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L’insostenibile leggerezza dell’apparire

Paolo Vanacore, già autore di Donne romane. Storie al margine sotto l’argine (Edilazio, 2008) e di Piccoli quadri romani (Edilazio, 2011), torna con un nuovo romanzo, L’ultimo salto del canguro (Castelvecchi, 2017), che si sviluppa sempre a Roma, sua città di adozione – l’autore infatti è di origini napoletane.

Qui si snodano le vicende e la quotidianità che hanno per protagonista Edoardo, trentenne discreto e introverso e voce narrante della storia, che coinvolgerà in un secondo momento la sua intera famiglia, in un affresco di situazioni che saranno opportunità di riflessione per lo stesso protagonista e per il lettore.

Edoardo, aspirante avvocato, viene assunto inaspettatamente all’ufficio marketing del Bioparco di Roma. Conduce un’esistenza apparentemente “normale”, barcamenandosi in realtà con la sua doppia vita: è consapevolmente omosessuale e convinto di riuscire a mantenere nascosto per sempre il suo orientamento sessuale a tutti, e in particolare a sua sorella Margherita, a cui è molto legato.

Questo fino a quando non subentra nella sua vita Gabriele, fidanzato di Margi, per cui prova fin da subito un’attrazione forte, il primo vero sentimento che Edoardo nutre per un uomo. Confuso anche dai segnali ambigui che gli manda Gabriele, il protagonista decide di partire improvvisamente per Dublino, per partecipare a un master. Il cognato però lo raggiunge per dichiarargli i sentimenti che a sua volta ha scoperto di nutrire per lui.

La narrazione è un crescendo di situazioni ironiche e di attimi di turbamento, ma allo stesso tempo di riflessione che permettono al protagonista di capire che dietro a ogni condizione apparentemente perfetta si nascondono sfondi enormemente delicati e complicati, celati da un velo di simulazione. Edoardo, chiedendosi allora cosa sia la “normalità”, arriva a capire quanto la finzione avvolga quasi ogni sentimento umano.

Il tema dell’omosessualità è trattato da Vanacore con estrema delicatezza, senza mai perdere una certa leggerezza, resa possibile dalle situazioni divertenti e al limite del grottesco che coinvolgono personaggi smaliziati e anticonformisti.

L’ultimo salto del canguro è un romanzo che parla a tutti, utile per capire meglio il mondo che ci circonda, caratterizzato da una verità che purtroppo è spesso coperta da un involucro di finzione, che rende la nostra società attuale, più che quella della conoscenza, quella dell’apparenza.

 

(Paolo Vanacore, L’ultimo salto del canguro, Castelvecchi, 2017, pp. 160, euro 17,50)
Poster di Smetto quando voglio – Ad Honorem su Flanerí

“Smetto quando voglio – Ad Honorem”: la fine come punto di partenza

Dopo la Masterclass arriva la laurea Ad Honorem. La saga di Smetto quando voglio, ideata da Sydney Sibilia, arriva alla conclusione. Al terzo film, il gruppo di ricercatori precari passa definitivamente dalla parte della giustizia, più che della legge, trasformandosi in una squadra di eroi quasi super.

Tutto era iniziato nel 2014 con il primo film. Il neurobiologo Pietro Zinni, stanco di una vita di contratti in scadenza all’università e lezioni di recupero in casa, riunisce un gruppo di accademici sulla via del fallimento per produrre una droga legale – una smart drug – da immettere sul mercato per fare soldi. Segue l’arresto, la galera, la collaborazione con la polizia nel secondo film. Ad Honorem vede la banda in attesa di processo che decide di evadere da Rebibbia per fermare un pazzo criminale armato di gas nervino. Per farlo avranno bisogno dell’aiuto dell’ex nemico “Er Murena”, boss della mala romana con formazione da ingegnere navale, che conosce la storia e le motivazioni del pazzo, e il suo nome: Walter Mercurio.

«Ogni saga ha una fine». È la frase che accompagna il lancio di Smetto quando voglio – Ad Honorem, ed è un gran peccato. Perché se la serialità cinematografica sta assumendo sempre più spesso a Hollywood la dimensione del rifugio di sceneggiatori e produttori in crisi di idee, in un panorama ormai saturo di pilastri dell’immaginario, l’idea di costruire e alimentare un mondo, un universo filmico italiano sembra offrire degli scenari di enorme potenziale.

I tre film di Smetto quando voglio hanno dimostrato, in crescendo, la voglia e la capacità del cinema italiano di fare qualcosa di nuovo, di diverso. Il tentativo di fondere il cinema criminale alla Guy Ritchie, l’epica di una serie come Breaking Bad e la tradizione del miglior cinema popolare italiano (dai Soliti ignoti in giù) ha creato una strada da percorrere per vedere fino  a dove può portare.

È chiaro che non basta fare un film diverso per fare un film migliore. Ci vuole intelligenza in scrittura e produzione, ci vuole un cast adeguato. Ci vogliono i giusti elementi, in sintesi. La banda guidata da Sydney Sibilia in regia e Matteo Rovere in produzione ha trovato il modo migliore di unire tutto. C’è un’idea di produzione forte, con i tre film che si incastrano tra di loro con un’intelligente movimento temporale. C’è la costruzione dei personaggi che si affida, giustamente, alla ripetizione e alla caratterizzazione. C’è la nascita del villain che diventa un grandissimo momento di cinema, nel suo affidarsi comunque a stilemi narrativi già noti Quasi non sono tre film separati, ma un film unico.

Il primo Smetto quando voglio aveva lasciato uno strano senso di ambiguità. Il messaggio che emergeva suonava più o meno come: in un Paese in cui le menti migliori di una generazione vengono abbandonate dalle istituzioni, mettersi a produrre droghe sintetiche da vendere non è solo giusto ma addirittura doveroso. I due film successivi hanno aggiustato il tiro fino alla catarsi di Ad Honorem. La banda dei ricercatori diventa una Suicide Squad altrettanto mal assemblata ma più affiatata. Il nemico è forse, uno di loro, che ha spinto la sua frustrazione ancora più in là, oltre il confine del male.

Come e più di Lo chiamavano Jeeg Robot, come Veloce come il ventoAd Honorem è il saggio finale di una trilogia che dimostra come il cinema italiano, con un’intelligenza consapevole dei propri mezzi, può tornare a offrire intrattenimento brillante e divertente.

(Smetto quando voglio – Ad Honorem, di Sydney Sibilia, 2017, commedia, 96’)

Storie da una terra sconosciuta

«Leggendo i libri di storia che parlano di secoli lontani e di antichi eventi mi sono chiesto: dov’erano e cosa facevano allora i miei antenati? Sia che parliamo del Medioevo, dell’età della pietra o del diluvio universale, loro sono comunque esistiti, perché altrimenti io non sarei qui». (p.64)

Alla vigilia del suo trentesimo compleanno, la casa editrice Iperborea ha pubblicato il primo romanzo lettone del suo catalogo, Come tessere di un domino di Zigmunds Skujiņš.

Nei trenta capitoli del libro il narratore in prima persona dà vita a due storie parallele che coprono, a partire dalle allusioni al periodo medievale, l’immaginario e la storia del popolo lettone. Il protagonista della prima narrazione racconta retrospettivamente la sua esistenza e quella della sua famiglia durante il corso del secolo scorso, dal passato privato di quando era bambino alle dolorose esperienze di un paese che visse un secolo di dominazioni straniere, tra la potenza tedesca e quella russa. Il narratore dell’altra storia attraversa invece il Settecento, secolo della ragione, durante il quale, , scienza e magia hanno convissuto.

Il personaggio settecentesco di Cagliostro, il Grande Cofto, «l’ambasciatore dei profeti», ciarlatano e taumaturgo, accompagnato da un corteo di freaks, plasma con i suoi miracoli stupefacenti la mente di una piccola cerchia di curiosi tra cui la povera Baronessa; Waltraute, dal canto suo, insegue disperatamente il chirurgo Gibran perché, quasi impossibile a crederci, egli avrebbe salvato la vita a suo marito, cucito per sopravvivere in un corpo solo insieme a un uomo di umili origini, suo commilitone. Il lettore italiano penserà subito a Calvino, leggendo queste pagine piene di implicazioni filosofiche sul tema del doppio. C’è tuttavia una differenza sostanziale: il narratore di Come tessere di un domino racconta alla fine della sua vita e da vecchio con il senno di poi, dando la sensazione di un’amara onniscienza di cui egli spesso si serve per integrare le conoscenze più mature con i pensieri della sua infanzia, mentre in Calvino avviene esattamente il contrario e la storia ci dà una nuova prospettiva, quella dell’innocenza. Nella postfazione, la traduttrice Margherita Carbonaro spiega che Skujiņš non è digiuno di letteratura italiana novecentesca, conoscendo per esempio Tomasi di Lampedusa, marito, non a caso, di una donna lettone; è quindi plausibile che l’autore abbia avuto contezza della calviniana trilogia degli antenati.

Sia la Baronessa che Waltraute hanno quindi a che fare con un uomo che gioca a fingersi dio e entrambe vivranno sulla loro pelle il peso di un’illusione tradita. Nel primo caso un dio superstizioso, orfico, grande conoscitore del cosmo e veggente, nel secondo un dio scienziato che secondo la vox populi potrebbe sconfiggere la morte con la chirurgia. L’atmosfera magica si scontra con l’asprezza della realtà. Quella di Waltraute è la quête, la ricerca di un amante dimezzato, con un finale da farsa, che sa di beffa. Ulste, che per Waltraute convive con suo marito in un solo corpo, preoccupa la nobildonna a causa della sua bassa estrazione sociale. Lei arriverà, cercando le origini della sua famiglia, a perdersi in curiose genealogie fantastiche, frutto dell’immaginazione anche se desunte più di una volta dalla Storia. Le allusioni al dualismo sono sparse per tutto il libro: dal classico spettacolo circense in cui una donna viene tagliata a metà alle leggende di uomini e donne rimasti senza testa.

Skujiņš è uno scrittore che scava con serietà negli anfratti della storia umana e che contemporaneamente coltiva un’ironia profonda. Per esempio, egli in taluni casi deforma la linearità del tempo e, nella finzione della storia, finge che alcuni uomini mitici siano vissuti tremila anni, entrando in confidenza con personaggi storici dell’antichità come Cleopatra e Nabucodonosor, oppure scherza sul confine tra realtà e immaginazione, perdendosi con le parentesi aneddotiche e folkloristiche della cultura lettone. Accanto al faceto, però, c’è anche il serio. La Lettonia è narrata in un contesto poliglotta e multiculturale, con inserti in lingue diverse e lacerti di storie patrie altrui.

Il tema del susseguirsi delle generazioni va dall’inizio del millennio scorso alla contemporaneità e si fa più importante quando riguarda un’intera storia nazionale. Il libro è pieno di allusioni più o meno esplicite: «Già il saggio Salomone sapeva che al mondo non c’è niente di nuovo. È il serpente stesso che nel giardino del Paradiso ha dato ad Adamo ed Eva la possibilità di scegliere. A portata di mano hai sia il veleno che la medicina. Ogni vita è la somma delle sue generazioni precedenti, e un schema per quelle future». (p.344)

La storia infatti si affianca alla Storia. Le vicissitudini della Baronessa e di Waltraute e i loro duri epiloghi vanno di pari passo con una profonda riflessione, sia esplicita che implicita, su identità e origine di questo paese, la cui cultura non è né tedesca, né russa, né francese ma propriamente lettone, benché sia stata tale fino all’indipendenza e oltre, con momenti tragici e lotte intestine. La Storia è soprattutto novecentesca, in un confronto metaletterario con la vera vita dell’autore: il ghetto, i bombardamenti sulla città di Riga, le deportazioni, l’insieme degli assoggettamenti dovuti alle dominazioni straniere. Il personaggio dell’Aviatore, piuttosto marginale, è esemplato su un nazista realmente esistito. Il passaggio da verità a creazione narrativa è continuo e produce un fortissimo effetto di realtà anche nelle storie dove la fantasia prende il sopravvento.

Come tessere di un domino ci mostra come si è formato l’immaginario lettone e che cosa significa nascere lettoni, da un punto di vista letterario oltre che storico, con citazioni estemporanee che delineano inoltre una vaga storia di una letteratura lettone. «Il nonno mi ha consolato alla stessa maniera: “Perché non saresti lettone, se hai un cuore lettone?”. Il cuore però non lo vede nessuno. La faccia sì». (p.267)

La Storia si riflette anche sui profili dei personaggi e le culture più eterogenee entrano in gioco: il protagonista scopre di avere un fratello giapponese, Janis, la cui esperienza palesa le difficoltà dell’interazione tra culture diverse. Skujiņš con estrema sensibilità va oltre gli stereotipi, riuscendo a costruire un grande racconto. Egli funge proprio da esempio della complessità delle dinamiche di convivenza civile anche nella burrascosa relazione sentimentale che vivrà con Guna. In un affresco grandioso, Skujiņš è stato in grado di mettere a nudo le contraddizioni della sua Lettonia, servendosi della Storia (con la lettera maiuscola) per le sue storie, senza tuttavia abbandonare l’universo della letteratura e quello della narrazione.

 

(Zigmunds Skujiņš, Come tessere di un domino, trad. di Margherita Carbonaro, Iperborea, 2017, pp.364,  euro 18,50)
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L’estenuante attesa come metafora della vita

Se mi fosse permesso di scegliere, tra gli impulsi più comuni dell’uomo, quello più pericoloso, sceglierei l’indolenza. Essa, di sottecchi, agisce sull’esistenza, come l’acqua scava la pietra: lentamente, ma in maniera inesorabile. Un personaggio letterario su tutti rappresenta l’incarnazione dell’indolenza: il sottotenente Drogo, protagonista del romanzo di Dino Buzzati Il deserto dei Tartari, pubblicato per la prima volta nel 1940.

Dopo esser diventato ufficiale, il giovane Giovanni Drogo viene assegnato alla Fortezza Bastiani, antico avamposto le cui glorie del passato hanno lasciato spazio ad una placida vita ai confini settentrionali del Regno. Infatti, i famosi Tartari da cui avrebbe dovuto difendere la popolazione non compaiono più all’orizzonte da diverso tempo.

L’arrivo alla fortezza è quindi, per Drogo, fonte di grande delusione, tanto da spingerlo a chiedere un trasferimento immediato altrove, più vicino alla città. Si lascia convincere a restare in sede per quattro mesi, e di approfittare della prima visita medica utile per ottenere l’agognato trasferimento.

I propositi iniziali devono però confrontarsi con un nuovo sentimento, che inizia a insinuarsi in lui: infiniti spazi e infinite possibilità si stagliano davanti ai suoi occhi con l’arrivo di un cavallo all’ingresso della fortezza, evento sicuramente inusuale per le abitudini dei soldati. Un arrivo improvviso cambia immediatamente lo scenario di Drogo, così quel deserto, che fino ad allora gli era apparso così desolato, assume adesso i contorni dell’avventura e della gloria, come se quell’apparizione celasse molto altro.

A partire da questo momento inizia una nuova vita per Giovanni Drogo, che diviene il pretesto narrativo per Buzzati per raccontare una condizione umana in cui è troppo facile immedesimarsi.

Quell’incapacità all’azione, quell’indolenza appunto, che ci coglie nel qui e ora; quella pigrizia mentale a prendere qualsiasi iniziativa. È piuttosto tipico rimandare a un futuro poco prossimo le decisioni che non si è in grado di prendere seduta stante, poiché esse implicherebbero mettersi in discussione. Siamo così abituati a non cogliere l’occasione mentre ci raccontiamo che il futuro ci riserva opportunità migliori, che la vita spesso ci scorre fra le dita senza che nulla sia davvero accaduto. È questa dilatazione del tempo che rende Il deserto dei tartari un classico eccezionale.

La grandezza di Buzzati sta anche in questo: nell’avvicinare il lettore a ciò che egli più considera lontano da sé, come l’esistenza di un soldato isolato dal resto del mondo.

La sua prosa allo stesso inesorabile ed elegante ci accompagna in questa consapevolezza, la stessa consapevolezza di cui entrerà in possesso Drogo, probabilmente troppo tardi.
Non è un caso che Il deserto dei Tartari abbia decretato il successo letterario di un autore controverso e assolutamente da (ri)scoprire.

 

(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, 1940)
Copertina di Utopia su flaneri

Bjork, crepe e luci

Due anni fa Bjork scriveva Vulnicura dopo la separazione dal marito e in quel lavoro era tangibile il dramma individuale della cantante islandese. Canzoni dove l’amore – quel “All is Full of Love” – partiva da Bjork per arrivare a Bjork. Non c’era un movimento dall’esterno verso l’interno o viceversa. Un’anomalia per un’artista che negli anni Novanta dava vita a Homogenic e di questo movimento faceva il perno della sua arte. In Vulnicura, dunque, il dramma sembrava tendere verso a un qualcosa che la facesse ritornare verso sé stessa: l’essere soli dopo essere stati in due e la distanza dall’essere soli senza essere stati in due precedentemente. Ne usciva un lavoro completo e ispirato, dove l’isolamento dal mondo funzionava da motore artistico (basti pensare solo a “Stonemilker”, manifesto completo di quel dolore). Due anni dopo, con Utopia, Bjork si stacca dalla dimensione patetica per tornare alla potenza creatrice della sua arte attraverso il distacco dal predecessore.

Utopia è un album intangibile. È un lavoro che ruota attorno a arrangiamenti che non danno punti di riferimento, dove le strutture delle canzoni disorientano costantemente. Utopia suona come un album post-pop, in un momento in cui l’espressione pop si toglie le vesti di popolare per vestire quelle di èlite. I brani sono allungati oltremodo. Il tempo sembra rallentare fino alla cristallizzazione. Vengono a crearsi, per ogni brano, episodi che somigliano a delle micro epopee (che sfociano poi nei quasi dieci minuti dell’epopea vera e propria, “Body Memory”). Il passaggio verso nuova vita è rappresentato qui come un luogo in cui spazio e tempo si confondono continuamente. È l’altro, è il contrasto con Vulnicura. È la riscrittura dell’amore di Vulnicura. È la riscrittura di quello che è stato prima.

Al centro c’è la voce (non come quella messa su un piedistallo in Medulla) e ci sono i flauti; ci sono suoni impercettibili, cinguettii, cori spettrali. Ancora flauti. Ci sono momenti in cui sembra piombare in un Medioevo che ha avuto il suo centro culturale tra i geyser (“Utopia”,“Courtship”, “Paradisa”), altri che arrivano direttamente da generi umani cresciuti su altri pianeti (“Sue Me”, “Claimstaker”), altri ancora che sembrano colonne sonore di film per bambini vissuti in case nello spazio (“Saint”).

Aiutata dal musicista venezuelano Alejandro Ghersi, in arte Arca (quest’anno uscito con Arca), Bjork con Utopia ha tra le mani un album che punta molto in alto, che sfiora la pretenziosità.

L’impressione è che, nonostante l’idea di fondo venga espressa, sia potente, la cantante islandese non sia riuscita a dare la forma giusta a qualcosa che, paradossalmente, sembra non dover avere una forma.

In questa dispersione sta la pecca di Utopia: un lavoro in potenza devastante, un possibile dittico-memorandum sull’amore con Vulnicura, che però non è riuscito a esprimersi.

Utopia non è un album godibile, non è intrattenimento, è arte uscita fuori, questa volta, con qualche crepa.

(Utopia, Bjork, elettronica/pop/chamber)
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Dentro la Beat Generation

Nel 1966 Fernanda Pivano intervistò per la Rai lo scrittore americano Jack Kerouac: quel giorno, gli spettatori italiani speravano di ascoltare le parole del nuovo eroe contemporaneo. Ma davanti a loro, c’era invece un uomo completamente sbronzo, e oltre quella ubriachezza, con una maggiore attenzione, si poteva intravedere anche qualcosa di più ampio: il sentore della distruzione. Del resto la madre di Kerouac aveva appena avuto un ictus e ritrovarsi a discutere per la televisione italiana di On the Road era probabilmente l’ultima cosa che avrebbe voluto fare.

Eppure bisogna riprendere quella intervista, perché ancora oggi il romanzo, che rese celebre lo scrittore in tutto il mondo, riesce a fare parlare di sé: nel 2016 la Mondadori ha pubblicato la prima versione di On the Road. Il “rotolo” del 1951 (nella traduzione di Michele Piumini). La leggenda vuole che il giovane Kerouac abbia riscritto completamente l’opera, pubblicata nel 1957, solo dopo avere ricevuto una lunga lettera dall’amico Neal Cassady: fu in quelle pagine, dunque, che lo scrittore ebbe l’intuizione dello stile beat. La versione originaria, che viene finalmente pubblicata per la prima volta in Italia, fu invece composta di getto sopra un rotolo di carta, ma senza che lo scrittore padroneggiasse ancora quello stile che gli giunse poi come un’illuminazione.

Rimane allora aperta una questione critica importante: benché il romanzo sia diventato anche il manifesto dello stesso movimento beat, come bisogna inserire quella singolare esperienza nella poetica generale di Kerouac? A questa domanda, Kerouac risponde una prima volta di avere scritto On the Road esclusivamente perché: «Ero giovane […] E avevo bisogno di 2000 dollari». L’alcol però c’entrava poco, perché di nuovo con estrema lucidità ribadisce la stessa cosa più avanti nel 227th Chorus della raccolta poetica Mexico City Blues (Newton Compton, 2006):

«e sono stato pagato
per un lavoro fatto
quand’ero giovane […]».

L’opera alla quale lo scrittore era meno legato sarebbe allora la testimonianza di un fallimento interiore, non della possibilità del viaggio. Un’intera generazione aveva sognato di mettersi sulla strada senza direzione: Kerouac sembrava cioè indagare l’archetipo umano per eccellenza. Ma grazie al confronto diretto tra la prima versione e quella definitiva, scopriamo invece che non era questo ciò che voleva dirci: esisteva al contrario per Kerouac una meta precisa da seguire, uno speciale principio di imitazione che si personificava nella corporalità di Neal Cassady. Ecco cosa rappresenta davvero On the Road: una tensione fallimentare verso l’ideale. E insieme, quella ricerca finale del padre che Cassady non troverà mai, la consapevolezza spaventosa del superamento di ogni ideale e la ricerca consequenziale di una regressione impossibile alla condizione precedente dell’idealista, perché come scrive anche nel 33rd Chorus:

«[…] Sono un idealista
che ha superato
il mio idealismo
non ho niente da fare
per il resto della vita
tranne che fare niente
e il resto della vita
per farlo».

E allora il cerchio come una simbiosi si completa: Cassady cerca un (o il) padre, commette cioè una regressione verso il fagotto di credenze che ha lasciato sulla strada quando invocava la liberazione dell’anima, ma che ora ha perso per sempre (eppure non può tornare indietro, perché dentro il riformatorio dove lo avevano sbattuto per l’intera giovinezza, ha creduto con tutto se stesso all’allucinazione della libertà); Kerouac invece, che non aveva mai voluto o potuto lasciare niente, colma il nuovo vuoto con la persona di Neal, si identifica con Neal, ma non sarà mai Neal. Anzi, prima ancora di cominciare, sa bene che il vagabondare eterno non ha una risposta definitiva: «Ma prima o poi ci sarà una nuova generazione di giovani che svegliandosi dal torpore, nel quale il potere li ha intrappolati, rovisteranno nelle soffitte impolverate dei loro genitori e troveranno uno zaino e un sacco a pelo e a questo punto andranno “lungo la strada” a riprendere il cammino interrotto».

È lo zaino di Kerouac, il quale tornerà a vivere da sua madre. Ma anche quello di Neal Cassady, che muore assiderato lungo le rotaie di un treno. L’immagine si nasconde forse dietro un’atmosfera di poeticità: ma bisogna guardare oltre, verso il non detto. Tutti i giovani proveranno prima o poi «il desolato stillicidio della vecchiaia», ognuno di loro sarà di nuovo «genitore» un giorno. E l’eredità continuerà senza sosta, una strada dopo l’altra, di generazione in generazione: ma nessuno, nessuno riuscirà mai a capire dove il padre di Neal Cassady si trovi nascosto.

A questo punto è quanto mai necessario riallacciare l’esperienza della Beat Generation a quella della poesia francese maledetta, e in particolare alla scrittura di Rimbaud e Verlaine. Il movimento viene fondato alla Columbia University per opera di Lucien Carr, che cita come principio base della «Nuova visione» proprio «lo sregolamento di tutti i sensi» rimbaudiano, assieme alla nuda espressione del sé: ma la base psicologica gioca in questa liberazione spirituale uno degli elementi chiave. Così come per Verlaine, Kerouac infatti rimase ancorato a una morale individuale che non riuscirà mai a trascendere definitivamente e che anzi condizionerà tutta la propria esistenza (che coincide con la produzione letteraria). Il romanzo postumo Pic: storia di un vagabondo sulla strada doveva terminare con l’incontro, dopo l’immenso vagabondare, tra i protagonisti del libro e quelli di On the Road: Sal Paradise e Dean Moriarty. Tuttavia la madre di Kerouac, che non approvava questo finale, costrinse il figlio a rielaborare la vicenda: nella nuova versione Pic e il fratello maggiore, assieme alla famiglia della compagna, cominciano una vita sicura a San Francisco, dove trovano lavoro. In senso più ampio, è evidente come la morale familiare eserciti sullo scrittore una pressione tale, da soffocare ogni possibilità di liberazione spirituale: piuttosto meglio il lavoro appunto, una casa, la sicurezza economica.

Kerouac rimarrebbe allora soltanto il teorico del lento passaggio dalla Nuova visione alla forma estetica beat: «Voglio essere considerato un poeta jazz che suona un lungo blues in una jam session d’una domenica pomeriggio» scrive in apertura a Mexico City Blues. Liberare la coscienza era cioè l’unico espediente di sincerità artistica: per esprimere la coscienza invece, bisognava trasformare la scrittura stessa in una suonata jazz. Ma poi quando cerca di vivere isolato sopra una montagna come un bhikkhu, viene colpito da «una crisi di abbandono» e si trasferisce a casa di Neal Cassady dove scrive il romanzo Angeli di desolazione; ci riprova nel 1960, nella baita di Lawrence Ferlinghetti vicino a Big Sur, ma questa volta, rimasto solo, ha le allucinazioni e scappa a piedi, di notte, lungo le pendici della catena montuosa: dopo una sbronza, torna nuovamente a casa della madre. La forma musicale permane, la liberazione della coscienza si scontra invece con la realtà dell’uomo Kerouac.

Ma come dicevamo all’inizio, la stessa idea dello stile beat nasce grazie alla lettera di diciotto pagine che Neal Cassady gli scrive sotto l’effetto dell’anfetamina nel 1950 e che lo porta a una riscrittura completa, in sole tre settimane, del primo vero romanzo del movimento: On the Road. Non bisognerebbe neppure dimenticare una solida base intertestuale, fino a considerare una possibile iniziazione stilistica anche nella lettura del Céline di Viaggio al termine della notte o nel Joyce dell’Ulisse.

Ecco quindi riaffiorare puntualmente Neal Cassady e la madre, la madre e Neal Cassady: l’idealismo e la morale di Kerouac non trovano mai una via d’uscita personale, una boccata d’aria. «Per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano, come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno Oooohhh!»: è l’occhio dello scrittore a parlare, una confessione senza mezzi termini dove l’interesse si concentra sempre all’esterno, mai all’interno, sulle persone che sono come Kerouac vorrebbe essere, non su come Kerouac effettivamente è. Anzi, quando poi ci prova anche lui a saltare da una stella all’altra scrive: «A me piacciono troppe cose nello stesso momento e mi ritrovo sempre confuso e impegolato a correre da una stella cadente all’altra finché non precipito». Nessuna danza rimbaudiana, ma solo confusione, distruzione.

E così, mentre Ginsberg e Burroughs utilizzano la droga per ampliare la percezione del reale, quando Neal Cassady, muore Kerouac si getta avidamente nell’alcol; quando la madre si ammala, Kerouac peggiora. Beve fino alla morte non per raggiungere una visione particolare, ma perché:

«Tutti prendiamo qualche scorciatoia
per la Valle della Morte […]»
(9th Chorus, Mexico City Blues)

E nemmeno nel «sesso libero» Kerouac trova una sicurezza. Come per Fitzgerald negli anni venti, la liberalizzazione sessuale americana non riesce a convincere davvero lo scrittore. Sulla strada verso casa incontra Beatrice Kozera, la ragazza messicana con cui ha una relazione amorosa per quindici giorni e che segue a lavorare nei campi di cotone; vivono insieme in una tenda e per Kerouac sono i giorni più felici della sua vita. Senza una spiegazione però, torna di nuovo dalla madre: sembra come se una qualsiasi felicità significhi anche l’allontanamento dal nido famigliare, e questa contrapposizione tra guadagno spirituale e rinuncia morale non gli sembra possibile. Ancora un altro esempio: nel 1953 conosce Alene Lee, ma quando l’amico Gregory Corso gli confida di esserci andato a letto, Jack in lacrime scrive il romanzo pessimista I sotterranei e nel 5th Chorus della raccolta poetica afferma poi lapidario: «Io non sono Gregory Corso».

Insomma, da qualsiasi angolazione ci si avvicini a Kerouac, ogni volta la sensazione è quella di ascoltare qualcuno che descrive come necessario ciò che però non riesce a concretizzare nemmeno lui. Ed è questa forte umanità o mancata perfezione a costituire la forza principale della poetica kerouacchiana: Ginsberg o gli altri personaggi beat si concentrano sulla realizzazione spirituale, scrivono dalla vetta della montagna. Ma come arrivare fino al traguardo, è una storia di coraggio che riguarda soltanto Jack Kerouac: sulla strada e non la strada – lungo la strada quindi. Eppure senza la ricerca fallimentare di Moriarty Senior, non ci sarebbe mai stato l’Urlo dalla cima, perché prima delle nuvole:

«Sono stato io il primo pazzo
che ho conosciuto».
(88th Chorus, Mexico City Blues)

 

 

Poster di Gli sdraiati su Flanerí

L’immaturità insopportabile dei genitori

Un incontro dal potenziale enorme. Quello tra uno dei libri italiani di maggior successo degli ultimi anni e il cinema di un’autrice capace di unire sguardo d’autore e commedia popolare. Gli sdraiati passa dalle pagine di Michele Serra al grande schermo attraverso la regia di Francesca Archibugi.

A Milano, Giorgio Selva è un autore/giornalista/presentatore televisivo molto famoso e molto borghese come sanno esserlo gli intellettuali di sinistra. Tito è il figlio diciassettenne che ha in affido condiviso con l’ex moglie Livia. Non c’è molto dialogo tra padre e figlio, nonostante tutti i tentativi di Giorgio. Tito è sfuggente, sempre in compagnia dei suoi amici – una «banda di froci», come si chiamano tra di loro – e del tutto refrattario alle semplici richieste del padre («A che ora torni?»; «Mangi a casa?»; «Butta lo yogurt»). Nella migliore delle tradizioni, l’incontro con una ragazza cambierà il ragazzo anche nel rapporto con il padre.

Francesca Archibugi è, fin dall’esordio del 1988 con Mignon è partita, l’autrice più interessante del cinema italiano contemporaneo. Il suo sguardo si è spesso fissato sull’infanzia e l’adolescenza (Il grande cocomeroL’albero delle pereLezioni di volo) e sul loro difficile rapporto con il mondo degli adulti. Difficile per l’incapacità degli adulti di rivestire il loro ruolo di guida, soprattutto, non per un’inadeguatezza dei giovani.

Con Il nome del figlio nel 2015 ha spostato la macchina da presa su un gruppo di borghesi adulti in un interno. Un bambino è in arrivo, e già solo la gravidanza riesce a proiettare in un baratro di risentimenti i grandi. Gli sdraiati rappresenta un po’ una sintesi dei temi tipici del suo cinema.

Partendo dal romanzo/lettera di Serra, Archibugi si concentra quasi esclusivamente sul padre mantenendo in una posizione defilata il figlio e la sua crescita. È un’analisi dell’incapacità degli adulti di oggi di relazionarsi con i ragazzi. Non per una distanza generazionale che li pone ai tradizionali poli opposti, ma per quell’assoluta immaturità comune a molti genitori che li fa comportare troppo come amici, o piuttosto aspiranti tali, che come padri o madri. In assenza di ogni capacità di essere se non autoritari quanto meno carismatici, questi adulti incompleti cercano la strada dell’amicizia, del lasciar fare. Nel tentativo di farsi perdonare colpe più o meno consapevoli nella distruzione del nucleo familiare originale, nel tentativo di avvicinarsi al figlio solo con l’affetto, Selva, e come lui molti genitori reali e di finzione, finisce per ottenere solo il risultato opposto. È lui, l’adolescente emotivo, lo sdraiato sulla sua posizione di celebrità, di normalità borghese tradizionale e tradizionalista.

Tanto cinema recente e recentissimo ha evidenziato come i ragazzi d’oggi siano molto meglio di come piace pensare agli adulti. Basti pensare ad alcuni film degli ultimi due anni, a Piuma di Roan Johnson, Tutto per una ragazza di Molaioli, Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni.  Gli sdraiati è il primo film a guardare soprattutto all’altro lato del rapporto, a un padre che si sente escluso e vorrebbe essere più coinvolto. Il problema del film della Archibugi è che questa centralità di Selva finisce per essere totalizzante, con una figura centripeta che annulla ogni possibilità agli spunti laterali, più interessanti, più profondi. A Claudio Bisio viene lasciata piena libertà di interpretare un mix del Serra originale e Fabio Fazio così riconoscibile da non suscitare molta empatia. Anche perché, per usare un termine usato in passato da altri per descrivere i giovani, Selva è un bamboccione incapace di muoversi da solo. Ha sempre bisogno di essere spinto dalle donne, che nel film hanno proprio un ruolo di ispiratrici di crescita, sia in Selva padre che figlio. L’immaturità irritante di questo padre è rappresentata con un eccesso di bonaria condiscendenza, nonostante Archibugi non lo sottragga dalle sue responsabilità, ma è troppo poco.

Ci sarebbero poi da fare altri due discorsi, che vanno al di là del film. Il primo è un problema che riguarda molto cinema italiano: le colonne sonore. Senza nulla levare a un grande musicista come Battista Lena, autore delle musiche originali del film, ma davvero stiamo ancora agli arpeggetti di chitarra per sottolineare i momenti drammatici? Ma non si riesce a fare qualcosa di meglio, a chiedere agli autori qualcosa di più del minimo indispensabile? Se avete visto The Place di Paolo Genovese avrete notato anche voi l’inadeguatezza di quelle chitarre elettriche che partivano dopo ogni frase più o meno a effetto, quel senso inevitabile di provinciale che la musica dava a tutto il film. In Gli sdraiati c’è lo stesso errore.

Il secondo discorso riguarda uno dei personaggi secondari del film, Rosalba, interpretata da Antonia Truppo. Truppo è brava, ha vinto due David di Donatello di fila con Lo chiamavano Jeeg Robot Indivisibili. Qui recita in un credibilissimo milanese, fa benissimo la donna semplice, ma sembra che venga costretta a fare un ruolo che Micaela Ramazzotti non ha voluto o potuto fare.

(Gli sdraiati, di Francesca Archibugi, 2017, commedia, 103’)

 

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Se il delirio forgia il mondo a sua immagine

È un afoso luglio di fine ventesimo secolo quando Pichón Garay – mentre aspetta lo storico amico Tomatis – riceve un floppy disk su cui Marcelo Soldi ha copiato il testo di un misterioso manoscritto: non si sa con certezza se sia un’opera autentica o di finzione, non se ne conosce il titolo ma, valutandone il contenuto, Soldi decide di chiamarlo Le nuvole.

Le nuvole è anche il titolo dell’ultimo romanzo pubblicato in vita da Juan José Saer (1937 – 2005), uscito in Argentina nel 1997 e portato in Italia vent’anni dopo nella traduzione di Gina Maneri per laNuovafrontiera.

I nomi dei personaggi citati poco sopra potrebbero suonare familiari al lettore di Saer, già incontrati forse tra le pagine di L’indagine e di Cicatrici: in questo nuovo romanzo compaiono solo nell’antefatto, per introdurre, con un classico espediente metaletterario, la storia principale.

Il contenuto del floppy è la trascrizione del diario del dottor Real, uno «specialista nelle malattie che colpiscono non il corpo ma l’anima», che dall’Argentina si reca a Parigi per conoscere un nuovo approccio alla cura delle malattie mentali, ben lontano dalla contenzione fisica del paziente. Allievo del dottor Weiss, Real comprende che i pazzi sono sì un fascinoso dilemma per la psichiatria più all’avanguardia, ma costituiscono in primo luogo un problema per le famiglie d’origine.

Tornato in patria insieme al suo mentore, all’inizio del XIX secolo inaugura con lui una Casa di Salute in località Le tre acacie, poco a nord di Buenos Aires, forse il primo istituto del genere in territorio americano: si tratta di una struttura innovativa a partire dall’architettura, senza celle di isolamento né strumenti di tortura, ispirata al modello del convento, delle accademie filosofiche e del giardino di Epicuro.

In poco tempo la Casa si riempie di degenti da ogni parte del continente, inviati soprattutto dalle famiglie più agiate che vogliono liberarsi dei propri pazzi per non vedere compromessa la propria reputazione agli occhi della società.

Di solito i pazienti vengono portati direttamente alla porta del centro, ma nel 1804 giungono al sanatorio quattro richieste simultanee da regioni diverse: si decide di trovare un punto d’incontro in una località che si trova a metà strada tra i luoghi di provenienza dei malati e Le tre acacie.

«Nulla sembra troppo caro e nessuno sforzo eccessivo quando si tratta di sbarazzarsi di un pazzo, perché è difficile trovare qualcosa a questo mondo che generi più disagio, così grazie agli sforzi congiunti delle quattro famiglie, una delle quali era per essere più precisi una comunità religiosa, si riuscì a organizzare un ospedale ambulante di cui io sarei stato una specie di direttore durante la traversata del deserto».

Il viaggio attraverso la pianura deserta è al centro della memoria di Real: il percorso scelto dura un mese abbondante, in condizioni difficili da sopportare per chiunque, ancor più per anime già perturbate. A essere imprevedibili sono sia le condizioni climatiche, sia le reazioni dei pazzi; il deserto, già di per sé ostile, lo diventa maggiormente nella convivenza forzata tra malati, indios, donne di malaffare, gauchos, soldati e animali. Se a ciò si aggiungono le calamità naturali, con un caldo torrido inaspettato – una specie di estate anticipata di san Giovanni –, la Tormenta di Santa Rosa e un incendio imprevisto, si comprende come l’avventura si trasformi presto in una spedizione metaforica sulla nave dei folli nel mezzo della Pampa, che è prima di tutto un cammino nei territori della malattia mentale, spesso preclusi ai sani.

Nelle varie tappe da Santa Fe a Buenos Aires, immersi nella natura selvaggia e inospitale del Río Paraná, si incontrano cinque pazzi: il giovane Prudencio Parra, che concentra tutte le energie vitali nel pugno costantemente serrato, in una strenua lotta interiore che si manifesta nella tensione del corpo; Troncoso, l’insonne irrequieto, che manifesta i tipici sintomi della mania; Suor Teresita, una religiosa caduta in preda a deliri mistico – sessuali, convinta di poter fare convergere l’amore divino con quello carnale con chiunque incontri sul suo cammino; infine i fratelli Verde, che manifestano la difficoltà di comunicazione in due modalità differenti: il maggiore, Juan, passando da silenzi profondi a conversazioni veementi, costituite da una sola frase ripetuta all’infinito; il minore, Verdecito, esprimendosi attraverso pernacchie, grugniti e versi di ogni genere.

Costantemente a contatto con una follia che non può essere giudicata con il metro della morale né considerata con le usuali categorie del pensiero, ci si rende conto che al centro di tutto sta il linguaggio, ora troppo approssimativo e non aderente alla realtà, ora protagonista della retorica con cui le famiglie dei malati cercano di giustificarne l’internamento, ora – invece – l’unica guida in grado di fare luce nell’incertezza della selva del mondo.

Mentre le nuvole si stagliano minacciose all’orizzonte, si gusta la perfezione della ricca prosa di Saer, che con un periodare tipicamente sudamericano anticipa fatti per poi indugiare in digressioni e particolari, in un gioco in cui il lettore è costantemente stuzzicato e condotto nell’illusione mutevole dei sensi.

«Con il caldo, il silenzio della campagna vuota sembrò aumentare, come se tutte le specie che la popolavano, incapaci di muoversi, giacessero esauste e in letargo. Anche noi, che pretendevamo di regnare su tutte loro, eravamo come intorpiditi, uomini e donne, civili e soldati, credenti e agnostici, eruditi e analfabeti, sani di mente e pazzi, resi tutti uguali da quella luce accecante e quell’aria ardente che ci abbrutivano e, riducendoci alle stesse languide sensazioni, cancellavano le nostre differenze».

Per quanto si galoppi, l’orizzonte sembra sempre lo stesso: nella monotonia della pianura, si dimentica anche il motivo del viaggio, si perde la nozione che separa l’interiore dall’esteriore, la sanità dalla follia, gli uomini dagli animali, al punto che il delirio sembra una primizia portata nel grigiore del mondo normale, l’unico elemento in grado di riscattare l’animo umano dall’indifferenza della terra.

Se in passato con altri romanzi, soprattutto Cicatrici, si era occupato di scardinare il genere poliziesco, con Le nuvole, Juan José Saer offre una parodia del romanzo d’avventura, quasi un western – indigeni compresi – a dimostrare che la letteratura è ricerca ed evoluzione costante della forma.

 

(Juan José Saer, Le nuvole, trad. di Gina Maneri, laNuovafrontiera, 2017, pp. 184, euro 16,50)
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La guerra come motore delle storie individuali

Romanzo storico e insieme Bildungsroman, Amici per paura di Ferruccio Parazzoli (Sem, 2017) è la narrazione della crescita di un bambino e di un paese, un viaggio in quattro tempi verso la consapevolezza della morte, e dunque la maturità. Una scrittura leggera ci fa ripercorrere le tappe della guerra, vista dagli occhi di chi la guerra la considerava un gioco come tanti, costretto, a dispetto della situazione, a crearsi un proprio paradigma di normalità per sopravvivere.

Attorno a Francesco una galassia di personaggi, uomini e donne dalle convinzioni diverse se non dicotomiche, che attraversano la sua vita come comparse, condividono per poco tempo lo spazio della narrazione, assorbiti dalla propria vicenda, spersonalizzati dalla guerra, come spersonalizzati sono anche i personaggi che dovrebbero essere protagonisti, e che invece sono incalzati dall’azione, incalzati da una minaccia costante e indefinibile, che si unisce alla routine e alla metafisica di quella religiosità arcaica che è parte della vita di tutti.

L’azione della guerra che distruggerà ogni simulacro, ogni certezza, restituendole l’originaria fragilità del rituale. La guerra è il motore delle storie individuali che diventano Storia, Storia nella quale nessun personaggio ha un ruolo di rilievo, nessuno ha il privilegio di essere protagonista: gli individui cosmico-storici, i protagonisti, non sono che ombre, voci alla radio, voci di pettegolezzi negli aneddoti che si raccontano tra vicini.

La scrittura, come la Guerra, insegue Francesco e ci restituisce la sua visione della Storia, che è frammentaria, incostante, incompleta, come può esserlo solo quella di un bambino, e non per questo meno reale, corposa.

Amici per paura riesce infatti a costruire il vividissimo affresco di un’umanità che riscopre, attraverso l’orrore della Storia, la consapevolezza della propria mortalità; e lo fa attraverso il punto di vista di chi, come Falstaff, la Storia non la comprende, non la prende sul serio, e grazie a questo sopravvive, fino ad arrivare, verso il meraviglioso finale, a esprimere la volontà di essere artefice delle proprie storie.

«Qualcuno doveva scriverlo. Ma il signor Anselmo diceva che non sarebbero stati di certo gli scrittorelli, come li chiamava, che riempiono i salotti delle signore e imbrattano i giornali con le loro chiacchiere».

 

(Ferruccio Parazzoli, Amici per paura, Sem, 2017, pp. 219, euro 15)
Copertina di Canzoni Perse su flaneri

La nuova vita di Cesare Malfatti

Negli anni Novanta faceva parte di uno dei gruppo di punta dell’underground italiano, i La Crus, nonostante il tempo, alla lunga, sia stato più clemente con Afterhours o Marlene Kunz. Da La Crus a Crocevia, passando per Dentro me, la band milanese ha, infatti, tracciato una parabola importante per la musica alternativa italiana. Nel 2017, Cesare Malfatti prende alcuni dei pezzi che ha scartato dai suoi album solisti passati, li riarrangia completamente con dell’elettronica spinta, mossa che potrebbe sembrare azzardata, e tira fuori un lavoro, Canzoni perse, che è fuori da ogni contesto qui in Italia, da Tiziano Ferro a Colapesce, da Gabbani a Thegiornalisti.

Canzoni perse non è un album elettronico in senso stretto (esempi italiani recenti, Lorenzo Senni con Persona o Clap!Clap! con A Thousand Skies), ma neanche un cantautorato con una vaga idea di elettronica (per esempio La stagione del cannibale degli Amor Fou, di cui, tra l’altro, Cesare Malfatti è stato chitarrista per un breve periodo). Non è chiaramente un lavoro che segue la scia del post I Cani, e si sa quanto oggi sia fondamentale seguire questa scia per avere un certo riscontro di pubblico. Fare una scelta di questo tipo, non scegliere quel modo di fare musica, pare molto rischiosa. Malfatti non lo fa per questioni prettamente anagrafiche e culturali, ma il cambio di prospettive è ancora più audace di quanto si potesse pensare da un personaggio come lui.

Canzoni perse si posiziona in una zona poco battuta nel panorama musicale italiano. È un lavoro che rimarrà un po’ ai margini, oggi, per ciò che è stato detto prima e perché comunque risulta di difficile fruizione. Complesso nelle scelte estetiche, duro da buttare giù, si avvale di questa componente molto forte di elettronica, riuscendo allo stesso tempo a essere un lavoro cantautorale.

Stravolge  sé stesso, Cesare Malfatti, che con Una città esposta o Una mia distrazione, produceva album pieni di quello spleen, presente comunque anche in quest’ultimo album, che può essere riconosciuto in Paolo Benvegnù (Piccoli fragilissimi film).

Il contrasto tra le voci e l’elettronica è il perno su cui ruota Canzoni perse. In quella frattura c’è l’essenza del lavoro. Una scelta che avrebbe potuto generare dei mostri, ma che invece si rivela fortunata. Spesso le due voci, la sua e quella di Chiara Castello (componente delle I’m Not a Blonde), rimandano immancabilmente ai Baustelle, a quell’alternanza Bianconi-Bastreghi che sta al centro dei lavori della band toscana. Ma qui sembrano dei Baustelle più sommessi che hanno deciso di fare dei rave intimi nelle camere di Burial, Modeselektor, Jon Hopkins.

In Canzoni perse c’è l’enorme capacità di produrre dell’elettronica vera e di piegarla al cantautorato, facendolo con enorme classe. C’è un equilibrio splendido che scorre lungo tutte le dieci tracce.
C’è un album che, in definitiva, merita molto più spazio.

(Canzoni Perse, Cesare Malfatti, Elettronica/Pop)

Copertina di Culo Nero su Flanerí

“Culo nero”
di A. Igoni Barrett

Culo nero (66thand2nd, 2017) è il primo romanzo del nigeriano A. Igoni Barrett e ricorda, ma solo a una prima lettura di superficie, una metamorfosi kafkiana del nostro tempo.

È ingannevole, a pensarci bene: la storia si apre con Furo Wariboko sdraiato nudo sul letto che si contempla la pancia «bianca come l’alabastro», e con una blatta rossastra che veloce attraversa le piastrelle della camera per infilarsi tra gli stipiti d’un armadio. Inutile dire quanto quelle antenne ricordino «l’insetto immondo» in cui si trovò trasformato Gregor Samsa un centinaio d’anni fa. Eppure il protagonista kafkiano è da sempre associato all’oblio dell’umanità, all’ultimo dei reietti, all’irrevocabilità del destino beffardo che ti relega al dimenticatoio persino della tua famiglia. Per Furo Wariboko invece la storia è diversa.

Sì, è vero, Furo è un nigeriano che una mattina, senza poterselo aspettare, si scopre oyibo, cioè un bianco, con tanto di pelle diafana e cangiante, capelli color carota e occhi verdi. Tra le mura di casa sua non sa come affrontare il cambiamento, di sicuro c’è che la sua famiglia non deve scoprirlo e in un abile gioco di salti da una stanza all’altra riesce a sgattaiolare fuori dal portone senza farsi vedere. Sa di doversi inventare qualcosa, perché quella mattina ha un colloquio di lavoro – l’opportunità che aspetta da una vita – ma deve arrivare dall’altro capo di Lagos ed è senza un soldo in tasca.

Se il cambiamento lo confonde, così anche Lagos, la città babele dove è cresciuto, lo terrorizza. Lì quasi nessuno rivolge la parola a un oyibo, i bianchi sono «opportunisti proverbiali o ingenui da ingannare» e persino Furo, fino a quel momento, ne aveva visti solo alla televisione, o tra le pagine di qualche rivista. Nel caos della città labirintica non c’è tempo per fermarsi, nel dedalo di vie e di auto che bloccano il traffico c’è giusto lo spazio per qualche occhiata storta, per uno sguardo sorpreso, per le facce stranite dall’inaspettato. Ma accade che la nuova condizione di Furo sembra assumere un grado di positività, gli astri sembrano essergli finalmente a favore: ottiene un passaggio in taxi, supera il colloquio solo dopo qualche domanda di circostanza e un lieve sospetto del manager aziendale, nei buka (capanni che servono cibo, un incrocio tra le nostre tavole calde e quello che chiamiamo street-food) gli vengono offerte porzioni extra di carne, diventa il magnete della curiosità femminile, e persino all’aeroporto viene sottoposto a un controllo superficiale del passaporto, debitamente falsificato per l’occasione. Poi avviene un incontro che cambia le sorti del racconto, o meglio, ne cambia la prospettiva. Furo si è rintanato in un centro commerciale e sta seduto a uno di quei lunghi tavoli da bar destinati alla condivisione, un uomo – a poca distanza da lui – pare scribacchiare qualcosa, quando Furo gli chiede indicazioni sull’ora. I due cominciano a parlare, scambiandosi frasi di circostanza. Scopriamo che l’uomo si chiama Igoni ed è, guarda caso, un alter ego dell’autore. Poche pagine più avanti, ancora, scopriremo che Igoni sarà vittima prescelta della metamorfosi, esattamente come Furo e si risveglierà in un corpo di donna, col nome di Morpheus.

Viene allora da domandarsi quanto sia realmente nodale la questione ˝razziale˝, mi si passi il termine, in Culo nero, se sia davvero così determinante il fatto che al centro della metamorfosi vi è il colore della pelle, e un conseguente ribaltamento delle parti per cui è un bianco, un oyibo, a subire le occhiatacce, la diffidenza, le perplessità. Ecco, io credo che sia solo un lembo della trama, che serva ad animare il plot, che sia un pretesto che di certo spinge a una riflessione, al più che mai urgente ˝mettersi nei panni altrui˝. Ma non è sufficiente, è solo una riduzione della storia di Furo, che da quel fatidico risveglio non lotta tanto con la sua pelle nuova o con le frasi di scherno, quanto più con la sua identità, intesa come un’intelaiatura complessa di sangue, radici e destino. Furo si è reso conto di «non avere più un passato, né un futuro che fosse frutto del suo passato», è in balia di un presente che si è dovuto inventare, improvvisamente non ha più una storia alle spalle. Scopre che sua sorella ha lanciato un accorato appello su twitter per ritrovarlo, ma è consapevole di non poter fare ritorno, perché nessuno gli crederebbe. Ma Furo sa da dove viene, in fondo, sa chi è, e sa che la sua storia può bussargli alla porta da un momento all’altro.

Barrett, alla sua prima prova di romanziere, ha un ritmo altalenante: se la storia di Furo – questo Gregor Samsa nigeriano di cui sono esaltate gesta e debolezze – è in grado di scaturire una certa empatia, amplificata dalla satira sull’identità razziale e dai riflessi malinconici ancora più facili da cogliere, così non è per la vicenda di Morpheus, doppio di Igoni (quindi dell’autore) che vive la transizione da uomo a donna, uscendone però – e solo nell’ultimo capitolo, Metamorfosi – come figura stucchevole e, verrebbe da dire, di troppo. Mi piace pensare che Culo nero si interrompa a pagina 228, prima di scivolare nel superfluo. Fate la prova.

 

(A. Igoni Barrett, Culo nero, trad. di Massimiliano Bonatto, 66thand2nd)
Copertina di La pace di Richard Bausch su Flanerí

La ricerca di un rifugio da ogni guerra

La guerra la fanno gli esseri umani, anche se è la cosa più inumana che l’uomo possa concepire. I protagonisti di La pace, il romanzo di Richard Bausch pubblicato in Italia da Playground con la traduzione di Martino Adani, si trovano a cercare quello che resta della loro umanità in mezzo alla seconda guerra mondiale.

È il 1944. Le truppe alleate stanno avanzando verso nord. A Cassino, un manipolo di soldati statunitensi riceve l’ordine di scalare una collina per studiare la posizione del nemico tedesco. Sotto la guida di un vecchio italiano, il caporale Robert Marson e i soldati Saul Asch e Benny Joyner iniziano la scalata sotto la pioggia, perseguitati dal freddo, dalla nostalgia di causa, dalla paura del nemico e dal dubbio di aver assistito a un omicidio che non aveva niente a che fare con la guerra.

Richard Bausch è uno dei migliori scrittori esistenti capace di alternare racconto e romanzo. Nella sua carriera ha pubblicato nove raccolte e dodici romanzi. Ha ricevuto premi per entrambi i generi, nel 2012 il Rea Award ha certificato l’eccellenza raggiunta nella forma breve. È un autore poco noto in Europa e bisogna ringraziare Playground per avercelo fatto conoscere. Con La pace, pubblicato negli Stati Uniti nel 2008, ha vinto il Dayton Literary Peace Price.

Attraverso un racconto di guerra che non ha niente di straordinario nella sua quotidiana atrocità, preso in parte dalle memorie del padre, Bausch riflette sulla condizione umana di fronte alla sua stessa negazione. La guerra obbliga gli uomini a vedersi come nemici, a tornare in uno stato di natura in cui ognuno è un pericolo e quello che conta è solo la sopravvivenza. C’è ancora spazio, in un contesto simile, per il dubbio morale? Ci può essere differenza tra uccisioni di guerra e omicidio? Perché prima di iniziare a scalare la collina, il sergente del manipolo di Marson ha ucciso a sangue freddo una ragazza la cui unica colpa era di essere stata con un nazista. Un alleato del nemico, dice il sergente Glick, una persona che non c’entrava niente, pensano gli altri.  Marson e i suoi uomini marciano in compagnia del dubbio. Non sanno se possono fidarsi della loro guida, non sanno quanti nemici aspettarsi, quanto sentirsi circondati.

Viene in mente tanto cinema leggendo La pace. L’angoscia di Marson ricorda quella di Tom Hanks in Salvate il soldato Ryan. La profondità della riflessione porta dalle parti di Conrad, Cuore di tenebra e poi Apocalypse Now. Bausch riempie le poco più di 180 pagine del suo romanzo tratteggiando i personaggi con pochi colpi carichi di mestiere. I ricordi di casa, dello sbarco in Sicilia e di una realtà di guerra diversa, fatta di vino rubato ai fascisti e bevuto in compagnia, il tormento cutaneo che perseguita Asch che è uno sfogo di qualcosa di molto più profondo.

La pace che i soldati cercano non è solo quella del conflitto. È la pace personale, il senso di tranquillità, di essere usciti da una zona di pericolo morale oltreché fisico. C’è una presenza costante del divino nelle sofferenze dei protagonisti. C’è in Marson, cattolico convinto, nell’ebreo non praticante Asch, nell’ateismo di Joyner. L’ulteriore è un rifugio e uno sguardo costante su di loro, come quello dei cecchini tedeschi. Perché la guerra, così come la pace, non è solo un conflitto esterno.

 

(Richard Bausch, La pace, trad. di M. Adani, Playground, 2017, pp. 187, euro 16)