nel modo in cui temi come quello della follia sono affrontati. Se lo spegnersi della ragione in Poe è una discesa nell’inferno di cui il lettore è del tutto partecipe, la follia raccontata da Quiroga appare più stereotipata, sia quando è vissuta in prima persona sia quando è raccontata da uno spettatore esterno. Si ha la percezione che non vi sia alcuna immedesimazione, né comprensione verso questi personaggi, e questa sensazione rende alcuni racconti difficili da apprezzare.

Resta però un oggetto di interesse, ed è quello che tali racconti suscitano se ci caliamo nell’epoca in cui si collocano e ci disponiamo a farci affascinare dal soprannaturale.

 

 

(Horacio Quiroga, L’aldilà, trad. di Francesco Verde, Edizioni Arcoiris, pp. 176, euro 12)
Copertina di Melodrama su flaneri

Lord(e), why

Quest’estate è uscito Melodrama di Lorde, l’album che ha innalzato la Yelich-O’Connor a immacolata custode del crossover tra pop, house e underground. Consci tutti del fatto, Melodrama ha riscosso un enorme successo per aver, a onor del vero, impacchettato un album di gran fruibilità. Ugualmente vero è che prima di lei, ed esattamente come lei, lo avevano fatto le ultime due generazioni di MTV, se non tre, e la tragedia è stata non solo che Melodrama non provava nemmeno a non essere una loro copia rispolverata, ma piuttosto che la critica ha totalmente bypassato questo aspetto.

La questione non è chiara. Bisogna cercare di capire quale sia stato il momento esatto in cui la critica musicale ha iniziato a piegare il proprio gusto sulla base di chi stava avendo la meglio; capire che tipo di compromesso abbia fatto con le proprie aspettative e in quale lega abbia iniziato a gareggiare.

Melodrama è musicalmente di una banalità imbarazzante. I missaggi sembrano uscire direttamente da una hit del 2006, con la stessa identica dose di spavalderia ereditata dalle tute rosa anni Ottanta. Superficiale nella scelta del piano, di quel piano, dei remix basilari, dei testi degni della peggior boy band degli anni 2000 (da «but what will we do when we’re sober?» a «I’m your sweetheart psychophatic crush»). L’intero lavoro scivola tra le classiche ballate da pop star in accidentale introspezione e pezzi esplosivi da superbowl, tra virtuosismi vocali accompagnati dal pianoforte (“Liability”, “Winter in the dark”) e sillabazioni ritmate dalle linee di percussioni o dalle accelerazioni elettroniche (“Green Light” e “Sober” ). Chiaramente qua e là l’immancabile spruzzata hip hop a creare il gusto perfetto (“Homemade Dynamite”). La sensazione costante è che si assista a una serie di riproposizioni di un modello che prescinde totalmente dall’elaborazione dell’eredità e dalla sua manipolazione. Lorde è il più maturo esempio di assenza totale di produzione artistica, l’esempio di come si possa vestire perfettamente un certo mondo senza dare niente di più.

Non sono di certo la tematica della rottura, l’atmosfera high school e l’approccio adolescenziale a essere il problema. Gli album di formazione, tanto quanto i romanzi, hanno da sempre un potenziale artistico con pochi eguali. Ma la fluorescenza e l’edonismo che vengono sparati a caso per tutta la durata dell’album, e ammorbiditi poi da sporadiche recollections in tranquillity , riducono per l’ennesima volta l’esperienza di crescita femminile – e di adolescenza in generale – alle dinamiche della break-up song, dello sballo e della ribellione iperindividuale. Il problema è che si sta perdendo di vista la differenza tra giovane fenomeno e fenomeno immediato. L’incognita della critica mondiale positiva, inaspettatamente naif, falla l’intero sistema ascolto-ricezione che dovrebbe, piuttosto, guidare.

L’unica spiegazione possibile è che probabilmente è vero che la rivalutazione dell’attitudine pop ha portato alla rottura definitiva della lente di filtraggio e alla brusca deviazione di prospettiva. All’esasperazione mostruosa di estetiche ritrite che trovano la loro forza proprio nell’essere quello in maniera spavalda, vanitosa, volutamente approssimativa. Sembra di trovarci davanti a quella che si potrebbe definire la dialettica del commerciale: lo schernimento iniziale da parte della critica musicale, che si occupava di altro e aveva un altro target; la condanna violenta successiva, di quando ci si è resi conto che un certo pop stava straripando dai suoi ambiti e confini; l’assimilazione finale, quando gli si è riconosciuta la portata culturale. Un tentativo di giustificazionismo storico, di salire sul carro del vincitore tentando una riabilitazione hipster delle paillettes, magari accostate a un cappello retrò e a camicie dai colori pastello.

D’altronde Lorde non fa se non il suo, esattamente come Taylor Swift o Lana Del Ray hanno sempre fatto e, esattamente come loro, raccoglie gli spropositati frutti di una semina facile. Non è la prima volta che ci si trova davanti ad una febbre del genere. E vada pure bene la contaminazione, vada più che bene la fruibilità musicale, l’abbandono di elitarismi inutili e la pop-olarizzazione della musica. Ma che sia reale e non posticcia, che sia da stimolo e non da freno, e che non riduca tutto a un laissez-faire dagli esiti invasati.

(Melodrama, Lorde, Pop)

lodissea-di-encolpio-Pezzini

L’immaginario contro l’anestetizzazione del Bello

Il Satyricon di Petronio e L’asino d’oro di Apuleio, per la maggior parte di noi, non sono che il polveroso ricordo scolastico di due noiosi testi classici, che per giunta ci toccava tradurre dal latino. Viziati da lontani pregiudizi liceali, spesso le consideriamo opere adatte a fare la loro bella figura nella libreria del salotto, ma che difficilmente penseremmo di riprendere in mano. Insomma qualcosa di troppo lontano rispetto alla nostra moderna estetica pop, e che ci contentiamo di etichettare come “interessante”. Dove con questo anemico attributo, usato con nonchalance come sinonimo appena mascherato del suo contrario, si intende una reazione assente, perplessa e affievolita, qualcosa che nella sua astratta genericità vuol dire tutto e non vuol dire niente. Questa deformazione prospettica ha a che fare con il grande conflitto estetico del nostro tempo, quello che vede il tramontare delle tradizionali categorie del Bello e del Sublime in favore del più rassicurante “interessante” di cui sopra, la moneta che spendiamo correntemente nelle svagate chiacchiere da salotto o da dopo mostra, nelle lezioni scolastiche, in certa critica letteraria, nei giudizi correnti. Ciò che è “interessante” è innocuo, mentre il Bello è eversivo. «La bellezza salverà il mondo», ci preannunciava Dostoevskij già nel XIX secolo, ma in fondo chi vuole prendersi la briga di salvarlo, oggi come oggi? Troppa fatica.

Tutto ciò trova il suo opposto speculare nell’altro comune sentire circa la letteratura cosiddetta “d’evasione”, “di consumo” o “d’intrattenimento”, altresì detta “pop”, generico calderone nel quale si getta ogni opera cronologicamente più vicina e che sia capace di farsi icona del nostro immaginario attraverso le vie del fantastico – e non solo – da Alice nel paese delle meraviglie di Carroll al Dracula di Bram Stoker allo Sherlock Holmes di Doyle, giusto per citarne alcune punte di diamante. Qui, a regnare sul kantiano concetto di Bello, il generico e volgare “interessante” cede il posto alle sottocategorie estetiche dei suoi tiepidi parenti, per esempio il “carino”, lo “strano” o il “divertente”.

Ma al di là del dibattito che contrappone una letteratura di serie A a un’altra di serie B, e senza perciò entrare in merito alle opposte fazioni che si contendono la vittoria nello stabilirne il peso ponderale, voglio piuttosto soffermarmi sulla moderna banalizzazione dell’estetica e la sua conseguente pericolosa deriva, l’anestetizzazione del Bello. A questo proposito trovo significativi i tre recenti volumi di Franco Pezzini, studioso dei rapporti tra letteratura, cinema e antropologia, con particolare attenzione agli aspetti mitico-religiosi e al fantastico, editi dalla casa editrice bolognese Odoya, specializzata in saggistica divulgativa: Victoriana. Maschere e miti, demoni e dei del mondo vittoriano (ottobre 2016), L’importanza di essere Lucio. Eros, magia e mistero ne L’asino d’oro di Apuleio (marzo 2017) e L’odissea di Encolpio. Sesso, licantropi e labirinti nel Satyricon di Petronio (giugno 2017).

Il filo rosso che lega questi tre ottimi testi di Pezzini – non a caso animatore della Libera Università dell’Immaginario – è la loro capacità di far riemergere il Bello dalla regressione nella pseudo esperienza estetica degli appiattenti e conformistici “interessante” o “divertente” di cui sopra, apparentemente innocui eppure capaci di anestetizzare la più fiera capacità di giudizio. Salvandoci, per un momento, dalla trasfigurazione del mondo in sbadiglio, dal rassegnato pregiudizio Bello uguale noioso. In un orizzonte culturale in cui cinema, teatro e arti figurative – dalla pittura al fumetto – stratificano suggestioni e ci portano a ripensare l’universo letterario consapevoli della necessità di un approccio e di un linguaggio mutati, Pezzini ci propone un affascinante percorso in cui gli strumenti dell’analisi letteraria e storica più rigorosa dialogano a pari merito con forme e aspetti del nostro immaginario, dalle ancestrali figure archetipiche alla simbologia dei miti moderni. Ma intervistiamo direttamente l’autore.

 

Franco, iniziamo con una domanda di carattere strutturale. Tu riconosci al Satyricon di Petronio e a L’asino d’oro di Apuleio la natura letteraria del romanzo, specificando però quanto questa sia una definizione moderna senza equivalenti nel mondo antico. Sotto questo aspetto, considerando quanto la realtà soggettiva del romanzo contemporaneo modifichi le coordinate di spazio, tempo e linguaggio (flusso di coscienza, monologo interiore, ecc.) che differenze o analogie vi riscontri rispetto ai due testi di Petronio e Apuleio?

Sì, è chiaro che l’etichetta “romanzo” va utilizzata tenendo conto di una realtà abbastanza diversa dai romanzi antichi in generale (si pensi a quelli greci d’amore e d’avventura) e di questi due in particolare: a loro volta non troppo simili tra loro né per condizione – del Satyricon si è persa gran parte – né per impianto. E già la dice lunga il fatto che nell’antichità una categoria “romanzo”, un termine tecnico per definirlo non esista. Ma a sua volta il romanzo contemporaneo non è sempre somigliante a quello classico dell’ottocento: troviamo una situazione molto più liquida, e dove affluiscono contaminazioni di vario genere, che ormai consideriamo sempre meno “anomale”. In questo senso, rispetto all’accezione odierna – che tende ad aprire sempre più in direzione di ciò che i Wu Ming chiamano oggetti narrativi non identificati (che stanno magari un passo oltre la forma-romanzo come oggi percepita, ma il confine è mobile e tende a spostarsi) – in termini generali è difficile stabilire differenze marcate, senza sbavature. Il Satyricon è troppo malconcio per pretendere di offrirne interpretazioni troppo certe, ma certo la natura di un testo che alterna prosa e poesia è un po’ particolare. Quanto all’Asino d’oro la categoria dell’oggetto narrativo non identificato appare particolarmente intrigante: c’è una strana struttura che include non solo novelle di varia ampiezza ma un micro-romanzo – la storia di Amore e Psiche – a sua volta incluso in un’altra novella, quella di Carite e Tlepolemo; c’è uno straniante gioco di identità dell’io narrante che trascolora, ma a gradi, da un Apuleio (virtuale) al protagonista Lucio e poi di nuovo all’autore (sempre virtuale); e c’è un intento generale dell’autore su cui ancora si discute. Ma tutto sommato per testi narrativi lunghi in gran parte di prosa, con unità di fondo e personalità autorale forte la definizione di romanzi (offerta del resto da un robusto filone critico) non pare incongrua.
Poi, certo, il romanzo moderno non deriva direttamente dall’antico: il suo capostipite, si dice, è il Don Chisciotte, anche se sarebbe più corretto individuarlo nel protomodello del picaresco, quell’opera straordinaria che è il Lazarillo de Tormes. E i romanzi di Petronio e Apuleio mostrano proprio una dimensione che potremmo definire picaresca: lo spazio-tempo autobiografico di un itinerario umano avventuroso e semiserio, lungo e accidentato, malizioso e a volte riprovevole, con le sue miserie e gioie, fino a una qualche realizzazione (nell’Asino d’oro evidente, nel Satyricon ipotizzata).
Se non c’è una diretta derivazione genetica tra antico e moderno, almeno un influsso potente è però avvertibile. Soprattutto L’asino d’oro resta un testo di riferimento, che modella l’immaginario dei secoli seguenti (anche specificamente quello fantastico) e ispirerà in modo diretto o indiretto molti narratori moderni. Se anzi esaminiamo questi romanzi non frettolosamente, ci accorgiamo di quanto da vicino ci parlino a partire dalle forme, dal registro di comunicazione. C’è appunto il discorso della provocazione identitaria, giocata in Petronio con un sofisticato gioco di rifrazioni e stacchi del lettore dall’io narrante, e in Apuleio nella forma ambigua e cangiante quasi pirandelliana di cui accennato; c’è la dimensione del linguaggio, gestita nel Satyricon differenziando pirotecnicamente i registri espressivi a seconda di profilo culturale e persino di livello di sobrietà dei personaggi, e nell’Asino d’oro con un’operazione altrettanto sperimentale di acrobazie lessicali; mentre spazio e tempo appaiono perturbati in storie che (soprattutto nel caso di Apuleio) potrebbero appartenere alla dimensione onirica, a indecidibili visioni d’iniziazione o a un caso di Jung.
Ovviamente le strutture formali sono in dialogo con i contenuti, conturbantemente attuali. Per Petronio pensiamo a quella deriva che da una fuga nel cibo – a prefigurare in modo inquietante l’odierna età dei MasterChef, nuovi guru in un tempo di decadenza – traghetta all’uomo-cibo, al cannibalismo lupesco e predatorio; o alla dimensione del sesso, nelle dimensioni più estreme, di volta in volta (ma non moralisticamente) tristi o grottesche. Mentre per Apuleio, colpisce il mix di disincanto e tentazione del magico (che in qualche modo prefigura certi fiati del fantastico laico e moderno, inteso alla Todorov come incertezza, imbarazzo e ambiguità), di ironia e inquietudine che avvertiamo come paradossalmente vicini. Se i romanzi silfici del settecento mettevano in scena spiritelli guardoni che scrutano le alcove all’insegna di un meraviglioso un po’ birichino, qui a dispetto della wonder di streghe e continue metamorfosi il punto di vista è molto più feriale e ordinario, un asino che guarda… E l’occhieggiare voyeuristico dell’asino curiosus che punta al torbido di un’intera società prefigura le Commedie umane di tutta la letteratura moderna. Entrambe le voci echeggiano in forme e contenuti i grovigli di una società complessa, la crisi delle agenzie di certezza, i tentativi nobili o goffi di farvi fronte.

 

A proposito di questo, infatti, tu evidenzi quanto uno dei livelli di lettura delle opere classiche del Satyricon e de L’asino d’oro sia certamente quello di un itinerario in progress in cui tutto cambia rapidamente, metamorfizzando in continui colpi di scena, sorta di percorso-guida nell’immaginario i cui personaggi, quando mutano in animali, non possono non ricordarci La metamorfosi di Kafka. Oltre a ciò sottolinei quanto costituiscano una specie di gangster story, di true crime del mondo antico, che con i loro nessi sghembi tra grottesco e violenza rimandano molto da vicino alle atmosfere dei moderni snuff movie o a Pulp fiction di Tarantino. Dunque, al di là dei debiti che la moderna narrativa ha con questi due capolavori del passato, anche il cinema sembrerebbe vantare una certa eredità. In quanto studioso dell’immaginario, se e in che modo pensi che la loro eco possa essere significativa anche in altri ambiti della cultura e della società?

È un fatto che i romanzi in questione impattino sulla cultura ben oltre i limiti della sfera letteraria. Per il Satyricon la ricaduta cinematografica è evidente: oltre al capolavoro di Fellini, si pensi alla coeva e non disprezzabile versione di Polidoro, ma persino alla parodia con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia che conferma una popolarità diffusa. Mentre per L’asino d’oro, e a parte la modesta trasposizione di Sergio Spina, occorre considerare le derivazioni dirette (per esempio gli influssi sul Decameron, fino a quello di Pasolini che trattiene proprio uno degli episodi “apuleiani”) e indirette (per dire, da Bella e la bestia a Pinocchio, con tanto di trasposizioni sceniche). Derivazioni neppure sempre coscienti: l’impatto del romanzo di Apuleio sulle arti figurative, la musica e un intero ventaglio di forme di spettacolo è stato strabordante. Al punto che è divertente – ma credo lecito, dal punto di vista di ciò che Petronio e Apuleio ci direbbero (ridacchiando) se potessimo intervistarli – un gioco con le nostre categorie culturali: la sfida a individuare i lasciti di queste pagine latine in opere anche lontanissime.

 

In Victoriana parli delle strutture-tipo (come per esempio le tentazioni di Sant’Antonio o la fine di Don Giovanni) che per secoli hanno offerto combustibile all’immaginario collettivo, permettendone le più varie declinazioni narrative, pittoriche, musicali, ecc. e soffermandoti in particolare su quella di Salomè, il cui fascino torbido e ingenuo trova ampia eco nell’epoca vittoriana, basti ricordare Oscar Wilde ed Aubrey Beardsley. Ne L’asino d’oro e nel Satyricon analizzi la figura archetipica dell’antica Lamia, l’orchessa che si nutriva del sangue dei bambini, unitamente ad altre epifanie ibride di creature femminili seducenti e mutanti. È dunque già nell’antichità classica che possiamo rintracciare la radice della struttura-tipo del moderno modello di Vamp e di Dark Lady, che dalla Londra vittoriana giunge fino a noi?

Sicuramente, anzi le origini sono addirittura precedenti: diciamo post-neolitiche, in riferimento cioè alla lunga fase in cui il mondo della Grande Madre – schematizzo forzatamente, ma solo per capirci – viene travolto e permeato da culture di allevatori patriarcali. I volti “tranquillizzanti” della Dea diventano tante brave mogli, madri e amanti dei dominatori maschi, quelli inquietanti (in particolare la dea della morte e dei morti) vengono subordinati come caratteristiche secondarie delle dee o decisamente demonizzati. Ripeto, ora sto forzando e banalizzando un quadro infinitamente più complesso, ma la vampira – in senso generico – è un modello arcaicissimo, e non attiene solo al recupero post-settecentesco delle storie di vampiri – ora in senso tecnico – dell’est europeo. Teniamo presente che per migliaia e migliaia d’anni queste orchesse, evocate dalle balie per minacciare i bambini ma anche da operatori del magico in contesti preoccupati o invece spiacevoli, sono rimaste confinate in gran parte nella cultura popolare: gli autori classici le citano quasi per sbaglio, e le recuperano con imbarazzo tirandole un po’ per i capelli nelle biblioteche mitologiche. Più avanti, in età cristiana, questi profili si compenetrano con quelli di dee false e bugiarde o di ultrapeccatrici come Salomè. Salvo riemergere in forme nuove con il mondo moderno: diavolesse, vampire, vamp, femme fatale, dark lady… La Salomè simbolista presidia per esempio vari fronti artistici “alti” ma in parallelo le sue perfide sorelle dilagano nei generi popolari, e un punto d’incontro sarà il cinema. Comunque una svolta importante è legata nell’ottocento alle dee preraffaellite, numinose come Astarte Siriaca, affascinanti come Proserpina, indipendenti come Lady Lilith (per fermarsi a tre icone di Dante Gabriel Rossetti, forse il massimo codificatore del modello): le due o tre generazioni successive, sull’onda di nuove paure (l’inquietudine per le battaglie femminili contro pastoie sociali e istituzionali, i timori nazional-eroicistici sull’indebolimento del maschio, eccetera), le trasformeranno in tante vampire.

 

La storia di come si siano intrecciati e tramandati i lasciti delle immagini arcaiche è soggetto di notevoli studi. Per esempio dal mondo vittoriano in cui vede il suo definitivo affermarsi, l’archetipo del licantropo è oggi più che mai attuale. Nel Satyricon petroniano troviamo il celeberrimo episodio del lupo mannaro, prima testimonianza narrativa in occidente di licantropia quale mutazione involontaria, e una situazione analoga è presente anche ne L’asino d’oro di Apuleio, episodio che definisci come un «pulp fulminante». Ma i primissimi accenni a questa icona dell’immaginario popolare si hanno già nell’antico Egitto attraverso la figura del dio mutante Anubi dalla testa di sciacallo. Trovi che si possa stabilire un fil rouge con il lupo mannaro oppure ritieni che questa prima forma egizia sia troppo embrionale?

La domanda è molto bella perché fa dialogare il tema lupesco che corre in forme diverse in tutto il Satyricon con le fantasie egizie dell’Asino d’oro… Diciamo che il nesso è indiretto. La facies animale degli dei egizi attiene a una dimensione essenzialmente simbolica, e ritualizzata poi con maschere in certe celebrazioni isiache, ma non si pensa a una condizione metamorfica. Per contro è vero che i canidi – lupi, sciacalli, i cani stessi al di là di ogni giulebbosa retorica sul “miglior amico dell’uomo” – sono associati alla sfera infera almeno dall’immaginario neolitico in avanti: nell’Odissea c’è l’episodio tenerissimo del cane Argo, ma c’è anche il mostro Scilla dal cui tronco femminile si diparte un viluppo di teste di cane (e non a caso imparentato con l’infera Ecate, a sua volta accompagnata da una pluralità ululante e notturna di cani). Il cane custodisce la casa ma anche le soglie degli inferi; i cani vagano sui cambi di battaglia sbranando i cadaveri… Questa tradizione dei cani della morte sopravvive per esempio nel folklore inglese, e Conan Doyle la riprende magistralmente col suo capolavoro sul cane (non mastino, come spesso viene tradotto “hound”) dei Baskerville.
Tornando al lupo e anzi ai lupi del Satyricon – fino all’immagine imbestiata dei cannibali, homo homini lupus, con cui l’opera sopravvissuta si conclude – quest’eco infera è chiara. Sul lupo, animale paradigmaticamente odiato e ammirato, associato a fondatori di regni o sterminato – ancora nell’ottocento – con un sadismo non spiegabile in termini di semplice ostilità verso il predatore delle pecore, grava dunque questo peso simbolico ancestrale. Evidente ancora nelle comparsate di lupi delle fiabe: in fondo è un paradosso che un predatore ben più pericoloso, l’orso, sia associato nelle nostre fantasie a qualcosa di tenero e coccoloso, mentre il lupo fa sempre una pessima figura. Gruppi di guerrieri-lupi, e fenomeni di licantropia rituale – in cui il soggetto “si sente” lupo – sono attestati presso le civiltà più varie. La fine di questi mondi arcaici condurrà i loro ultimi epigoni al triste status di presunti servi del diavolo da bruciare, criminali o pazzi da internare: sono i licantropi miserabili dei processi europei celebrati ancora nella prima età moderna, e quelli poi studiati dagli alienisti.

 

Vorrei porti un’ultima domanda a proposito di quella misura, di Libertà e Bellezza, che intendi come necessaria per leggere le coordinate di una società liquida in continua trasformazione. Alcune delle opere maggiormente significative dell’immaginario moderno, capaci di rivaleggiare per valore mitico con le grandi icone classiche, vedono la luce durante la pruriginosa epoca vittoriana, vero e proprio bacino di desideri e incubi che matureranno poi nella realtà che conosciamo. Pensando alla Alice di Lewis Carroll e al Peter Pan e ai suoi bambini perduti di James Barrie, rimaniamo sbalorditi di fronte al loro peso conturbante e sessualmente latente. In quel lontano ottocento in cui tutto era peccato, al reverendo Carroll sono state possibili cose – come per esempio fotografare centinaia di bambine spesso nude – per le quali oggi sarebbe immediatamente tacciato di pedofilia, così come l’anarchica ribellione del solitario e crudele Peter Pan verrebbe accusata di non essere “politicamente corretta”. Alla luce di questo evidente paradosso, quale peso ponderale pensi abbia oggi la potenza dell’immaginario, e in che modo è ancora in grado di incidere nella realtà? In sostanza, la capacità salvifica del mito nei confronti dell’anestetizzazione del Bello avrà ancora l’ultima parola?

Mah, in realtà credo che proprio sull’immaginario si giochi oggi una partita fondamentale, a livello personale e interiore come collettivo, sociale, politico. Mai come oggi l’uomo ha potuto disporre di mezzi di comunicazione così sofisticati e pervasivi, in grado di veicolare in modo morbido e inavvertito visioni anche radicalmente deumanizzanti. Lavorare sull’immaginario, dissodarlo, è dunque vitale: sia per smontare e analizzare quello che ci viene di continuo calato addosso, magari pericolosamente velato sotto ogni soglia critica; sia per elaborare immaginario in forme sane, di resistenza culturale e macchine per pensare. Da un immaginario imposto, subìto, a un immaginario insomma strumento di libertà: come quello che per esempio ha prodotto nel tempo la grande letteratura. Che ci fa un gran bene, e ci costringe in fondo a ricordare chi siamo. Cioè esseri umani.

 

 

Alla ricerca di nuovi autori per effe #8: i risultati del contest

Cinquecentosette. È questo il numero totale dei racconti che abbiamo ricevuto e letto per il nuovo numero di effe – Periodico di altre narratività (#8). A questi cinquecentosette si vanno ad aggiungere quelli di Tiziano Scarpa, Matteo Meschiari e Michele Vaccari, i tre scrittori a cui abbiamo chiesto di esprimersi sul tema della disobbedienza.

 

Dopo un’attenta lettura, ecco la cinquina di autori provenienti dal contest indetto lo scorso settembre che leggerete su effe 8/2018:

* Giovanni Bitetto
* Elia Gonella
* Jo Lattari
* Nicola Muscas
* Germana Urbani

 

Come per ogni numero, la scelta dei racconti è stata dettata dalla volontà di scoprire scritture capaci di rimanere impresse, che fossero una valida espressione della narrativa emergente contemporanea. Il lavoro di selezione è stato svolto dal nostro comitato di lettura attraverso confronti, discussioni e innumerevoli riletture.

E come per le scorse edizioni, questo elenco svela solo una parte delle storie che ci hanno colpito e convinto: i racconti inclusi nella rosa finale dei 30 autori, che non sono rientrati in effe #8 saranno pubblicati sul nostro sito, nella sezione di Altre Narratività, nel corso del 2018. Sarà nostra premura avvisare per e-mail i selezionati già nei prossimi giorni.

Gli autori della cinquina saranno invece contattati direttamente dagli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui, da circa tre anni, è affidato il lavoro redazionale del volume, per la consueta fase di editing sui testi.

 

Noi, da parte nostra, ci tenevamo a ringraziare tutti gli autori che hanno partecipato al contest.

 

Per rimanere aggiornati su effe – Periodico di Altre Narratività potete seguirci sulla pagina facebook di Flanerí o scriverci all’indirizzo e-mail: redazione@flaneri.com.

 

 

Microcosmo in blue

Capita più di qualche volta nella vita di imbattersi nella sensazione di essere spezzati, di non riuscire a mettere d’accordo le parti della nostra anima che reclamano attenzione. E se c’è un momento in cui è più facile avere accesso a questi anfratti impervi, è il sogno con la sua atmosfera rarefatta. Provare a immaginare che effetto fa trovarsi faccia a faccia con i propri nessuno e centomila è all’incirca quello che accade leggendo l’esordio narrativo dell’autrice romana Marita Bartolazzi, La donna che pensava di essere triste (Exòrma, 2017) che trova il fulcro nella divagazione onirica e arricchisce il prezioso catalogo dell’editore, dedito all’esplorazione del viaggio in tutte le sue declinazioni.

Protagonista della storia è una donna che non ha altro nome né connotazione se non il pensare di essere triste. «La sua tristezza aveva forma di tondi e di losanghe e, attraverso quelle losanghe e quei tondi, lei la guardava come fosse un panorama, o uno scorcio di paesaggio da sbirciare dall’alto»: più che un ineffabile stato d’animo, la tristezza assume qui i contorni di un oggetto tangibile, geometrico, diventa una porzione dell’esistente, un quartiere da abitare e ha un inventario di regole e situazioni, cibi, rumori, colori e indumenti che possano definirla e renderla percettibile attraverso tutti e cinque i sensi.

Nel microcosmo immaginato da Marita Bartolazzi, la tristezza è anche l’unica chiave che la protagonista possieda per relazionarsi con gli altri personaggi: diventa un linguaggio, uno strumento per uscire dal proprio labirinto interiore e venire a contatto con il mondo esterno. Nel suo percorso lungo questa geografia della tristezza – da cui non è opportuno aspettarsi un incedere lineare – la donna che pensava di essere triste sarà accompagnata da una galleria di personaggi bizzarri: un sarto dal quale farsi cucire una coperta di tristezza, un gatto parlante che dispensa perle di saggezza («Il senso di ogni cosa sta in quello che non si dice»), un monumento animato a cui chiedere in prestito la testa, ma soprattutto diverse altre sé stessa che appaiono come brandelli della sua vita passata, dimenticati o abbandonati qua e là nel corso del tempo.

L’azione è condensata in poche situazioni al limite del nonsense, come quando la donna deposita al parco il suo cuore legato con uno spago per fargli prendere aria, oppure l’andirivieni dal supermercato dei sogni dove fa la spesa ogni giorno – vi si trovano sogni per tutti i gusti e di tutte le dimensioni, ingombranti e difficili da maneggiare oppure tascabili, adatti per i viaggi – e dove può prendere in prestito zattere e mari in tempesta per andare alla ricerca di spazi vuoti da riempire con i propri ricordi.

Per raccontare questa storia, l’autrice sceglie la forma della fiaba e riesce, senza mai risultare leziosa, a padroneggiare la lingua evanescente dell’onirico, la cui grammatica non impone di trovare il termine giusto per tutto perché «solo le cose senza nome e parole sono vere». Leggendo La donna che pensava di essere triste sembra di percorrere un passo più in là oltre quello che crediamo di conoscere e si ha l’occasione di riflettere sul modo in cui diamo forma ai ricordi, su tutte le volte in cui smontiamo e ricostruiamo la nostra vita, e soprattutto su quanto sia importante non rinnegare la tristezza, ma piuttosto saperla riconoscere e accoglierla come qualcosa che ci appartiene nel profondo. Provando ad affrontare anche le giornate in cui sentiamo «il mondo come un grosso posto vuoto e senza senso» e imparando a esplorare «il territorio del possibile» attraverso l’immaginazione.

 

(Marita Bartolazzi, La donna che pensava di essere triste, Exòrma, 2017, pp. 156, euro 13,50)
Copertina di Possibili Scenari su flaneri

Quel che è di Cesare

Avevamo lasciato Cesare Cremonini con quel «Logico / Sì è logico», da “Logico”, un pezzo che aveva lo stigma del pop di respiro ultra internazionale, alla Chris Martin post X&Y, da tour mondiali strapieni, effetti speciali esagerati sul palco, quel nuovo iper pop mainstream portato avanti dai Coldplay e che per sconfinare aveva come unico limite quello della lingua. In quell’album, Cremonini iniziava a giochicchiare con un po’ di elettronica, chiaramente sempre declinata al pop, captando certe tendenze mondiali, ma riuscendo comunque a rimanere fedele al proprio modo di fare. Influenzato, ma non corrotto. Da Logico sono passati tre anni e oggi il cantautore bolognese torna con Possibili scenari, che ci mostra un artista che è molto più di quello per cui viene percepito.

Probabilmente l’etichetta Lùnapop non gli si staccherà mai di dosso, in qualche modo l’esser stato il leader di una delle più brevi, assurde e di successo storie della musica leggera italiana – quei Lunapop che con …Squérez? Riuscirono a creare un pre e post Lùnapop, introducendo in Italia l’idea di boyband senza essere prettamente una boyband alla Backstreet Boys o NSYNC (da ricordare, ad esempio, l’esperienza de I Ragazzi Italiani) – farà di Cremonini sempre, appunto, quello-dei-Lùnapop. Lo si percepirà sempre in questo modo. Uno che non potrà mai essere preso in considerazione completamente. Un modo di fare, conscio o inconscio che sia, cieco. Perché Cesare Cremonini è sì i Lùnapop, ma anche altro.
E oggi, alla luce di come si sta sviluppando il cantautorato italiano, la lettura e la rilettura di Cesare Cremonini appare fondamentale.

Perché dalla rivoluzione de I Cani, passando per il momento Calcutta, il punto in cui la musica pop italiana è collassata e si è piegata definitivamente su sé stessa, arrivando ai Thegiornalisti e a Coez (Matteo Renzi che canta “La musica non c’è” è un snodo), mischiando mainstream a indie, non è più possibile la distinzione di queste categorie. Il mainstream non esiste più, l’indie non esiste più (almeno per come sono sempre stati pensati). Si può passare per radio, riempire i palazzetti e scalare le classifiche pur non avendo alle spalle una major. Di certo, l’indole e la spinta che muove questi nuovi non è quella di indie inteso come contrapposizione a qualcosa da abbattere. Non è un atto rivoluzionario.  Anzi, un’unica cosa confusa. Quindi Calcutta può essere mainstream (e il primo a capirlo è stato lui, autodefinendosi proprio Mainstream, scherzando o no non è importante) e Cesare Cremonini indie. D’altronde non è “Marmellata#25”  quello che il cantautore di Latina prova a scrivere?

Cos’ha, quindi, di più indipendente un qualsiasi brano di Scudetto di Galeffi, uscito in questi giorni, rispetto a uno qualsiasi di Possibili scenari di Cremonini? O qualsiasi cosa fatta dai Thegiornalisti da Fuoricampo in poi (per non parare chiaramente di “Riccione”)? O appunto da Calcutta, o dei suoi epigoni Gazzelle? E Cosmo? E allo stesso modo, cosa ha di più mainstream Cremonini rispetto a tutti loro?

In Possibili scenari,  al contrario, ci sono degli azzardi che raramente si trovano nei lavoro dei nuovi cantautori italiani. Da “Poetica”, primo singolo (già i quasi cinque minuti di durata sono un segnale), che a discapito di un ritornello che strizza un po’ troppo l’occhio al Francesco Renga post Timoria, quello di Camere con vista, ha un arrangiamento che rimanda quasi ai Portishead, a “La macchina del tempo”, sette minuti di canzone camaleontica, dove Cremonini si concede delle lunghissime pause dal cantare per lasciare spazio agli strumenti che sembrano suonare per la colonna sonora di un mondo immaginato da Moby. Passando per “Uomo nuovo” a “Possibili scenari”, si nota una capacità compositiva, soluzioni armoniche – che, sia chiaro, sono sempre esistite – e un’espressività riscontrabile pochissime volte negli artisti citati in precedenza.
Per non parlare, infine, di “Kashmir Kashmir”, un funky dentro un pezzo pop con un ritornello trascinante (che ricorda in qualche modo quello di Caparezza in “Ti fa stare bene”), un pezzo costruito in maniera perfetta e una hit immediata senza avere addosso la patina della hit, del tormentone.

Cremonini si prende il tempo per trovare più soluzioni, per sperimentare, per ricercare melodie e armonie. C’è un lavoro enorme a livello compositivo dietro Possibili Scenari, nonostante in alcuni momenti la qualità si abbassi, andando a toccare certi lidi già battuti da un’infinità di artisti italani pieni di retorica (“La Isla”, “Al tuo matrimonio”)

Il sesto lavoro in studio dell’artista bolognese, nonostante tutto, punta più in alto dei precedenti. Possibili scenari suona come la sua Anima Latina. Con buona pace  di Calcutta e di ciò che resta dei Lùnapop.

Rimane dunque una domanda inquietante: è Cremonini a brillare in questo contesto o è l’avvento di Calcutta che, abbassando le pretese, innalza Cremonini?

(Possibili scenari, Cesare Cremonini, Pop)