“Diavoleide” di Michail Bulgakov

di / 23 ottobre 2012

In principio fu l’Americana, un’antologia di racconti di scrittori americani, uscita censurata durante il periodo fascista per i tipi di Bompiani sotto la supervisione di Vittorini. La traduzione dei testi fu opera di vari autori italiani tra cui Vittorini stesso, Pavese, Montale, Moravia, etc. Pavese definì questa antologia «una storia letteraria vista da un poeta come storia della propria poetica». Di fatto ogni traduzione rappresentava un’occasione per testare temi e stilemi che saranno cari agli stessi traduttori-scrittori nelle proprie opere.

Dal 1983 al 2000 fu la volta di Einaudi che creò una collana Scrittori tradotti da scrittori, ossia grandi classici della letteratura mondiale venivano resi disponibili al pubblico italiano in versioni d’autore: ad esempio Manganelli tradusse Fiducia di Henry James, Natalia Ginzburg testi di Maupassant, Celati Jack London, etc.

Sulla scia della casa editrice torinese, Voland nel 2010 ha dato vita a Sírin classica, collana che raccoglie romanzi della letteratura russa nella traduzione di importanti autori italiani. Per comprendere la qualità veramente elevata di queste traduzioni occorrerebbe confrontarle con le vecchie versioni. Ma ancora più probante di qualsiasi erudita comparazione è il constatare la fluidità del nuovo dettato lasciandosi travolgere come un torrente montano dalla freschezza delle parole.

È l’impressione che si ha leggendo Diavoleide e Le avventure di Čičikov di Michail Bulgakov nella versione data dallo scrittore Andrea Tarabbia. Chi ha letto Il Maestro e Margherita è già avvezzo al mondo grottesco e allucinato bulgakoviano di cui Diavoleide è una anticipazione (il racconto è del 1923) straordinaria. Provate a leggerlo tutto d’un fiato, lasciatevi trasportare dal ritmo concitato e a volte, è il caso di dirlo, indiavolato della storia senza preoccuparvi se non riuscite a comprendere tutto immediatamente. Ma mi raccomando non fermatevi mai. I battiti accelerati, la testa confusa e i contorni sempre più sfumati della realtà. Se questo era l’intento dello scrittore, questa sensazione di vertigine che ti prende come quando sei appena sceso dalle montagne russe è la chiave per godere a pieno della lettura di questo piccolo capolavoro.

Vartolomej Korotkov è segretario presso la Sede Centrale Principale dei Materiali per Fiammiferi di Mosca, ossia l’“uomo superfluo” di ottocentesca memoria che si trova a fare i conti con la complicatissima burocrazia sovietica, con la realtà della NEP, il nuovo corso politico-economico inaugurato dopo la guerra civile fra i bolscevichi e i Bianchi antirivoluzionari, con il razionamento del cibo e con la mancanza di soldi (all’inizio del racconto al posto del denaro come stipendio gli impiegati verranno retribuiti con «i prodotti della produzione», quindi nel caso di Korotkov scatole su scatole di fiammiferi…). Il suo licenziamento da parte del nuovo direttore Mutandoner sarà il pretesto che darà inizio a una serie di inseguimenti, alla ricerca di spiegazioni e nel tentativo vano di essere reintegrato al suo posto di lavoro, in un vorticoso susseguirsi di stanze, scale, pareti a vetri e ascensori a specchio in cui osservare il proprio riflesso e in assurdi incontri con bizzarri personaggi dall’aspetto e dal comportamento a metà fra il comico e il grottesco, che sembrano usciti da una tela surrealista (dattilografe dai denti piccoli, personaggi che si sdoppiano comparendo ora glabri ora con una lunga barba come Mutandoner, identità svanite o rubate insieme ai documenti che le attestano, etc.).

Il secondo racconto, presentato sotto forma di sogno, Le avventure di Čičikov è un omaggio al maestro Gogol’. I personaggi di Anime morte sono trasferiti infatti nella Mosca di inizio ’900. Čičikov è un furbo truffaldino che, abbandonati i modi di contraffazione zaristi, si adegua ben presto alle nuove tecniche del regime sovietico. A differenza di Diavoleide però qui è lo Stato sovietico a essere raggirato.

Misurarsi con l’assurdo mondo di Bulgakov non è certo facile. In un recente intervento alla Casa delle traduzioni di Roma, Tarabbia spiega come è stato possibile non venire schiacciato dal peso di confrontarsi con l’opera del grande Maestro russo: «Diavoleide e Le avventure di Čičikov sono due racconti che Bulgakov scrisse nei primi anni ’20 per poi pubblicarli nel 1925, quando aveva 34 anni. Io, oggi, ho 34 anni. Non mi sono reso subito conto di questa coincidenza che, naturalmente, lascia il tempo che trova. C’è però un particolare, in questo fatto, che in qualche modo mi è stato d’aiuto. Bulgakov, come ho detto, è uno dei miei maestri, uno degli autori su cui mi sono formato come persona e come scrittore. L’idea di tradurlo, all’inizio, mi spaventava proprio per questo: pagavo un debito, d’accordo, ma allo stesso tempo mettevo le mani – io, traduttore inesperto – su una lingua e su un mondo grazie ai quali ero cresciuto, uno scrittore di cui avevo cercato e visitato i luoghi in giro per Mosca e al quale tornavo e torno ogni volta come una sorta di “ritorno a casa”. Oltretutto, la grafica delle copertine di Sírin classica prevede che il nome del curatore del volume sia scritto grande come quello dell’autore. È una responsabilità e un onore, d’accordo, ma anche, per quanto mi riguarda, una “lesa maestà”. Siamo abituati a percepire i grandi scrittori del passato come dei cristalli, delle figure immutabili dispensatrici di classici e di insegnamenti. In parte, lo so, è inevitabile che sia così, e forse è perfino giusto. Però il Bulgakov con cui mi sono misurato io non era ancora un classico intramontabile: era un giovane scrittore di belle speranze, pieno di pregi e di difetti, che si affacciava sul mondo della letteratura. A 34 anni non aveva ancora nemmeno immaginato Il Maestro e Margherita, e aveva scritto solo alcune delle cose che in seguito sarebbero divenute immortali. Era insomma uno scrittore in fieri (Zamjatin, letto Diavoleide, parlò di Bulgakov come di una promessa e disse – a ragione – che dalla sua prosa traspariva un grande talento che si sarebbe sicuramente espresso negli anni a venire): ecco, forse io sono riuscito a tradurre Bulgakov, con tutto il peso che questo comporta, perché mentre lavoravo ho finto di non sapere che esiste Il Maestro e Margherita, perché non ho pensato a una figura canonizzata ma a uno che, alla mia età, rimboccandosi le maniche prova a trovare un posto da dove raccontare agli altri la sua visione del mondo».

Se il coetaneo Bulgakov suscita in Tarabbia un po’ meno timore reverenziale rispetto al già affermato autore de Il Maestro e Margherita, è indubbio che ci troviamo già di fronte a un acuto osservatore della sua contemporaneità, un narratore che incalza e ipnotizza con le sue miscele esplosive di eccessi deliranti e deformanti un reale sezionato in tutta la sua allucinante e ipertrofica banalità quotidiana e dominato da un Potere che puzza di zolfo.

 

(Michail A. Bulgakov, Diavoleide, trad. Andrea Tarabbia, Voland 2012, pp. 104, euro 10)

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