Copertina di Lezioni di letteratura di Nabokov

Manuale per apprendisti lettori

Poche settimane fa le Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov (Adelphi, traduzione di Franca Pece) sono state protagoniste di una ripubblicazione in edizione tascabile. Un’occasione per fare una panoramica su un’opera di saggistica di cui non si sente parlare spesso quando si ha a che fare con l’autore russo, ancora troppo legato al nome del suo capolavoro, Lolita.

Dopo una vita di fughe più o meno forzate fra Cambridge, Berlino e Parigi, nel 1940 Nabokov si trasferì negli Stati Uniti, dove rimase per circa un ventennio prima di tornare in Europa e stabilirsi definitivamente in Svizzera. Mentre la notorietà e una certa agiatezza economica giunsero soltanto in seguito – Lolita sarà pubblicato nel 1955 a Parigi –, almeno per i primi tempi Nabokov dovette alternare al mestiere di scrittore quello di professore, diviso tra il Wellesley College e la Cornell University a Ithaca, dove venne nominato Associate professor in slavistica. Fu proprio qui che tenne i suoi corsi Letteratura 325-326, “Letteratura russa in traduzione inglese”, e Letteratura 311-312, “Maestri della narrativa europea”, soggetto-oggetto di cui si occupa questo Lezioni di letteratura, curato da Fredson Bowers (volume a cui segue idealmente Lezioni di letteratura russa, disponibile al momento soltanto nella collana Biblioteca Adelphi). Il corso prevedeva la «lettura di una selezione di romanzi e racconti inglesi, russi, francesi e tedeschi dell’Ottocento e del Novecento, con particolare attenzione al genio individuale e ad aspetti strutturali».

Gli autori scelti testimoniano dell’agilità con cui Nabokov riusciva a passare indifferentemente attraverso culture e lingue diverse: Charles Dickens, Robert Louis Stevenson, Jane Austen e James Joyce per la lingua inglese; Gustave Flaubert e Marcel Proust per la francese; Franz Kafka per il tedesco. Un’attenzione critica che non si concentra nella sola analisi della struttura e dello stile, ma anche nella combinazione di particolari che serve a far scoccare quella scintilla sensoriale senza la quale un libro sarebbe nient’altro che un mero contenitore di parole. È impossibile godere appieno della bellezza di Stevenson senza immaginare esattamente la facciata e gli interni della casa del dottor Jekyll, specchio fedele dell’animo del dottore, la sua architettura composita, finzione metafisica e letteraria.

Entomologo esperto, abituato a osservare per ore le collezioni di lepidotteri che si impolveravano nei vari dipartimenti delle università in cui insegnava, Nabokov predilesse sempre un approccio “induttivo” alla letteratura: compito del lettore è «prestare attenzione ai particolari», coccolarli e carezzarli, prendendo familiarità con le loro forme più segrete. Un’impostazione confermata anche nell’introduzione a cura dello scrittore americano John Updike, che riporta la curiosa testimonianza di alcuni dei suoi ex alunni: disprezzando gli approcci alla letteratura di movimenti o scuole, Nabokov consigliava loro piuttosto di soffermarsi sui dettagli e le minuzie nascoste fra le pagine; oppure, preso da un furore apostolico, ricordava uno dei suoi dogmi fondamentali: «Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono risciacquatura di piatti». Come si potrebbe apprezzare fino in fondo l’Ulisse di Joyce se non con una cartina di Dublino sottomano sulla quale tracciare pedissequamente gli itinerari intrecciati di Bloom e Stephen?

Un percorso, quello della scrittura, anch’esso irto di ostacoli, minacciato dal rischio di finire nelle paludi del luogo comune o nelle sabbie mobili delle banali generalizzazioni. Il grande artista non può far altro che inerpicarsi su questa crina impervia per tentare di arrivare in cima e incontrare niente meno che il lettore, «ansante e felice», avvinghiato al suo autore in eterno – se il libro durerà in eterno. Eppure, anche il semplice atto di leggere può dimostrarsi più complicato del previsto: nell’istante in cui voltiamo la copertina e cominciamo a scorrere le parole di un libro, ogni riga non fa che coglierci continuamente alla sprovvista, impreparati al ritmo della sua sintassi. Ecco perché un libro non si legge: un buon lettore non è altro che un rilettore – «A good reader, a major reader, an active and creative reader is a rereader» –, e solo rileggendo un libro si può sperare di raggiungere quel «godimento artistico» che rappresenta l’agognata ricompensa di ogni sforzo affabulatorio.

D’altronde, è proprio nel suo carattere di fabula che il romanzo trova forza ed espressione. La letteratura «è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo, gridò “Al lupo, al lupo” senza avere nessun lupo alle calcagna», è invenzione, frutto della fantasia, «menzogna», citando Manganelli. E non potrebbe essere altrimenti, dato che è la Natura stessa la prima a ingannare, tessitrice di sofisticate illusioni: «La verità è che i grandi romanzi non sono che grandi favole, e quelli di questo corso sono favole eccelse», così come eccelse sono queste lezioni che profumano ancora dell’aria viziata di quelle aule della Cornell degli anni Cinquanta.

Questa impostazione semiaccademica come approccio alla letteratura rappresenta un filone che negli ultimi anni sta tornando in auge, non solo grazie alla ripubblicazione di cicli di lezioni universitari sul tema ma anche a quella di diari, taccuini, appunti e lettere private, che sempre più contribuiscono a dare un’idea delle sfumature che l’occhio di uno scrittore è in grado di percepire. Uno degli esempi più interessanti sono le Lezioni di letteratura, Berkley 1980 di Julio Cortázar, pubblicate da Einaudi nel 2014, le quali sono strutturate seguendo un taglio diverso da quelle di Nabokov, basandosi sulla dicotomia fra racconto fantastico e realistico e su un discorso più improntato sull’improvvisazione. Piuttosto recentemente poi è uscito per la collana Ostranenie di Wojtek Edizioni Teoria della prosa di Ricardo Piglia, un saggio in cui il focus sono le nouvelles – forma letteraria a metà tra il racconto breve e il romanzo – del narratore uruguaiano Juan Carlos Onetti, e che segue le trascrizioni delle lezioni che l’autore argentino tenne all’Università di Buenos Aires nel 1995. Parliamo di testi che dialogano tra loro, prendendo come spunto fondamentale la letteratura e le sue forme più disparate.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare Lezioni di letteratura non è un testo per soli scrittori o aspiranti tali. È invece un libro per chi ama leggere, per tutti quelli che si perdono in Madame Bovary non perché rappresenti una denuncia della borghesia dei primi decenni dell’Ottocento, ma per le sue descrizioni di giornate estive come vissute dal soggiorno, con le strisce lunghe e sottili proiettate dal sole che si spezzano contro gli spigoli dei mobili, le mosche che salgono lungo i bicchieri sporchi ronzando e annegando nel sidro avanzato sul fondo, le goccioline di sudore sulle spalle di Emma. Quei lettori che fanno dell’immaginazione la loro arma più segreta e che riescono più di tutti ad assecondare la vera essenza del libro a cui scelgono di dedicarsi, un po’ il proposito che suggeriva questo professore cinquantenne: «Il buon lettore è quello che ha immaginazione […] e un minimo di senso artistico, senso artistico che mi propongo di sviluppare in me stesso e negli altri ogni volta che se ne presenta l’occasione».

Gli anni trascorsi alla Cornell furono molto produttivi. Fu qui che Nabokov terminò Parla, ricordo, e nel suo giardino di casa a Ithaca che la moglie Vera gli impedì di bruciare le pagine iniziali di Lolita, le più intrise di quelle allitterazioni che Nabokov tanto amava in un testo. Forse, come intuisce John Updike, queste riletture furono il carburante che diede l’impulso finale a una stagione fruttuosa, dato che nei suoi libri è possibile trovare un luccichio di tutti gli autori esplorati in questo ciclo di lezioni. Una svolta che forse non immaginava neanche lo stesso Nabokov quando in classe ripeteva ai suoi alunni: «Evitiamo di prenderci in giro e ricordiamo che la letteratura non ha alcuna valenza pratica, salvo nel caso specialissimo di uno che voglia diventare, per quanto incredibile sembri, professore di letteratura». Se solo avesse saputo quanto si stava sbagliando…

 

(Vladimir Nabokov, Lezioni di letteratura, trad. di Franca Pece, Adelphi, 2022, 526 pp., euro 15, articolo di Davide Tamburrini)
Poster di Il filo nascosto

La complicità di una nascita

A metà tra dramedy e teen movie, Il filo invisibile, uscito su Netflix un mese fa, ha il pregio di raccontare con franchezza un tema dibattuto quale quello delle famiglie omogenitoriali. All’interno del progetto autobiografico My journey to meet you, avviato nel 2012 con il documentario Prima di tutto e seguito da Tuttinsieme del 2020, il regista Marco Simon Puccioni torna sull’argomento con un film di finzione per affermare che il cammino dell’inclusione è ancora lungo.

Il filo conduttore a guidare la storia è quello invisibile che lega le persone non per diritto di sangue, ma per scelta adottiva ed elettiva. Si può essere, infatti, più famiglia con due padri piuttosto che con due genitori di sesso diverso. O meglio, non può esistere una idea univoca e totalizzante di famiglia, ma deve entrare nello spirito comune la certezza che le famiglie possono intendersi soltanto al plurale, come molteplici e diverse fra loro. Il filo invisibile ci dice proprio questo: è assolutamente necessario scardinare le convenzioni sociali intorno alle famiglie omogenitoriali, perché i legami biologici possono non rappresentare l’ideale di perfezione.

La storia è molto semplice e lineare. Due padri, Simone e Paolo, crescono un giovane adolescente, Leone, messo al mondo da una madre surrogata statunitense che non ha mai interrotto il legame con loro. L’evento scatenante di un tradimento nella coppia omosessuale suscita malumori talmente turbolenti da innescare una domanda martellante: puntare sul test del DNA per dissolvere le incertezze che possono scaturire da un rapporto non fondato sul concepimento biologico? La risposta del film è negativa: nonostante i vacillamenti e le debolezze, un buon genitore si valuta sulla capacità di saper accogliere, curare, guidare e accompagnare nella crescita un’altra vita, al di là della propria mascolinità o femminilità.

Con la leggerezza tipica di una commedia drammatica, Il filo invisibile mette al centro il punto di vista di un adolescente, che durante tutto un anno scolastico lavora a un documentario sui diritti delle coppie LGBT in Europa prendendo a modello la storia dei suoi genitori. Non mancano tutti gli elementi tipici del teen movie: l’innamoramento, la scoperta della propria identità, il primo approccio con le droghe, la consapevolezza della maturità giovanile. Temi marginali rispetto all’intento primario di Puccioni, che riesce a proporre, anche grazie all’esperienza autobiografica, un lavoro apprezzabile per la sua scorrevolezza, sottendendo alla semplicità della fiction una questione non primaria per il dibattito istituzionale, ma sicuramente degna di molta più attenzione: la tutela dei diritti delle cosiddette famiglie arcobaleno.

(Il filo invisibile, di Marco Simon Puccioni, 2022, commedia, 103’)

copertina di Cristo fra i muratori di Di Donato

Il sogno (italo)americano secondo Di Donato

Quando si parla di cultura italoamericana si cade facilmente in pregiudizi e stereotipi. L’italoamericano viene ritratto di solito come persona di origini meridionali, la sua attività principale è il ristoratore, l’imprenditore edile o il proprietario di negozi di alimentari, e, se consideriamo i film di Martin Scorsese, i romanzi di Mario Puzo, e serie tv come I Soprano, viene raffigurato spesso come un malavitoso.

Quanto alla letteratura italoamericana, resta ancora un territorio inesplorato. Si hanno in mente solamente due autori: John Fante e Salvatore Scibona, che propongono però una narrativa italoamericana di una generazione ormai statunitense a tutti gli effetti: Fante con il suo alter ego Arturo Bandini racconta un personaggio che ormai si sente americano, si comporta come tale e prova vergogna per le sue origini. Scibona d’altro canto, sebbene abbia scritto solo due romanzi, con Il volontario (66thand2nd, 2019) ha definitivamente abbandonato i temi italoamericani del suo precedente lavoro La fine per porsi come scrittore statunitense a tutti gli effetti e confrontarsi con la Guerra del Vietnam, la mascolinità tossica e il potere: temi legati alla retorica della “pastorale americana” di rothiana memoria, che vede gli States come esempio di benessere sociale ed economico e come prima potenza mondiale, luogo dove gli uomini devono eccellere in qualsiasi attività.

Recentemente, però, è tornato nelle librerie italiane Cristo fra i muratori di Pietro Di Donato (readerforblind, 2022), autore nato a West Hoboken, in New Jersey, nel 1911, da genitori originari di Vasto e Taranta Peligna, in Abruzzo. Inizialmente pensato come racconto per Esquire e poi pubblicato come romanzo nel 1939 – anno di opere come Furore di John Steinbeck e Finnegans Wake di James Joyce –, il romanzo d’esordio di Di Donato può essere considerato il primo testo che, lontano da ogni genere di stereotipo, ha cercato di tracciare un riquadro fedele della vita degli italiani in America, aprendo la strada alla letteratura italoamericana, in particolar modo a quella della prima generazione di emigrati.

Il protagonista di Cristo fra i muratori è Paul, primo di otto fratelli nati da genitori di origine abruzzese, Geremio e Annunziata. Lui è un capomastro col sogno di avere una casa più grande per la sua numerosa famiglia; durante il giorno di venerdì santo, però, Geremio resta vittima di un incidente sul lavoro: a prendere il suo posto sarà il protagonista, che scoprirà a sue spese che l’America – «quella specie di Terzo Reich dei buoni e dei giusti», come la definisce Sandro Bonvissuto nella prefazione alla nuova edizione – è un posto che «ti divora fino a sputare le tue ossa al camposanto».

Cristo fra i muratori parte dalle vicende personali dell’autore. I genitori di Paul, infatti, si chiamano Geremio e Annunziata come i suoi, e come il protagonista anche Di Donato era il primo di otto fratelli e aveva abbandonato gli studi per lavorare in cantiere alla morte del padre, avvenuta durante il venerdì santo del 1923 per il crollo di un edificio. Si può supporre, quindi, che le vicende narrate partano dal 1923 per concludersi verso gli anni Trenta con la Grande depressione e la morte di Annunziata, nel 1932, per un cancro. L’evidente autobiografismo dell’opera si manifesta anche nel momento in cui uno dei personaggi dice al protagonista: «“Paul, Paul! Ah, Pietro e Paolo, eh…”», una frase che sembra tradire l’ispirazione personale del libro.

Il romanzo di Di Donato, però, rimodella la vita del suo autore per trattare aspetti più universali. In questo senso sarebbe meglio parlare di Christ in concrete, «Cristo in concreto», poiché il titolo originale del romanzo dà l’idea di un Cristo che appartiene a tutti, non soltanto ai muratori. Questo aspetto viene messo in luce anche da Bonvissuto nella già menzionata prefazione:

«La sua ontologia [di Di Donato] non è per la morte ma dalla morte, non ha questa come prospettiva ma come origine. O almeno anche come origine. E non è una morte personale, ma sociale, una cosa soprattutto altrui, una morte che non è una possibilità domiciliata nel futuro che condiziona il presente, ma un fatto storico del presente che incombe sul nostro futuro».

Sempre Bonvissuto evidenzia l’uso di una mitizzazione cristiana della storia di Paul per raccontare la realtà del lavoro e della miseria della comunità italoamericana descritta da Di Donato:

«Di Donato ha scoperto che il lavoro salariato, nelle moderne democrazie capitaliste, è la morte inclusa già nella vita, è accettare che la morte viva qui con noi ogni giorno invece che una volta sola in ogni esistenza. Lavorando su un cornicione, su un ponteggio nel vuoto, su una trave di ferro nel cielo di New York accetti di morire un po’ ogni giorno. Te o qualcun altro come te. Nessun figlio nato in campagna in una società preindustriale salirebbe su un traliccio che sta a trecento metri da terra per niente. Ma il capitalismo ti chiede di accettare di morire in un altro momento rispetto a quello che era stato originariamente previsto per te, ed è il momento deciso da un altro dio, falso e bugiardo: il denaro. E in un mondo dove dio è fasullo, agli uomini non resta che Cristo».

Di Donato, dunque, ci racconta la condizione dei lavoratori italoamericani in termini di martirio, fatalismo e cristianità. Questo modo di narrare il capitalismo e le sue conseguenze è già stato usato, ad esempio, da Bertolt Brecht nella Santa Giovanna dei macelli (1932), in cui la figura di Giovanna D’Arco – nel dramma brechtiano Giovanna Dark – viene trasposta ai tempi del Giovedì nero, dimostrando come il potere del denaro sia di natura ambiguo e, invece di promettere benessere, porti solo miseria fra i lavoratori. Di Donato già dall’inizio ci parla di “Lavoro” e “Edificio”, parole scritte con la lettera maiuscola, a dare l’idea di divinità fredde e distanti, indifferenti al destino dei lavoratori. «Il Lavoro», scrive l’autore, è una «bestia fredda e orribile», che «se ne stava lì immobile, in attesa fra le ombre pungenti del crepuscolo, avvolto dall’inquietante vento di marzo».

Il Lavoro viene descritto come una divinità capricciosa, che dispone a suo piacimento del destino degli uomini, ignorandone ogni preghiera, privando loro di ogni prospettiva di miglioramento della propria condizione:

«Ma oggi no, oggi il Lavoro lo aveva soffocato, ma gli aveva permesso di vivere. Domani, sarebbe morto. Sarebbe morto senza avere il tempo di alzare la testa e gridare la propria sfida, se ne sarebbe andato con le dita rigide e distese e la bocca spalancata che mostrava le gengive…»

Per Paul Dio si identifica con il Lavoro, e allo stesso tempo con un’intera società americana indifferente al suo dolore e a quello di sua madre: s’identifica con il signor Murdin, il datore di lavoro di Geremio, con la polizia, con i giudici che negano alla famiglia di Paul il risarcimento, e con i loro «sorrisi che profumano di dentifricio rinfrescante e denti curati. Sorrisi che li facevano sentire fuori dalla grazia di Dio», che li portano a vergognarsi delle loro umili origini. Il protagonista arriva a negare la bontà e l’esistenza di Dio, e giunge alla conclusione che l’America sia «una terra di contraddizioni», un paese che «fa vomitare veleno» a chi vi arriva in cerca di una nuova vita.

Paul trova una salvezza nella comunione con gli altri, che «sono come lui figli di Cristo»: i muratori Nasone, Nicola detto Lucia, Bucciadarancia, Quattrocchi e Black Mike, la sua famiglia, Zi’ Luigi e le donne del vicinato come Grazia, Katarina e Cola sono tutti parte di un’umanità dalle «radici strappate, gli steli piegati e distrutti», costretta ad accettare la miseria in cui vive e l’indifferenza a cui è condannata, ma che trova sollievo nel cercare di preservare le usanze e i riti delle origini. Il parto dei bambini in casa, le feste di matrimonio con i prodotti tipici italiani e i lavoratori che si aiutano tra loro sono immagini di una comunità che cerca, attraverso la condivisione, una consolazione al male che le infligge la società.

Cristo fra i muratori ritrae un vero spaccato della comunità italoamericana: non una realtà di gangster o ristoratori imprenditori, ma di gente umile, di origine contadina, che con sacrificio ha cercato di garantire un futuro onesto alle proprie famiglie. Di Donato riesce soprattutto a smascherare il vero volto del sogno americano. L’autore ne svela, infatti, la falsità della retorica di benessere, che non procura altro che miseria e indifferenza per gli emigrati italiani. Per l’America questi sono soltanto carne da macello, «Cristi nel cemento» dimenticati che hanno alimentato i sogni di profitto di pochi sacrificando ogni cosa, tranne il senso di comunità e di appartenenza, unica salvezza contro la spersonalizzazione e la disumanizzazione del lavoro e del denaro.

 

(Pietro Di Donato, Cristo fra i muratori, trad. di Nicola Manuppelli, readerforblind, 2022, 370 pp., euro 19, articolo di Alberto Paolo Palumbo)

Get Well Soon, Amen

Nel 2008 usciva Rest Now, Weary Head! You Will Get Well Soon e ancora oggi è una di quelle piccole perle nascoste, un po’ di nicchia, per cui ti sembra strano che non abbia avuto successo. Un po’ di più quantomeno. Che se ne parli, che sia riconosciuto.

Comunque: i Get Well Soon tornano con Amen, a quattro anni dall’ultimo The Horror. Al loro esordio (davvero brillante) avevano captato la possibilità di far convivere, in un contesto musicale chiaramente diverso da quello di oggi, un’evidente inclinazione radioheadiana con sensazioni post-rock seconda ondata, due pulsioni che, pur avendo radici che assorbono acqua dallo stesso terreno, hanno componenti estetiche lontanissime. Qualcosa che potesse, a sprazzi, dare la sensazione Thom Yorke nei This Will Destroy You. Esperimento riuscito.

Poi un cambio di direzione,  il periodo barocco con Vexations (dove ci sono alcuni brani davvero memorabili, tipo “Seneca’s Silence“), sempre con i cinque di Oxford in testa, ma questa volta con in più Neil Hannon e i suoi The Divine Comedy a tracciare la direzione (portandosi appresso un dandismo che, facendo un paragone musicale e non solo con qualcosa di nostrano, può condurci ai Baustelle,  autori tra le altre cose anche loro di un Amen).  Un mezzo passo falso con gli spaghetti western di The Scarlet Beast O’Seven Heads  e il buon Love, dove non ci sono particolari picchi ma nemmeno cadute pericolose.  Infine le colonne sonore scritte e l’influenza avuta sull’ultimo The Horror.

Arriviamo a oggi, 2022. Nonostante non ci siano i guizzi e gli impulsi degli esordi (quel potremmo fare qualcosa che non sia solo bello ma anche altro) ma con  una consapevolezza e una coscienza più sviluppata, Amen esce fuori con prepotenza e splendore. Basterebbe solo  il ritornello di “This is Your Life” (cosa che ci ricorda quanto sia brano Gropper ad azzeccare le melode) così spazioso, ampio, arioso, nostalgico, disperato,  e con quell’effetto leggerissima sulla voce (sulla bellissima voce di Gropper) tipo effetto Daft Punk, per entrare nell’ordine di idee che i Get Wel Soon hanno scritto qualcosa di importante.

Tutto l’album gira alla grande: ogni pezzo è incastrato, dà la sensazione di avere un senso da solo e nell’insieme. Chamber pop, folk rock, indie, spunti anni’80 (Cure, Depeche Mode), i Radiohead, i Portishead e una fortissima identità. Emerge come in passato la qualità di scrivere canzoni con un buon tasso di bpm riempiendole di malinconia tipica delle ballate (“My Home is My Heart“, e anche qui come prima, il ritornello è da mettere nelle lezioni di scrittura di ritornelli). Emerge la bellezza intrinseca nei testi di Gropper, criptici e poetici. Emerge il fatto che, come detto all’inizio, un gruppo come questo meriterebbe (avrebbe meritato) maggiore attenzione.

Un album dei Get Well Soon è sempre una cosa bella, quando esce come Amen ancora di più.

 

Copertina di Mordi e fuggi di Bertante

Alle origini del sogno rivoluzionario

Ha senso scrivere oggi un romanzo che racconti i giorni e i tempi in cui nacquero le Brigate Rosse? Da cui presero piede i famigerati Anni di piombo? La risposta è sì, senza grossi dubbi. Tentare di gettare luce su quella che Zavoli definì magistralmente «la notte della Repubblica» è fondamentale per comprendere e rimettere a posto parecchi tasselli che ancora mancano nella storia del nostro Paese.

Alessandro Bertante fa il suo, nel nuovo romanzo uscito per i tipi di Baldini+Castoldi, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR. Va all’origine, alla scintilla, o forse sarebbe più corretto dire alle scintille che innescarono le micce. Il protagonista, Alberto Boscolo, è un ragazzo infiammato e nutrito di sogni rivoluzionari in quella stagione di proteste cominciate col Sessantotto. È uno studente, non è un operaio, anzi a dirla tutta proviene da una famiglia della media borghesia, tanto che suo padre sembra ironizzare sui suoi sogni rivoluzionari, perché alla fin fine lo considera un ragazzo «cresciuto con troppi privilegi, senza bisogni autentici e animato da motivazioni scadenti».

La prima scintilla è familiare, cioè il desiderio di Alberto, simile a quello di tanti ragazzi dell’epoca, di ribellarsi prima di tutto ai padri, di dimostrare che si sbagliano di grosso a sottovalutarli. La seconda è la giovinezza, i vent’anni – come li definisce lo stesso Alberto. La terza scintilla sono gli anni Sessanta che «ci avevano raccontato che potevamo avere tutto, che il mondo stava cambiando e che saremmo stati proprio noi la generazione motore del cambiamento». Così, tra l’ideale e l’avventura, la logica conseguenza era che la rivoluzione stava per trasformarsi da chimera in realtà.

Bertante traccia ogni particolare, immedesimandosi in Alberto, dandogli voce e assaggiando la strada, gli odori, la nebbia di una Milano a cavallo di quei due decenni che avrebbero cambiato il volto dell’Italia per sempre. Ricostruisce e racconta con dovizia storica quei momenti, quei giorni in cui il Collettivo Politico Metropolitano decide di alzare il tono dello scontro, come si usava dire. Alberto è lì, è con loro, con i Renato (Curcio), le Mara (Margherita Cagol) e i Mega (il suo omonimo Franceschini). La bomba di piazza Fontana è la chiave di volta, è il punto di non ritorno che spinge la maggior parte del CPM a voler dare una risposta al timore di un colpo di Stato. Alberto è fra loro. Invece la sua fidanzata, Anita, è contraria. Qui si consuma il primo strappo nella vita del protagonista, che fa da metafora allo strappo principale della lotta armata. Bertante è sapiente nel mostrarlo; ci mette davanti un Alberto aggressivo, fin troppo rigido e coerente ai suoi schemi, convinto della sua verità, dentro cui si cela un’insoddisfazione, un’inquietudine tipica dei vent’anni, cui si accompagna la convinzione di essere immortali, anche perché «la morte di un rivoluzionario era un’opzione non prevista».

Mordi e fuggi non è però solo un romanzo sulle Br, è anche un romanzo di formazione, in cui Bertante non nasconde alcune ossessioni che ritornano spesso nelle sue opere, prima di tutto il suo rapporto ancestrale con Milano, con la città, l’asfalto. Tanto da poter definire, in un certo senso, Mordi e fuggi la chiusa di un trittico metropolitano milanese, di cui i precedenti sono Estate Crudele e Gli ultimi ragazzi del secolo. Del resto, Bertante non si nasconde, e attraverso le parole di Alberto dice: «Ero ossessionato dalla geografia urbana: i vecchi quartieri demoliti, i canali sepolti, le cinte murarie, le porte, le stazioni di posta. Leggevo e rileggevo, cercando di ridare un senso alla forma della mia città». In quest’ossessione da archeologo – che il Bertante autore inculca nel protagonista – prende appunto forma l’evoluzione del personaggio che cerca di realizzarsi attraverso l’azione, per dare un senso alla sua vita, per «fare la Storia».

Il desiderio che arde in lui lo porta a farsi «trascinare dalla voracità dei vent’anni e dall’urgenza dell’azione». Ma il percorso di Alberto Boscolo è un percorso verso gli inferi, una discesa che lo conduce verso l’anti-Storia, quella in cui poi davvero le Br si trovarono invischiate. Il precipizio del protagonista è tratteggiato in modo febbrile, in una Milano fredda e nebbiosa, o appiccicosa se estiva. Pochi gli squarci di luce, uno mirabile si svolge sulla spiaggia del Ticino, dove Alberto con un manipolo di compagni vanno a fare il bagno e a prendere un po’ di sole. Il protagonista si tuffa nell’acqua «fresca e pulita», si lascia trasportare dalla corrente e per un momento, forse decisivo, viene avvolto da una sensazione di tenerezza, di ricordi d’infanzia, di calore familiare perduto.

Di lì a poco l’ingresso nella clandestinità, le prime vere azioni militari, i «mordi e fuggi», i «colpire uno per educarne cento» di maoista memoria, fino alla morte del compagno Osvaldo (al secolo Giangiacomo Feltrinelli, colui che per primo aveva finanziato la campagna rivoluzionaria), e ai primi arresti, dovuti alle infiltrazioni della polizia politica.

È allora che Alberto Boscolo riflette a lungo, mentre tutto il suo «orgoglio di guerrigliero era svanito in pochi giorni». Una retata di periferia diventa così il simbolo di una sconfitta al centro del pensiero rivoluzionario.

Si attraversano così gli anni della fondazione del «partito armato», e per l’intero percorso narrativo ci si domanda e si analizza perché alcuni ventenni dell’epoca si sentissero spinti a fare una scelta del genere, e al contempo senza timore si percepisce che Bertante stesso si chieda cosa avrebbe fatto lui se avesse avuto l’età del suo protagonista nel 1970. E rivolge quella domanda anche ai lettori.

 

(Alessandro Bertante, Mordi e fuggi. Il romanzo delle BR, Baldini+Castoldi, 2022, 208 pp., euro 18, articolo di Fernando Coratelli)

 

Sulla smarginatura in Elena Ferrante

Nella tetralogia ferrantiana de L’amica geniale (Edizioni E/O, 2017) l’esperienza della cosiddetta smarginatura vissuta da Lila è una delle cose che più affascina e pone interrogativi. Cos’è la smarginatura? A Lenù Lila dice che durante le occasioni della smarginatura «si dissolvevano all’improvviso i margini delle persone e delle cose». Ma cosa significa? Seppure paia talvolta intuibile col pensiero, la smarginatura non è altrettanto facile da afferrare e affermare con le parole. Lasciando da parte ogni pretesa circa la possibilità di comprensione e spiegazione certe di tale episodio, si tenterà qui invece – quasi per gioco – di rintracciare in altre opere letterarie esperienze che si potrebbero confrontare con essa e al contempo di decifrare quella che è la sua natura.

Lila ha il suo primo episodio di smarginatura il 31 dicembre 1958, che viene così descritta: «Questa sensazione si era accompagnata a una nausea forte e lei aveva sentito che qualcosa di assolutamente materiale, presente intorno a lei e intorno a tutti e a tutto da sempre, ma senza che si riuscisse a percepirlo, stava spezzando i contorni di persone e cose rivelandosi». Da queste parole si capisce che qualcosa, celato nello stato normale delle cose, si manifesta – qui specificatamente a Lila – rompendo il profilo del mondo: in sintesi, Lila vede la realtà in un’altra luce, prende consapevolezza di un’altra dimensione del reale: è come se vedesse tutto per la prima volta. Una sorta di risveglio della consapevolezza.

Vedere il mondo per quel che è provoca nausea e vertigine: proprio quelle che prova Eugenia, la bambina protagonista del racconto Un paio di occhiali in Il mare non bagna Napoli (Einaudi, 1953; Adelphi, 2014) di Anna Maria Ortese. Eugenia, mezza accecata dalla miopia, grazie a un paio di occhiali, che indossa per la prima volta, vede finalmente Napoli e il mondo. Ma – se leggiamo e interpretiamo il racconto in una chiave allegorica – quello che vede Eugenia non è semplicemente il quartiere di Napoli in cui vive, ma la natura reale del mondo, la cui visione le provoca una «terribile impressione». Così come fu per Lila durante la sua prima smarginatura, quando i suoni risultavano amplificati, tutti si muovevano troppo velocemente ed erano investiti di un senso di repulsione, ribrezzo, nausea, analogamente Eugenia vede le persone cominciare «a torcersi, a confondersi, a ingigantire. Le venivano tutti addosso, gridando, nei due cerchietti stregati degli occhiali»: tutto questo provoca alla piccola Eugenia un malessere tale da farla vomitare. Paradossalmente, vedere in maniera così chiara e trasparente provoca quelle reazioni di terrore e spavento che nel senso comune riserviamo invece al buio, all’ignoto. E qualcosa di simile accade anche a Septimus, personaggio che troviamo nel romanzo di Virginia Woolf La signora Dalloway (Mondadori, 1946; qui si fa riferimento all’edizione Einaudi, 2012, trad. di Anna Nadotti). Septimus diviene «atterrito da quel progressivo restringersi di ogni cosa verso un solo centro davanti ai suoi occhi, come se un qualche orrore stesse per affiorare in superficie e divampare. Il mondo vacillava, tremava e minacciava di divampare». C’è l’idea, dunque, che qualcosa di minaccioso si cela dietro la realtà, capace di romperla e stravolgerla, a dispetto del senso che le abbiamo dato e delle leggi di fisica a cui solo – credevamo – potesse ottemperare. E questo destarsi della coscienza accade improvvisamente, può avvenire in qualsiasi momento senza preannunciarsi: mentre si osserva il fluire della gente in una città o anche semplicemente osservando quel volto sconosciuto allo specchio, che altro non è che la nostra stessa persona. E altrettanto furtivamente il momento, così come si era accostato, si ritrae.

Ma non solo il mondo sembra perdere i propri contorni di significato, traspare anche la paura che esso possa vacillare, implodere, strabordare dai confini della consuetudine e sfociare nell’orrore e nello spavento. Nel descrivere il senso dell’assurdo nel Mito di Sisifo (Bompiani, 1947) Albert Camus scrive che «nel fondo di ogni bellezza sta qualche cosa di inumano, ed ecco che le colline, la dolcezza del cielo, il profilo degli alberi perdono, nello stesso momento, il senso illusorio di cui noi li rivestivamo, più distanti ormai che un paradiso perduto. […] Per un secondo non lo comprendiamo più, e perché per secoli non avevamo capito in esso che le figure e i disegni che gli avevamo antecedentemente attribuiti, e perché ormai ci mancano le forze per servirci di tale artificio. Il mondo ci sfugge, poiché ritorna se stesso». Quello che è l’assurdo per Camus ricalca in tanti aspetti la smarginatura dell’opera di Ferrante: entrambi sono legati a un senso di profonda consapevolezza e a una sensazione di estraneità e nausea – derivate dall’attenta osservazione e constatazione che tutto ciò (inclusi noi stessi), che pure un momento prima sembrava familiare, adesso appare stupido e fa ribrezzo; entrambi accadono quando l’inebetimento dell’abitudine si inceppa e «l’indentatura delle cose» salta.

Infatti, è come se ci fosse un’impalcatura, più o meno solida, che sostiene la facciata illusoria del mondo e delle cose, senza la quale sprofonderemmo in un abisso di orrore, che altro non è che vuoto. Si potrebbe dire, a questo punto, che la smarginatura è un particolare stato dell’essere che consente a Lila di vedere il mondo come effettivamente è – senza quel velo di cipria che rende l’esistenza illusoriamente più sopportabile –, ossia terrificante: «le era accaduto per la prima volta di avvertire entità sconosciute che spezzavano il profilo del mondo e ne mostravano la natura spaventosa». Potrebbe essere il velo di Maya squarciato. Quasi sicuramente è un momento transitorio e destabilizzante di visione («devo afferrare la scia che mi sta attraversando, devo gettarla via da me») di assoluta chiarezza su cosa e come sono veramente le cose e la loro assurdità: «Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata». L’horror vacui sembra dunque essere ciò che ci provoca orrore ed è causa del nostro spavento quando capita che la fragile protezione dell’abitudine viene meno: «Come una nuvola copre il sole, cosí il silenzio cala su Londra, e sulla mente. Il tempo penzola sull’albero maestro. Ogni sforzo cessa. Lí ci fermiamo, lí restiamo. Rigido, lo scheletro dell’abitudine soltanto sorregge l’impalcatura umana. Dove non c’è nulla […]», scrive Woolf.

 

 

A osservare i margini del mondo cedere e a vedere le cose sformarsi si rischia di frammentare sé stessi, non riuscire più a conservare la propria apparenza, dissolversi fino a scomparire: «[…] nessuna forma avrebbe mai potuto contenere Lila e […] presto o tardi avrebbe spaccato tutto un’altra volta». Bisogna cercare di arginare questi momenti di terrore, tenere a bada il vuoto e sostenere il fragile velo dell’apparenza delle cose. E allora ecco che forse è per qualcosa del genere che riecheggia – sempre, ancora una volta, a Napoli – quel «Non ti disunire» di È stata la mano di Dio (2021). Lila trascorre tutta la sua vita cercando di proteggersi dall’orrore, ma non ne è capace, «Lila perdeva Lila, il caos pareva l’unica verità, e lei […] si cancellava atterrita, diventava niente». Lila è fin troppo consapevole del disfacimento e dell’orrore che si cela dietro la consuetudine o, addirittura, la bellezza. E lo si capisce quando osservando, insieme a Lenù e altri due giovani, il cielo stellato sopra Ischia, non riesce a partecipare insieme agli altri all’ammirato stupore in lode «dell’architettura portentosa del cielo»: in esso Lila non vede bellezza e ordine, ma solo «cocci di vetro a vanvera dentro un bitume blu» oltre il quale c’è lo spavento. Eppure, questi momenti di chiarezza e di spavento, che manifestano il vuoto, allo stesso tempo potrebbero essere dei «fiori di tenebra» e altresì – oltre all’orrore – rivelare bellezza, se solo si fosse capaci a cedere all’inganno e lasciarsi cullare dal piacere vano delle illusioni.

Nel quarto libro della tetralogia, la descrizione dell’episodio di smarginatura avvenuto durante il terremoto del 1980 è quanto di più chiaro e intuibile la scrittura di Ferrante ci abbia donato riguardo questa particolare esperienza: «[…] i contorni di cose e persone erano delicati, che si spezzavano come il filo del cotone. Mormorò che per lei era così da sempre, una cosa si smarginava e pioveva su un’altra, era tutto uno sciogliersi di materie eterogenee, un confondersi e rimescolarsi. Esclamò che aveva dovuto sempre faticare per convincersi che la vita aveva margini robusti, perché sapeva fin da piccola che non era così – non era assolutamente così –, e perciò della loro resistenza a urti e spintoni non riusciva a fidarsi. […] Borbottò che non doveva mai distrarsi, se si distraeva le cose vere, che con le loro contorsioni violente, dolorose, la terrorizzavano, prendevano il sopravvento su quelle finte che con la loro compostezza fisica e morale la calmavano, e lei sprofondava in una realtà pasticciata, collacea, senza riuscire più a dare contorni nitidi alle sensazioni». Come una fragile crosta sulla ferita che è causa del malessere dell’essere umano e che potrebbe improvvisamente frantumarsi e rivelare l’orrore del sangue che erompe, la vita consuetudinaria che scorre quasi impercettibilmente lungo il fiume dei giorni non è altro che un trucco che si adotta rispetto a quell’altra vita eccezionale e terrificante dove si assiste all’esistenza con assolute – o quasi – chiarezza e consapevolezza: un trucco nel senso che addomestichiamo l’assurdo, impariamo a convivere con la vertigine provocata dall’horror vacui che incombe costantemente: «il terrore resta, se ne sta sempre nello spiraglio tra una cosa normale e l’altra». Quale delle due dimensioni della vita sia la più autentica – se quella che scorre inconsapevole di sé o quella che nell’attimo si rivela a sé –, poi, non ci è dato saperlo.

Copertina di Cora nella spirale di Message

La società del burnout

«La società della prestazione è una società dell’autosfruttamento», ha scritto il filosofo coreano Byung-Chul Han in La società della stanchezza. Nell’era del consumismo l’ossessione per la prestazione e la smania di “fare sempre di più” ha condotto l’essere umano verso una condizione di sfruttamento sia da parte di terzi sia da parte di sé. L’autosfruttamento implica la sensazione dell’incapacità di portare a termine qualcosa, di raggiungere un obiettivo: col tempo l’uomo si è convinto di non essere più in grado di concludere. Scrive ancora Han che «il soggetto vive permanentemente in un sentimento di mancanza e di colpa poiché, da ultimo, fa concorrenza a sé stesso, egli cerca di superare sé stesso, finché non crolla». È a questo punto che subentra un collasso fisico e psichico, più noto come burnout. Realizzazione di sé e distruzione di sé si uniscono in una crasi devastante.

I temi di cui parla Han nel suo breve ma illuminante saggio sono gli stessi che lo scrittore francese Vincent Message ha messo al centro del suo ultimo romanzo, Cora nella spirale. L’autore, classe 1983, insegna Letterature comparate all’Université Paris VIII e nel 2013 insieme a Olivia Rosenthal e Lionel Ruffel ha fondato un master di scrittura che tutt’oggi dirige. Dopo Les Veilleurs e Défaite des maîtres et possesseurs, questo è il terzo romanzo di Message, il primo arrivato in Italia grazie a L’orma editore e alla traduzione a quattro mani di Nicolò Petruzzella e Riccardo Rinaldi.

Cora Salme è una giovane donna che lavora nel reparto marketing di una nota agenzia assicurativa francese, la Borélia. Quando dopo la nascita della sua piccola Manon rientra dal congedo di maternità, Cora percepisce sin da subito che qualcosa è cambiato: è il 2008 e la statunitense banca d’affari Lehman Brothers fallisce innescando una delle crisi finanziarie più gravi dal secondo dopoguerra. Wall Street crolla e le ripercussioni riguardano non solo l’America, ma tutto il mondo. Come le altre agenzie assicurative, anche la Borélia è in difficoltà e questo significa rivedere gli obiettivi, la gestione, le priorità, ma soprattutto ottimizzare le risorse umane. L’asticella del livello di prestazione si alza sempre di più fino allo sfinimento dei lavoratori. Alla collaborazione subentra la competitività, al raggiungimento di traguardi comuni la legge del più forte. I vertici aziendali non parlano mai esplicitamente di una imminente ondata di licenziamenti, ma la tensione generale ne denuncia le intenzioni: chi non riuscirà a mantenere alto il suo rendimento verrà ritenuto inutile ai fini della produttività, e il licenziamento diventerà inevitabile. Dopo lo spaesamento iniziale Cora sente la pressione crescere fino a sentirsi sopraffatta: quella di Cora, per usare un concetto ferrantiano, è una smarginatura, un distaccamento da tutto ciò che vive e la circonda.

In Cora nella spirale ogni personaggio rappresenta un modo di affrontare il suo tempo, una tecnica di sopravvivenza che non sempre si rivela efficace. Il marito di Cora, Pierre, è un uomo sensibile e comprensivo che resta coerente lungo tutto l’arco narrativo. La piccola Manon, anche se in maniera del tutto inconsapevole, è vittima della società in cui è nata. L’amicizia con Maouloun, migrante clandestino, è un aspetto rilevante della vicenda ed è metafora del sentimento di egoismo che pervade la società moderna: quando si è focalizzati sulle piccole crisi quotidiane spesso non si ha la percezione di quanto accade e così Maouloun ricorda a Cora che i suoi problemi «sono quelli dei ricchi». Infine c’è Delphine, antitesi della protagonista che riesce a dominare i meccanismi aziendali e sociali che schiacciano l’altra.

L’autore non affida la narrazione alla protagonista ma a Mathias: un giovane giornalista che a distanza di anni tenta di ricostruire la vicenda di Cora trasformandosi così in un narratore onnisciente grazie soprattutto alla lettura dei diari che la donna aveva compilato – quasi con ossessività – in quel momento drammatico della sua vita, quando forse era ancora convinta di riuscire a non soccombere. Mathias però non si ferma alla voce della donna, ma raccoglie le testimonianze di chi lavorava in azienda all’epoca dei fatti e aveva conosciuto Cora prima e dopo il 2008, prima e dopo Manon, prima e dopo il tragico epilogo.

«È la mole del passato a determinare il presente, un passato che non si conosce e che nessuno racconta, fatta eccezione per quei ricordi frammentari deformati dall’inconscio, le bugie difficili da tenere a bada, o le leggende reinventate ogni volta da capo. C’è un mucchio di persone a cui non interessa scandagliare la Storia […] Ce ne sono altre, invece, che subiscono il fascino del passato, degli antefatti. Come Cora Salme nel momento in cui ha iniziato a lavorare per la sua nuova azienda. E come me, in fondo. Per questo ora è giunto il momento di parlare di ieri e dell’altro ieri. Del passato di Cora e di quello della Borélia».

La forte impronta giornalistica del narratore fa sì che il romanzo assuma in certi passaggi il carattere dell’indagine. Se da un lato questa impostazione serve a dare al lettore una visione completa dei fatti, dall’altra rischia che si areni laddove le digressioni si dilungano e il confine tra romanzo e libro d’inchiesta si fa troppo labile. Queste lunghe parentesi – a volte veri e propri resoconti storici sulla Borélia – deviano l’attenzione e possono in qualche modo fuorviare l’interpretazione del libro.

Come ha spiegato lo stesso Message durante un’intervista, l’idea del romanzo è nata infatti dalla volontà di «creare un personaggio che fosse rappresentativo di una generazione», e che «parlasse della vita sociale, politica, familiare attraverso la lente di un trentenne che aveva vissuto gli anni della depressione economica». Cora nella spirale non è solo la storia del divario tra vita privata e aziendale causato da un’etica del lavoro che si fa sempre meno etica, ma un’analisi di come il capitalismo disattende le aspettative e i progetti trasformando il lavoro in una dimensione in cui, tornando a Han, «autorealizzazione e autodistruzione coincidono».

 

(Vincent Message, Cora nella spirale, trad. di Nicolò Petruzzella e Riccardo Rinaldi, L’orma editore, 2021, 432 pp., euro 21, articolo di Manuela Altruda)

 

Poster di I segni del cuore

Un remake da Oscar, davvero?

Se non avesse appena vinto tre premi Oscar tra cui quello per miglior film non staremmo qui a parlare di I segni del cuore. Il motivo, semplice e indiscutibile, è che è l’opera seconda della regista Sian Heder non è destinata a entrare nella storia del cinema. Anzi, non è neanche destinata a essere ricordata a lungo.

Intendiamoci, non è un film privo di meriti e momenti riusciti. I suoi pregi, però, derivano tutti quanti dal film originale da cui prende ispirazione. I segni del cuore è infatti il rifacimento quasi integrale della commedia francese del 2014 La famiglia Bélier, un titolo che ai tempi aveva riscontrato anche un discreto successo internazionale.

Heder non ha fatto altro che aggiustare un po’ il tiro, mantenendo intatto l’impianto e i momenti chiave della trama.

CODA – il titolo originale che significa Children of Deaf Adults, figli di adulti sordi – sposta la famiglia protagonista dalla campagna francese alle coste del Massachussetts. I Rossi sono pescatori sordi e privi della parola, padre, madre e figlio maggiore. Ruby, la figlia più piccola, è l’unica udente. La sua vita passa tra il lavoro con padre e fratello, il liceo e i suoi doveri come interprete familiare. È l’unico collegamento tra i suoi cari e il mondo esterno, l’unica che può aiutarli a stabilire un dialogo con gli altri. Ha un sogno: cantare. Grazie a un maestro di coro particolarmente sensibile, Ruby si prepara per entrare in una prestigiosa accademia musicale. Mano a mano che si avvicina il momento del provino, però, cresce in lei il dubbio su cosa fare: inseguire la sua vocazione o rimanere al fianco della famiglia.

Non è sbagliato immaginare che qualche anno fa I segni del cuore non avrebbe ricevuto neanche una nomination agli Oscar. I motivi sono vari. È un film prodotto direttamente per la piattaforma streaming Apple TV+, per dirne una. Inoltre, non può vantare celebrità nel cast, o nomi di spicco, e fino a pochi mesi non aveva ricevuto particolari attenzioni da critica e pubblico.

L’atteggiamento dell’Academy nei confronti dei film indipendenti e, soprattutto, della rappresentazione delle diversità è però molto cambiato nelle ultime edizioni. Se I segni del cuore fosse un film originale, non ci sarebbe nulla da ridire. Ha una notevole carica emotiva, è pieno di ottime intenzioni e buoni sentimenti. È edificante e ottimista.

Il suo difetto principale, però, è che tutti i suoi più momenti migliori nascono nel film originale. Un po’ come è successo in Italia con Domani è un altro giorno di Simone Spada che riprendeva l’ottimo Truman di Cesc Gay. L’emozione è la stessa, ma rimane pur sempre una copia.

Heder ha avuto il merito con I segni del cuore di correggere alcune ingenuità di La famiglia Bélier. Il film francese, a parte il successo, aveva attirato anche le critiche della comunità sorda francese e globale per come veniva raccontato l’handicap. Gli attori scelti non avevano difetti di udito e alcuni passaggi della storia troppo virati sulla commedia erano stati trovati offensivi.

CODA – I segni del cuore ha eliminato ogni possibile rischio. Madre, padre e figlio sono interpretati da persone prive di udito. C’è Marlee Matlin, che nel 1987 ha fatto la storia come prima attrice sorda a vincere un Oscar per Figli di un dio minore,  e accanto a lei il giovane Daniel Durant e Troy Kotsur. È stato Kotsur, quest’anno a ricevere il premio come miglior attore non protagonista, segnando un altro primato per la comunità dei non udenti.

Durante il lancio del film i produttori statunitensi sono stati molto attenti a ridurre al minimo i riferimenti a La famiglia Bélier. In questo modo, una buona parte del pubblico si è convinto di essere davanti a un film completamente originale.

Chi ha visto il modello francese, però, non troverà nulla di eccezionale in I segni del cuore. Eppure, l’Academy ha ritenuto tutto questo sufficiente per assegnare l’Oscar per il miglior film, per l’interpretazione di Kotsur e per la sceneggiatura non originale firmata sempre da Sian Heder. È stata una notte degli Oscar senza particolari vincitori e che passerà alla storia per altro, è indiscutibile.

Senza premi, I segni del cuore sarebbe stato ricordato da poche persone come un film “carino”, forse “una chicca” o “un gioiellino”, per usare termini orribili. Così, invece, quando tra qualche anno riparleremo del ceffone di Will Smith a Chris Rock ci chiederemo anche quali fossero i vincitori del 2022 e allora, forse, ci ricorderemo dell’esistenza di I segni del cuore.

(I segni del cuore, di Sian Heder, 2021, commedia, 111’)

Copertina di Annette di Malvestio

L’incolmabile iato

«E dunque, amare il porno significa amare l’impossibile, ma l’amore per l’impossibile è per sua natura irrealizzabile. Il mio amore per Annette si nutre proprio di questo, del fatto di non avere alternative allo spiarla, come Polifemo con la ninfa Galatea; posso osservarla, sezionarla, collezionarla, senza che questo implichi mai la sua trasformazione in un oggetto reale, ma proprio per questo il mio amore per lei continua a essere così forte e puro». Tali parole possono racchiudere l’essenza di Annette, romanzo d’esordio di Marco Malvestio, uscito per Wojtek Edizioni nel 2021.

Nata nel 1984 nella città di Johann Gutenberg, Magonza, alta un metro e ottanta, sessantacinque chili di peso, seno piccolo e glutei sodi, Annette Carmen Schönlaub, in arte Annette Schwarz, è la stella della pornografia mainstream e rappresenta, fin dai primordi della sua attività, l’oggetto del desiderio dell’autore/personaggio Marco. Nel ripercorrere la sua brillante carriera, in un alternarsi di capitoli dallo stile saggistico e/o narrativo, Malvestio ci fornisce un quadro sintetico, ma rigoroso, del cinema hardcore, delle differenze tra l’interpretazione europea e quella americana e del suo evolversi negli anni fino all’attuale digitalizzazione.

Annette rappresenta il fulcro dell’intero racconto. Attrice di punta dei più noti registi del genere, tra i quali John Thompson, John Stagliano, Rocco Siffredi, Mark Spiegler e Lorelei Lee, le sue performance più estreme, messe in scena, vengono descritte con una tale dovizia di dettagli da trasportare il lettore direttamente sul set. Sulla base delle poche informazioni rinvenute sul suo conto, Malvestio ricostruisce poi gli episodi cruciali della vita della donna, immaginando, con umile arbitrarietà, le sue giornate da adolescente, il primo lavoro da infermiera in un ospedale di Monaco, la condivisione di un modesto appartamento con una collega, il rapporto con il fratello, con i genitori e con le amiche; e poi il suo diciottesimo compleanno, il gusto stravagante per la pittura, le intime fantasie e l’approccio con il porno; l’incontro decisivo con Siffredi che, notate le sue potenzialità, la metterà in contatto con l’americano Spiegler, la conseguente partenza per la California e il successo. Elementi di realtà corrono paralleli a elementi di pura finzione, si sfiorano senza mai toccarsi; esattamente come il porno: «Un mondo irreale con al centro un fatto reale: il sesso».

Ma Annette non è solo la biografia, più o meno fantasiosa, di una pornostar, né un saggio sulla pornografia in generale. Come dichiarato nell’incipit, Annette è la storia di un’ossessione, di un amore smisurato per un ideale, quello dell’autenticità. Marco non è solo l’autore del libro, ma ne costituisce il protagonista: la sua presenza è continua. È il voyeur che osserva, spia, immagina, si eccita e si masturba sui gesti, le parole e le espressioni dell’amata. Perché proprio Annette e non, per esempio, Sasha Grey o qualcun’altra? Perché per Marco lei è l’unica in grado di creare quel cortocircuito con l’artificialità. Nel suo viso, negli occhi, nel sorriso egli rintraccia lampi di puro piacere, di felicità, sente che l’attrice ha smesso di fingere, abbandonandosi a un reale godimento, sente che ha raggiunto il massimo grado di conoscenza, quello più vicino alla morte e precluso agli esseri normali, spettatori infelici condannati al supplizio eterno. Immagina che lo iato apparentemente incolmabile tra verità e falsità possa annullarsi, che le due cose possano sovrapporsi, rendendo possibile l’impossibile. Ecco, questo è l’amore, la conoscenza autentica.

Eppure, è passato molto tempo dall’ultima esibizione di Annette e il mondo è andato tremendamente avanti. Marco, quasi trentenne, un lavoro da segretario alquanto incerto, una serie di relazioni che non lo hanno mai soddisfatto per davvero, rivede nella penombra del suo ufficio, in totale solitudine, i vecchi film della diva, rivivendo le medesime pulsioni. Di fronte all’amara constatazione dell’innaturalezza dei rapporti umani, intrisi di finzione, l’amore vero è una chimera. L’avvento di Internet ha stravolto il porno, rendendolo infinito e di conseguenza velocizzando il piacere. La nostalgia di Annette, il ricordo di quella sua forza dominante che derivava, paradossalmente, da atti di sottomissione, pone il giovane di fronte a costanti elucubrazioni e a interrogativi di difficile soluzione. Annette non è più un essere umano, ma un totem, una fede, un dogma che ha un unico credente. E credere darebbe senso a tutto. L’idealizzazione è assoluta e Marco, come Humbert Humbert con Lolita, come Gatsby con Daisy, rischia di essere fagocitato da questo amore cannibale, secondo una definizione di Stephen King. Mettere tutto su carta è forse il solo modo di liberarsene e di raggiungere una catarsi. La scrittura diventa necessaria e quella di Malvestio è una confessione lucida ed essenziale, dove anche le scene immaginarie di Annette “dietro le quinte” risentono di una tensione sessuale costante che le rende vive.

E quando finalmente Marco ha l’occasione, mai sperata in realtà, di incontrare a Monaco l’ex pornostar, basta una semplice domanda a disilluderlo:

«“Ti piace Cy Twombly?”, le chiedo appoggiando la tazza sul tavolino.
“Non lo conosco”, mi risponde. “Cy…? Fa porno?”.
“No, è…”, dico. “Scusa. Ho sbagliato a chiedere”».

Il romantico desiderio di conoscere l’inconoscibile e la ricerca forsennata dell’autenticità quale ragione di vita lasciano spazio a una cocente frustrazione.

 

(Marco Malvestio, Annette, Wojtek Edizioni, 2021, 290 pp., euro 16, articolo di Carmine Madeo)
Poster di Licorice Pizza

Amore, cinema e materassi ad acqua

Ogni nuovo film di Paul Thomas Anderson è un evento che merita tutta l’attenzione di chi ama il cinema. È uno degli autori più importanti di oggi, capace di variare generi e mantenere sempre intatto il suo stile. Licorice Pizza, il suo nono lungometraggio di finzione, è l’ennesima conferma di questo talento variegato e curioso.

Sono passati quattro anni da Il filo nascosto, il film sull’ossessione che aveva portato il regista californiano nella Londra degli anni Cinquanta. Ora, Anderson torna a casa, precisamente nella San Fernando Valley a nord di Los Angeles già scenario del suo primo successo Boogie Nights.

È il 1973, un anno denso di grande cinema (escono Il lungo addio dell’adorato Altman, Mean StreetsSerpico, Amarcord ed Effetto notte, tra gli altri). C’è anche la Storia, con la guerra del Kippur che scatena una crisi energetica globale. Gary ha quindici anni e una carriera come attore bambino. Nel giorno della foto scolastica conosce Alana, venticinquenne assistente del fotografo. Scatta subito qualcosa tra i due, un legame di amicizia che forse potrebbe diventare amore.

I film di Paul Thomas Anderson si muovono da sempre attraverso il tempo e la storia del cinema. Ogni nuova uscita è un concentrato di riferimenti culturali e di contesti ricostruiti con una precisione assoluta, sia quando affronta la storia con il rigore di The Master, sia quando segue avventure più anarchiche come quella di Licorice Pizza.

La storia di Gary e Alana guarda ad American Graffiti e a capi saldi del cinema giovanile come Fuori di testa La vita è un sogno. Ci sono inevitabili riferimenti a Robert Altman e Martin Scorsese, ma anche ai film romantici di Woody Allen. Quello che può sembrare un teen movie d’amore è in realtà un saggio spensierato sul fare cinema.

Non è un caso che con Licorice Pizza Paul Thomas Anderson abbia ricevuto altre tre nomination personali agli Oscar 2022, con miglior film, regia e sceneggiatura originale. Siamo a quota undici in carriera, senza ancora nessuna statuetta. La sua capacità di raccontare storie è unica e totale, classica e originale allo stesso tempo.

Per Licorice Pizza si è liberamente ispirato agli aneddoti raccontati dal produttore Gary Goetzman, ex attore bambino di Hollywood e impresario di vario tipo. È lui la traccia del Gary del film, un ragazzo che non riesce a stare fermo, che si inventa un commercio di materassi ad acqua e di flipper, che trova in Alana la spalla ideale per i propri piani.

Una coppia sempre di corsa, che sembra muoversi una verso l’altro per poi respingersi, che si avvicina per rimbalzare lontano e tornare con ancora più rincorsa. La loro relazione è un concentrato di silenzio e sguardi, la sintesi di tanti amori giovanili, anche quelli complicati dalla differenza di età. Un incontro che inizia davanti all’obiettivo di una fotocamera e si consolida sotto le insegne al neon di un cinema di periferia.

Alana e Gary sono i corpi con cui Paul Thomas Anderson fa vivere una storia di cinema e di crescita. Una sintesi su come si girano film solo all’apparenza leggeri.

(Licorice Pizza, di Paul Thomas Anderson, 2021, commedia, 131’)

Copertina di Noi siamo tecnologia

L’uomo è un animale tecnologico

Nel suo libro Noi siamo tecnologia (Mondadori, 2021) Massimo Temporelli ripercorre la storia di alcune invenzioni per indagare la loro relazione con l’uomo. Qual è il terreno fertile che le ha viste nascere, quali altre competenze umane sono servite per renderle funzionali, e come hanno modificato l’ambiente in cui sono state inserite, fino a cambiare la struttura della società umana che le utilizza?

Senza la prima rivoluzione industriale, legata alle macchine a vapore, non ci sarebbe stata la lavatrice, ma senza la lavatrice la storia dell’emancipazione femminile sarebbe completamente diversa. Senza le biblioteche, non esisterebbe Wikipedia, ma senza Wikipedia oggi, non esisterebbero molti dei libri entrati di recente sugli scaffali delle biblioteche.

Che cos’è la tecnologia? «Technology is anything invented after you were born», la tecnologia è qualunque cosa sia stata inventata dopo la tua nascita. Quella dell’informatico statunitense Alan Kay, sostiene Temporelli, è una definizione di tecnologia nel senso più comune che attribuiamo al termine tutti i giorni. Ma per comprendere appieno il significato della tecnologia nell’era di Antropocene non possiamo limitarci a questa, seppur brillante, definizione. La tecnologia, nella sua accezione più ampia e comprensiva, è qualsiasi strumento che non appartiene al mondo naturale, ma che è frutto di processi artificiali. È tecnologia la freccia così come la bomba atomica, la capanna così come il grattacelo. Per questo l’autore analizza la tecnologia come parte dell’ecosistema umano, una parte non biologica, ma non per questo meno fondamentale o integrata.

Fin dall’alba dei tempi l’uomo ha maneggiato e modificato gli oggetti e la natura, ha costruito strumenti e così generato tecnologia come parte integrante del suo modo di stare al mondo. Possiamo arrivare a dire che la tecnologia è parte della natura stessa, una natura modificata da un essere naturale a sua volta, qual è l’uomo, e composta di atomi ordinati in elementi che seguono e sfruttano le sue stesse leggi?

Temporelli svolge una ricerca antropologica, e del resto l’antropologia è la materia che insegna all’Università dello IED di Milano. Viene da chiedersi quanto sia possibile portare indietro il ragionamento: si può arrivare fino al mondo animale? La diga di un castoro è sicuramente una tecnologia, anche più avanzata di molte di quelle umane, come la capanna, citate dall’autore. Un nido d’uccello, una tana di coniglio, un sistema di gallerie di formiche, un alveare, sono tutte tecnologie di origine animale. Questo suffraga ancora di più la teoria secondo la quale la tecnologia non può essere considerata opposta alla natura, ma una sua parte integrante. La dicotomia naturale/artificiale deve piuttosto essere rivista come un complesso di insiemi, in cui quello tecnologico è uno dei sistemi della natura stessa.

Quanto questo sistema-tecnologia, questa tecnosfera, sia importante per la vita dell’uomo sul pianeta Terra, quanto sia sostenibile, quanto consumi e che cosa produca, è una domanda che dobbiamo necessariamente porci, e a cui questo libro inizia soltanto a rispondere. La risposta non può prescindere dalla comprensione dell’importanza e del radicamento di questa sfera nella vita dell’uomo. Possiamo spingerci ad affermare che senza tecnologia non vi sarebbe l’uomo, e sicuramente non vi sarebbe la vita umana come la conosciamo.

Massimo Temporelli, divulgatore esperto e capace, impregna ogni frase del suo libro di entusiasmo e curiosità genuini, e per questo contagiosi. La prosa è scorrevole, gli aneddoti mai banali, e ogni racconto ha un elemento personale che ne fa cogliere non solo la rilevanza esemplare, ma anche il suo valore intimo per l’autore. Noi siamo tecnologia è quindi una lettura piacevolissima, brillante e divertente; ma soprattutto è un libro di divulgazione, che permette di conoscere da vicino oggetti con i quali conviviamo tutti i giorni, di interrogarci sulla loro origine e sul loro rapporto con il mondo. Aiuta a capire come funzionano e come noi funzioniamo con loro.

Aneddoti, curiosità, aspetti tecnici ben spiegati e storia tengono incollati alle pagine di Temporelli, che ci trasporta nel suo pensiero, nella sua visione del mondo. Una visione indubbiamente ottimista, una fiducia nel futuro che a volte può far storcere il naso, ma che è tutt’altro che miope. L’autore infatti non dimentica il tema fondamentale dei limiti da porre alla tecnologia. A questo proposito vale la pena di riportare alcune delle frasi introduttive allo splendido capitolo dedicato al freno: «Abbiamo riempito gli scaffali delle librerie e delle biblioteche con la storia degli inventori di aeroplani, di moto, di razzi, di motori a vapore, a scoppio e a reazione. Qui invece racconterò la storia di chi ha immaginato e costruito i dispositivi per frenare, per decelerare. Non lo faccio perché attratto da chi ferma l’innovazione, ma proprio perché senza di loro non ci sarebbe stato progresso ma solo schianti e incidenti.»

Altrettanto esaltante è il capitolo sulla penna a sfera, in cui un oggetto tecnologico semplicissimo come quello che usiamo tutti i giorni per scrivere diventa il pretesto per porsi domande essenziali sul futuro della scrittura e della trasmissione della conoscenza. Oppure quello sulla lavatrice e sull’importanza che ha avuto nella storia dell’emancipazione femminile.

Gli interrogativi che Massimo Temporelli pone al lettore attraverso i suoi dieci esempi di tecnologie sono complessi. Non c’è una risposta univoca, e ovviamente è difficilissimo prevedere il futuro del rapporto tra uomo e tecnologia. Quel che è certo è che si tratta di «un tema da trattare con urgenza e che da sempre caratterizza l’esistenza di noi Homo sapiens, ma che nel XXI secolo diventerà dominante. Per capire chi siamo e chi saremo dobbiamo proprio partire dalla tecnologia, dalle tante macchine che ci circondano e che usiamo nella vita di tutti i giorni.»

 

(Massimo Temporelli, Noi siamo tecnologia. Dieci invenzioni che ci hanno cambiato per sempre, Mondadori, 2021, pp. 192, euro 18. Articolo di Elisabetta Sangiorgio)

 

 

Copertina di Tre anelli di Mendelsohn

Spirali archimedee in letteratura

Nell’approcciarsi a descrivere Tre anelli di Daniel Mendelsohn, uscito a novembre del 2021 per Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti, la prima domanda con cui confrontarsi è di ordine puramente formale: che cos’è Tre anelli? È un romanzo oppure un saggio? Un memoir autobiografico o una serie di racconti intrecciati tra loro?

Il libro fa parte della collana Frontiere Einaudi: nata nel 2008 come «gemmazione dei Supercoralli, alla scrittura saggistica affianca una narrazione di cifra letteraria». Siamo di fronte a una commistione di generi dunque, ribadita anche nelle pagine finali e in particolare nei Ringraziamenti. Tre anelli nasce da una serie di conferenze accademiche – le famose Page-Barbour Lectures a cui in passato hanno partecipato anche personaggi del calibro di T.S. Eliot o Walter Lippman – tenute da Mendelsohn nel 2019 a Charlottesville, presso la University of Virginia.

Ma ogni frontiera presuppone un confine, che sia geografico o metaforico, che sia una linea da scavalcare o anche semplicemente un orizzonte a cui volgere lo sguardo. E l’uomo che vediamo in copertina sembra avere proprio i connotati caratteristici del viaggiatore: il trench che cade sciolto appena al di sotto del ginocchio, la ventiquattr’ore ben salda nella mano destra e il borsalino sul capo, formano un’iconografia che contribuisce a colonizzare l’immaginario del visitatore passeggero. Sullo sfondo il Corno d’Oro e l’ex Basilica di Santa Sofia con i suoi minareti in calcare bianco, e quindi Istanbul, città-confine essa stessa per poleogenesi, idealmente al limitare fra due mondi, quello occidentale e quello orientale. Non sappiamo ancora nulla di lui, né del suo vagare senza meta né dell’oggetto del suo cercare.

«Uno straniero arriva in una città sconosciuta dopo un lungo viaggio. Da qualche tempo è stato separato dalla sua famiglia; da qualche parte c’è una moglie, forse un figlio. Il percorso è stato travagliato, e lo straniero è stanco. Si ferma davanti all’edificio che diventerà la sua casa e poi comincia ad avvicinarsi: l’ultimo breve tratto dell’itinerario imprevedibilmente zigzagante che l’ha portato fin lì. Adagio, passa sotto l’arco che gli si spalanca davanti, diventando presto indistinguibile dall’oscurità, come il personaggio di un mito che scompare nelle fauci di un mostro leggendario, o negli orridi gorghi del mare. Si muove con difficoltà, le spalle ingobbite dal peso delle valigie. Lì dentro c’è tutto ciò che ancora possiede. Ha dovuto fare i bagagli di fretta. Che cosa contengono? Perché è venuto?».

Questo mantra, ripetuto ciclicamente, costituisce il passepartout attraverso il quale ci vengono presentate le diverse storie narrate, storie di esilio, narrazione e destino, come suggerisce lo stesso Mendelsohn nel sottotitolo dell’opera. Ma prima l’autore si preoccupa di stabilire una premessa: ripercorrendo brevemente i suoi trascorsi come scrittore – che lo hanno portato a vincere il Prix Médicis con Gli scomparsi nel 2007 e a pubblicare nel 2017 Un’Odissea: un padre, un figlio e un’epopea – e i viaggi affrontati per riportare in vita le memorie dimenticate che formano l’eredità del suo bagaglio culturale e il nerbo della sua poetica, Mendelsohn crea una sorta di sovrapposizione letteraria, un’identificazione fra il suo io e quello dei personaggi di cui narra le vicende, resa possibile grazie allo specchio formato da storie e destini sentiti come simili. E lo fa sulla falsariga di uno stile che strizza l’occhio al memoir, alternando una scrittura intimistica, che si snoda fra i ricordi del proprio passato, e una più accademica, tipica dell’esposizione saggistica, specialmente nei luoghi in cui presenta gli argomenti frutto di anni di studi zelanti.

Come nel suo libro precedente (Un’Odissea), anche qui il mito di Ulisse ha un ruolo propulsore, ponendosi quale trait d’union fra le matasse abilmente intrecciate dei vari episodi dalle tinte rapsodiche. Ma il poema omerico non è solo l’orizzonte letterario a cui tendere stabilendo paralleli e connessioni biografiche: è un libro-feticcio, il correlativo oggettivo di una vita la cui la cifra più intima è un vagare ignoto e il cui sintomo più evidente è uno sradicamento sociale coercitivo, non solo intellettuale ma anche geografico, terrestre. Uno di quei casi in cui, come ci insegna la psicologia di stampo freudiano, può essere utile per superare un dato evento traumatico ritornare sui propri passi, tracciando idealmente un percorso ad anello che ci ricongiunga con quel vuoto emotivo che nel presente permane irrisolto. È possibile così creare un cuscinetto, uno spazio in cui integrare all’interno di una narrazione coerente profondità ancora insondate, per dar loro un senso, un significato che possa essere metabolizzato intellettualmente.

Questa narrazione ha inizio con il libro XIX dell’Odissea. Dopo un lungo peregrinare Ulisse è finalmente riuscito a tornare a Itaca – il nome dell’eroe, ci ricorda l’autore, potrebbe risalire alla parola greca odynē, «dolore», un primo trauma già da espiare. Travestito da mendicante per poter entrare nel palazzo dove lo aspetta Penelope e valutare al meglio la situazione prima di agire, viene riconosciuto dalla sua anziana nutrice, Euriclea, grazie a una cicatrice sulla coscia che l’uomo polytropos si era procurato molti anni addietro, durante una caccia al cinghiale. È un momento di estrema concitazione, in cui ci si aspetterebbe di veder finalmente sciolti i nodi che tengono in tensione l’intera vicenda. Tuttavia, lungi dal voler risolvere questa suspense, Omero si rifugia abilmente in un lungo flashback, ritardando così il momento dell’agnizione, la definitiva esplosione emotiva della scena. È la cosiddetta composizione ad anello, una delle tecniche narrative più felici che coinvolge tempo e azione per creare un effetto di distacco dalla trama principale, effetto che però è solo apparente giacché alla fine questa digressione tenderà a riconciliarsi con la storia, formando un cerchio nel punto esatto da cui si era allontanata.

Il tema centrale di Tre Anelli, il fil rouge che collega idealmente i vari personaggi sulla scena – i quali, lo ricordiamo, hanno avuto in qualche modo a che fare con situazioni dolorose di esilio, subito o volontariamente scelto – e le loro storie è proprio questo. Una tecnica che richiama geometricamente la figura del cerchio, che può essere sia una forma di messa a fuoco che indice di una destinazione errata: girare in tondo è ritardare l’arrivo, ma cerchiare può essere anche un modo per richiamare l’attenzione, far risaltare qualcosa che ci sta particolarmente a cuore.

Costruendo un’architettura narrativa speculare al tema trattato, Mendelsohn finge un gioco di continui rimandi, in cui i diversi racconti si parlano tra loro concatenandosi all’interno di una struttura meticolosamente studiata che imita il principio delle scatole cinesi. Il trucco è tutto sommato abbastanza semplice e richiama quello più illustre utilizzato da Proust all’inizio della sua Recherche, quando l’odore della madeleine agisce sinesteticamente sui ricordi d’infanzia dell’autore francese, trasformandosi nella chiave che li libera dal nascondiglio in cui si erano rifugiati. Anche qui, grazie a una formula fissa e a una scena che ricorre ripetutamente, Mendelsohn definisce una storia formata da tre racconti incentrati su tre personaggi diversi (i tre anelli). La scena l’abbiamo già incontrata, si tratta del quadro con l’uomo che all’inizio sembrava essere in viaggio, con il trench e la valigia ben salda nella mano. Chi è?

Ecco che potrebbe essere Erich Auerbach, che nel 1936 fu costretto a fuggire dalla Germania nazista per rifugiarsi a Istanbul, dove scrisse uno dei suoi saggi più famosi, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale; oppure François Fénelon, l’arcivescovo francese autore nel diciassettesimo secolo di un romanzo pensato per essere l’ideale seguito dell’Odissea, Le avventure di Telemaco, e il cui intento pedagogico (il romanzo era stato concepito inizialmente per l’educazione morale e filosofica del duca di Borgogna) non piacque particolarmente al Re Sole che lo giudicò una velata critica del suo operato politico; infine potrebbe essere lo scrittore tedesco W.G. Sebald che scelse volontariamente l’esilio da un Paese ritenuto il principale colpevole degli orrori commessi durante la Seconda guerra mondiale, orrori percepiti come una ferita talmente profonda nella sua coscienza da farlo sentire direttamente responsabile. Proprio quest’ultimo è autore nei suoi libri di una prosa zigzagante, un continuo alternarsi di fatti e ricordi, fantasie ed esperienze vissute, dove oltre alla lingua partecipano a veicolare il messaggio altre diverse appendici documentarie, come possono essere le fotografie. Un esempio su tutti è Gli anelli di Saturno che, con le sue numerose digressioni popolate da strani incontri e interlocutori bizzarri, racconta un viaggio solitario in estate, e per lo più a piedi, nel Suffolk, dove Sebald visse fino agli ultimi anni della sua vita.

All’interno di questi tre ampi racconti, tutti quanti evocati dal quadro del viaggiatore sconosciuto, Mendelsohn ricava a intervalli regolari tutta una serie di digressioni che allargano lo spazio letterario, prestandosi a un gioco che ispessisce il materiale narrativo e si diverte a dilatarlo per poi con un colpo di coda farlo tornare al punto da cui aveva deviato. Il risultato è una matrioska di situazioni, una cornice più grande in cui sono inseriti brevi frammenti che non solo contribuiscono a fornire il nucleo principale della storia, ma servono anche a darle forma, modellandola a guisa di una serie di anelli concentrici che si dispongono in ordine fino a creare una spirale piatta.

Mendelsohn è un classicista esperto e, come sa benissimo, una delle parole derivate dal greco antico per “digressione” (parekbolē) significa anche “commentario erudito”. Il critico è un digressore per eccellenza: il suo compito è allontanarsi da un testo per trovare un percorso che al suo ritorno sia immensamente più ricco. E Tre anelli è proprio uno di questi percorsi, divaga dalle sue digressioni, si muove partendo da un’idea e da un’immagine per poi confluire in una serie di sentieri secondari, che man mano arricchiscono di sfumature il racconto originario. Un gioco di rimandi antico quanto la letteratura stessa, un viaggio che da Ulisse passa per Sebald fino ad arrivare a Mendelsohn, erede di quegli scomparsi – i parenti vittime della Shoah – a cui aveva destinato il suo primo romanzo. Sfogliando Tre anelli l’impressione che si ha è quella di leggere un’ode alla scrittura, quale forma intensa di evasione e di esilio da una realtà di cui spesso è il riflesso, una dedica pronunciata all’apparenza solo timidamente, come un bambino che vergognandosi si perdesse in giri di parole, ma che in realtà emerge con tutta la sua forza non appena si trova il centro della circonferenza, l’equilibrio fra i vari raggi che compongono l’area di questo anello potenzialmente infinito.

 

(Daniel Mendelsohn, Tre anelli, trad. di Norman Gobetti, Einaudi, 2021, 120 pp., euro 16,00, articolo di Davide Tamburrini)