Copertina di Clear Language su Flanerí

Nelle camere dei Balmorhea

Sono passati cinque anni da Stranger, e cinque anni oggi sono un’enormità che in pochi possono permettersi. Nel caso dei Balmorhea, con quest’ultimo lavoro, Clear Language, sono serviti per un ritorno alle origini. Stranger, infatti, rappresentava il cambiamento. Nessun album della band americana era uscito così tanto dai confini della loro musica da camera. Sembrava esserci un avvicinamento più che netto verso ciò che sta dall’altra parte. Un passo più in là verso zone sconosciute. All Is Wild, All Is Silent, Costellation, ma soprattutto Rivers Arms, con la sua musica classica minimale mischiata al folk, diventato quasi un cult degli anni ’00, erano gioelli iper minimalisti votati alla dimensione ultra individuale.

Clear Language è, invece, un passo in qua. Non qualitativo. È un ritorno a guardare le cose da un punto di vista che conosciamo. È possibile che i Balmorhea abbiano pensato di provare a vedere se sarebbero riusciti a essere ancora così belli con addosso abiti diversi dai soliti. Cercando di somigliare meno a sé stessi, hanno tirato fuori Stranger, certamente un album non pessimo, ma al di sotto dei suoi predecessori. Meno immaginifico, aveva tolto gran parte di quell’aura di magia che accompagna i sei di Austin. Quindi un ritorno a una cifra stilistica ben collaudata, a canoni estetici ampiamente battuti, e i Balmorhea sono di nuovo i Balmorhea.

Per quanto possa suonare come un limite, i Balmorhea sono un gruppo che può essere solo questo. Sono incanalati in un genere ben definito e chiaro e all’interno di questo devono muoversi. Il fatto, in definitiva, è che questo lo fanno molto bene.
I Balmorhea non sono quelli che devono stravolgere gli esiti della musica contemporanea o che devono trascinarla verso il futuro. I Balmorhea, nel proprio territorio, sono grandi in tutti i loro limiti.

Clear Language è intriso di classica minimale (“Clear Language”, “Waiting Itself”), spunti jazz, echi qua e là di Sigur Rós. C’è del post rock depressurizzato, l’idea di collaborazioni tra This Will Destroy You e Eluvium (“Dreamt”, “Slow Store”), ci sono dei Mogwai compressi (“Ecco”, “Behind the World”), c’è quella classica calma che corre lungo tutte le canzoni alla Album Leaf di In a Safe Place, quella calma che nel post-rock di matrice americana (Explosions in the Sky o, appunto, This Will Destroy You), sfocia in climax pieni di distorsioni, ma che qui invece viene fatta confluire in silenzi assordanti. Ci sono i Balmorhea che, con i loro codici, continuano ad essere un ascolto necessario per precipitare verso gli abissi del proprio privato.

(Clear Language, Balmorhea, post-classical)

swing-time-zadie-smith

Cosa resta di un’amicizia dopo l’infanzia

Se un debutto letterario ti consacra fra i grandi nomi della cultura contemporanea, non è facile corrispondere alle conseguenti aspettative dei lettori, che in qualunque tuo libro ricercano l’equilibrio, la freschezza, l’unicità di quel primo. Quando nel 2000 Denti Bianchi fece il suo esordio nel mondo anglosassone, Zadie Smith aveva ventiquattro anni, era appena uscita da Cambridge, e in un romanzo aveva saputo condensare un mondo che non aveva ancora degni rappresentanti fra gli scrittori: quello dei sobborghi londinesi alle porte del ventunesimo secolo, abitati dall’umanità variegata e sempre più numerosa che dalla periferia smantellava e ridefiniva il concetto di identità britannica. Era una voce nuova, uno sguardo intelligente su un volto fotogenico, una mente brillante, e proponeva una storia che aveva ogni requisito per essere riconosciuta come buona letteratura. L’autrice inglese ha sdoganato il discorso postcoloniale fra il grande pubblico, e da campo di studio per sociologi e corrente di nicchia l’ha reso fenomeno di tendenza, generando una narrativa che le deve gran parte del suo attuale successo. Diciassette anni dopo, Swing Time (Mondadori, 2016) soffre ancora di quell’impegnativo confronto, e viene da chiedersi se senza quel predecessore scomodo i giudizi sulla sua validità sarebbero meno faziosi.

La trama, che racconta l’evoluzione di un rapporto d’amicizia dall’infanzia alla vita adulta, presenta le tematiche ricorrenti nei lavori della scrittrice: il conflitto che genera l’essere figli di unioni interetniche, il peso delle classi sociali nel determinare le opportunità di successo nella vita di un individuo, Londra come paradigma identitario. Eppure, stavolta questi presupposti risultano infiacchiti dall’uso, e nella produzione smithiana Swing Time appare come il calco di un modello di romanzo particolarmente riuscito, peccando di mancanza di originalità.

La danza e la musica fanno da leitmotiv a questa storia plurale. La narratrice, figlia di genitori di estrazione proletaria, cresce tra un’ambiziosa madre nera che crede nella cultura come mezzo di riscatto sociale e un padre bianco, premuroso ma poco determinato. Tracey vive con una madre bianca un po’ troppo permissiva e preferisce credere che le frequenti assenze del padre nero siano dovute a un fantomatico lavoro come ballerino di Michael Jackson, e non ai periodi passati in prigione. Sin dal primo incontro le due bambine stringono un rapporto simbiotico che avrà ripercussioni importanti su entrambe: Tracey balla con più talento della protagonista (che non rivela il suo nome nel corso del libro), è spesso dispotica e coltiva una gelosia segreta per il padre dell’amica, la quale, d’altro canto, ne ammira l’esuberanza e resta in disparte, evitando di imporsi e di scatenare conflitti. L’anonima voce narrante mantiene questo profilo basso lungo il corso del romanzo, al momento di compiere scelte o far sentire la propria voce: «Mi si stava rivelando una verità: avevo sempre cercato di aggregarmi alla luce degli altri, non avevo mai avuto una luce mia. Mi percepii come una specie di ombra», ammette, guardandosi indietro.

C’è una parte del libro, quasi aliena rispetto alle atmosfere su cui il racconto è costruito, in cui la protagonista viene mandata in un paese dell’Africa subsahariana per seguire un progetto di sviluppo messo in piedi da Aimee, la popstar per cui lavora come assistente. È un’occasione dal grosso potenziale per rompere la tendenza all’apatia che la caratterizza, ma il suo spirito indolente vive l’esperienza senza il coinvolgimento necessario. Allo stesso modo i capitoli dedicati alla parentesi africana, che contengono abbastanza materia grezza per un romanzo a sé, scivolano nella lettura come un’opportunità mancata.

Certo, resta la grandezza di Zadie Smith nel costruire personaggi dai profili psicologici complessi e magistralmente resi su pagina, come le varie figure materne che popolano il romanzo: la madre della protagonista, guidata da un’aspirazione che sfiora l’arrivismo e che negli anni si apre la strada verso la politica; la madre di Tracey, fragilissima, amorevole e spietata insieme; Aimee, la cantante di fama internazionale che vede la maternità come una delle missioni di cui il fato l’ha investita e sublima il mandato con l’adozione di un neonato africano.

Alla fine della lettura di Swing Time rimane perciò un’incertezza: è meglio che uno scrittore resti fedele ai temi che l’hanno reso famoso e ai topoi che lo rappresentano, rischiando però di perdere un po’ di verve, o che si lanci nel vuoto sperimentando qualcosa di nuovo, consapevole dei rischi che questo comporta? E chissà se il lettore sarebbe pronto a un’opera un po’ troppo rivoluzionaria e distante da un modello collaudato: la formula comprovata magari non sorprende, ma resta una garanzia di qualità.

 

(Zadie Smith, Swing Time, trad. di S. Pareschi, Mondadori, 2016, pp. 417, euro 22)
Copertina di Mentre li guardi su Flanerí

“Mentre li guardi”
di Leopoldine Core

Ciò che sorprende subito, quando ci si accosta a Mentre li guardi, raccolta di racconti della giovane scrittrice americana Leopoldine Core (Edizioni Clichy, 2017), è la fragilità dei suoi personaggi. Sono quasi esclusivamente donne, giovani abitanti di una New York al contempo presente e celata allo sguardo, un tempo meta di artisti, oggi solo punto di incontro per «gente intelligente e delusa».

«Pensò a tutte le creature intrappolate sulla terra, tutte a guardare il mondo libero e ad aspettare di farne parte. Se non c’erano finestre da cui guardare, c’era il pensiero scintillante che ci fossero. C’era l’idea. Erano tutti in attesa perché qualcosa di meglio era lì fuori per loro dall’altra parte. Doveva esserci»

Le vediamo, tutte diverse eppure in qualche modo simili, nei loro rapporti con gli altri. Nell’amore per gli uomini, una materia spesso sconosciuta e incomprensibile, troppo presi da se stessi e dal proprio desiderio di sopraffazione per costruire davvero dei legami; nell’amore per altre donne, sentimento vissuto con passione ma anche vergogna, con la paura sempre presente di non essere accettate. Entrambi amori ugualmente possibili, come se il tipo di persone che desideriamo non fosse solo una disposizione naturale, ma anche una questione di scelta.

Le vediamo nel loro rapporto con il sesso, che affrontano – e di cui soprattutto parlano – liberamente, con spregiudicatezza, e comprendiamo che è spesso solo una maschera, un modo per nascondere la paura. O, da donne consapevoli del ruolo loro imposto, un modo per affermare la propria libertà: «Frances si ritrovava di continuo a dovere educare quelli che la opprimevano, a dovere parlare apertamente dei propri genitali, e per questo spesso non sentiva affatto l’urgenza di affrontarli».

Più di tutto, le vediamo nella ricerca incessante di un posto nel mondo, alle prese con le proprie insicurezze e ossessioni, con la percezione costante del tempo che passa e la paura della fine del mondo, che tentano di esorcizzare attraverso l’amore. Ma non è che un conforto passeggero, al pari dell’alcool e delle droghe da cui sono così spesso dipendenti: tentativi di trovare tregua al confronto doloroso e senza fine con se stesse.

A restituire tutto questo, c’è lo sguardo lucido e nettissimo dell’autrice, che coglie nei suoi racconti ogni tono di voce, ogni sfumatura di un sorriso, fino alla corrente invisibile che lega due persone. A volte basta solo una scena, un momento di intimità tra due amanti, di confidenza tra due amiche. Da conversazioni apparentemente futili, frasi dette male, parole dette per ferire, emergono con forza i caratteri mai stereotipati delle sue protagoniste, troppo impegnate a sopravvivere a se stesse, a combattere con fantasmi e nevrosi per potersi davvero realizzare.

Per persone così, solo due sono i conforti possibili: il rapporto, seppure mai del tutto privo di conflittualità, con una madre o con una sorella, che rappresenti un appoggio, una casa in cui tornare. Ma soprattutto il rapporto con gli animali: cani salvati dai canili, gatti di cui gli umani sono solo custodi, il cui affetto semplice fa da contraltare alla complessità quasi insormontabile dei rapporti umani – ma è anche un ponte verso gli altri, un modo con cui uscire da se stessi e farsi accettare.

Mentre li guardi, esordio più che promettente di Leopoldine Core, racconta con un’empatia e una delicatezza fuori dal comune un’umanità sola, senza più certezze, ma piena di amore e di voglia di sperare nel futuro.

 

(Leopoldine Core, Mentre li guardi, trad. di Tiziana Lo Porto, Edizioni Clichy)
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Il canto inconfondibile delle debolezze umane

Ann Patchett è una libraia. E questo ha un significato. Almeno per me, che, scollata di miglia e di mari da Nasheville e dalla sua Parnassus Books, metto in scena da anni lo stesso mestiere.
Significa ossessione e condanna; redenzione e supplizio. Oppure noia e aria sciatta. Tutto nella condensa macchiata di mani di una creatura chiamata libro. Un corpo a forma di storia.
Significa sempre pensare a chi legge. Perché su ogni scaffale c’è un condominio di ipotetici consigli.
L’appiglio del giorno, la soluzione della notte. Così quando ho scoperto che l’autrice di Il bene comune (Ponte alle Grazie, 2017) non ha deciso “solamente” di scrivere romanzi, ma anche di venderli, mi è sembrato un compimento perfetto. Un circuito virtuoso e autoinnaffiato.

Vicenda corale, articolata e semplicissima. Il rompicapo quotidiano e inestricabile di una famiglia americana. Parte da lontano la trama. Da una festa di battesimo californiana. Da grovigli di scarpe e coreografici abbracci. Fix e Beverly hanno invitato molto più del loro quartiere per l’arrivo di Franny. Secondogenita tonda e chiarissima. Lui è un poliziotto, lei è meravigliosa. Talmente tanto che per l’evento trova modo d’imbucarsi anche Albert, viceprocuratore ben lontano da ogni lista d’inclusione. In ufficio fiuta il miele dell’incontro e si presenta alla porta senza l’affanno dei preamboli. Lui ha già tre figli. E una moglie, Teresa, con la pancia impegnata dal quarto fagotto. Eppure, quel pomeriggio alberato d’aranci, con la casa allagata di gente, proprio niente gli impedisce di raggiungere Beverly nella stanza appartata e di baciarla, con la neonata in braccio.

Da lì gli avvenimenti scrosciano. Quello non è solo uno scontro fortuito. Ma il debutto di una collisione astrale. Quel minuscolo faticatissimo ordine deflagra di colpo, perché Albert e Beverly si amano davvero. E si sposano. Le due tribù di figli sono perciò costrette a unirsi ed è ben facile desumere che ne derivi un pandemonio.

Genitori distratti, assordati dalla scia della loro stessa vita, dispersa nei trasbordi tra la Virginia e Los Angeles. E ragazzi allo sbando, disciplinati soltanto dagli editti dei fratelli maggiori. Sono cani eccitati, in pasto a qualunque occasione. E per rabbonire Albie, il più piccolo, il più scomodo da trascinare in giro, gli antistaminici si usano come caramelle.

Attraverso continui salti temporali, Ann Patchett riassesta il mosaico in cui tasselli distanti coesistono e si annusano. Seguiamo la vicenda di Franny, cresciuta carina ma non abbastanza da credersi tale, cameriera eternamente sospesa che una sera impatta in un cliente eccezionale, l’uomo di cui ha letto ogni successo.

Non occorrono avvitamenti tattici, prodezze da escapologo.
È tutto fin troppo fluido e ben presto la ragazza si ritrova promossa a musa ispiratrice del suo anziano
scrittore preferito.

Così quell’infanzia deragliata, le faglie dei lutti, le bravate spinte all’estremo, la morte di Cal ancora nebbiosa, piantata nel cuore di Teresa come un seme di spine, scolano dirette nei racconti che Franny riserva al suo compagno romanziere, e diventano un titolo, una vicenda di carta chiamata proprio Il bene comune. Così quel terreno di esperienze annodate controvoglia si trasforma in un bestseller da cui addirittura deve sgorgare un film. Dove i veri protagonisti della storia si ritrovano loro malgrado, nudi, eterni e deformati. Così come succede quando reale e verosimile sembrano esistere solo per diluirsi a vicenda.

Ann Patchett scoperchia con fare chirurgico un magma familiare debordante e frequentissimo, l’arcipelago non più nuovo di nuclei complessi, dove i ruoli si assottigliano e si moltiplicano, dove le architetture degli affetti si affastellano all’infinito e reperire Il bene comune vuol dire andare a caccia di stelle scalciando sott’acqua.

Gli esempi editoriali non mancano. L’età ingrata di Francesca Segal, Famiglia, femminile plurale di Emilia Marasco o l’eccellente Una famiglia americana di Joyce Carol Oates sono pugni sull’ordine agognato.

Il peso delle “libere” scelte adulte spiove sui figli in modo inappellabile, depositando ansie, fratture, sedimenti inespressi. Resiste sempre nell’altro più intimo (che sia figlio, genitore o fratello) una traccia insondata, inaddomesticabile e forse solo la vecchiaia, l’ultima corsa verso l’uscita rappresenta l’appuntamento col perdono o quanto meno col trasversale umanissimo senso d’impotenza.
Agli anni non importa di essere clementi, loro grondano e modellano, segano cime, cementano prati, invecchiano e affossano.

Nell’erosione ineluttabile si riscopre Fix alla fine del viaggio, malato e sfinito, accompagnato dalle figlie per il suo presunto ultimo compleanno alla prima di quel lungometraggio in cui si riscodella il suo dolore, il terremoto dei divorzi e dei distacchi, il cataclisma di un amore che si giurava imperturbato. E quando padre e figlie sono appese a quell’ultimo gancio Franny scocca il suo rimpianto, l’amarezza cosciente di una perdita che oltrepassa quel guscio indebolito: «Tutte le storie se ne vanno con te, pensò Franny chiudendo gli occhi. Tutto quello che non ho ascoltato, che non riesco a ricordare, che non avevo mai capito, che non ero lì a vedere. Tutte le strade che portano a Torrance».

 

(Ann Patchett, Il bene comune, trad. di M. Baiocchi e A. Tagliavini, Ponte alle Grazie, 2017, pp. 332, euro 16,80)

 

Poster italiano di The Square su Flanerí

Un santuario di fiducia e amore, ovvero The Square

The Square è un’opera d’arte contemporanea. Lo è il film di Ruben Östlund, premiato a Cannes lo scorso anno con la Palma d’oro, e lo è l’esibizione che è al centro di tutto. Di fronte al museo di arte contemporanea di Stoccolma viene inaugurata un’opera di una artista e sociologa, The Square, appunto. Un quadrato di sampietrini illuminati che vuole essere «un santuario di fiducia e amore dentro cui abbiamo tutti gli stessi diritti e doveri». A pochi giorni dall’inaugurazione, Christian, il direttore del museo, si trova al centro di una situazione surreale dopo aver subito il furto del suo cellulare.

Tre anni dopo il premiato e apprezzato Forza maggiore, il regista svedese Ruben Östlund torna a guardare alla condizione umana con uno sguardo spietato e dissacrante. Nel film del 2014 un padre di famiglia scopriva la sua vera natura di codardo dopo essersi dato alla fuga precipitosa di fronte a una valanga abbandonando moglie e figli. In The Square, in un contesto carico di discorsi sull’altruismo e la solidarietà, Christian rivela la ferocia irrazionale della violazione della proprietà.

C’è un ampio discorso sociale, che si legge dietro la vicenda del museo, di una Svezia che non riesce più a essere la terra dell’uguaglianza e dei diritti, del welfare state anni Ottanta. Il divario tra ricchi e poveri si allarga sempre di più a Stoccolma e crea due mondi separati, inconciliabili e incapaci di comunicare. Il mondo povero vive alla periferia del ricco, elemosina gli spicci per strada, esiste in maniera marginale. Quando però i due mondi si incrociano, con il furto del telefono, arriva il corto circuito.

Dietro le sembianze della critica al mondo dell’arte contemporanea, Östlund spinge un passo più in là la sua analisi dell’uomo – del maschio, soprattutto – di oggi. Immerso in una cultura dell’ego e dell’esibizione di sé, Christian appare sprovvisto di reali coordinate per inquadrare in un senso logico le sue azioni e finisce per subire le conseguenze di se stesso senza neanche capire cosa gli stia succedendo. È così in ogni aspetto: nella caccia ai ladri del telefono, nelle relazioni personali, nel lavoro.

Eppure, in una società e in un ambiente come quello in cui si muove il direttore del museo, immersi in un’ipocrisia strutturale che cambia il senso delle cose a seconda dell’interpretazione di comodo, tutto può essere dimenticato se non, addirittura, trasformato in una nuova percezione. L’unica ricerca che conta è quella della viralità, della visibilità a ogni costo.

È un’opera d’arte contemporanea, The Square, forse più ancora che un film. Come tutto ciò che è proprio dell’arte contemporanea ha bisogno di essere analizzato all’interno di un contesto per essere compreso appieno, ne vanno osservati i dettagli, ne vanno interpretate le scelte originali. Come l’arte contemporanea in generale si espone, ovviamente, alle critiche più disparate. Pretenzioso, incomprensibile, oscuro, paraculo, sono solo alcuni tra gli aggettivi non esattamente elogiativi che possono venire in mente durante e dopo la visione. Gli spunti da cui parte Östlund, però, sono sempre carichi di un interesse ricco di sfumature verso la società e l’uomo che non lasciano indifferenti.

Viziato da una lunghezza eccessiva, The Square riesce nel non semplice compito di estendere un discorso di settore e locale a discorso generale. L’ambiente dell’arte contemporanea è metafora di ogni pretesa innovativa e intellettuale; la società svedese è ogni società occidentale di oggi. E lo fa alleggerendo continuamente il discorso con una dose di humor nero e surreale.

Comunque, la straordinaria sequenza dell’artista Oleg, interpretato dal maestro della motion capture Terry Notary, è destinata a entrare nella storia del cinema.

(The Square, di Ruben Östlund, 2016, commedia drammatica, 142’)

 

la-fine-della-storia-sepúlveda

Il romanzo come rielaborazione del dramma

Il ritorno al romanzo nella sua forma più pura è per Luis Sepúlveda una prova narrativa che mette in campo alcune delle tematiche maggiormente care all’autore, una nuova modalità di costruzione dell’intreccio e una decisa presa di posizione nei confronti di alcuni dei fatti più neri della nostra storia recente. La fine della storia (Guanda, 2016) rappresenta il capitolo conclusivo della parabola personale del personaggio di Juan Belmonte, particolare figura di antieroe attraverso cui non è difficile scorgere in controluce la passione politica, l’etica e il vissuto dell’autore, che qui consegna alla pagina, dopo anni di rielaborazione, ricordi ed esperienze dolorose non annebiate, ma anzi fatte risaltare dalla sovrastruttura romanzesca, quasi che la complessità della trama e l’elevato numero di personaggi siano più che altro una maniera per esorcizzare, per diluire, la nuda e opprimente portata del dramma.

Il filo conduttore di questa vicenda, che si snoda tra il Cile del generale Pinochet, la Russia di Stalin e la Patagonia di oggi assumendo i contorni di un vero e proprio intrigo internazionale, è il personaggio di Verónica, la compagna di vita dell’ex guerrigliero Juan Belmonte, una donna silenziosa e tenace che porta sulla pelle la traccia irreparabile dei soprusi patiti durante la dittatura: a lei Sepúlveda ritorna, con intervalli regolari, servendosene per aprire nel romanzo una finestra sugli orrori perpetrati dai militari nel centro di detenzione illegale di Villa Grimaldi, luogo che solo scorrendo le pagine ha la capacità di addensare le inquietudini del lettore, e che viene evocato sin dalla dedica a «Carmen Yáñez “Sonia”, la prigioniera 824», la poetessa moglie dell’autore.

Juan Belmonte, esperto combattente che ha militato nelle fila di Allende, viene distolto dal proprio ritiro a Puerto Carmen sull’isola di Chiloè dalle ombre di un passato non ancora sconfitto, dal quale riemergono le ambigue figure degli ex compagni Espinoza e Salamendi, quella del magnate tedesco Kramer e quella dell’ufficiale sovietico Slava, decisi a coinvolgerlo in un’ultima “missione” alla quale non può sottrarsi.

Di qui un’intricata rincorsa nel tempo e nello spazio, tra minacce che ritornano, ricatti e investigazioni, sullo sfondo di uno scacchiere abitato dalle ombre delle dittature del secolo scorso.

Lo spunto storico è la vicenda di un cosacco del Don che fu Atamano e che si unì alle Ss naziste durante la seconda guerra mondiale, Pëtr Nikolaevic Krasnov, responsabile di orrendi massacri. La politica quindi è l’altro grande filo conduttore, ma una politica intesa nella sua veste più inquietante, quella che coinvolge nei propri mutamenti di sorte le vite di uomini e donne comuni, senza riguardo né motivazione.

È difficile valutare un libro che abbia tra i propri più alti intenti quello di sensibilizzare, di aiutare il lettore a ricordare: perché di certo questo non è un romanzo di intrattenimento. È difficile principalmente perché non siamo abituati a disgiungere il valore letterario puro dalla tematica trattata, soprattutto quando questa si fa portavoce di un forte messaggio libertario, di un inesausto canto della resistenza nei confronti degli abusi del potere. Forse in questo caso la Storia era davvero troppo complicata per lasciarsi tradurre in un intreccio che non riuscisse alle volte un po’ macchinoso, e le passioni – in negativo e in positivo – dei personaggi in campo troppo assolute per sfuggire a dialoghi in ultima analisi più letterari del reale, specie per chi ha amato il Sepúlveda puro ed essenziale di Il mondo alla fine del mondo.

La fine della storia resta un libro che si immerge con coraggio in alcune delle pagine più buie del nostro passato, ancora pericolosamente misconosciute.

 

(Luis Sepúlveda, La fine della storia, trad. di Ilide Carmignani, Guanda, 2016, pp. 208, euro 17)
Come una canzone - Luca Giachi - Recensione | Flanerí

La disforia di una generazione che si scopre disagiata

Siamo la generazione esaurita. L’instabilità emotiva è diventata una moda. Di conseguenza si finisce per sentirsi drammaticamente inadeguati alla realtà. Come una canzone di Luca Giachi (Hacca, 2016) è rivolto a tutti quei ragazzi e ragazze che entrano nell’età adulta sentendosi angosciati, confusi, frustrati, perduti, depressi e preda di una fortissima ansia.

Quando sei bambino ti insegnano che, se non otterrai certi voti, non potrai avere quella certa cosa, perciò cerchi costantemente di migliorarti, assorbendo una pressione enorme. Si crea così una spirale pericolosa in cui continuamente ci si giudica severamente. Avere obiettivi è importante, ma si è talmente concentrati nel raggiungerli, che non ci è permesso di essere felici.

È un po’ il paradosso dei giovani di oggi: educati, colti, ben istruiti, cresciuti nella convinzione di raggiungere i migliori posti di lavoro e che invece non ottengono un bel niente, finendo per non godere neppure dei privilegi sociali ed economici di cui godevano i genitori. Una classe agiata si scopre disagiata: colleziona titoli di studio, lavori precari e insuccessi.

Mattia è un campione di questa generazione che vive una dolorosa disforia tra chi siamo diventati nella realtà e quello che pensavamo di diventare nella nostra ottimistica e infantile immaginazione. Vulnerabile, pieno di insicurezze su sé stesso e il suo lavoro, Mattia decide di risollevarsi da un recente fallimento sentimentale ributtandosi nella «fantastica e meravigliosa scena musicale indipendente romana […] più che di una pseudo scena musicale di una sorta di setta per sfigati accaniti di cause perse in partenza».

Non è certo un lavoro. Mattia mantiene comunque l’impiego nel prestigioso studio dello zio a via della Camilluccia, mettendo a frutto la sua laurea «108 su 110, ma era da lode: tutta colpa del presidente di commissione, pugliese secolare trapiantato a Roma con loft a San Lorenzo, che per motivi campanilistici non ha apprezzato la sua tesi sul rapporto tra i palazzi abusivi di Roma Est e gli onnipresenti studenti fuorisede calabresi».

Per poter rimettersi in pista, però, c’è bisogno di trovare una cantante, ed è a questo punto che arriva Letizia. Bella, dal talento vocale straordinario, Letizia è però una ragazza enigmatica e sfuggente. È come se cercasse di guadagnare nobiltà dalla sofferenza. Un dolore inespresso fermenta nella sua interiorità.

Per i personaggi di Come una canzone la vita è quasi sempre una recita faticosa, dolorosa, piena di tensioni, qualcosa di duro e irrisolto, come un’impossibilità di avere tregua. Ci si sfinisce per sfide endogene che iniziano e terminano dentro di loro, nel tentativo di inseguire sogni spesso slegati da modelli esistenti.

Le relazioni sono rarefatte e inquinate come l’aria che respiriamo. Ci sono immersi ma non la vedono finché questa non diventa irrespirabile.

L’autore sembra aver scritto il romanzo per cercare di fare chiarezza su di sé, andando al cuore della sua desolata concezione dell’esistenza. Emerge così la sua parte più intima e vera, nei suoi tentennamenti, nel suo corteggiare la rappresentazione del fallimento (affettivo e lavorativo) nella ricerca della completezza, nel suo cercare di afferrare una qualche certezza, nel suo tentativo di portare avanti la vita giorno per giorno. Perché la vera sfida è il quotidiano: combattere la noia e la routine con qualcosa che ci fa stare bene, come una canzone.

Il libro riluce come quei libri che sanno parlare ai suoi personaggi e ai suoi lettori. La scrittura di Giachi non ha bisogno di colpi di scena per arrivare a un epilogo commovente.

 

(Luca Giachi, Come una canzone, Hacca, 2016, pp. 160, euro 14)
Copertina di Infedele su Flanerí

Colapesce e l’altro indie

Colapesce non è mai stato così immediato. Non lo è stato in maniera così netta in Un Meraviglioso Declino, ancor meno in Egomostro. Colapesce non è mai stato così radiofonico e nonostante questo ha, probabilmente, scritto l’album più interessante della sua carriera. L’album contemporaneamente più facile e più complesso. Con Infedele, il cantautore siciliano sembra essere arrivato a un equilibrio compatibile tra quella che è la propria necessità artistica e quelle che sono le necessità del mercato musicale di questi anni.

Sembra quindi che un certo insegnamento involontario dei Thegiornalisti, ancora più di Calcutta – da capire invece dove porterà Coez –, stia avendo i suoi primi risultati. La band romana, è risaputo, è riuscita a emergere dal mondo dell’underground, arrivando alle classifiche nazionali, ai supermercati, ai bar sulla spiaggia, facendo semplicemente quello che si è quasi sempre fatto qui in Italia: scrivere canzoni italiane di musica leggera, nella loro forma più semplice.
E Colapesce, che è sempre stato un po’ ai margini di queste dinamiche, quello un po’ più sofisticato rispetto agli altri, una paradossale alternativa al mondo alternativo, è sicuramente stato influenzato da ciò che è accaduto in questi ultimi anni.

Infelede, sia chiaro, non è uno scopiazzamento dei Thegiornalisti. Non è un album piatto, omologato. È un lavoro stratificato. È l’emblema che oggi – da quella che è stata la rivoluzione de I Cani – anche chi, come Colapesce, è sempre stato fuori da certi schemi, non può non passare per un certo tipo di estetica che è un misto tra quella radiofonica e quella da youtube e per estenzione social.

Perché un pezzo come “Totale”, estremamente godibile, funziona perfettamente avendo, alla maniera di Colapesce, alcune componenti che oggi sono palesemente vincenti. Impegnato, fino a un certo punto, e scanzonato, senza esserlo troppo. Certi rimandi agli anni ’80 nei synth, che sono rimandi all’estetica del gruppo di Tommaso Paradiso, e insieme quel fare da club filtrato dall’esistenza di Facebook, alla Cosmo. Il tutto senza perdere la direzione che deve dare un cantautore. E come “Totale”, “Ti Attraverso”, che sarebbe stata la “Totale” di quest’album se non fosse esistita “Totale”, o “Maometto a Milano”, dove la dance-pop e il riferimento al negroni sbagliato rimandano all’immaginario tracciato da Niccolò Contessa.

Ma sotto a questi brani, c’è la mano netta di Jacopo Incani, al secolo Iosonouncane. C’è dunque l’impronta del personaggio che con Die ha scritto quello che probabilmente è l’album più importante degli ultimi cinque anni in Italia e che sa emanciparsi da un certo tipo di mondo. Il free jazz in chiusura quasi alla Colin Stetson di “Pantalica”; “Vasco da Gama”, forse il pezzo più bello dell’album, che rimanda a certe atmosfere oscure (in particolare nell’arpeggio centrale) proprio di Die; i fiati con cui si apre “Compleanno”, che poi muta trasformandosi in una specie di rave di un’epoca preistorica, sembrano figlie di certe intuizioni del cantautore sardo.
A completare il tutto, un pezzo folk dallo spirito americano alla Father John Misty, “Decadenza e Panna”, e una ballata al piano, “Sospesi”, dove sembra uscire maggiormente il vecchio Colapesce.

Infedele è, in definitiva, l’album più riuscito durante questo 2017 italiano, più di A Casa Tutto Bene di Brunori Sas, secondo solo a L’amore e la Violenza dei Baustelle. Il rinnovarsi del cantautorato italiano in un’epotetica era post Bianconi sembra trovare il proprio paradigma in Infedele.
Se la musica italiana popolare deve ritrovare una sua dimensione caratteristica, buon per noi che sia Colapesce ad avere un ruolo nel processo.

(Infedele, Colapesce, Pop)

Jonathan Coe - I terribili segreti di di Maxwell Sim - Recensione | Flanerí

Jonathan Coe e la ricerca dell’identità

Che Jonathan Coe conosca i più oscuri segreti dell’universo maschile è un fatto innegabile. Eppure il suo romanzo d’esordio era tutto al femminile: Donna per caso (Feltrinelli, 2003) era la storia di Maria, dall’infanzia fino all’età adulta, raccontata con genuina onestà e altrettanta ironia. Jonathan Coe conosce l’animo umano e si muove con disinvoltura nella mente di uomini e donne. Ma quando sceglie di addentrarsi nell’animo maschile lo fa con una naturalezza disarmante: è stato così per La banda dei brocchi (Feltrinelli, 2004) e non è stato da meno nel suo I terribili segreti di Maxwell Sim (Feltrinelli, 2010), in cui il protagonista è un uomo di mezz’età in cerca del suo posto nel mondo.

Un matrimonio finito senza un motivo valido, almeno per Max, che è sempre stato un marito fedele e un padre amorevole, un lavoratore onesto, un uomo normale. Ma è proprio la normalità a essere una colpa imperdonabile: nessuna brillante carriera, nessuna intelligenza fuori del comune, né tantomeno quel carisma che sembra avvolgere da sempre il suo migliore amico. Lui dall’alto della sua vita perfetta, sembra avere la risposta a tutto.

La vita di Maxwell Sim è invece solo un continuo susseguirsi di occasioni mancate, di errori evitabili, di rimpianti insignificanti. Se solo riuscisse a capire dove sbaglia e a riconoscere i momenti decisivi della sua vita, tutto sarebbe più facile.

E invece Max non ha questa capacità: ogni incontro sembra quello risolutore, quello che potrebbe cambiare la sua vita per sempre. E invece tutto si perde, si trasforma, si distrugge, diventando l’ennesimo ricordo doloroso e frustrante. Non riconosce più se stesso Max, né sua moglie, che vuole solo scrivere e parlare di libri; né tantomeno sua figlia, diventata una donna, lontano da lui. Non riconosce suo padre, perché forse non l’ha mai conosciuto realmente, come scoprirà durante un rocambolesco viaggio di lavoro, che lo porterà in giro per tutta l’Inghilterra a pubblicizzare un nuovo tipo di spazzolino da denti ecocompatibile.

Un probabile nuovo lavoro, un viaggio lontano da tutti, con solo il navigatore dell’auto ibrida a fargli compagnia: è l’occasione giusta, il momento perfetto per dare una svolta alla sua vita, per ritrovare la sua identità. Ma quello che scoprirà, di sé, della sua famiglia e del suo passato potrebbe non piacergli.

In questo romanzo di formazione della mezza età Jonathan Coe ci insegna cosa significa crescere, trovare se stessi e il nostro posto nel mondo: non è detto che il posto che ci è stato assegnato ci piaccia o sia comodo. Ma se vogliamo restare seduti dobbiamo imparare ad accettarlo. Anche a cinquant’anni.

 

(Jonathan Coe, I terribili segreti di di Maxwell Sim, trad. di Delfina Vezzoli, Feltrinelli, 2010, pp. 368, euro 18)

Ritrarre la polverosa purezza della realtà

«Quando guardava il soffitto Mrika vedeva oltre; vedeva se stessa, pensava a ciò che avrebbe o non avrebbe fatto, progettava i giorni. Quella mattina, però, nel soffitto non riusciva a vedere niente».

Sono storie sporche quelle narrate da Elvis Malaj, è livido l’inchiostro con cui traccia i dodici racconti che compongono il suo esordio, Dal tuo terrazzo si vede casa mia (Racconti Edizioni, 2017).

Malaj, infatti, non esita a creare un universo denso e complesso in cui piega il concetto di identità, lo distorce fino a renderne confusi i contorni. Non sappiamo chi siamo e forse, finalmente, non ha più importanza.

Malaj afferra il reale, fruga tra i brandelli di un passato ostinato per ricostruire le esistenze ordinarie dei suoi personaggi. Questi ultimi inciampano, si affannano senza sosta alle prese con i loro piccoli drammi ed è impossibile non esserne coinvolti.

La scrittura onesta di Malaj, infatti, genera un’immediata empatia che annulla qualunque tipo di distanza. Senza neppure rendersene conto, come Dedë, il lettore comincia a imprecare per il dolore causato, a seconda dell’interpretazione scelta, dalle scarpe troppo strette o da una vita ormai logora; oppure come Altin, il lettore si ritrova a indossare una cravatta con un motivo a fiori e a guardar scorrere il paesaggio vuoto dietro i finestrini di un autobus in movimento.

Malaj è uno scrittore discreto, che ama rimanere in disparte ma non per questo passa inosservato. La sua presenza, infatti, è tangibile e viene rivelata da un’ironia profonda e disarmante, per fortuna non ancora contaminata da cinismo.

A soli 27 anni, Malaj conosce perfettamente i tempi comici e ne rispetta il ritmo, le pause, le attese, riuscendo così a spezzare passaggi che altrimenti rischierebbero di cadere nel banale o nel patetico.

Dimenticavo, Malaj è albanese ma vive in Italia da oltre dieci anni per cui se lo doveste incontrare fate attenzione al lieve accento nordico e a quello sguardo irrimediabilmente furbo. Sarebbe stato fin troppo facile usare le sue origini come chiave interpretativa dei racconti; personalmente preferisco continuare a sorprendermi della sua incredibile capacità di ritrarre la realtà nella sua polverosa purezza.

 

(Elvis Malaj, Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Racconti Edizioni, 2017, pp. 164, euro14)
Il-condominio-jgBallard

Il ritorno agli istinti primordiali in un lussuoso grattacielo inglese

«Nonostante tutti gli sforzi di Laing per isolarsi dai suoi duemila vicini e dal regime di banali controversie e irritazioni che costituivano la loro unica vita di comunità, stranamente il primo evento significativo aveva avuto luogo proprio lì. Su quel balcone dove ora, accucciato davanti a un fuoco di guide telefoniche, si stava mangiando il posteriore arrostito del pastore tedesco».

Il condominio, romanzo di J.G. Ballard pubblicato nel 1975, è la storia di un graduale ritorno agli istinti primordiali, che si svolge in un lussuoso grattacielo inglese. Ad abitarlo, una «collezione sostanzialmente omogenea di ricchi professionisti: avvocati, medici, fiscalisti, docenti universitari e pubblicitari… Secondo il metro consueto del livello finanziario e del grado d’istruzione, probabilmente più simili gli uni agli altri dei membri di qualsiasi altro agglomerato sociale immaginabile».

Trasferendovisi, i duemila inquilini del grattacielo pensano di trovare una macchina «progettata per servire non la collettività, ma il residente individuale e isolato». E tuttavia si trovano invischiati in una lotta inizialmente sottile, fatta di pettegolezzi e piccoli dispetti, che assumono ben presto la forma di conflitti sociali tra i tre settori del palazzo: in alto, i più facoltosi, che vivono in grandi attici con i loro cani di razza e godono di ascensori privati; in basso, famiglie con bambini, hostess che dividono gli appartamenti; in mezzo, «la massa centrale che faceva da stato cuscinetto».

Il condominio è un racconto corale della vita del grattacielo, narrata dal punto di vista di tre abitanti, rappresentante ognuno di una delle tre classi del palazzo; e dei legami, più stretti di quanto essi stessi desiderino, che si instaurano tra gli inquilini – che diventano via via membri di clan distinti. È soprattutto il racconto di una lotta sempre più brutale, infiammata dall’alcool e dalle continue feste notturne, pretesto per atti di violenza e di vandalismo che portano il palazzo a una rapida autodistruzione.

Il condominio e i suoi conflitti diventano la vera ragione di vita per gli inquilini, che, isolandosi al suo interno, rinunciano senza particolare sofferenza alla carriera, alle vite precedenti, trovando nel grattacielo una nuova forma di comunità, un nuovo ordine sociale e dei nemici con cui combattere.

Al progressivo decadimento del palazzo, che si ritrova presto senza acqua né elettricità ed è preda delle incursioni opposte di clan nemici, corrisponde una regressione dei suoi abitanti a un’umanità sempre più primitiva. Essi si abbandonano ai propri istinti non appena la situazione lo richiede, quasi senza pensarci – opponendo una vaga resistenza che è solo razionale: «Forse ad agire era ancora un altro impulso, il bisogno di isolare, di allontanare da sé ogni comprensione di ciò che realmente stava accadendo nel grattacielo, in modo che gli eventi potessero seguire la loro logica e sfuggire sempre più di mano».

È forse questo a rendere Il condominio un romanzo così pregnante e denso di inquietudini: in pieno stile ballardiano, la distopia non sta tanto in una modernità sentita come minacciosa e piena di pericoli, ma si nasconde nella stessa natura umana.

Non importa quanto colti o ricchi gli uomini possano mostrare di essere – sembra dire Ballard – o quanto il progresso permetta loro di distanziarsi dalla vita animale: continueranno a ricostruire ovunque le stesse gerarchie e lotte tribali e, non appena ne avranno la possibilità, toglieranno la maschera dei propri abiti rispettabili per tornare a procacciarsi il cibo e conquistare donne e territori.

Il grande condominio, allo stesso tempo visto con timore e deferenza, ma anche vandalizzato e piegato alle esigenze dei branchi, non è nemico di per sé. È solo una costruzione umana, pensata inizialmente per isolare – ed è infatti proprio per essere soli che gli inquilini decidono di viverci – ma in realtà fatta in modo da favorire nuove forme di legami e gerarchie.

È questo a permettere ai condòmini di superare la depressione latente e tornare a provare vera soddisfazione per la propria vita. Quasi che il progresso non fosse un vero arricchimento, ma una sofferenza auto-imposta, di cui tutti non vedono l’ora di liberarsi, per abbandonarsi alla propria vera natura, quella di animali che nella caccia e nella conquista trovano una vera ragione di vita: «Lo sporco sulle mani, il sudiciume dei vestiti e l’igiene declinante, il disinteresse per il cibo e le bevande, tutto contribuiva a mostrare una più realistica immagine di sé».

Pieno di humour nero e di un’ironia crudele, Il condominio è un lucido, pessimistico ritratto della natura umana nelle sue forme più aberranti, denso di immagini difficili da dimenticare, oggi più che mai attuali.

 

(J.G. Ballard, Il condominio, trad. di Paolo Lagorio, Feltrinelli)
Copertina di Masseduction su Flanerí

St. Vincent non è solo il clamore attorno al mito contemporaneo St. Vincent

Annie Clark, vero nome di St. Vincent, torna dopo tre anni da St. Vincent con Masseduction e con lei torna, e si conferma, quell’aura finto mitologica che spesso fa dimenticare quanto sia parte integrale del processo artistico degli ultimi dieci anni e non esclusivamente un prodotto commerciale di quel processo artistico da esporre come un trofeo deumanizzato. Perché i lavori dell’artista americana – che non si fermano alla sola musica, ma che l’hanno vista cimentarsi quest’anno, per esempio, alla regia dell’episodio “The Birthday Party” nel film collettivo XX -, nella percezione del St.Vincent personaggio sembrano quasi un intoppo, una zavorra da togliere, qualcosa da scansare che non permette di osservare quello che, in maniera fuorviante, sarebbe: un oggetto.

Poter dire ascolto St. Vincent per dire vedo St. Vincent. Quasi come se non fosse fondamentale, di base, cosa ha fatto, in quanto tutto ciò di cui abbiamo bisogno per capire St. Vincent è necessariamente il nome St. Vincent, trasformando il significante in significato in maniera semplicistica.

Si confonde St. Vincent con dell’oggettistica da esporre per dare vita a situazioni proto ironiche, qualcosa per decontestualizzare un dato contesto e far capire che non bisogna prendere sul serio quel contesto, in un discorso intriso di relativismo spiccio e banale. Del glitch che nasce e muore in sé stesso. Se ci si ferma a intendere St. Vicent in quest’accezione, quella più superficiale, si perde. La difficoltà è qui: si confonde perché, è vero, Anne Clarke usa l’immagine che propone di sé stessa e della sua arte (da quest’ultima copertina, una posa smaccatamente non succinta che va a circonvenire il maschilismo più becero, a quella precedente, una sorta di iconografia della Madonna medievale catapultata nel Duemila), ma è solo un veicolo per arrivare a ciò a cui bisogna arrivare. Senza scomodare il barattolo  Campbell di Warhol, un’interpretazione dell’idea della rappresentazione di sé stessa. Ma tutto ciò che c’è sotto a questo è ciò che vale per poter leggere, poi, il modo in cui lei si manifesta. La musica di St. Vincent è importante, ed è un fenomeno da esplorare per capire com’è la musica oggi, perché nel suo essere iper contemporanea può farci pensare a come potrà essere.

E Masseduction, che segue cronologicamente ed esteticamente St.Vincent, continua il discorso artistico di Annie Clark senza problemi. Già in Actor, ma forse ancora di più con Marry Me, eravamo di fronte a lavori pieni di inventiva, camaleontici, dove sembrava di ascoltare pezzi vecchissimi scritti oggi e contemporaneamente pezzi di oggi scritti chissà quanti anni fa, brani dove a tutta la fantasia della cantante inglese si riusciva a dare la forma precisa della canzone. Masseduction è pieno di glam, dai T.Rex a, ovviamente, David Bowie, ma non è il glam degli anni ’70. È un’interpretazione del glam dopo il grunge e dopo il rock degli anni ’90. E’ glam, un post-glam, ma non solo questo. Perché se c’è quest’indole in pezzi come “Masseduction”, “Los Angeles”, “Fear the Future” o in “Sugar Boy” (quest’ultima sembra Donna Summer che canta i Bloc Party che avevano provato quella specie di pop-techno con “Flux”), cosa dire di “Dancing With Ghost” e “Slow Disco” (i Sigur Ros di Takk…), fino a “Smoking Section” (i Portishead di Dummy)? O delle ballate “Happy Birthday, Johnny” e “New York”? Abbiamo tra le mani un lavoro pieno di contrasti che definiscono ancora di più Annie Clark come rappresentante ultra moderna dell’oggi.

(Masseduction, St.Vincent, Rock/Glam)