Barthelme-larte-dellumorismo

Barthelme e l’arte dell’umorismo

Donald Barthelme non è uno di quegli scrittori di cui sentirete facilmente parlare. Nonostante l’estrema originalità del suo stile, non è stato riscoperto che recentemente, a causa dell’esplosione di un altro grande scrittore, lui sì, mediaticamente molto appetibile, che ne è allievo: David Foster Wallace.

È proprio da Barthelme che Wallace ha appreso l’infinità di potenziali strade che l’umorismo rende percorribili, e sebbene abbia un rapporto complicato, per non dire combattuto, con l’umorismo, non ho difficoltà a definire l’ironia di Wallace barthelmiana.

Infatti, proprio come nel caso di romanzi classici quali Vita e opinioni di Tristram Shandy e il meno conosciuto Il buon soldato Sc’veik, l’ironia non è soltanto un modo di raccontare, ma una via per giungere alla deformazione della realtà e spesso, di pari passo, della forma-racconto e della forma-romanzo. Parliamo di ironia, quindi un altro campo rispetto alle speculazioni pirandelliane su comico e umoristico.

Si tratta dunque di un realismo deformato (qui participio passato), che, attenzione, non va confuso col sur-realismo onirico di scrittori come Raymond Queneau: scrittori che si muovono in un ambito sfumato, letterariamente intellettuale e senza nessuna pretesa di raffigurazione anche solo verosimile. Procedono con accostamenti inconsci che assurgono a quasi-allegorici-o-meglio-simbolici all’interno della forma-testo, il cui flusso è comunque sempre il regolare flusso narrativo della storia, sebbene particolarmente colorito. Lo scopo non è decostruire, la parodia è estranea a un testo come I fiori blu, la cui chiave di lettura andrebbe piuttosto cercata in un gioco letterario-filosofico-psicanalitico che fa dello slittamento freudiano una strategia narrativa.

Non accade così con Barthelme. La sua ironia scaturisce dallo straniamento che riesce a costruire, partendo da premesse verosimili, in una maniera perfettamente speculare e simmetrica a quella di un autore come Kafka, anche se, va detto, non si tratta del todoroviano fantastico (rovesciato in Kafka). Barthelme è in questo senso allievo del gioco intellettuale di scrittori come Sterne e Gogol’, ed è facile notare una certa filiazione con un racconto come Il naso, sebbene Barthelme vada oltre il mero impiego occasionale di questo elemento fantastico, e costruisca sistematicamente le proprie narrazioni, perlopiù brevi – come fosse, ogni racconto, un diverso esercizio di stile –, non rispettando altro che una sostanziale anarchia della prosa, con un andamento sintattico che potremmo definire cubista, quando non astratto (e c’è, forse, dell’astrattismo, la stessa volontà di situare la creazione dell’opera nell’immediato e irripetibile atto della scrittura, scagionando qualunque progettazione), fino al punto di rendere l’opera quasi irricevibile («entra il cuoco col roastbeef, strappa alla madre la coppetta d’argento e ne beve una sorsata, senza smettere di fissare negli occhi la sua amante. L’amante del torero passa la cinepresa alla madre del torero […]») – certo impossibile da decodificare secondo i criteri tradizionali – e tuttavia riuscendo comunque a darle – qui la sua grandezza di scrittore – un’impronta autoriale, a far sentire la propria voce. Dove voce non sta solo per stile, ma anche per presenza. La propria presenza empirica, corporea, resa attraverso le frequenti rotture della quarta parete che fanno dell’autore stesso (autore modello, per dirla con Eco) un personaggio dei propri racconti.

Racconta John Barth – un altro importante scrittore maestro di Wallace – che alla domanda di una studentessa: «Perché scrive come scrive?», (tautologia che sembra fuori luogo a chiunque non abbia letto Barthelme: costoro la comprenderanno perfettamente) Barthelme abbia risposto: «Perché Samuel Beckett ha già scritto quel che ha scritto». È questo un aneddoto molto interessante che aiuta a inquadrare Barthelme nel solco di quella stessa ricerca che Beckett, che pure aveva un rapporto diverso con l’umorismo, compie sul linguaggio. Ricerca non costruttiva, ma destrutturante tanto del senso, in polemica come Sartre (così almeno dice Adorno), quanto perfino dei sensi: arrivano a essere colpiti i dialoghi finanche i morfemi (Hamm, per fare un esempio, mutilazione beckettiana di Hamlet, un procedimento simile a Malone, M-alone, M solo, secondo Frasca). È infatti il linguaggio, prima che il testo (ma sarebbe meglio dire: la dimensione testuale) a essere al centro dell’opera di decostruzione di Barthelme. Eccone degli esempi, tratti dalla raccolta Dilettanti (minimum fax, 2015):

«Alcuni di noi avevano minacciato il nostro amico Colby già da tempo, per via di come si comportava. E adesso aveva esagerato così abbiamo deciso di impiccarlo. Colby sosteneva che solo perché aveva esagerato (e non negava di aver esagerato) non significava che dovesse essere sottoposto a impiccagione. Esagerare, diceva, è una cosa che capita a tutti, prima o poi. Non abbiamo prestato molta attenzione alla sua difesa. Gli abbiamo chiesto che musica avrebbe voluto alla sua impiccagione. Lui ha detto che ci avrebbe pensato su ma che ci avrebbe messo un po’ a decidersi».

«Il presidente osservò che alla finestra c’era un uomo che guardava dentro. I membri del comitato volsero gli occhi in direzione della finestra e constatarono che l’informazione del presidente era corretta: alla finestra c’era un uomo che guardava dentro. Il sig. Mackey presentò una mozione affinché il fatto fosse messo a verbale. Il signor O’Donoghue l’appoggiò. La mozione fu approvata. La sig. Brown si chiese se non fosse il caso che qualcuno di loro uscisse per parlare con l’uomo alla finestra».

«E così ho comprato una cittadina (Galveston, Texas), e ho detto a tutti che potevano restare, sarebbe stata una cosa graduale, molto rilassata, senza grandi sconvolgimenti dalla sera alla mattina».

«Dov’è mia figlia? Perché è là? Quale errore cruciale ho commesso? Ce n’è stato più di uno? Perché mi sono fatto carico di un compito al di sopra delle mie capacità? Essendomi fatto carico di un compito al di sopra delle mie possibilità perché lo perseguo con tutto l’entusiasmo di qualcuno che si ritiene in grado di portarlo a termine?»

Questi quattro incipit ovviamente non forniscono che una vaghissima idea del genio immaginifico di Donald Barthelme, ma possono forse essere lo spunto per qualche considerazione. La prima: la presenza quasi tangibile dello sperimentalismo joyciano. Nell’albero genealogico di Barthelme c’è molto dello sprezzo di Joyce per la convenzione in quanto tale, l’amore sadomasochista per la scomposizione (creativa, non negativa come Beckett né meta-teatrale come Ionesco) del racconto tradizionale attraverso l’esaurimento di ogni tecnica, il saturamento di ogni canone. Sebbene, questo è importante notarlo, l’operazione fosse per Joyce parte di un percorso duro e accidentato, che culminava nella distruzione completa, a livello anche sintattico, con Finnegans Wake, un percorso verso l’oblio simile all’evoluzione del teatro beniano («Lacan faceva dell’inconscio un linguaggio, io faccio del linguaggio un inconscio») che arriva a trascendere il significato e l’azione; laddove invece, per Barthelme non è che un modo di procedere, un ritmo. Incomprensibile, conturbante, alienato, ma costante: siamo lontani dalle fantasmagorie verbali wallaciane o anche solo dall’intellettualismo meta-letterario (e, dispiace dirlo, a volte pedantemente manierista) di un pur simile John Barth. Il testo qui implode; il racconto, rifiutando di creare un’aspettativa, e prendere posizione di fronte alla totipotenza, si avvolge su se stesso, i significati sono sostituiti da altro: il gusto morboso per l’elencazione, la ripetizione con varianti, la parodizzazione, lo scherno, la rottura della quarta parete, il rimestare nella spazzatura culturale, rielaborata alla maniera della pop-art come materia letteraria e inscritta nel racconto. La forma scavalca e prevarica ogni possibile contenuto, la forma diventa totalizzante.

C’è molto di Joyce ma anche di Beckett. I racconti di Barthelme hanno qualche lampante parentela con le prose beckettiane, i “testi per nulla”, racconti-non-racconti in serie, estremamente oscuri, estremamente più seriosi, ma simili per intenti. Ma se Beckett decostruiva il linguaggio attraverso l’astrazione, l’allontanamento, l’oscurità della raffigurazione, Barthelme lo fa piuttosto scivolando nell’assurdo, esprimendo l’insensatezza, con la sintassi impeccabile, perfetta, che scorre verso il grottesco, mentre l’assurdità si palesa sempre più, fino al culmine: ecco il finale del racconto Il pallone, in cui un gigantesco pallone si ferma nel cielo di New York, oscurando anche il sole. I cittadini rinunciano presto a comprendere il significato del pallone, preferendo darne ognuno la propria versione, esplorando la propria interiorità. Quella che sembra a tutti gli effetti essere un’allegoria dell’impossibilità di cogliere il Senso, si conclude così: «Ci incontrammo sotto il pallone, al tuo ritorno dalla Norvegia. Mi chiedesti se era il mio; ti risposi di sì. Il pallone, dissi, è una spontanea apertura autobiografica, connessa con il disagio da me provato in tua assenza, e con l’astinenza sessuale, ma ora che il tuo soggiorno a Bergen è terminato, esso non è più necessario e neppure pertinente. Rimuovere il pallone non fu difficile: autofurgoni con rimorchio portarono via il telone ormai sgonfio, che ora giace in un magazzino nel West Virginia, in attesa di un nuovo periodo d’infelicità. Un giorno, chissà, quando io e te avremo litigato».

Siamo chiaramente al di là di Barthes, nello sconfinato deserto postmodernista, in cui, superato ogni limite, la sola possibilità è cercare di ri-flettere la realtà, come David Foster Wallace, tenendoci a distanza tramite il dispositivo dell’ironia; o cercare, ricostruendo i limiti, di salvare il linguaggio dalla pena capitale cui sembrava destinato: spezzato, deflagrato in Beckett; parodiato, ridicolizzato (a volte in modo fastidiosamente didascalico) in Ionesco, qui torna con una nuova consapevolezza. Inseguendo la realtà si è esaurita ogni forma, e, scagionata la trama (Woolf, Mansfield, per dirne solo due), ed esaurita ogni strategia fino all’esplosione definitiva (Joyce; il nuovo linguaggio di Finnegans Wake), mentre molti postmodernisti, invece di sostare davanti alle rovine, ripercorrono vecchi sentieri: il realismo Roth, la distopia DeLillo, il racconto fantastico (termine qui usato in modo improprio e non-todoroviano) Pynchon; Barthelme non si scoraggia, e, chinandosi sulle rovine del linguaggio, ne raccoglie i pezzi, li colleziona, li assembla.

Ne risulta una scrittura bizzarra, consapevole, autoironica, caleidoscopicamente eterogenea. Ciò che ci comunica, ciò che rappresenta l’ironia di Barthelme è ciò che davvero siamo, o siamo stati. Siamo ciò che mangiamo e dunque ciò che defechiamo. Ciò che rifiutiamo: qui inteso in senso letterale, ciò di cui facciamo rifiuto; questo Barthelme l’ha sempre saputo, e ne ha fatto un’opera d’arte.

Poster italiano di It su Flanerí

It, l’effetto nostalgia non fa più paura

La prima parte della versione cinematografica di It, il romanzo di culto di Stephen King, a firma di Andy Muschietti, è diventata in pochissimo tempo un fenomeno pop che va oltre alla sala buia del cinema. Uscito in Italia lo scorso 19 ottobre, in molte altre parti del mondo già l’8 settembre, ha registrato incassi fenomenali a fronte di un budget molto limitato per gli standard delle produzioni hollywoodiane (35 milioni di dollari). La prossima notte di Halloween sarà piena – anche in Italia, ovviamente – di nuovi clown Pennywise come lo scorso anno lo era stata di Joker e Harley Queen dopo Suicide Squad. In attesa della seconda parte, prevista per il 2019, It è già diventato uno dei maggiori successi della storia del cinema horror.

Alla fine degli anni Ottanta a Derry, una cittadina del Maine, una serie di ragazzini inizia a scomparire nel nulla. L’adolescente Bill Denbrough guida un gruppo di coetanei alla ricerca del fratellino Georgie, sparito anche lui in un giorno di pioggia. I ragazzi, vittime di un bullo locale e autoproclamatisi “Club dei perdenti”, si ritroveranno presto perseguitati da un inquietante clown che sembra provenire da un’altra epoca e da un grande mistero della città.

Tralasciando la parziale intraducibilità in immagini del romanzo di King – stratificato, ampio e complesso più delle quasi 1.300 pagine su cui è distribuito – e ogni paragone con il film tv anni Novanta con Tim Curry, il film di Muschietti è un cortocircuito dell’imperante effetto nostalgia verso i due decenni finali del secolo scorso che intasa cinema, serie tv e cultura pop negli ultimi anni.

Trasportando l’azione di questa prima parte del Club dei perdenti dagli anni Cinquanta originali alla fine degli Ottanta, Muschietti e la produzione hanno deciso di andare sul sicuro, limitandosi a cavalcare il cavallo più veloce e ad aggiungere semplicemente una voce al coro dello sfruttamento commerciale della nostalgia senza preoccuparsi di essere solisti.

Il punto paradossale a cui si è arrivati è che un film tratto da un romanzo del 1985 sembra ispirarsi a una serie Netflix del 2015, Stranger Things, che si ispirava alla letteratura di King e al cinema horror anni Ottanta. Parlando di Blade Runner 2049 ci eravamo soffermati sulla fine dell’immaginario cinematografico, ormai saturato di una mitologia ingombrante e insuperabile. Denis Villeneuve era riuscito, nel sequel del cult di Ridley Scott, a trovare il modo di confrontarsi con il passato con le giuste dosi di rispetto e innovazione. L’It di Muschietti si limita a immergersi in un mondo di sicura presa commerciale sul pubblico senza preoccuparsi di offrire qualcosa di nuovo o quanto meno interessante.

Così, tra biciclette abbandonate in mezzo alla strada, videogiochi arcade, walkman e diapositive, va in scena l’ennesima rivalutazione del passato recente e della sua estetica. Senza la capacità immaginifica di J.J. Abrams in Super 8, questo It lascia l’effetto del primo episodio di una serie tv che vuole essere la copia – pallida – di Stranger Things.

È intrattenimento che funziona, senza dubbio, e i numeri parlano chiaro, ma senza il bisogno di soffermarsi su come la versione cinematografica appiattisca il romanzo e i suoi contenuti di racconto di formazione e di lotta alla discriminazione, It non ha neanche la potenza degli horror originali a cui sembra ispirarsi, Nightmare in testa. Il Pennywise di Bill Skarsgård è completamente privo di ironia e non si capisce in che modo la sua natura inquietante possa attirare i bambini del film. Il valore psicologico della paura del romanzo si disperde nella ricerca continua del cosiddetto “jumpscare” (il momento inaspettato di sorpresa che dovrebbe spaventare lo spettatore) che non arriva mai. Non è solo colpa del film. È l’effetto “già visto” a indebolire tutto. Dovrebbe essere un segnale chiaro: la nostalgia non fa più paura.

(It, di Andy Muschietti, 2017, horror, 135’)

 

la-cosa-giusta-michele-cocchi

Quando la distanza tra persone e personaggi si annulla

La cosa giusta di Michele Cocchi (Edizioni Effigi, 2016) è un romanzo atipico. Non tanto per la tematica espressa – che a voler semplificare potremmo circoscrivere alla vicenda di allontanamento/avvicinamento di un padre e di un figlio (una tematica che un gran numero di differenti voci di autori sta declinando, nell’ultimo torno di tempo) – quanto più per le scelte stilistico-espressive: l’alternanza come un taglio netto di capitoli dedicati ora all’uno ora all’altro personaggio, semplicemente denominati “l’uomo”, “il ragazzo”; l’estrema economia dei dialoghi, ellittici come talvolta possono essere le conversazioni tra persone che vivono appartate, o tra persone abituate all’azione più che al linguaggio; l’ingresso nel filato della sintassi, a tratti sincopata a tratti di respiro più ampio, di termini, locuzioni, espressioni proprie della lingua toscana, non mutuate, tutte afferenti alle diverse sfere pragmatiche dei lavori, delle “cose” di uso comune, dell’ambiente naturale.

Michele Cocchi, difatti è toscano. E questa appartenenza geografica risuona in maniera polifonica nel suo romanzo di esordio, al quale lo scrittore, che lavora come psicoterapeuta dell’infanzia e dell’adolescenza, giunge, dopo l’apparizione di suoi racconti su riviste tra cui Nazione Indiana e la raccolta Tutto sarebbe tornato a posto (Elliot Edizioni, 2010).

Il romanzo si apre con una scena traumatica, il risveglio dell’uomo in un capannone, ferito al ginocchio. Nel capitolo immediatamente successivo il ragazzo si inoltra nel bosco, a passo spedito, e disperde le sue tracce seppellendo nella terra umida i propri effetti personali.

Niente viene detto in maniera esplicita, la storia si compone per giustapposizioni, senza evidenti punti di contatto tra i flash dedicati all’uomo e quelli dedicati al ragazzo, tranne che per l’evento che ha messo in moto l’azione.

Il ragazzo, Gabriele, ha sedici anni, e sta scappando. Il padre, un uomo selvatico e brusco, lo sta cercando. La domanda cruciale su cui gira tutto il romanzo è chi sia il colpevole, chi sia “il cattivo”, e diventa la questione morale urgentissima alla quale il lettore vorrebbe dare risposta, accatastando dettagli e informazioni che continuamente lo avvicinano e anche lo fuorviano (padre alcolista; ragazzo abbandonato dalla madre; padre violento; ragazzo instabile, pericoloso?).

Quando Gabriele raggiunge un casolare isolato, abitato da una comunità che ha scelto di lasciare la città per vivere in montagna a contatto con la natura, entrano in scena nuovi personaggi: Cristiano, leader della comune, Elena, sua compagna, Giuseppe e Irene, genitori di un bambino afflitto da una malatia congenita, Carla, una donna che ha perso il marito in un incidente stradale, e sua figlia Lucia, quattordicenne problematica al limite dell’anoressia.

Cristiano è affabile, offre a Gabriele di fermarsi a vivere con loro, si sovrappone alla figura paterna. Gabriele è intelligente, diffidente, ma accetta. Gli animali, il lavoro nei campi, le cene rustiche e genuine, il rifiuto delle energie inquinanti, il rapporto di aiuto reciproco e di rispetto tra i componenti della comunità: Cristiano presenta a Gabriele tutte queste cose con naturalezza, mentre in parallelo l’uomo, padre del ragazzo, si muove in un girone dantesco di vita paesana fatta di preti eloquenti, osti scommettitori, commessi chiacchieroni e ragazze ruffiane, condito dallo squallore del vino rosso bevuto a litri dal cartone.

In realtà anche la comune di Cristiano nasconde insidie senza nome, che una dopo l’altra fanno cadere tutte le apparenze, da quella del “luogo idilliaco”, che più che una scelta è una fuga, a quella della presunta affidabilità degli adulti, deboli, come l’inconsistente Cristiano, o peggio ancora adescatori, come la spregiudicata Elena. La comune di Cristiano addensa un nodo di mancanze, inadempienze, fallimenti, tensioni, che scorrono sotterranee fino al punto di rottura, in un continuo gioco di specchi in cui ogni personaggio involontariamente scopre gli altarini degli altri.

L’espressività cruda, scabra di Cocchi mette in luce i traumi, la psicologia e i legami che compongono ogni individuo.

A chi potrà votarsi Gabriele, che è con tutta probabilità l’embrione di un uomo che saprà mantenere la bussola nella vita? Ci sarebbe molto altro da dire. Forse la cosa giusta è leggere il libro.

 

(Michele Cocchi, La cosa giusta, Edizioni Effigi, 2016, pp. 240, euro 14)
Intervista a Patrizio Milani su Flanerí

Uscire dal muro di libri

La storia della casa editrice minimum fax è una di quelle da film motivazionale. Inizia con due ragazzi che aprono un’attività nel loro scantinato partendo da un’idea e riescono, infine, a creare un’impresa di successo. Nata come una rivista inviata via fax da Daniele di Gennaro e Marco Cassini – parliamo del 1993 – minimum fax diventa in breve tempo nota nel mondo intellettuale e si trasforma in una casa editrice indipendente di successo. C’è poi un aneddoto legato alla sua genesi, e riguarda il logo. Il famoso pennino di minimum fax viene, infatti, disegnato gratuitamente da un amico grafico: Patrizio Marini.

Oggi Marini è un art director affermato e lavora soprattutto nell’ambito della comunicazione, cura la direzione creativa di campagne pubblicitarie e l’immagine di brand famosi. A distanza di 23 anni è tornato a lavorare per minimum fax per cui ha curato la nuova veste grafica presentata durante l’ultimo Salone del libro di Torino. Lo ha intervistato Ulderico Iorillo.

 

Vado a trovare Patrizio Marini dove lavora, in uno studio con tanti open space, pieno di divani spaiati e lunghi tavoli di legno chiaro con sopra grandi iMac in fila. Mentre prendiamo un caffè in una sala con il ping pong, mi descrive le varie aree dello studio e cosa fanno le persone che lo abitano, poi ci sediamo e inizia a raccontarmi di come tutto è iniziato, senza che io gli chieda niente.

Sono entrato nel mondo dell’editoria in modo anomalo. Sai, spesso questo tipo di collaborazioni nascono per amicizia, anche perché l’editoria non può permettersi grandi investimenti, grandi progetti, spesso è quasi un’affiliazione, così se hai qualcosa da dare lo dai. Io c’ero quando Cassini e di Gennaro erano due amici che lavoravano con un’idea forte: usare un canale comunicativo in modo innovativo. Oggi fa ridere parlare di fax, ma allora c’erano questi ragazzi e io ero uno di loro, avevo la loro età. Facevo grafica, disegnavo e ci siamo dovuti ingegnare per fare delle illustrazioni che fossero leggibili su fax. Io cominciai a lavorare sulle prime collane e disegnai il pennino. Così è cominciata.

 

La casa editrice è stata sottoposta non solo a un restyling visivo ma anche a un cambiamento della linea editoriale. Cosa pensi di questa rinnovata minimum fax? 

 

 

La nuova minimum fax mi sembra funzioni. Lavorano tutti nella stessa direzione e, da parte mia, credo che il contenitore a sua volta stia influenzando il contenuto. L’esigenza di rifare i vestiti alla casa editrice è quella di dare un segnale alla propria comunità. minimum fax non è più così giovane e deve attualizzare il messaggio senza perdere il proprio mondo, ripescando alcuni elementi dal suo DNA. C’era il rischio che diventasse una casa editrice che guardava troppo al passato, invece di cercare quelle persone che non conoscono il catalogo e che magari si accostano ai libri per la prima volta. Credo, insomma, che anche il fatto di essere meglio definita visivamente aiuterà a pescare tra i nuovi lettori.

 

Come hai vissuto questo ritorno all’editoria? È stato naturale o macchinoso? Mi riferisco soprattutto all’approccio con l’oggetto libro e alla progettualità di un nuovo sistema visivo. Questi anni nella grafica pubblicitaria ti sono sati utili o d’intralcio?

In tutti questi anni mi sono occupato di editoria in modo differente. Collaboro con il Soon Institute di Amsterdam e abbiamo anche una casa editrice che produce pochissimi libri, realizzati in un numero di copie limitato e costruiti con grande attenzione (The Mushroom Collector, Back and Forth and In and AroundHotel Oracle sono alcuni dei libri editi). Io approccio l’editoria in questo modo. Certo, ho soprattutto lavorato per grandi marchi com Nike o Alitalia, e calarmi in una situazione più piccola è stato più difficile perché ho sentito di avere maggiore responsabilità. Intendo la responsabilità di far emergere uno specifico libro da quel muro di libri che sono diventate le librerie. Il libro è fragile, bisogna occuparsene con grande attenzione. Per rendere più chiaro il messaggio e quindi più visibile il libro, bisognava fare prima chiarezza all’interno della casa editrice, che sembrava essa stessa una libreria. Il gran numero di collane e la difficile distinzione tra una tipologia di libro e un altro metteva in difficoltà il lettore. Le nuove personalità acquisite hanno lavorato a un dimagrimento delle collane ed è stata riscritta la grammatica visuale della casa editrice.

 

Ho letto che hai ridisegnato anche il pennino perché l’angolo di scrittura era errato. Provo sempre un forte senso di responsabilità nel pensare qualcosa che rappresenti un’idea in un solo segno. Dal monogramma costantiniano alla CocaCola, i marchi hanno rappresentato un concetto che può durare secoli, ma sono comunque l’espressione del tempo in cui vengono concepiti. Avresti fatto lo stesso logo se te lo avessero commissionato oggi? 

 

 

Non ho mai riflettuto su questa cosa. Forse, no. Sono cambiato io e sono cambiati i modi di creare un marchio. Oggi le marche non sono statiche ma generative, nascono da una matrice che poi viene riproposta in modi differenti. Ma devo dire che una percentuale della moltiplicazione della matrice l’abbiamo inserita in questo re-branding, creando una linea diagonale che riproduce la diagonalità del logo e in qualche modo vuole rappresentare anche la trasversalità, non solo della casa editrice, ma anche delle persone che ci sono dietro. Un marchio se non rappresenta le persone e la loro filosofia non conta niente. E ci sono ancora persone che ragionano in modo trasversale in minimum fax e Daniele [di Gennaro n.d.r.] è uno di questi.

 

Sei stato affiancato in questo lavoro da Agnese Pagliarini, una giovane graphic designer che ha frequentato lo IED. Quanto ti è stato utile il suo contributo?

 

 

È stata un pezzo fondamentale del progetto. Un progetto così non si può gestirlo da soli, sia per questioni di tempo, sia perché va affrontato da due punti di vista: uno più solido e nostalgico, il mio, e l’altro più nuovo, fresco, quello di Agnese. Parlando proprio delle soluzioni grafiche, solo lei poteva accostare alcune cose a cui non avrei pensato. Le mie prime idee erano molto quadrate, gestaltiche, lapidarie, si trattava di prototipi naturalmente, ma alcune idee di Agnese hanno aiutato ad ammorbidire il tutto e anche nella costruzione delle gabbie è stata molto precisa.

 

Ho sentito in una tua intervista che per una questione di uniformità e di tempi avete deciso che le illustrazioni delle copertine per le collane di narrativa sarebbero state realizzate da te in questa prima fase. Avete pensato sin da subito di occuparvene internamente?

A un certo punto la casa editrice ha detto: «Bene, partiamo!» Allora siamo andati di corsa per arrivare a Torino con i primi titoli. Avrei voluto fare un po’ di scouting, sia per non usare i soliti (bravissimi, ma a volte inavvicinabili) illustratori, sia per dare un taglio nuovo. In questi anni non ho mai abbandonato l’illustrazione, anzi mi trovo spesso a misurarmici. Ho fatto le prime due cover di prova per la parte fiction, sono piaciute e allora abbiamo deciso di continuare. Ho preso subito gusto a farlo. Per quest’anno andremo avanti così, un po’ perché è una macchina rodata e poi perché per me è un bel momento quello che dedico all’illustrazione. Inoltre c’è un buon dialogo con la casa editrice nel momento in cui si sviluppa l’idea della copertina, c’è tanta sensibilità e cura per il lavoro, sia da parte della casa editrice, sia da parte mia.

 

Pensi che in futuro utilizzerete altri illustratori? Chi ti piacerebbe?

Sento già l’esigenza di fare un cambio, di far andare le copertine con le proprie gambe. Mi piacerebbe trovare giovani e dare visibilità a personalità nuove, creare così una piccola factory dove allevare e lanciare nuovi talenti. È una cosa a cui minimum fax si è sempre dedicata dal punto di vista della scrittura, ma vorremmo farlo anche per la parte visuale. Si può dire che questa idea di creare un vivaio di illustratori faccia parte del progetto stesso.

 

Hai detto che collabori con il Soon Institute, che si occupa di fare ricerca e creare prototipi di comunicazione. Pensi che l’editoria abbia bisogno di essere innovata, di cambiare nei processi produttivi o nella comunicazione?

Al Soon affrontiamo l’editoria lavorando molto sui materiali, e sulla cura dell’oggetto libro e questo credo sia indispensabile. Parallelamente, però, c’è sicuramente molto fare nella comunicazione. In altri campi si usano oggetti all’avanguardia, sistemi per creare modelli innovativi; invece la comunicazione intorno al libro è statica. Calvino parla dell’avvicinamento al libro come dei preliminari amorosi che preludono all’atto della lettura. Questo tipo di approccio sicuramente non morirà mai, ma bisogna trovare le chiavi che la tecnologia offre per consentire alle persone di individuare il libro, prima di avvicinarlo. In questo periodo ho partecipato a tutte le grandi fiere e mi sono reso conto quanto quello che ruota intorno al libro è ritualizzato, come nelle grandi messe, tutto nello stesso modo e guai a cambiarlo. C’è tanto spazio, invece, anche con poche risorse, per arrivare a nuovi canali di comunicazione e provare ad aumentare il popolo dei lettori Ti racconto un’altra cosa riguardo l’oggetto libro e l’innovazione. Io adoro i dati numerici, penso che il lavoro del futuro per un visual designer sarà raccogliere e visualizzare i dati, mentre per uno che fa comunicazione sarà sistemarli e riuscire a creare un messaggio. Tra le varie proposte che ho portato a minimum fax nelle fasi iniziali, ce n’era una per cui abbiamo studiato un algoritmo che generava la copertina automaticamente in base alla quantità di determinate parole presenti all’interno del libro. Quando l’ho proposta c’è stata una doppia reazione: da una parte entusiasta e dall’altra allarmata. minimum fax è così, si muove tra due anime, una molto innovativa e l’altra più classica. In questo Daniele di Gennaro è dalla mia. È sempre molto dinamico nelle idee, sempre immerso in mille progetti. In questo caso volevo inserire un elemento di modernità rispettando il libro. C’è spazio anche nei freddi numeri per la bellezza e l’innovazione, e c’è tanto spazio per un differente approccio al libro.

 

Ti propongo una domanda che mi piace fare ai designer. Trovi che i precedenti progetti avessero concluso il loro corso, esaurito la loro funzione? Quando si può dire che un progetto grafico non risponde più alle esigenze per cui è nato?

Cerco di darti una risposta da tecnico a proposito del tempo. Oggi il tempo a disposizione della parte creativa è sempre minore e gli oggetti sono fatti per durare meno per via delle regole del mercato. Stessa cosa vale per la grafica e la comunicazione. Chi progetta deve pensare a un seme, secondo un concetto generativo, lo stesso di cui abbiamo parlato per il marchio. Solo così un’idea può durare il più possibile. All’interno del seme si può programmare una continua evoluzione, mantenendo il cuore. Per me la progettazione è una cosa in movimento che sta in piedi solo se c’è una progettualità forte, solida, che deve rappresentare il DNA dell’azienda o di un pensiero. Quando lavoriamo per la comunicazione e troviamo il posizionamento, esso deve essere il più durevole possibile e, all’interno di quella sezione di tempo, è l’azienda o il progetto che deve sapersi muovere per non dover cambiare ogni minuto.

 

Patrizio Marini ha parlato per tutto il tempo con un tono pacato che nasconde il grande entusiasmo che ha per le cose che fa e per quelle che gli piacerebbe realizzare. Mentre mi riaccompagna alla porta sono attratto da un piccolo disegno di un pesce rosso che ha una falce e martello sul muso. «Bello», dico e Patrizio mi risponde: «Sì, l’ha fatto Terry Gilliam, è un pazzo, pensa che ha lavorato con noi. Solo uno come lui poteva accettare». Mi rimane la voglia di chiedere altro sul pesciolino, ma me la porto via.

le-otto-montagne-cognetti

Custodire il presente

Può essere dura tirare a campare quando senti che il tuo posto non è quello che abiti ogni giorno, ancora più dura, forse, se in quella terra ci sei nato senza mai riuscire ad allontanartene. Ed è dei modi in cui si può appartenere a un luogo – non semplicemente della montagna, dell’essere genitori e figli, del trovare un amico, del diventare grandi e cercare il proprio spazio nel mondo – che parla Paolo Cognetti nel suo esordio da romanziere, Le otto montagne (Einaudi), che è stato un caso editoriale prima ancora di approdare in libreria ed è valso all’autore il Premio Strega di quest’anno.

Che la scrittura di Cognetti tendesse verso una narrazione di ampio respiro lo si poteva intuire sin dai tempi di Sofia si veste sempre di nero (minimum fax, 2012) dove era un’unica storia a tenere insieme la raccolta di racconti, ma lo stile essenziale, cristallino in cui risuona l’eco dei maestri della short story americana, continua a scandire il ritmo anche di questo romanzo in cui l’autore ha aggiunto molto della propria storia personale.

Nessun colpo di scena né effetto speciale, dentro Le otto montagne non si fa che seguire la vita che scorre: si legge dell’amicizia tra Pietro e Bruno, due ragazzini che non potrebbero essere più diversi, ma che diventeranno uomini senza che il loro legame costruito su poche parole e molti gesti si possa spezzare; si ripercorre la storia della famiglia di Pietro, del padre soprattutto, seguendo il reticolo dei suoi passi tra le montagne, lungo vent’anni di camminate; si impara il rispetto per le leggi silenziose dell’alta quota, dentro gesti rituali che ne fanno non una sosta di villeggiatura, ma una meta esistenziale.

«Era questo a fare la differenza. Il modo in cui un luogo custodiva la tua storia»: se per Pietro la montagna è il posto della nostalgia, del tornare per fare visita a ciò che si è stati, per Bruno è l’unica declinazione possibile del presente, una condizione per cui non appaiono possibili alternative. E lungo i due sentieri, quello di chi va e di chi resta, si snoda una ricerca di identità e di senso, attraversata come dai torrenti da una malinconia di fondo che la tavolozza cromatica della splendida illustrazione di copertina di Nicola Magrin riesce perfettamente a restituire.

Leggendo questa favola fuori dal tempo si imparano molte cose, per esempio che dire di amare la montagna è impreciso se non si conosce l’esatta altitudine a cui si appartiene: «Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene». Oppure a guardare le cose come un pesce di fiume, sempre «verso l’alto, in attesa di ciò che deve arrivare». Si scopre che in cima ai monti si trovano spesso dei taccuini consumati dalla pioggia e dal sole, su cui i temerari che hanno scalato le vette lasciano una traccia del loro passaggio o un pensiero per chi non è ancora arrivato. O che il Monte Rosa si chiama così non perché sia davvero rosa, ma perché il suo nome deriva da una parola antica che significa “montagna di ghiaccio”. Si impara a riconoscere l’età dei ghiacciai, che sono «la memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi». E che «andando in alto si va indietro con le stagioni», ma soprattutto che in quello che appare come il regno della solitudine, si può incontrare un altruismo che non esiste a bassa quota.

Per riconoscere che Le otto montagne sia un gran bel libro non c’è bisogno di gridare al capolavoro né abbracciare il culto dell’altitudine e rinnegare le ragioni per le quali continuare a preferire il mare, ma è sufficiente essere disposti a riconoscere che, per recuperare qualche pezzo di sé che si è perso per strada, si può anche tornare a casa, invece che puntare sempre lontano.

 

(Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi, 2016, pp. 208, euro 18,50)

 

Cover de Lo Stupido che Canta su Flanerí

“Lo stupido che canta”
di Il Deli

La domanda sorge spontanea ascoltando nella sua interezza questo disco: chi è davvero il cantautore che si fa chiamare Il dEli, al secolo Roberto Deliperi, italiano di nascita ma da anni cittadino di Londra?Questo album d’esordio dallo spiazzante titolo Lo stupido che canta rappresenta una sorta di compendio in dodici tracce (anzi, undici e mezzo visto che un brano è numerato 9,5) della storia e dei suoni e della musica italiana e internazionale negli ultimi trent’anni.

«La scrittura di questo album è stata frutto di una necessità spontanea»,racconta il polistrumentista piemontese. «Quando mi sono trovato a comporre questo disco mi è venuto automatico metterci dentro tutte le influenze che ho avuto fin da quando, da piccolo, ho iniziato ad apprezzare la musica». C’è di tutto dentro le canzoni di questo cd, ogni brano ha dei richiami, delle citazioni che ti fanno sovvenire altro. Nulla di nuovo o innovativo, eh, ma ben fatto con i piedi nel presente e il cuore lasciato smarrito in altri decenni.

«È proprio vero che a un certo punto la musica ha smesso di evolversi?», si chiedeva Simon Reynolds nel suo saggio del 2011 titolato Retromania.

«Reunion più o meno riuscite, coverband, ritorno del vinile, la nostra epoca è segnata dal prefisso re: re-vivals, re-issues, re-makes, re-anactments, re-unions. La nostalgia blocca la nostra capacità di guardare avanti? E se a un certo punto ci trovassimo a corto di passato?», continuava il grande critico britannico nel suo libro.

Ci sia perdonata la citazione, ma questo disco de Il dEli sembra la rappresentazione plastica dell’analisi di Reynolds. Siamo alla pressochè totale trasposizione temporale del nostro autore all’interno degli ambienti sonori che ogni brano celebra. Si trova il Battisti degli anni panelliani ma anche accenni a quelli grandiosi di Mogol (“Crash” ). C’è Ivan Graziani e c’è la scuola cantautori di De Gregori e Bassignano nel mitico Folk Studio (“Stefania”), c’è la new wave anni ’80 (“Una Metà Non Ho”), il britpop, il reggae moderno (“London Sun”), lo swing di Caputo e l’elettrodisco. C’è Gino Paoli e ci sono nientemeno che le citazioni floydiane (la parte finale di “Blues D’Amore”).

Dodici tracce per dodici capitoli e ambienti sonori che non rispondono alla domanda che fa da incipit a questo articolo, ma che risultano un più che piacevole ascolto. La perplessità è probabilmente tutta nella difficoltà di chi scrive in quanto giornalista. La nostra brutta razza di reporter è verosimilmente troppo abituata a incasellare un artista dentro il recinto di un genere, di un’etichetta, di un aggettivo: chi è davvero il dEli? Cosa fa? qual è l’anima vera di Roberto Deliperi che questo disco lo ha pensato e realizzato? E ancora: che linea di demarcazione c’è tra un lavoro     discografico realizzato per necessità artistica e uno che può apparire studiato a tavolino con brani ciascuno isolato dal resto ma così qualitativamente e stilisticamente ben fatti? Domande che sorgono insieme a qualche incertezza su testi che a tratti inciampano e non riescono ad essere all’altezza dei “padri.

Il lavoro su disco di questo giovane menestrello classe 1976 è il compito ottimamente fatto di un alunno ben dotato e attentissimo a cogliere le sfumature e la lezione dei grandissimi della musica, supportato da una produzione eclettica, da musicisti capaci di suonare discretamente cose molto differenti tra loro. Se non avessimo i file mp3 dell’album numerati ed allineati dentro la cartella di Window Media Player, ci sembrerebbe di ascoltare la playlist di un’emittente radiofonica, di Rai IsoRadio e non l’album di un singolo artista. Tanta carne al fuoco, insomma. Ci siamo divertiti ascoltandolo e così immaginiamo un suo concerto come una festa per un pubblico onnivoro e appassionato di musica che in una volta sola si troverebbe davanti una decina di cover band sullo stesso palco.

Noi che non amiamo le cover band e che le riteniamo (generalizzando ed esagerando sia chiaro) la morte della musica, saremmo orientati a storcere il naso davanti a un lavoro discografico così. Ma nel caso specifico questo lavoro si è trasformato per noi in puro divertissement musicale. Dopo questo parco giochi di suoni e colori però, dopo questo disco policromo, quello che ci sentiamo di consigliare a Il dEli è di fare un serio discernimento della propria reale indole artistica, del proprio talento (che c’è, diamine!) e di trovare e seguire un proprio percorso musicale e di scrittura, di approfondirlo e di prendersene cura.

(Lo stupido che canta, Il dEpi, Pop-Rock)

lincoln-nel-bardo-saunders

Il dolore di un presidente

Essere uno scrittore è un compito ingrato: bisogna avere anche il coraggio di guardare la realtà e restituirla senza filtri, senza speranza e senza grazia, a chi legge. Nel 1984 Gore Vidal, da sublime scrittore, decise di farci entrare nel mondo di Abraham Lincoln: nessuno sguardo indagatore, piuttosto uno sbirciare sulla soglia, con la paura di danneggiare l’umanità di uno dei presidenti più complessi della storia degli Stati Uniti.

Il Lincoln di Vidal era un uomo sfuggente, raccontato attraverso gli occhi di altre persone, ombre politiche, testimoni di una guerra atroce, in cui la morte cominciò ad assumere un’identità talmente concreta da trovare accoglienza in ogni casa e in ogni famiglia. E lui, l’uomo salvifico cresciuto tra le praterie del Kentucky e dell’Indiana, era un uomo in cui albergavano paure e ossessioni, in cui i fantasmi del passato erano talmente presenti da insinuarsi nella mente e nel corpo. E proprio quella morte che aveva avvelenato il Paese bussò alla sua porta, prima strappandogli il figlio, poi tormentandogli i sogni, che gli mostrarono la sua fine. Nessuno scrittore, fino a oggi, era riuscito a spingersi oltre quella soglia tracciata da Gore Vidal. A oltrepassare il confine ci ha pensato George Saunders, con il suo nuovo libro Lincoln nel Bardo (Feltrinelli, 2017).

È il 1862 e la guerra civile dilaga: il Paese è l’ombra di se stesso e Willie, il figlio undicenne di Lincoln muore. Leggenda vuole che il dolore di suo padre fosse talmente forte da spingerlo a recarsi sulla tomba del figlio e aprirla per abbracciarne un’ultima volta il corpo. Perché in fondo ciò che la guerra e la morte ci insegnano è proprio questo: una volta che il cuore ha smesso di battere siamo corpi vuoti, simili a tanti altri. E l’anima? Cosa ne è dell’anima? Il piccolo Willie inizia a vagare in un limbo fatto di defunti, che lo trascinano in quella caotica terra di confine abitata solo da anime incapaci di andare oltre e di rassegnarsi alla morte.

Ma come può un bambino accettare la propria morte? Come può l’uomo più potente degli Stati Uniti convivere con il dolore? Nessuno meglio di Saunders sa restituirci quel senso di sospensione e di angoscia che accompagna ogni nostra decisione, ogni momento delle nostre vite: siamo tutti fantasmi, immersi in un limbo di dubbi, incertezze e scelte sbagliate.

Nel Paese di Trump in cui la coscienza civile è tornata al centro della scena, raccontare la storia intima del primo presidente repubblicano sembra quasi essere un dovere morale per lo scrittore texano: il lato politico è però inscindibile da quello umano. La sospensione e l’incertezza che accompagnano un presidente, suo figlio e l’America della guerra civile sono le stesse che accompagnano noi ogni giorno: viviamo tempi difficili ma, come ci ha insegnato Lincoln, nessuno vive o muore invano.

 

(George Saunders, Lincoln nel Bardo, trad. di Cristiana Mennella, Feltrinelli, 2017, pp. 347, euro 18,50)

“Il collezionista di conchiglie”
di Anthony Doerr

Prima di vincere il Premio Pulitzer per la narrativa con Tutta la luce che non vediamo, Anthony Doerr aveva scritto otto racconti che spaziano dalla remota isola kenyota di Lamu alle umide foreste scandinave alla solitudine dei piccoli centri americani, raccolti in Il collezionista di conchiglie (Rizzoli, 2017).

Ogni storia alterna l’assoluta apparente ordinarietà dei protagonisti a un evento spiazzante che sembra arrivare proprio nel momento in cui Doerr ha deciso di occuparsi di quelle vite. I personaggi che racconta non sarebbero gli stessi senza la sua voce che li descrive, senza quel qualcosa di strano, doloroso o indefinito che giunge a stravolgere, talvolta in modo sottile e impercettibile, quasi banale, l’esistenza. Ogni evento ha uno scenario diverso e tutto per sé, non c’è continuità geografica tra i racconti né tra gli interpreti di quelle vite. Ciò che sembra tenerli uniti è l’ambientazione in una natura che appare quotidiana o estranea ai protagonisti, ma ugualmente vicina a Doerr, che si tratti della boscaglia africana o di un anonimo paesino statunitense senza nome o di un ruscello, di un mare intero.

E poi, a legare ogni storia, c’è la voce precisa e attenta dell’autore, svuotata di superfluo, decisa e esatta, talvolta al limite del distaccato. Riesce a far seguire con sorpresa e desiderio di arrivare fino in fondo la grazia e la capacità non cercata di un vecchio cieco in grado di fare miracoli, così come una gara di pesca in terre sconosciute; l’amore estivo di un’adolescente per un ragazzo marino e la passione di un cacciatore, in un inverno di ghiaccio, verso una donna dai poteri indecifrabile.

«Lo vuoi sapere cosa sogna? gli chiese. La voce riecheggiò su per tutto l’albero e si riversò fuori dalle cime tosate dei rami cavi. Il cacciatore estrasse il coltello dal giaccone. L’estate, riecheggiò la voce di lei. More, trote. I fianchi che strusciano contro i ciottoli del fiume».

I racconti più toccanti sono quelli di viaggio, di chi attraversa oceani ignoti sperando di poter trovare una nuova vita in quello che non si conosce, di chi è costretto a farlo dalla guerra, da quello che capita. Sono percorsi spesso senza lieto fine o a volte, semplicemente, senza una vera e propria fine. Come quello di Joseph, in fuga dalla Liberia degli anni ’90, che incontra grandi orrori e piccoli equivoci per approdare in un paese che non lo capisce e che lui non comprende, in cui cerca qualcosa o qualcuno che sappia essere ancora buono con lui, come lo era sua madre e il loro orto prima della guerra.

«C’era una parola, nel dizionario di sua madre: Inconsolabile: che non può essere consolato; avvilito, disperato, dal cuore infranto. C’è un oceano tra lui e la Liberia e ancora non trova salvezza. Il vento spinge al di sopra degli alberi e davanti alle sue finestre cortine di fumo nero-giallastro. Sa di olio, come una frittura di carne andata a male. Affonda la faccia nel cuscino per evitare di respirarlo».

E come la storia di un uomo e di una donna che si incontrano per caso e credono di innamorarsi e di voler iniziare qualcosa insieme e altrove. Dove però non si ritrovano, non si riconoscono, dove lei avrebbe bisogno della natura che ha lasciato, e lui della lei che aveva trovato.

«Forse, pensò Ward, mi verranno le parole. Forse quando lei uscirà da qui saprò esattamente che cosa dire. Forse dirò Mi dispiace, o Capisco, o Grazie per le foto. Forse guarderemo insieme la luce che allaga le colline».

 

(Anthony Doerr, Il collezionista di conchiglie, trad. Daniele A. Gewurz e Isabella Zani, Rizzoli, pp. 276, euro 19)
Copertina di Lotta Sea Lice su Flanerí

“Lotta Sea Lice”
di Courtney Barnett & Kurt Vile

ll 2015 è stato senza dubbio l’annus mirabilis per Kurt Vile e Courtney Barnett. Il primo scriveva un album quasi beatificato dalla critica, l’altra faceva il suo ingresso nel mondo dei grandi mischiando una forte carica grunge a una freschezza sbarazzina. Quest’anno, dopo un lungo corteggiamento di Kurt Vile, i due decidono di improvvisare una collaborazione transoceanica e tirano su Lotta Sea Lice.

Le cose però, sono meno idilliache del previsto. Lotta Sea Lice è un passo indietro per Vile, che con b’lieve I’m going down aveva trovato l’equilibro perfetto tra se stesso e l’oramai ex angelo custode Adam Granduciel (The War On Drugs), tirando dritto verso un’ostinazione country-blues dalla tecnica impeccabile. Un ristagno, invece, per Barnett, che con Sometimes I Sit and Think, Sometime I Just Sit aveva attirato su di sé i riflettori della scena indipendente dal gusto fino per il disadattato, ma che nel presente featuring non integra con niente di realmente accattivante.

Fatta eccezione per “Over Everything” e “Outta the Woodwork”, la ruvidità che ammicca alle regole accademiche di Rust Never Sleep rimane un po’ inconsistente e a tratti fuori posto, in un album che mixa frettolosamente elementi dell’uno e dell’altra, senza mai far capire realmente chi stia rinunciando a cosa per far spazio allo sfizio giovanile di chi.

Molte tracce del disco, infatti, rimandano a lavori precedenti: dal più prossimo It’s a big world out there (and I’m scared) del 2013, praticamente fratello sonoro di Lotta Sea Lice, fino al lontano Smoke Ring For My Halo del 2011, dal quale ripescano “Peeping Tomboy” (qui “Peeping Tom”) per darla in pasto alla voce limpida di Courtney.

Lotta Sea Lice ha tutte le caratteristiche per essere un rimpianto. Per certi versi, il tanto sbandierato tentativo di fusione dei due è riuscito: infilando l’ironia e il garage sound nel gusto di Kurt e lasciando a Courtney la destrutturazione dei testi e delle architetture, il risultato finale abbraccia l’anonimato e si bipartisce equamente tra i due. Ascoltarlo, però, porta con sé un certo sentore di marchingegno che funziona, ma che in qualche modo avrebbe potuto essere qualcosa in più. Avrebbe potuto essere a più dimensioni.

Ma forse è qui la questione: forse Vile e Barnett non volevano puntare in alto, non volevano cercare di superare i loro lavori precedenti. Probabilmente l’intento reale dei due è stato proprio e solamente quello di togliersi il sassolino della collaborazione, di passare del tempo in Australia tra continental breakfast e foto di famiglie allargate, senza fare niente di più che divertirsi l’una a fare l’altro, raccontandosi a vicenda, come due amici che si vedono da qualche parte, senza nessun’altra pretesa se non quella di passare un po’ di tempo insieme. Lotta Sea Lice è un dialogo intimo, un gioco, che seppur ben fatto, rimane ancorato ai crismi del divertissement. Non basta però, per soddisfare le aspettative sulla combo che andavano ben oltre l’impaginazione divertente della copertina dell’album e dell’instagram di Vile.

(Lotta Sea Lice, Courtney Barnett & Kurt Vile, Folk-Rock)

 

“Poche parole che non ricordo più”
di Enrico De Vivo

Le librerie sono negozi atipici se si riflette bene: mettono in mostra gli ultimi arrivi, merce puramente dozzinale, lasciando nascosti i prodotti di qualità. Inoltre spesso suscitano nel cliente confusione e disorientamento anche perché molte volte è difficile individuare il genere appropriato. Poche parole che non ricordo più di Enrico De Vivo (Exòrma, 2017), direttore della rivista online Zibaldoni e altre meraviglie, è un libro poco catalogabile, anticonvenzionale, allegorico, vago e indefinito. La voce narrante, un visionario per saturazione percettiva, è voce del popolo che sembra parlare da una specie di altrove che è qui, ma insieme molto lontano da qui.

Il dettato sempre enigmatico si increspa a suggerire immagini derivate, deviazioni ottiche, fughe musicali: «Gli esseri viventi, mentre dolore e sofferenza li travolgono ineluttabilmente, non possono far altro che intonare ciascuno il suo proprio canto, che […] è l’attività più profonda che li riguardi, o che li riguardi più nel profondo. Il canto con cui ciascun essere partecipa dell’armonia universale, innervata di dolore e sofferenza, è un movimento disinteressato, l’unico che coinvolga l’interiorità e l’amor proprio non per mero utilitarismo, ma per una necessità speciale, ossia per spingere l’individuo a rappacificarsi con il destino comune».

La tecnica compositiva di De Vivo implica l’aprirsi di ogni immagine sulla successiva, come una matrioska, a creare una discesa epifanica. Allo stesso modo il paesaggio è trasfigurato e traforato di pertugi, che sono emorragie di senso ma anche convocazioni di ombre. Ma le ombre a volte fanno scherzi beffardi. Uno ci inciampa. Di fronte a libri come questo, non tradizionali, paradossali, ironici, si può compensare l’entropia del narrare soltanto con sfacciata immaginazione e molto intuito: «In effetti, sembra un’invenzione un po’ teatrale […] neanche tanto verosimile, con il gatto che cammina su due zampe e gli uccelli con il sigaro».

Ma Poche parole che non ricordo più sta tutto nei personaggi scandagliati dalla voce narrante, che ci introduce nelle loro vite e dà spazio a ciascuno seguendo gli stilemi della narrazione orale con protagonisti bizzarri e storie moraleggianti.

Il romanzo si compone di schizzi narrativi pieni di punti ciechi, punteggiati da nomi che l’autore sembra aver pescato da vecchi elenchi telefonici. De Vivo ha concepito ogni capitolo come una storia a sé, lasciando al lettore di fare le sue inferenze. I protagonisti di questo ipnotico romanzo sono colti in quell’attimo in cui tutto può succedere, accendendo improvvisamente la pagina anche con immagini di incandescente lirismo e venature di realismo magico.

Gargiulo, l’amico d’infanzia del narratore, un musicista di blues che ha girato per il mondo tanti anni, nelle prime pagine introduce il motivo di un’armonia universale fra le cose che attraversa tutto Poche parole che non ricordo più. Il breve capitolo iniziale funziona come da preludio a una serie di movimenti narrativi dove il canto e le cadenze del ritmo sono molto più importanti delle parole stesse.

Gargiulo ben presto sparisce nel caos della stazione di Napoli improvvisamente così come era comparso senza una spiegazione, lasciando un velo di malinconia nel narratore, che sulla via del ritorno si ricorda di Rossana, una donna dall’età indefinibile e dall’aspetto di una maga nordica, che abitava all’ultimo piano di un palazzo altissimo in un quartiere popolare della periferia di Napoli: «Rossana in risposta al mio racconto disse solo poche parole che non ricordo più. So soltanto che quasi subito dopo averle ascoltate, caddi in un sonno profondissimo».

A questo punto l’azione si sposta nella conca di un lago e quello che sembrava un racconto lineare assume i contorni sfumati di un viaggio onirico con personaggi eccentrici e caricaturali e situazioni grottesche.

L’irrequietezza infatti spinge gli abitanti della città a cercare un altrove. Grazie al Conoscitore di Mappe, finiscono tutti quanti in questo stesso posto, ma che per incanto corrisponde a quel che ognuno, memore di un «desiderio antico», aveva sognato. Qui abitano coloro che sono stati espulsi dalle città, i «dimenticati», ridotti a una condizione di non umanità. Essi percepiscono il mondo per «macchie armonizzate». Tra loro regna un’amicizia disinteressata. I libri sono rarissimi e quelli rimasti sono scritti con lettere illeggibili.

Si ha la sensazione di trovarsi in una realtà totalmente ribaltata, un elemento carnevalesco che ha lo scopo di mettere in ridicolo i comportamenti del mondo culturale.

Su un lieve pendio che si innalza sulla sponda del lago siede, su un banchetto di scuola consumato, l’omino rotondo, «occhialuto e dalla chioma folta e arruffata, legge e scrive assorto, consultando grossi volumi e scartafacci […]. Mentre legge e scrive, medita e osserva in ogni direzione […]. È uno studioso, un filosofo secondo alcuni. Studia gli abbandonati e i dimenticati, ma non dal punto di vista sociologico, perché lui non sa che cosa sia la sociologia. L’omino rotondo studia gli abbandonati e i dimenticati, i loro comportamenti e la loro essenza».

Con l’omino rotondo inizia una sfilata di personaggi originali, non sempre collegati gli uni agli altri, quasi fossero protagonisti di brevi racconti: l’etnografo Pasquale Viola; il Conoscitore di Mappe; il piastrellista Gennaro Di Gennaro; Torquato Scapece; Felice Sportiello; Agostino Barbella.

Il luogo è fonte di ispirazione, motore immobile che ha la forza di generare questi personaggi eccentrici. La natura li abbraccia, li protegge, li nasconde o li rivela. Dialoga con loro e li rende eloquenti: «Nei pressi della conca dove abitava della gente espulsa dalla città, c’era un piccolo lago di un verde scuro e profondissimo. In una certa stagione primaverile, intorno a quel lago si era creato un clima particolarmente mite: l’aria era talmente tiepida che gli abitanti si sentivano cullati dalle dolci brezze come se fossero immersi nell’acqua».

 

(Enrico De Vivo, Poche parole che non ricordo più, Exòrma, 2017, pp. 166, euro 14)
Poster italiano di Blade Runner 2049 su Flanerí

“Blade Runner 2049” di Denis Villeneuve

Quando nel 1982 Blade Runner arrivò nelle sale statunitensi fu un fallimento totale. Non piacque alla critica, non piacque al pubblico. Non piacque neanche a Ridley Scott, che negli anni successivi riprese il suo progetto eliminando gli interventi dei produttori per tornare alla sua idea originale di un pessimismo ambiguo. Sono stati gli anni a farlo diventare un film di culto, un riferimento culturale. Denis Villeneuve, trentacinque anni dopo, è partito con Blade Runner 2049 da premesse molto diverse.

L’attesa, intorno a questo seguito ritardato nel tempo, era altissima. Alimentata dal ritorno di Harrison Ford in uno dei suoi (tanti) ruoli iconici, dalla sceneggiatura affidata ancora a Hampton Fancher, già autore del primo film, dalla regia di Denis Villeneuve, tra i nuovi autori di culto di Hollywood, l’uscita del film aveva raggiunto in fretta la portata dell’evento. Una settimana dopo, alla luce dei fatti, si possono fare i primi conti. C’è già chi parla di flop, visto un risultato al botteghino internazionale al di sotto delle aspettative (comunque primo incasso in quasi tutti i paesi in cui è arrivato). La critica, che aveva accompagnato con parole d’entusiasmo le prime proiezioni, si raffredda con il passare dei giorni. La (ri)nascita di un universo cinematografico che doveva partire con questo film sembra ora messa in discussione. Il merito del problema non è sé il film di Villeneuve sia il degno seguito del primo film.

Blade Runner 2049 non può essere come l’originale di Ridley Scott per un motivo semplicissimo: viene dopo. Sembra un’enorme banalità, detta così, ma è un concetto più complesso di quello che appare.

Quando nel 1982 arrivò Blade Runner il mondo, e il cinema, erano posti molto diversi. Nel periodo tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta Hollywood scoprì il potenziale commerciale della fantascienza. È in quegli anni che viene fuori la saga originale di Guerre stellari, Alien, ma anche la fantascienza “terrestre” di Spielberg con Racconti ravvicinati del terzo tipo ed ET. Il cinema statunitense inizia a forgiare un immaginario destinato a rimanere indelebile negli occhi dello spettatore per tutti gli anni a venire. Oggi non si può fare nessun tipo di fantascienza senza fare i conti con uno dei film prodotti in quegli anni (aggiungiamoci anche 2001: Odissea nello spazio, precedente e capostipite, insieme al cinema di Tarkovskij, della fantascienza colta).

Negli ultimi anni, invece, il cinema ha affidato sempre più spesso le sue produzioni più grandi a personaggi già noti dai fumetti o a remake/reboot di successi più o meno grandi del passato. Non è solo un discorso legato – come può sembrare a una prima lettura più superficiale – alla fine delle idee originali, all’assenza di coraggio o alla sicurezza che un’idea già sfruttata con successo può dare ai produttori cinematografici. Oggi la fantasia del cinema non ha più un potenziale illimitato. Il paesaggio dell’immaginario ormai è scolpito nei suoi tratti fondamentali, non esiste più quel collegamento mentale che assicura che “nuovo” sia sinonimo di “mai visto”. Ogni film porta con sé echi di altre opere che possono essere evidenti o impliciti. Quentin Tarantino, uno dei registi ritenuti più innovativi di oggi, ha fatto del citazionismo e del recupero dei cliché cinematografici un marchio di fabbrica. Quasi non c’è un movimento di camera nei film di Tarantino che non sia un “omaggio” a qualche altro regista. Intendiamoci: è sempre stato così. Nessuna invenzione del cinema è mai stata completamente originale. C’è sempre stata l’arte a ispirare, o la fotografia, o il teatro, o la letteratura, o qualche film meno conosciuto. Oggi però il gioco dei riferimenti è più evidente che mai. Si gioca con il già visto, con l’effetto nostalgia.

La fantascienza hollywoodiana è il genere in cui il peso dei precedenti si sente di più in assoluto.

Il Blade Runner originale aveva contribuito a definire un’estetica che poi ha condizionato cinema e cultura popolare negli anni successivi. Dentro c’era Philip K. Dick, ovviamente, ma anche la letteratura hard boiled. il cinema noir degli anni Trenta, Metropolis di Fritz Lang. Il 2019 che il film immaginava appariva come un futuro lontanissimo, inquietante, ma collegato a un’immagine del passato, a partire dallo spolverino di Rick Deckard, ben chiara. Il 2049 del seguito appare più vicino di quanto possa sembrare. Le intuizioni che il film presenta non sono così lontane da esperimenti già in atto – l’assistente virtuale del personaggio di Ryan Gosling – e da possibili nuove strade da percorrere.

Il pregio dell’operazione di Villeneuve è proprio in questo. Blade Runner 2049 riesce in quello in cui falliscono molti altri tentativi di recupero di immaginari consolidati. Il regista canadese ha fatto un lavoro filologicamente ineccepibile, infilandosi in un mondo narrativo senza esasperarne nessun aspetto, né sul piano dei contenuti né su quello tecnico. Non ha fatto, per intenderci, l’errore dello stesso Ridley Scott con la sua altra “creatura” cinematografica, Alien, trasformata nelle versioni più recenti in un confuso compendio di teologia prolissa, o quello di George Lucas che immaginando i prequel delle sue Guerre Stellari ha pensato di colmare l’assenza di idee con un abuso di effetti speciali. Villeneuve si è attenuto al modello, al paradigma creato nel 1982. Lo ha adeguato ai tempi il minimo necessario. Questo è il tipo di lavoro che il cinema di oggi deve fare. Se non c’è più spazio per costruire nuovi mondi bisogna trovare il modo migliore per abitare mondi già esplorati.

Blade Runner 2049 definisce un modo di confrontarsi con i modelli del passato così come hanno fatto di recente Star Wars Episodio VII Jurassic World. È per questo che è un’opera grandiosa.

(Blade Runner 2049, di Denis Villeneuve, 2017, fantascienza, 152’)

 

La prospettiva ortolana

Quando guardiamo la natura morta Ortaggi in una ciotola, dipinta da Giuseppe Arcimboldo sul finire del Cinquecento, vediamo una scodella nera ricolma di verdure e prodotti della terra: una rapa, una cipolla, un paio di funghi, foglie d’insalata. Ma il quadro manierista, se capovolto, nasconde una sorpresa: la disposizione degli ortaggi compone un volto umano, talmente pasciuto e bonario che ricorda l’ortolano di quartiere. Ecco che la verdura, attraverso l’arte, crea e costituisce l’uomo.

Nonostante oggi gli ortaggi siano un prodotto del mondo globalizzato, manipolato anche geneticamente dalla big-science corporativa, da millenni essi salvano gli indigenti dalla fame, aiutano a superare guerre e carestie e affollano i mercati di tutto il mondo. L’orto è terreno salvifico e produttivo, sia per il corpo che per la mente: non sorprende infatti che decrescite rivoluzionarie e nuovi stili di vita prendano vita proprio fra pomodori e zucchine, spesso coltivati in urbe sui tetti e nei cortili. Non c’è fine dunque alle storie umane, piccole e grandi, che è possibile ri-raccontare dall’insolita prospettiva ortolana.

Data la sua esperienza come biografa, la scrittrice e giornalista francese Évelyne Bloch-Dano – sedotta dal suo orto e da quello dei nonni, esplorato a fondo in gioventù – ha scritto i ritratti di una decina di ortaggi, raccogliendoli poi nel ricco saggio La favolosa storia delle verdure (add editore; traduzione di Sara Prencipe). Il principio alla base del libro è il medesimo che rende il quadro di Arcimboldo così speciale: si leggono storie di tuberi e cavoli, si intuiscono fra le righe rotte commerciali e terre d’origine di peperoncini e pomodori, si analizzano ricette desuete, si assaporano Zola e Flaubert alle prese con zucche e ravanelli ma, alla fine, ciò che l’autrice dipinge non è altro che un grande affresco delle vicende umane, raccontate da un punto di vista atipico: la terra coltivata, il banco del mercato, il tagliere del cuoco.

L’ortaggio è spesso l’unico testimone alimentare di momenti difficili. Verdure oggi passate in secondo piano o scomparse del tutto dai mercati nostrani – come il topinambur, un tubero, e la pastinaca, una radice carnosa cugina della carota – hanno riempito la pancia a molte popolazioni durante il secondo conflitto mondiale. Il topinambur, che meriterebbe un assaggio soltanto per l’appassionante storia che il suo nome bizzarro nasconde, sostituì del tutto la patata, divenuta pressoché introvabile a causa dei razionamenti e dell’inasprirsi della guerra nei paesi occupati. Ma anche il cavolo, fra i prodotti dell’orto che ci accompagnano da più tempo insieme a piselli e zucche, è una verdura povera: facilità di coltura e prolificità lo rendono il cibo dell’umile per antonomasia, al punto che la puzza sprigionata durante la cottura fu per diverse epoche il simbolo del mondo contadino, abitato da “teste di cavolo” rozze e grossolane.

In alcuni casi l’orto influenza nientemeno che la geopolitica, riuscendo persino laddove religione e lingua falliscono. È il caso dei crauti in Ungheria: nel XVII secolo sono eletti piatto nazionale perché hanno il potere di unire sotto una sola corona i sudditi che li consumano. Altrove, in Scozia e in Lorena, è il cardo – ortaggio spinoso derivato dal carciofo selvatico, simbolo di resistenza armata e sofferenza – a diventare emblema di popoli e bandiere. I conquistadores, invece, cambiano per sempre la dislocazione delle colture, portando in Europa patate, peperoni, pomodori, fagioli e zucche. Ricostruire gli itinerari percorsi dalle verdure consente di visualizzare le migrazioni dei popoli, le rotte commerciali, i rapporti di potere. Talvolta può essere arduo, ma è l’arte che, ancora una volta, aiuta nell’impresa.

«La pittura fiamminga ha un ruolo essenziale di documentazione, perché i pittori si rivelano testimoni della loro epoca» scrive Évelyne Bloch-Dano, che più volte utilizza le opere di artisti e scrittori dei secoli passati per avvalorare le proprie tesi. Il suo libro mette in evidenza il rapporto di influenza reciproca che intercorre fra il cibo e l’arte e fra il cibo e la lingua. Nel saggio A che ora si mangia? (Quodlibet), Alessandro Barbero illustra come la modifica degli orari dei pasti avvenuta alla fine del Settecento abbia causato alcuni mutamenti linguistici: la nascita di nuovi lemmi (lunch a Londra), la ridefinizione di altri (déjeuner a Parigi) e l’impiego di espressioni oggi vestigiali (un tempo alla prima colazione ne seguiva una seconda, poi scomparsa). Una ricerca che illumina alcuni aspetti delle opere letterarie del tempo, permettendoci di comprendere perché gli aristocratici Karenin di Tolstoj pranzino alle sette mentre nella provincia francese descritta da Balzac si mangi soltanto alle tre.

Studiosi e artisti ci suggeriscono che dietro a ogni alimento e a ogni maniera che ne disciplina la preparazione e la consumazione si cela uno scampolo di storia umana che potrebbe, anche nel caso di una semplice carota, rendere l’assaggio più gustoso.

 

(Évelyne Bloch-Dano, La favolosa storia delle verdure, add editore, 2017, pp. 192, euro 16).
(Alessandro Barbero, A che ora si mangia?, Quodlibet, 2017, pp. 96, euro 10).