“Il codice di Perelà”
di Aldo Palazzeschi

Fiaba surreale, favola beffarda, stravagante antiromanzo, Il codice di Perelà, avviato nel 1908, appare per la prima volta nel 1911 nelle Edizioni di Poesia accompagnato dal sottotitolo «romanzo futurista» e da una provocatoria dedica al pubblico, «quel pubblico che ci ricopre di fischi, di frutti e di verdure».

Emblema dell’estrosa e beffarda leggerezza artistica del funambolo e saltimbanco Palazzeschi, Il codice di Perelà, inglobato con altri due singolari romanzi giovanili, Riflessi (1908) – poi Allegoria di novembre – e La piramide (scritto nel 1912, pubblicato nel 1926), nella raccolta Romanzi straordinari, edita da Vallecchi nel 1943, è di continuo sottoposto a revisione e rielaborazione soprattutto per la successiva edizione Vallecchi del 1954, nella quale è modificato anche il titolo, divenuto provvisoriamente Perelà uomo di fumo.

Narrazione senza narrazione, assenza di un protagonista “a tre dimensioni”, sostituzione della voce narrante con il futile cicaleccio della folla: questi gli elementi che inducono a considerare Il codice di Perelà uno stupefacente esperimento di “antiromanzo” che destruttura il canone narrativo classico, eludendo programmaticamente i principi di verosimiglianza e di causalità.

Il gusto del divertissement e dello sberleffo si traducono, sul piano stilistico, nella teatralizzazione: costante il parlato teatrale, continui i dialoghi e i monologhi, lunghissime le sequenze di battute attraverso cui i personaggi intrecciano le loro voci come un coro.

Burlesche e trasgressive le tematiche: la feroce ironia demolitrice di Palazzeschi ribalta con scherno l’ordine costituito e le convenzioni, il perbenismo e la scioccaggine della società, agganciandosi al futurismo e – ancora di più – al dadaismo, inserendosi così in quella linea di «carnevalizzazione della letteratura», teorizzata dal critico russo Michail Bachtin nel celebre saggio sul romanzo grottesco Gargantua et Pantagruel di François Rabelais.

La vicenda è singolarissima: Perelà è un omino di fumo e scende dalla cappa del camino, dove ha vissuto per trentatré anni, dopo la morte delle tre madri centenarie – Pena, Rete e Lama, dalle cui iniziali deriva il nome – che tenevano alimentato il fuoco per lui. Indossati un paio di stivali, unico elemento solido del suo corpo volatile, Perelà va alla scoperta della città del Re Torlindao. Accolto a corte con tutti gli onori e incaricato di redigere un nuovo Codice di leggi, Perelà si cala nella vita quotidiana del regno di Torlindao ma quella stessa “diversità” che lo aveva favorito è motivo di disgrazia. Nel tentativo di imitarlo, infatti, il domestico Alloro si dà fuoco e muore, Perelà, processato e condannato, si salva fuggendo attraverso il camino, abbandonando gli stivali.

Allegorico e naïf, Il codice di Perelà, all’indomani della prima apparizione, fu accolto con entusiasmo dalla critica e Ardengo Soffici, direttore di Lacerba e esponente di primo piano del movimento futurista, si spinse addirittura a sostenere che fosse l’unico romanzo italiano, dopo I Promessi Sposi, a poter essere letto e riletto con piacere sempre costante.

Eccentrico e irriverente, Il codice di Perelà vede però nella sua fortuna critica lunghi momenti di ombra: trascurato per decenni, desta un risveglio di attenzione da parte degli specialisti solo quarant’anni dopo la sua pubblicazione. È infatti nel 1956, in un saggio apparso sulla rivista Belfagor – poi raccolto in Letteratura e verità – che Luigi Baldacci definisce la favola di Perelà il libro più valido, importante e felice di Palazzeschi, modello delle esperienze protonovecentesche per la leggerezza di tocco, le gustose invenzioni formali e la decisa caricatura delle idee correnti, e lo contrappone al più tranquillo e meno valido Stampe dell’800, modello per gli anni del ritorno all’ordine.

Una completa rivalutazione critica di quello che oggi appare come il capolavoro di Palazzeschi è favorita poi dal nuovo clima letterario degli anni sessanta per iniziativa di studiosi vicini al Gruppo 63. Contributo critico di primario valore è quello di Luciano De Maria nella sua Introduzione alla ristampa Mondadori del 1973, dove il critico da un lato coglie il parallelismo tra la vicenda Perelà e quella di Cristo per numerosi punti in comune (trentatré anni, l’arrivo improvviso nel mondo senza intervento paterno, l’ascesa tra la gente che si conclude in condanna e ascesa al cielo) e dall’altro ha il merito di porre l’accento sulla doppia allegoria che sorregge l’aerea favola: allegoria di una società e allegoria dell’impossibile opera di salvazione universale tentata dal protagonista con la sua sola presenza.

«- Fammi volare, amore!
– Aquile bianche, candide aquile come cigni, aquile d’oro, aquile d’argento, aquile nere, aquile di tutti i colori vanno su, su coi loro becchi adunchi, su su nel cielo…
– Vanno a strappare a Dio il velo sopra il suo mistero».

 

(Aldo Palazzeschi, Il codice di Perelà, 1911)
Copertina di Roba Commerciale dei Klan Destiny su Flaneri

“Roba Commerciale”
 dei Klan Destiny

Con nomi come Salmo, Ghemon, Dargen D’Amico, Willie Peyote e il nuovo fenomeno apolide di Ghali, l’hip hop italiano ha dimostrato di poter conquistare e avere un suo importante ruolo anche nel diffidente mondo indie alternative nostrano, oltre che nel panorama musicale italiano più mainstream con personaggi iperpopolari e da classifica quali Fedez, Fabri Fibra e J-Ax.

Nel caso dei primi, sonorità mai banali e ricche di citazioni e crossover ben calibrati tra i generi più disparati. Dal rock al blues fino al funky e perfino alchimie inedite con punk, rock e riff di chitarre e richiami alle mitiche e morriconiane colonne sonore da spaghetti western (vedi la bellissima Don Medellin di Salmo). C’è poi, magnifico caso a parte, quel fenomeno musicale di Caparezza, vero e proprio anello di congiunzione vivente tra pop commerciale e indie, che definire solo hip hop è riduttivo talmente stratificata è la sua musica e il suo modo di cantare e interpretare i testi.
Su solco del nuovo rap tricolore di qualità si muove il giovane duo friulano degli esordienti Klan Destiny formato dall’incontro tra il vocalist Luther, al secolo Gabriele Leandrin, classe 1995, e il dj/producer Luca La Valle, nome completo di Lava Elle nato ne 1990. Provenienti entrambi da altri progetti musicali, i Klan Destiny fanno il loro esordio discografico con l’EP Roba Commerciale, pubblicato a settembre 2017.

Un lavoro che, contrariamente a quanto ironizzato nel titolo, è tutto fuorché meramente e banalmente mainstream o commerciale, appunto, nella sua accezione più negativa. Queste cinque tracce del mini album, arricchite nelle ultime settimane anche dal nuovo brano “Come nei film” (che è anche un bel videoclip a suo modo didattico che mette in scena la normalità dei rapporti di coppia in tutte le sue
varianti) conferma ulteriormente la nostra prima impressione sulla musica di questi due ragazzi originari di Pordenone. Giocano nei loro testi i klandestini con le parole e prendono di mira quella voglia di
successo che, in fondo, accomuna qualsiasi musicista. Sbeffeggiano, i due, per primi se stessi e quel desiderio/ambizione di sfondare facile, quella fama tentatrice che – come recitano nella traccia “Riflettori”: «È una donna, sistema la gonna/scoppia una gomma, scoppia una bomba/segui l’impronta non è mai pronta, cavalca sull’onda/ parli ti affonda, urli ti affronta/le gira ti sfonda, stringe anaconda/stringe una corda, tipo una fionda/spinge profonda, con treccia bionda e guarda furibonda».
Candidamente recita in voce il buon Luther nel brano che dà il titolo al disco che, in fondo, ammette «Non lo faccio apposta a fare questa roba commerciale», e dunque, incita il vocalist, «Datti ai doppi selfie/fate come dicono poi rimanete muti, cantate ciò che piace poi tanti saluti».

Interessante la modalità con cui usa la voce e rappa Gabriele Leandrin in Roba Commerciale, supportato in seconda voce dal suo compare Lava Elle e dall’utilizzo dei synth che a tratti ne filtrano le vocalità effettandole con un buon risultato finale. Negli obiettivi dichiarati dai due sin dal comunicato stampa di presentazione del disco e in altre interviste rilasciate, c’era quello di trovare una via elettronica differente e desueta all’hip hop italiano per differenziarsi dai colleghi. Obiettivo raggiunto. L’uso delle ritmiche elettroniche, dei suoni sintetizzati e delle melodie flow è sapientemente e furbamente dosato nelle cinque tracce del disco. Cassa in quattro tempi per suoni robusti e techno muscolosa nel pezzo forse più house, “Roba Commerciale”, la title track dell’EP che se ascoltata dalle orecchie giuste potrebbe trasformarsi in un hit davvero, in questo caso, commerciale. Lo auguriamo ai due.

(Roba Commerciale, Klan Destiny, Hip Hop)

“Perdutamente”
di Ida Amlesù

La prima cosa che fatto quando ho finito di leggere Perdutamente (Nottetempo, 2017) è stata fissare per un po’ la copertina e pensare a come i movimenti delle mani e della testa della donna nella foto rispecchiassero esattamente l’idea che mi ero fatta della protagonista senza nome del romanzo. L’immagine fa parte del brevissimo video di Luna Amato, Bon appétit, ed esprime femminilità, intimità, forse il tentativo di nutrirsi solo di se stesse.

E la protagonista del libro d’esordio di Ida Amlesù, pagina dopo pagina, si svela precisamente così, femminile, sola, ma anche molto di più, strana per sua stessa ammissione, confusa, coraggiosa, soprattutto incredula e incerta di fronte alla vita.

Raccontata in prima persona e in tre atti che sembrano rincorrersi – come gli anni e come gli eventi, senza nessuna calma – la vita della giovane donna inizia con il ricordo dei suoi genitori, di un padre fatto d’aria e di una madre coi piedi per terra, di un’assenza costante e di una presenza silenziosa.

Prosegue con i personaggi incontrati nell’adolescenza tra le pagine di Piccole donne, di Flaubert e di Tolstoj, che finiscono col confondersi a loro volta con quelli incrociati per la strada, fuori dai libri. Cresce con l’amore per un uomo da romanzo, sfuggente e impalpabile, perennemente all’ombra della verità.

«Mi portava per mano nei parchi ingialliti, e io gli dicevo Li conosco già. Lui sorrideva, crudele, e rispondeva Non è vero. Ora li conosci».

È una vita popolata di fantasmi, veri o immaginati, vecchi e nuovi, di incontri della cui autenticità non abbiamo nessuna prova. Non si tratta solo di ricordi, di un’opera di disseppellimento del passato: i personaggi di Perdutamente sono tutti in bilico tra il vero e il non vero, tra il vissuto e il sognato. Vi si trovano gatti parlanti e ladri; si può distinguere nella penombra il fantasma di Marx, seduto in poltrona a fumare, intento a pensare; ci si imbatte in oggetti che spariscono allo stesso modo delle persone, come se avessero entrambi un’anima o forse proprio perché né gli uni né le altre la possiedono.

La donna raccontata da Amlesù appare alla continua ricerca di qualcosa che resta indefinito pur essendo chiaro e imprescindibile dentro di lei, assume le sembianze di una città e poi di un’altra, di un amore improbabile e onnipresente, di un uomo travestito da diavolo o viceversa, dell’attesa per il ritorno di un padre non più riconoscibile e di una solitudine coltivata con una sorta di affetto.

Con un linguaggio lieve, elegante e ricercato, che arriva a sconfinare quasi nella poesia, l’autrice crea un affresco di brevi frammenti che messi insieme restituiscono il senso di un disorientamento incessante e l’aspirazione ad un sentimento pieno di mancanze e privo di soluzione.

«E nella mia solitudine era finalmente chiaro, che ero sola anche quando amavo, e soprattutto quando amavo, perché Volodja e il Diavolo e il Santo e tutti gli altri erano un unico, grande amore, e questo amore aveva un nome, e questo nome era Mancanza – e io amavo perdutamente quello che non avevo, quello che non avevo avuto, quello che non potevo avere, e lo amavo in virtù della sua assenza – perché non lo avevo, perché non lo avevo avuto, perché non lo potevo avere».

 

(Ida Amlesù, Perdutamente, Nottetempo, 2017, pp. 148, euro 12)
Poster di 120 battiti al minuto su Flanerí

“120 battiti al minuto”
di Robin Campillo

Definire 120 Battiti al minuto un semplice “film sull’Aids” –pretestuosa e forzata locuzione con cui vengono indicate la maggior parte delle pellicole che, negli anni, hanno trattato questa tema, da Philadelphia (1993) a Dallas Buyers Club (2013) – sarebbe decisamente troppo limitativo.

120 Battiti al minuto è, infatti, anche e soprattutto un film sulla vita, sull’amore, sul dolore, sulla speranza e sulla sua negazione; un film corale, polifonico, nel quale il punto di vista non è mai univoco ma viene prestato allo spettatore attraverso un susseguirsi di incontri/scontri di opinioni, di interpretazioni e di voci discordanti. Una storia quasi urlata, capace di trasformarsi, nei momenti più “alti” e intimisti, in un flebile mormorio; una storia rabbiosa e impetuosa, come un fiume in piena, eppure mai sopra le righe.

Siamo agli albori degli anni Novanta, un decennio contraddittorio che (si scoprirà poi) spazzerà via certezze che si credevano oramai acquisite e punti di riferimento che si ritenevano indiscutibili; un decennio in cui nuove consapevolezze si andranno inevitabilmente a scontrare con l’idea di un futuro a cui ancora non si sa dare una forma ben precisa. Passaggio e cambiamento, insieme. Ed è proprio su questi temi che prendono vita le vicende dei protagonisti di 120 Battiti al minuto, gli attivisti di Act-Up Paris, un’associazione nata nel 1989 (sulle orme del modello americano) con lo scopo di squarciare il velo dell’indifferenza generale che avvolge un argomento – la sieropositività – di cui ancora si sa troppo poco, relegato com’è ai confini della percezione dell’opinione pubblica. Risvegliare le coscienze attraverso atti dimostrativi spettacolari ma pacifici, porre al centro dell’attenzione tutti i disagi e tutte le drammaticità che vivono quotidianamente le persone colpite dal virus letale e cercare in tutti i modi di spingere la ricerca a trovare nuove soluzioni, è il fine ultimo di Sean e dei suoi compagni, un gruppo di giovani militanti che non si vuole arrendere a quella che per molti -in quegli anni- suonava come una condanna a morte.

È tra i banchi di quella che potrebbe sembrare una scuola, durante dibattiti interminabili e discussioni accese, con l’azione politica a fare da sfondo e da cornice alla loro conoscenza, che nasce la travolgente storia d’amore tra Nathan (il neofita del gruppo) e Sean, l’attivista più esuberante, “estremo” e vitale.

Una storia d’amore che dovrebbe essere come tante, che meriterebbe di essere come tutte, che si trasforma ben presto, però, (con l’inesorabile incedere della malattia di Sean) in una forsennata corsa contro il tempo. Un tempo all’apparenza meschino che, tuttavia, diventa per Sean e Nathan un’occasione per vivere appieno, nella sua interezza e alla velocità della luce, ogni singolo istante.

È su questo ribaltamento concettuale, su questo consueto paradosso esistenziale (comprendere l’importanza di ogni istante solamente nel momento in cui ci si rende conto che quegli istanti stanno per finire), che si snodano anche le varie vicissitudini degli altri personaggi del film, così diversi, così uguali, così ostinatamente aggrappati a un ideale, a una speranza, da dimenticarsi, talvolta, di soppesare con la dovuta lucidità le loro stesse esistenze.

Dal sorriso dolce e comprensivo di Thibault (il presidente del gruppo), alla ruvida esuberanza di Sophie, passando per il coraggio di Hèlène (madre di un figlio sieropositivo) tutti i protagonisti del film sembrano voler raccontare agli spettatori (e a se stessi) che non tutto è ancora perduto.

«L’unico modo per combattere la morte è la vita», sembrano voler dire gli occhi di ognuno di loro, anti-eroi avvolti da mille paure, scossi da lampi di fiducia e di entusiasmo che spesso si vanno a schiantare contro l’ineluttabilità del destino che li attende sprezzante. Lo stesso destino che strappa dalle mani amorevoli di Nathan uno Sean sempre più magro, sempre più debole, eppure mai domo, capace di sussurrare con un filo di voce (in una delle scene più toccanti del film), un «mi manchi» che è insieme consapevolezza e rassegnazione, malinconia e perseveranza.

Potremmo definire 120 Battiti al minuto un film universale, tanti e tali sono i temi che l’opera tratta (amore, sofferenza, malattia, assenza), ma non si può non stigmatizzare il fatto che siano le piccole storie, le situazioni più ordinarie (le discussioni, i litigi, gli abbracci, il sesso, la voglia di ballare e di lasciarsi tutto alle spalle, anche se solo per poche ore) ad innalzare all’inverosimile il grado di immedesimazione con i protagonisti, a farceli sentire così vicini, così “reali”.

Stando ben attento a non cedere ad un facile patetismo di facciata (che troppe volte ha delegato al cinema il compito di farsi portavoce di un qualsiasi malessere sociologico) e a non scivolare nei cliché del melodramma, Campillo è stato capace di costruire, spinto dall’esigenza di raccontare un’esperienza vissuta in prima persona, una storia dal ritmo frenetico, cruda, dalle sfumature documentaristiche (l’utilizzo della macchina a mano è esemplare, in tal senso), che non può e non vuole lasciare indifferenti.

120 Battiti al minuto (vincitore del Grand Prix di Cannes e candidato agli Oscar 2018 come miglior film straniero  per la Francia) è, sopra ogni altra cosa, un mosaico di tante solitudini, di tante paure che si sovrappongono, si supportano e infine si armano (metaforicamente) per farsi forza e conseguentemente per dare battaglia ai pregiudizi, ai tabù sessuali e alle sovrastrutture di cui è intrisa una società confusa e disinformata che ancora non riesce (o forse non vuole) comprendere. Un film politico che parla d’amore. O un film d’amore che parla di politica. In qualsiasi modo lo si voglia guardare, un film coraggioso perché capace di “insegnare”, senza avere la presunzione di volerlo fare a tutti i costi.

 

(120 battiti al minuto, di Robin Campillo, 2017, drammatico, 135’)

 

“La stanza di Therese”
di Francesco D’Isa

La stanza di Therese di Francesco D’Isa (Tunué, 2017), incipit:
«Per vent’anni siamo state sorelle, per cinque amiche e per tre sconosciute. Sei tra le poche persone che, oltre allo stupore, ha dimostrato entusiasmo per la mia decisione di dedicare un anno a un viaggio solitario, motivo per cui mi dispiace deluderti. In verità non mi sono mai mossa dall’hotel… di… né intendo uscire finché non avrò trovato una spiegazione soddisfacente».

Therese, dopo un incidente, si isola in una stanza: qui legge, porta avanti una ricerca sul concetto di infinito, scrive lettere alla sorella che le vengono rispedite con commenti a margine. Il loro è un dialogo franco, in cui al malcelato risentimento di Therese si contrappone la malcelata superiorità della sorella-avversaria, il primo espresso in forma di ambigua confessione, la seconda in forma di glosse lapidarie e pungenti.

La fascinazione esercitata da quest’opera di Francesco D’Isa è soprattutto estetica: quasi ogni pagina è impreziosita da immagini – alcune a opera dello stesso autore, artista visivo – che nella finzione sono ritagli incollati da Therese alle lettere per rafforzarne riflessioni e citazioni per lo più filosofiche: dalla miniatura al dipinto, dallo schema al grafico matematico, dall’anatomia alla fotografia. Lo stile è piano, pulito, di un colloquiale colto finalizzato a coordinare ricerca filosofica, autoanalisi e dialogo a distanza. La forma epistolare, insieme alla ricerca perseguita e al tono della protagonista, ricordano il romanzo filosofico del Settecento:
«È difficile prenderla sul serio. Eppure quasi tutto quel che faccio si poggia su una visione del mondo, e questa, talvolta senza che nemmeno lo sappia, sottintende una metafisica». [p. 39]

Ma la ricerca gira a vuoto, non si impongono idee forti, si è più vicini a un tenace sfoggio di erudizione filosofica e matematica di Therese/D’Isa che nulla o poco aggiunge da un punto di vista teorico (sfoggio in parte voluto, come si evince dalle glosse della sorella che talvolta rivelano le fonti tradite e talaltra sono contro-citazioni). La confessione, dal canto suo, è esile, emerge debolmente il conflitto con la amata/odiata sorella le cui sferzanti risposte costituiscono la drammaturgia di questo romanzo sin troppo breve:
«Uno dei privilegi di esser sorelle è la capacità di prevedere le reciproche reazioni. Ancor prima di leggere la tua risposta ero certa che avresti interpretato il mio gesto come un amalgama di misantropia, emotività e desiderio di mettermi in mostra, ma sapevo anche che non mi avresti etichettato come pazza; accetto dunque il tuo tenero ricatto, e, se mantieni il segreto, continuerò a scriverti». [p. 11]

Mentre Therese si racconta lucida e razionale (in apparenza, vedremo), è la sorella a svelare la finzione che sempre accompagna una confessione: Therese, ragazza insicura, chiusa, insoddisfatta, difficile ai rapporti umani, è più volte accusata di essere invidiosa dalla sorella che, dal canto suo, è facile ai rapporti umani e ha raggiunto i suoi obiettivi.

La lucidità di Therese cede alla paranoia che progressivamente si insinua: il sospetto, sempre più insistito, che la sorella abbia rivelato ai genitori l’indirizzo della stanza in cui si nasconde in meditazione. Le tare esistenziali non bastano a rafforzare il personaggio di Therese, dal respiro troppo corto e dalle potenzialità non del tutto espresse causa eccessiva cogitazione, quell’aplomb intellettuale che in una trama statica può spesso stancare il lettore, solo parzialmente sedotto dall’infelice e irrisolto rapporto tra sorelle. Si ha come l’impressione di trovarsi al cospetto di un’idea di romanzo sviluppata in forma abbozzata, parziale; il finale è più simile a un’interruzione prematura, a un qualcosa che poteva trovare ulteriori sviluppi, che poteva abbattere la cappa filosofica attraverso il ricorso all’azione, al movimento, ma si fa appena in tempo a uscire dalla stanza che il libro, anzitempo, si chiude.

 

(Francesco D’Isa, La stanza di Therese, Tunué, 2017, pp. 118, euro 12)

“Briciole dai piccioni”
di Alessandro Turati

Briciole dai piccioni di Alessandro Turati (Neo Edizioni, 2016) è un ritratto di deformazione più che di formazione, un perfetto ritratto di ciò che eravamo e purtroppo siamo ancora.

La trama dei ricordi diventa una scusa per raccontare le sfumature di una società complessa che si barcamena a fatica tra identità incerte e ideali traditi.

Il protagonista, anche alla soglia dei quarant’anni, è un adolescente di ritorno, perennemente insoddisfatto perché non si è mai sentito a casa con se stesso. Le sue frustrazioni le affoga nell’alcol. Il tema centrale del libro è quello dell’identità: non si smette mai, sembra rivelarci l’autore, di cercare chi siamo veramente o chi potremmo essere. Continuamente balugina tra le pagine la luce tagliente della sconfitta e dell’umiliazione che a essa segue inevitabile come un’ombra. Si tratta di quella luce grazie a cui inquadriamo noi stessi senza ipocrisie e che ci permette di avere pietà di noi stessi o quantomeno di fare autoironia.

Ma a ben vedere, quella che narra Turati è una crisi esistenziale ma anche generazionale e sociologica. I giovani di oggi vivono impotenti e tormentati da fastidiosa inquietudine, in un mondo dove non c’è futuro, perlomeno non il futuro di una volta, perché la crisi economica ha eroso piano piano ciò che sembrava eterno: la classe media borghese. Dunque è evidente il disorientamento di una generazione a causa del cambiamento politico che si traduce in sentimenti di rabbia, violenza e profonda depressione.

L’ho narrante si presenta come un ragazzo quasi privo di affetti se non impalpabili, anche l’amore ha il volto di una salvifica Beatrice impotente. Ha una famiglia cui non sembra legato più di tanto e una vita priva di aspettative. Nel dipingere le figure dei genitori si avverte una strisciante nostalgia per un concetto forte di autorità. Squattrinato e senza un lavoro fisso, gli rimane solo la sua inettitudine, il suo piangersi addosso. Tenta perciò la via dei disperati. Ma il volontariato è forse solo un modo per procrastinare il suo limbo di aspirante adulto.

Briciole dai piccioni non è un romanzo che implora compassione ed empatia. È scritto con quell’ironia sfacciata e quella sincerità così schietta che mette a disagio.

 

(Alessandro Turati, Briciole dai piccioni, Neo Edizioni, 2016, pp. 176, euro 13)

“A Fever dream”
degli Everything Everything

Due anni dopo l’ottimo Get to Heaven, torna la band di Manchester. Torna, con A Fever Dream, nel suo rodato massimalismo pop che fa da cornice alla continua discesa verso l’inferno di Jonathan Higgs fatto di immagini, flash, istantanee. Da Man Alive a Get to Heaven, passando per Arc, la lettura del rapporto individuo/società è sempre stata affrontata in maniera notevole, complice soprattutto l’incredibile capacità di manipolare la lingua a proprio piacimento, tra una certa indole punk e una certa tendenza postmoderna, costruendo testi che costruiscono mondi che parlano del mondo, dell’essere umano e di quell’assurdità che è la vita.

Sul perché sugli Everything Everything, ancora oggi, tra i gruppi usciti intorno al 2010, non ci sia stato il clamore che è ed è stato attorno ad altri – agli Alt-J, per esempio, tra i più grandi misteri degli ultimi anni, ma anche ai Foals, a cui sono stati spesso accostati, ma con cui non hanno nulla da spartire, se non qualcosa in Total Life Forever –, non si riesce a dare una risposta certa.
Il pop di matrice radioheaddiana mischiato a quello spitiro sfrontato prog, l’ hip hop schizzofrenico, i falsetti folli di Higgs, un Jeff Buckley dopo un corso intensivo di Stevie Wonder, i testi immaginifici, il tutto bilanciato in un equilibrio raro, dovrebbero porre la band di Manchester come uno dei gruppi più importanti, sicuramente tra i più innovativi, di questo secondo decennio del Duemila. La percezione, a oggi, è quella di un gruppo percepito come monco, incompiuto.

Ma gli Everything Everything non sono incompiuti e A Feaver Dream ne è la prova. Sicuramente non al livello Man Alive, che è la loro pietra miliare, tra le cose migliori uscite negli ultimi anni, certo, e probabilmente neanche Arc e Get to Heaven lo sono – nonostante quest’ultimo comprenda “No Reptiles”, forse il brano in cui meglio emerge la Bellezza dalla sperimentazione pop dei Quattro –, ma anche qui c’è un gruppo che ha un’idea dietro, musicale e testuale.
In A Fever Dream Higgs e soci continuano a giocare con gli strumenti e con le parole, riuscendo a rinchiudere in confini ben chiari, i confini della canzone, brani che si muovono in lande che rischierebbero di perdersi e dissolversi. Anche in questo lavoro c’è la qualità nel riuscire a gestire un quantitativo spropositato di idee, la forza di saper dare una forma ben chiara a un flusso continuo di intuizioni. Saper maneggiare una materia difficilmente maneggiabile. Saper proporre in maniera fruibile e codificabile il proprio genio.

Perchè far convivere lo strambo dubstep funk (“Night of the Long Knives”), l’elettro-pop di Thom Yorke (“A Fever Dream”), l’aver spostato in avanti l’idea di ballata verso una sorta di post-ballata (in Man Alive, ad esempio, “Nasa is on Your Side”, qui con “Big Game”), la marcia militare di “Ivory Tower”, il tutto espresso in quel modo pop prog, facendolo suonare come un lavoro con un solo cuore, è un’impresa, nonostante l’unica pecca,“Desire”, dove in maniera inconcepibile gli Every Everything ricordano i peggiori Muse, quelli della caduta rovinosa del dopo  Absolution, e li ricordano proprio nella melodia di quei cori esagerati che hanno segnato la fine artistica di Mattehew Bellamy.

Gli Everything Everything sono punk, sono prog, sono pop, sono rock. Sono tutto questo, ma lo sono solo come lo si può essere oggi.

(A Fever Dream, Everything Everything, Alt-Rock)

Logo della casa editrice Transeuropa su Flanerí

Se l’editore va sotto casa dell’autore

Roma è stata la penultima tappa del Transeuropa Discovery Tour, un laboratorio itinerante che Giulio Milani – editore di Transeuropa – accompagnato dalla sua famiglia, ha portato avanti per oltre un mese, andando alla ricerca di nuovi scrittori e nuove scritture. E visto che a Flanerí ed effe piace fare scouting, ho deciso di andare ad assistere alla serata romana e scambiare due chiacchiere con l’editore. Ci incontriamo a “La pecora elettrica”, una libreria-caffetteria di Centocelle all’angolo di un palazzo di fronte un parco urbano costeggiato da pinserie (dove si mangia la pinsa: un prodotto della panificazione diffusosi recentemente, ma che si rifarebbe a una tradizione tanto antica da risalire a prima dell’introduzione del pomodoro sulle nostre tavole). Lì, tra una mediterranea oliva e una monastica birra, chiedo a Milani come si guida quel furgone camperizzato da cui l’ho visto scendere poco prima. Sorride, e mi racconta che hanno rischiato di non partire, perché quello è un vecchio furgone postale tedesco e sono stati costretti ad attendere fino alla fine di luglio per avere le targhe.

Fortuna che la burocrazia non vi ha fermati e che il 1° agosto siete riusciti a partite per questo laboratorio itinerante. Il progetto è quello di andare in libreria, incontrare scrittori e, va da sé, anche lettori per avere un confronto diretto sui manoscritti.

Sì, questo perché la casa editrice ha sempre fatto scouting: Transeuropa nasce nel segno di Pier Vittorio Tondelli, e conserva tutto lo spirito di ricerca che lo caratterizzava. Una ricerca di narratori che Tondelli spingeva sino ai ventenni, e nessuno ai suoi tempi ricercava e pubblicava autori così giovani. Invece lui, ricordandosi di come era andata nel suo caso – pubblicò Altri libertini a venticinque anni – decise di aprire un laboratorio che aveva già proposto a Bompiani e Feltrinelli, ma che i due editori non ebbero il coraggio di organizzare. Fu quindi la Transeuropa ad attivarsi, lanciando un concorso che coinvolse circa settecento aspiranti scrittori. Ne nacquero tre antologie under 25 che di fatto costruirono gli inizi di quello che sarebbe poi diventato una specie – come lo ha definito ultimamente Carlo Carabba – di genere a sé; quello dell’esordiente. Stiamo parlando degli anni in cui esordiscono Lara Cardella, Enrico Brizzi, prima ancora c’erano stati Silvia Balestra, Giuseppe Culicchia, Gabriele Romagnoli. Ma anche Pino Cacucci ha esordito in quelle antologie. Sono tantissimi, è impossibile ricordarli tutti.

E in questo panorama Giulio Milani dov’è?

Io sono nell’ultima ondata, in quell’antologia uscita dopo la scomparsa di Tondelli. E sono rimasto in Transeuropa a fare il mio apprendistato di editor. Mi interessava e mi piaceva ascoltare i libri degli altri. È iniziato tutto da lì, da questa mia disponibilità a confrontarmi con le scritture degli altri. Nel 2000 Transeuropa era entrata in crisi dopo l’abbraccio e l’unificazione del catalogo con Theoria, Castelvecchi e Costa & Nolan. Massimo Canalini, che partecipò a Transeuropa sin dalle origini, si trovava senza casa editrice; io ero giovane e avevo voglia di lavorare nel settore e gli proposi di rifondarla insieme. E lo facemmo. Poi per una serie di situazioni successive le strade si separarono e nel 2005 decisi di trasferire gli impianti in Toscana

E da quel momento cosa pubblica Transeuropa?

Abbiamo ripreso la ricerca sugli esordienti, sugli emergenti. Pubblichiamo l’antologia I persecutori, che parte da alcune idee di René Girard e le applica alla narrativa in modo consapevole. Lì figurano autori come Helena Janeczek; c’è l’esordio col racconto di Giorgio Vasta, ma ci sono anche Christian Raimo, Francesco Forlani, Marco Rovelli. In altri termini, si realizzano le circostanze per rilanciare, a partire dal 2008, la narrativa: Fabio Genovesi e Giuseppe Catozzella sono i primi due autori che pubblichiamo ed entrambi vanno poi con grandi case editrici e vincono il Premio Strega Giovani. In questa maniera Transeuropa ha riconfermato sin da subito il suo ruolo quantomeno di trampolino di lancio.

Tutto ciò però in maniera statica, non vi siete dovuti muovere con un camper… 

All’epoca funzionava ancora il vecchio metodo, che è quello del “me l’ha detto uno scrittore amico”, oppure si scovava tra le riviste. Nel 2011 eravamo a quaranta pubblicazioni l’anno, di cui tredici esordienti assoluti di poesia con la collana Inaudita, che metteva insieme una plaquette di poesia in un formato spillato, possiamo dire da guerrilla, e un CD. Era un connubio che funzionava molto a livello di prenotazioni in libreria, ma non di vero e proprio venduto. Quindi noi avevamo l’impressione di vendere anche la poesia perché prenotavamo molto bene, ma incappammo in quella fase in cui i lettori forti crollarono di 700.000 unità in un colpo solo. Lettori che si pensava fossero passati all’ebook, mentre invece erano semplicemente spariti nel nulla, risucchiati – scoprimmo dopo – dal successo dei social network.

Distratti da altro, insomma: ciò ha danneggiato solo la collana di poesia?

No, anche la narrativa. Pubblicammo Tiziano Scarpa e Carlo Lucarelli, di cui stampammo le scritture per così dire più difficili: il teatro, la sceneggiatura. Ma non funzionarono per via di questa crisi. Perciò pochi anni dopo ci ritrovammo nella situazione di dover interpretare un mercato molto più difficile. Ho passato qualche anno in profondità come un sommergibile, e poi è venuta l’idea di contattare quegli autori che mi mandavano un manoscritto interessante, ma troppo acerbo per essere pubblicato, e di proporgli di partecipare a un laboratorio, come fosse un apprendistato di formazione. Intendo dire che esistono romanzi che nessuno pubblicherebbe come sono perché i loro autori hanno bisogno di ricevere delle indicazioni, di essere orientati, avere delle bussole concrete per potenziare il manoscritto. I risultati sono stati positivi, i laboratori sono cresciuti e ho avuto l’opportunità di valutare, mappare una serie di scritture che prima non avevo l’occasione di considerare. Perciò m’è venuta l’idea di estendere questa cosa a livello nazionale attraverso i laboratori itineranti.

Dunque sono laboratori di autori nei quali riconosci qualcosa da portare a maturazione. È una cosa diversa da una scuola di scrittura creativa? Non lo è?

Non è una scuola di scrittura creativa per tanti motivi. Uno di questi è che non è rivolta genericamente a chi vuole imparare a scrivere un libro. È rivolta a persone che sono già capaci di scrivere un libro, ma vogliono trasformare questa loro passione in una attività professionale vera e propria. Quindi devono trovare quella che è la “necessità di essere letti”, come la chiamo io. Cioè trasformare la voglia di raccontare e raccontarsi nella necessità di essere letti. Così si fa un passetto in più, ma per compierlo occorrono dei saperi. Il laboratorio è un confronto uno a uno con lo scrittore. Questa cosa non la trovi nelle scuole di scrittura: le scuole di scrittura sono aperte a un pubblico, e quando una cosa è aperta al pubblico è tutto più difficile. Poi sono frequentate da altri scrittori, e non è detto che si crei una buona amalgama. Invece nel rapporto uno a uno possiamo ragionare e pensare al libro insieme. Tanti arrivano con un testo e ne escono con una nuova idea, completamente diversa, perché mi hanno raccontato la loro vita, che magari è molto più interessante di quello che hanno nel dattiloscritto.

Perché questo sarebbe un lavoro diverso da quello di molti altri editori?

Perché si ragiona molto sui testi. E questo è di per sé un lavoro che quasi non si fa più. Recentemente Giulio Mozzi ha rilasciato delle dichiarazioni chiare e vere riguardo ai criteri di selezione dei libri, ossia che ultimamente, per fare selezione, gli editori vogliono il libro già bell’e fatto, e lo si valuta in cinque o sei minuti sulla base di opinioni scambiate fra l’editore e il direttore commerciale. E quindi, diceva Mozzi, forse non serve più un editor ma uno statistico.

Questo però rende paludato lo scouting, perché se si ragiona solo sulla base di trend già esistenti si perde ogni possibilità di un guizzo nuovo.

Esatto. Entri in un filone e a quel punto non importa più il tuo livello, importa solo il filone di riferimento, che tira perché c’è una generazione di lettori che lo legge. E quindi la ricerca dov’è? Non ci può essere. E in quei casi non ci può essere – mi viene da dire – strutturalmente, perché comunque chi ragiona in quel modo lavora per case editrici che hanno bisogno di rispettare severamente un conto economico. Perciò non possono permettersi di fare una ricerca in cui una volta può andare bene e un’altra male, devono concentrarsi su quello che già funziona. Io ora mi trovo in una occasione di massima libertà proprio perché ho rinunciato a fare l’editoria tradizionale, che è quella che deve rispettare solo i conti economici, e mi sono messo in cerca io dell’autore.

Ma ricevi solo suggestioni o hai una idea di libro che porti avanti e proponi agli autori?

Ho un progetto, ho una visione, chiamiamola così, ho un’idea di narrazioni che possono essere interessanti. Sul come raccontare il paese, per esempio.

Continua.

Chi lo racconta il paese? E come? Esiste un genere letterario che possa dirci qualcosa di questo paese di cui altrimenti conosciamo le cose solo attraverso la televisione e le inchieste? Sono partito da queste domande per studiare un modo diverso per raccontare l’Italia anche dal punto di vista letterario, e sto cercando persone interessate ad affrontare con me questo percorso, questo – chiamiamolo così – nuovo metodo. Quindi non cerco solo semplicemente nuovi scrittori, ma nuove scritture, cioè un modo diverso da quello che conosciamo, con un nuovo genere.

Un genere che hai in mente ben chiaro?

Certo che ce l’ho in mente, lo lancerò a febbraio con una collana ad hoc che si occuperà proprio di questo genere letterario parente dell’autofiction, che è detta anche io possibile; perciò al momento lo possiamo chiamare realtà possibile.

E lo lancerete a febbraio con una collana il cui nome esiste o lo state ragionando? Come pensi che verrà accolto dal mercato?

Il nome esiste ma non lo svelo. Il filone della realtà possibile è un filone non commerciale al momento, ma che potrebbe avere importanti risvolti commerciali come l’ha avuta l’autofiction con Walter Siti e adesso con Teresa Ciabatti, per esempio.

Allora cosa ti aspetti dall’autunno, finito questo tour, il frutto di questo itinerario quale speri che sia? 

Io spero che quelli che hanno assistito ai laboratori prendano spunto dalle occasioni discorsive che abbiamo messo in campo, per riversarle nella pratica della loro scrittura e presentare dei manoscritti che vadano verso le indicazioni ricevute, verso le suggestioni di cui ho parlato con loro rompendo – attraverso questo contatto diretto – l’opacità della macchina editoriale.

Questo tour è un modo per assumere un atteggiamento importantissimo, ossia quello di continuare un dialogo con il me stesso più giovane che ancora pretende che mi indigni per determinate situazioni. Continuo a indignarmi per lo stato dell’editoria e mostro l’esistenza di un’editoria diversa mettendomi sulla strada. Più chiaro di così. Poi puoi dire che uno lo fa per dare visibilità alla casa editrice, mettici quello che vuoi, ma farsi un po’ di pubblicità non basta a giustificare il fatto di prendere la famiglia, i figli, macinare chilometri su e giù per tutta Italia e fare notte fonda in serate performative solo per dialogare con gli scrittori. Devi necessariamente essere spinto da ragioni più profonde.

Tutto ciò raccontando il paese…

Qui si apre un altro discorso importante, che è quello della mappa e del territorio. Molti classici sono bellissimi ma ci raccontano luoghi che non esistono più. Oggi hai davanti un territorio diverso: lo devi rimappare. Sì, è vero che devi conoscere le mappe precedenti, ma devi raccontare un territorio che è quello di oggi, non certo quello di Dostoevskij, di Joyce o di qualunque altro classico. E non puoi nemmeno affidarti agli scrittori del Novecento italiano perché quelli hanno fatto i conti con esperienze diverse, magari con la guerra. Lo scrittore di oggi deve saper leggere i traumi di questa epoca. E dunque il problema vero non è tanto di natura tecnica, ma di natura esistenziale e spirituale; cioè devi decidere, se vuoi fare lo scrittore, di metterti in gioco profondamente. Essere sincero in forma disarmante, una sincerità che ti separa dagli altri, anziché unirti con gli altri. Molti si autoaffondano perché scrivendo volevano fare bella figura in società. Ma allora fai un’altra cosa, fai prima e soffri meno. Perché di qua soffrirai tanto e guadagnerai molto poco. È una cosa difficile, perché più vai dentro la scrittura più è difficoltoso curare le amicizie, la relazione col partner, i rapporti umani in generale, perché devi raccontare delle cose di cui in teoria non dovresti parlare. Sei costretto a dire delle cose che non dovresti neanche pensare.

Poster di Chi m’ha visto su Flanerí

“Chi m’ha visto”
di Alessandro Pondi

C’è un solo motivo per cui abbiamo deciso di scrivere di Chi m’ha visto, la commedia che segna il debutto alla regia dello sceneggiatore Alessandro Pondi: Pierfrancesco Favino e la sua straordinaria interpretazione.

In un cinema, come il nostro, in cui si tende troppo spesso a prendersi sul serio, Favino ha deciso negli ultimi mesi di abbracciare un registro – per lui inedito – molto vicino al comico. Dopo l’ottima interpretazione in  un altro esordio, Moglie e marito di Simone Godano, nel film di Pondi l’attore romano si cala nel ruolo della spalla riuscendo da subito a porsi, comunque, come vero centro del film.

Chi m’ha visto parte da una buona idea e finisce molto presto a camminare sul pericoloso ciglio della banalità. Martino Piccione è un chitarrista che suona per i più importanti artisti della musica italiana, da Jovanotti a Gianni Morandi, alternandosi tra palco e sessioni di registrazione. Vorrebbe una sua celebrità personale, collegata alla sua musica e al suo volto, ma il suo impresario gli continua a ripetere che il suo volto e le sue canzoni non funzionano con il pubblico. È dopo l’ennesimo ritorno deludente al paese natale che Martino decide, insieme all’amico di sempre Peppino Quaglia, di simulare la sua sparizione per attirare su di sé l’attenzione della stampa.

Dopo tanta fortuna come attore televisivo, Giuseppe Fiorello ha sentito forte il bisogno di tornare al cinema da protagonista. Aveva già fatto bene in ruoli minori per autori come Edoardo Winspeare (Gentiluomini, 2008) ed Emanuele Crialese (Terraferma, 2011), oltre a tanta televisione. C’è lui dietro la nascita di Chi m’ha visto. Ha scritto il film – insieme al regista, a Martino De Cesare e a Paolo Logli – e lo ha prodotto con la sua Iblafilm.

Il suo Martino Piccione fa parte di una tradizione di musicisti falliti che nel cinema va tanto. Lo hanno rappresentato i Coen con A proposito di Davis, per fare l’esempio recente più alto. Lo ha fatto il cinema italiano con Non pensarci. La differenza fondamentale con Chi m’ha visto è che il protagonista, sulla carta, ha molto poco del musicista sfigato. Suona con tutti i più grandi che al momento della sua sparizione si preoccupano di lanciare appelli (brevi cameo di Jovanotti, Morandi, Max Pezzali, Rosario Fiorello, tra i tantissimi). Certo, non ha quella notorietà diretta che vorrebbe per sé, ma non è uno sconosciuto, o un musicista che fatica a trovare lavoro. Tutti lo vogliono. Non ha la luce dei riflettori su di sé, ma è lì, sui palchi più importanti d’Italia.

Il buono spunto di partenza finisce per inciampare in fretta su un appoggio incerto. È solo il primo sgambetto di un film che trova nella sceneggiatura il suo punto meno forte. È paradossale, considerando che Pondi viene dalla scrittura di fiction di successo e grandi successi commerciali come Natale in Sud Africa Natale a Beverly Hills. Dopo una prima parte che procede spedita, piena di spunti divertenti e semplici trovate di impatto, Chi m’ha visto  si accartoccia nelle banalità più consumate. Se si può passare sopra – ma anche no – agli improbabili momenti chitarristici di Fiorello, figli di un’estetica musicale che fa pensare ai Guns ’n Roses se non al videogioco Guitar Hero, è la prostituta dal cuore d’oro, laureata, colta, intelligente e che fa l’amore per passione che fa cadere le braccia.

Quello che era l’aspetto interessante del film, ossia la critica della visibilità televisiva, si diluisce in una retorica alla Pieraccioni che azzoppa gli entusiasmi.

Per fortuna che c’è Pierfrancesco Favino, come si diceva in apertura. Il suo Peppino Quaglia è uno straordinario concentrato di volgarità e naturalezza, di maschilismo e ignoranza. È il motore veloce del film, il fuoriclasse che fa cambiare il passo alla squadra. Fiorello, accanto a lui, tiene il passo con tutto il suo consumato mestiere. Tutti i comprimari, poi, accelerano insieme a Favino. Il duetto nella parte finale con la conduttrice televisiva interpretata da Sabrina Impacciatore è strepitoso.

(Chi m’ha visto, di Alessandro Pondi, 2017, commedia, 105’)

 

“Il ragazzo morto e le comete”
di Goffredo Parise

Nel 1951 Goffredo Parise aveva poco più di vent’anni e un libro già dato alle stampe. Il romanzo si intitolava Il ragazzo morto e le comete e l’editore era Neri Pozza, che nulla aveva potuto contro la sicurezza di Parise quando, testardo, aveva rifiutato ogni tipo di modifica o correzione al testo «con l’ostinazione spavalda di chi ha davanti una vita intera e si ripromette di trarre da questa nuove esperienze ed opere». È un Parise ragazzo, quello che scrive, e appena adolescenti sono i suoi protagonisti. Quei ragazzini che nell’incipit di Il ragazzo morto accendono fuochi con foglie fradice nei cortili della città – presumibilmente in una provincia veneta vicina ai luoghi dell’autore – incarnano il ricordo che il giovane Goffredo ha di sé a quell’età e costituiscono il centro della sua osservazione.

Il ragazzo di quindici anni, questa entità di cui non è dato scoprire il nome nel corso delle 158 pagine del romanzo, è il protagonista del racconto ma sembra, spesso, nient’altro che una figura silenziosa che si aggira tra la materia viva del libro e le rovine lasciate dalla guerra. Siamo dentro i suoi pensieri, conosciamo il suo immaginario, i volti, i luoghi e le esperienze in cui ricerca la propria idea di felicità – come «le gambe chiare di fanciulle» – solo il suo racconto ci arriva mediato dal discorso indiretto. Lo seguiamo nelle sue peregrinazioni: tra le fabbriche all’abbandono, in un abbaino veneziano, poi al centro dell’architettura inventata di Piazza San Marco, fino a che la narrazione pare indietreggiare. Ora lo vediamo disteso accanto a un tronco d’albero; le suole delle scarpe, consumate a forza di correre, hanno ceduto il passo alla morte. Sappiamo che un proiettile dalla traiettoria sbagliata gli ha forato la testa, e che ora giace a terra, attraversato da «grumi di vaghi pensieri». Se il corpo è in lento disfacimento, il ragazzo di quindici anni non ha perso invece il flusso incessante di pensieri che già lo attraversava in vita.

I suoi amici – Giorgio, Abramo, Antoine e Fiore – mai rassegnati all’idea di averlo perso, continuano a cercarlo nella città fantasma, dove a vivere è ormai solo il ricordo, dove possono ancora sperare di sentire l’eco della sua voce tra i canali malmessi o tra i suoni lontani del cinema parrocchiale. Le immagini di questi ragazzi che hanno cominciato a fumare sigarette americane e ad avere rivoltelle vere e che vagano tra le macerie e la cava di lignite, cercando di scacciare il demone della morte che la guerra ha innescato, riportano alla mente certe sequenze di Germania anno zero, come se Parise realizzasse registicamente una serie di primi piani frontali e registrasse le voci in presa diretta. Il tutto calato all’interno di una narrazione surrealista, fatta di abiti di broccato e animali notturni come bestie da compagnia .

La sensazione che accompagna il lettore è, sin da subito, quella di un equilibrio instabile, il sentore che ogni gesto compiuto possa essere esperienza prima e conclusiva. Alla meraviglia della scoperta che segna l’età adolescenziale – tempo di sentimenti vivi e improvvisi, di impulsi e individuazione di sé – corrisponde un’appena percettibile timore dell’inesorabile scorrere del tempo. L’impeto dettato dalla novità è così scandito, lungo le pagine, dal rapido procedere del granello di sabbia nella clessidra. Il ragazzo di quindici anni dovrebbe avere «un’intera vita davanti» ma, ancora vivo, trema di fronte alle cose mai viste prima. Al brivido dell’ignoto si oppone la forza della rievocazione di ciò che ha vissuto ancora piccolo. Il protagonista sembra essere legato a un certo tipo di memoria involontaria, proustiana, che gli restituisce i ricordi nel loro valore soggettivo. Queste reminiscenze di cui il libro è composto, questo procedere a tentoni nell’inventario nostalgico delle cose già viste e vissute si realizza in una serie di immagini che il ragazzo richiama, di impressioni piene che cercano di restituirgli il tempo non compiuto, quello perduto. Alla fine, nel suo caso, vince la paura: tremenda, si insinua nel lettore quando apprendiamo che la morte del ragazzo, più volte adombrata, si è fatta cosa reale e ineluttabile, che tutto ciò che di lui rimane se lo sta riprendendo la terra. Tra i vivi, invece, il tempo resta fermo all’adolescenza, a quell’istante-eternità in cui il ragazzo di quindici anni si era ritrovato all’improvviso a combattere le incertezze e i timori che traghettano all’età adulta. In tutta la sua magnifica contraddizione si erge il prodigio di quell’età in cui, dice Parise, «è giusto vedere il mare», inteso come l’ampiezza e insieme l’abisso della vita di là da venire.

(Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete, 1951)
Felipe Polleri - Germania, Germania! - Recensione | Flanerí

Tre monologhi contro i mali del totalitarismo

Quando sfogliamo un libro quali sensazioni speriamo susciti in noi? Empatia, rabbia, paura, commozione sono alcune delle sfumature in cui ci possiamo imbattere quando l’opera davanti ai nostri occhi è ben fatta. Di solito, quando il lettore si imbatte nelle prime pagine del romanzo, spera di essere coinvolto nella vicenda ed essere trasportato nell’universo raccontato nella maniera più coinvolgente e gradevole possibile. Quanti sono invece i lettori che prediligono essere spiazzati e scossi da un libro? Se siete in quest’ultima categoria Germania, Germania! di Felipe Polleri (Edizioni Arcoiris, 2016) è l’opera perfetta per voi.

Felipe Polleri è uno scrittore uruguaino facente parte della corrente dei Raros (gli eccentrici, gli strani, tradotto nella nostra lingua): un movimento letterario che la critica fa iniziare con i lavori di Lautréamont (anche se molti di questi furono scritti in francese) e che comprende altri nomi illustri come Horacio Quiroga, Felisberto Hernàndez e Mario Levrero. Attivo dagli anni ’80 Polleri si impone a suon di romanzi come una delle voci più visionarie e allucinate della corrente, diventando poco a poco un nome di culto sia in America che in Europa. Come altri colleghi sudamericani – penso a Bolaño e Onetti – tutta la produzione di Polleri può essere concepita come un unico grande romanzo, in cui temi e ossessioni vengono trattati e collegati tra loro in ogni lavoro. Cosa caratterizza lo stile di Polleri? Per rispondere dobbiamo tornare alla riflessione di inizio articolo, poiché le vicende narrata dello scrittore e il modo in cui vengono esposte hanno il potere di scuotere davvero il lettore. Non c’è trama, sviluppo, scansione in capitoli: solo torrenziali monologhi di personaggi a dir poco incredibili. Presentiamoli.

Il primo è lo scrittore-assassino zoppo Christopher Marlowe (o William Shakespeare?), legato e ossessionato dalla figura di Winston Churchill. Poi appare Parsifal, figura descritta in maniera eccelsa dal nostro Polleri: un essere storpio che si muove su due gigantesche grucce usate anche per decapitare e straziare le sue vittime. Professione? Burattinaio. Infine ecco Antoine, autore del censurato e alquanto inquietante libro Grande saggio sul funzionamento della macchina. Cosa hanno in comune? L’incombente presenza del Nazismo, della sua follia, del suo male, del suo dolore.

Non aspettatevi linearità, la prosa con cui i protagonisti si confessano è delirante, allucinata, violenta, senza logica e fili conduttori. Il tempo si rincorre in un cerchio, un cane che si morde la coda, l’identità è devastata e l’unico incedere è scandito dalle azioni spesso brutali dei tre. L’unico filo conduttore è lo stile di Polleri, spesso anche visivo: parole importanti sottolineate e soprattutto le illustrazioni che accompagnano le confessioni dei tre attori. Bellissime, quanto forti, le immagini vicino ai discorsi sul Grande saggio sul funzionamento della macchina, che poco a poco ci appare come una grande antologia di tutti i crimini del Nazismo.

Procedendo con lettura, non si hanno risposte, ma si creano importanti domande (oltre le primarie, chi, dove, quando e perché?): siamo sicuri che Marlowe, Parsifal e Antoine siano tre persone diverse, o dimostrano le dissociazione della stessa mente? Hanno davvero compiuto quello che ci dicono, o stanno mentendo, falsificando il loro ruolo con la Storia?

Opera complessa e difficile, lontana dai canoni a cui siamo abituati, Germania, Germania! è però al tempo stesso un mirabile esempio delle potenzialità e dei livelli a cui può arrivare la scrittura (e la letteratura): un viaggio – spesso un incubo – in cui Polleri ci conduce con disarmante maestria. Lasciateglielo fare.

 

(Felipe Polleri, Germania, Germania!, trad. di Loris Tassi, Edizioni Arcoiris, 2016, pp. 220, euro 14)

Alla ricerca di nuovi autori per effe #8

Semplice pretesto | Questione di principio
Genera disordine | Ristabilisce gli equilibri
Propensione innata | Atto di coraggio

 

«Disobbedienza» è il tema scelto per il prossimo numero di effe – Periodico di Altre narratività.

 

Come da tradizione, la partecipazione al nuovo contest è aperta a tutti, autori giovani, meno giovani, esordienti e no. I racconti, rigorosamente inediti e liberamente ispirati al tema, devono essere inviati all’indirizzo altranarrativa@flaneri.com, in formato .doc, specificando nell’oggetto della mail titolo,nome e cognome. La lunghezza del racconto deve essere compresa tra le 10 000 e le 40 000 battute. La scadenza del contest è fissata alle ore 23 del 5 novembre 2017 e la partecipazione è gratuita.

 

Dopo un’attenta lettura da parte della nostra redazione, i testi più meritevoli saranno:

* sottoposti agli editor di 42Linee, lo studio editoriale a cui è affidata la redazione del volume;

* illustrati da giovani artisti della scena nazionale;

* pubblicati su effe – Periodico di Altre narratività #8.

 

Per chi ancora non lo conoscesse, effe – Periodico di Altre Narratività nasce nel 2012, con l’intento di scandagliare il panorama narrativo italiano, offrendo una «zona franca» in cui gli autori esordienti siano sostenuti da scrittori già affermati e nella quale i migliori racconti inediti possano trovare pubblicazione.

 

Alcuni degli autori comparsi nei volumi precedenti sono: Paolo Cognetti (Einaudi), Luca Ricci (Rizzoli), Enrico Macioci (Mondadori), Riccardo Gazzaniga (Einaudi Stile Libero), Paolo Zardi (Neo edizioni), Vins Gallico (Fandango Libri) e Demetrio Paolin (Voland).

Tra quelli che invece hanno scritto su effe da esordienti e poi sono arrivati alla pubblicazione ci sono, tra gli altri, Luciano Funetta, Elisa Casseri, Gianni Agostinelli, Elvis Malaj e Alessandra Minervini.

 

Tutte le informazioni sui volumi precedenti e l’elenco delle librerie indipendenti dove è disponibile effe sono consultabili qui.

Per ulteriori informazioni:
redazione@flaneri.com

 

Illustrazione di Alessandra De Cristofaro